Il Rapporto settimanale di “UNITED NATIONS – Office for the Coordination of Humanitarian Affairs – occupied Palestinian territory” [OCHAoPt]*.

Periodo di osservazione:  15 – 28 dicembre 2015 (due settimane).

 Nota: gli aspetti salienti di ciascuna notizia sono scritti in grassetto. Chi vuole una lettura ancora più veloce trova qui il nostro manifesto settimanale (n°146), basato su un riassunto del Rapporto.

__________________ inizio del testo del Rapporto (1.254 parole) ________________
 

Durante il periodo di riferimento di due settimane (15-28 dicembre), 14 palestinesi, tra cui due minori e una donna (rispettivamente di 15, 17 e 40 anni), e due israeliani sono stati uccisi nel corso di 11 aggressioni e presunte aggressioni palestinesi, tra cui sette accoltellamenti o tentativi di accoltellamento e cinque investimenti con auto [1]. Tutti gli episodi sono avvenuti in Cisgiordania: nei governatorati di Gerusalemme (4), Nablus (4), Ramallah (2), Salfit (1) ed Hebron (1). Durante queste aggressioni sono stati feriti due israeliani, tra cui un soldato. Una delle vittime israeliane era un passante, colpito dalle forze israeliane che avevano reagito ad un accoltellamento. Le circostanze di numerosi episodi rimangono controverse. Nessuno degli autori o presunti autori, secondo quanto riferito, apparteneva a fazioni o gruppi armati. Sempre nello stesso periodo, una donna palestinese (una passante) è deceduta in conseguenza delle ferite riportate lo scorso 23 novembre quando, ad un checkpoint, le forze israeliane aprirono il fuoco in risposta ad una presunta aggressione palestinese.

Le forze israeliane hanno ucciso, con armi da fuoco, cinque palestinesi nel corso di scontri in cinque distinti episodi: durante una operazione di ricerca-arresto nel campo profughi di Qalandiya (Gerusalemme); in scontri nel villaggio di Sinjil (Ramallah); nella Striscia di Gaza, durante tre manifestazioni nei pressi della recinzione, rispettivamente ad est di Khan Younis, a Gaza City ed al Campo profughi Al Bureij. Nella seconda località un uomo è morto, colpito con armi da fuoco, mentre lavorava la terra in prossimità degli scontri.

In questi e in altri scontri verificatisi in tutti i Territori occupati palestinesi, altri 668 palestinesi, tra cui almeno 215 minori, sono stati feriti: 60 nei pressi della recinzione che circonda Gaza e i rimanenti in varie località della Cisgiordania. Almeno il 30% dei ferimenti in Cisgiordania e il 20% di quelli nella Striscia di Gaza sono stati causati da arma da fuoco, mentre la maggior parte delle rimanenti lesioni sono state causate da proiettili di gomma o da inalazione di gas lacrimogeno. Il maggior numero di feriti (244) è stato registrato nel Governatorato di Betlemme, seguito da Hebron (96), Qalqiliya (51) e Ramallah (44).

Il 16 dicembre, le forze israeliane hanno sparato una serie di granate verso una zona agricola ad est di Khan Younis, ferendo tre palestinesi. Secondo le autorità israeliane, questi lanci di granate sono stati fatti in risposta alla esplosione di un ordigno artigianale contro un veicolo militare israeliano. Inoltre, nelle Aree ad Accesso Riservato (ARA) a terra e in mare, le forze israeliane hanno aperto il fuoco contro palestinesi o le loro proprietà in almeno 23 casi, causando il ferimento di quattro palestinesi: pescatori, pastori, contadini. Le forze israeliane sono anche entrate nella Striscia di Gaza in quattro occasioni, durante le quali hanno effettuato operazioni di livellamento del terreno e scavi.

Nel periodo in esame, le autorità israeliane hanno consegnato alle loro famiglie, per la sepoltura, i corpi di otto palestinesi coinvolti in aggressioni o presunte aggressioni. Dal mese di ottobre 2015, le autorità israeliane hanno trattenuto, per diversi periodi di tempo, i corpi di oltre 80 palestinesi.

Il 24 dicembre, le forze egiziane hanno ucciso, con armi da fuoco, un palestinese disabile mentale che, da Rafah, nuotava nudo attraverso il confine marittimo con l’Egitto.

In Cisgiordania, nel periodo in esame, nel corso di 224 operazioni di ricerca-arresto, le forze israeliane hanno arrestato 347 palestinesi. Un terzo degli arresti sono stati registrati nel governatorato di Gerusalemme. Nella Striscia di Gaza: 12 pescatori palestinesi, tra cui un minore, sono stati arrestati in mare nel contesto delle restrizioni di accesso imposte da Israele; tre palestinesi, tra cui due minori, sono stati arrestati, in due diversi episodi, mentre tentavano di entrare in Israele senza autorizzazione, attraverso la recinzione di confine. Inoltre una famiglia palestinese di quattro persone è stata arrestata dalle autorità di fatto [palestinesi], nel corso di un tentativo di entrare in Israele attraverso la recinzione.

A Gerusalemme Est, le autorità israeliane hanno demolito una casa palestinese nel quartiere di Sheikh Jarrah, per mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, sfollando un palestinese. Un’altro palestinese è stato sfrattato dalla sua casa nella Città Vecchia, dopo che aveva convertito la sua proprietà da commerciale ad abitativa. Sempre a Gerusalemme Est, le autorità israeliane hanno consegnato un ordine di demolizione nei confronti di un edificio di tre piani in Jabal Al Mukabbir a motivo della mancanza di una concessione edilizia; per lo stesso edificio era stato precedentemente notificato un ordine di demolizione punitiva. In area C, a Ein Al Hilweh Um Jmal (Tubas), una famiglia è stata costretta a smantellare un ricovero per animali: coinvolte 12 persone, tra cui nove minori.

Il 16 dicembre, a quattro famiglie palestinesi, che risiedono nella Città Vecchia di Gerusalemme, è stato notificato che coloni israeliani hanno avviato un procedimento di sfratto contro di loro, rivendicando la proprietà delle loro case. Secondo l’organizzazione israeliana Ir Amin, a Gerusalemme Est, circa 130 famiglie palestinesi sono soggette a procedimenti legali, intrapresi o da organizzazioni che promuovono le attività di insediamento a Gerusalemme Est o dalle autorità israeliane.

Nel periodo di riferimento, sono stati registrati tre attacchi di coloni con danni a proprietà palestinesi: lanci di lacrimogeni e scritte contro palestinesi sui muri di una casa palestinese nel villaggio di Beitillu (Ramallah); sradicamento di 45 piantine di ulivo nel villaggio di al Lubban ash Sharqiya; devastazione di terreni coltivati ad Aqraba (Nablus).

Segnalati cinque aggressioni palestinesi con lanci di pietre contro veicoli con targa israeliana: nel governatorato di Hebron feriti cinque tra coloni e soldati israeliani in transito; nel governatorato di Gerusalemme danni a due veicoli.

In Cisgiordania, le forze israeliane hanno dispiegato centinaia di checkpoints “volanti”, ostacolando gli spostamenti dei palestinesi. Il governatorato di Hebron rimane la zona più colpita dalle restrizioni di movimento, con conseguenti lunghi ritardi e interruzioni nell’accesso a servizi e mezzi di sussistenza per gran parte della popolazione. Tutti gli itinerari (incluse le strade sterrate) che conducono alle principali arterie di traffico (strade 60, 356, 35 e 317) sono rimasti del tutto bloccati al movimento veicolare o risultano controllati da checkpoints “volanti”. Questi ultimi, dispiegati per gran parte del tempo, ostacolano quattro delle principali vie d’accesso alla città di Hebron, così come gli accessi principali ad Hallhul, Sa’ir, As Samu’, Yatta, Beit Ummar, Tarqumiya, ed al campo profughi di Al Arrub. L’accesso dei palestinesi alle aree di insediamento [colonico israeliano] all’interno dell’area H2 di Hebron City è rimasto soggetto a rigorose restrizioni che includono il divieto di accesso, per i maschi tra i 15 ed i 25 anni, ad alcune aree (Shuhada Street e [quartiere] di Tel Rumeida), ad eccezione dei residenti, i cui nomi sono registrati dalle forze israeliane.

Nella Cisgiordania settentrionale e centrale l’esercito israeliano ha rimosso diversi ostacoli al movimento schierati durante le precedenti settimane. Sono state così riaperte diverse strade importanti: due primari punti di accesso alla città di Tulkarem; le principali vie d’accesso, da est, a Ramallah; il tratto della Old Road 60 nei pressi di Jalazun; l’ingresso orientale di Ein Yabrud (serve 40 villaggi a Ramallah); l’ingresso principale alla città di Ar Ram nell’area di Gerusalemme (che interessa circa 20.000 palestinesi). A Gerusalemme Est, l’ingresso e l’uscita da tre quartieri (Issawiya, Sur Bahir e Jabal al Mukkabir) continuano ad essere impediti da otto checkpoint e blocchi stradali dispiegati da ottobre 2015.

Durante il periodo di riferimento il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è stato chiuso in entrambe le direzioni. Il valico è rimasto chiuso, anche per l’assistenza umanitaria, dal 24 ottobre 2014, ad eccezione di 39 giorni di aperture parziali.

_______________________ fine del testo del Rapporto

[1]  I dati OCHA per la protezione dei civili includono gli episodi che si sono verificati al di fuori dei Territori occupati solo se risultano coinvolti, sia come vittime che come aggressori, persone residenti nei Territori occupati. I feriti palestinesi riportati in questo rapporto includono solo persone che hanno ricevuto cure mediche da squadre di paramedici presenti sul terreno, nelle cliniche locali o negli ospedali. Le cifre sui feriti israeliani si basano su notizie di stampa.


Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Il 30 dicembre un colono israeliano è morto per le ferite riportate il 7 dicembre, nel corso di un accoltellamento.

 “Associazione per la pace – gruppo di Rivoli”
Ezio R. e Giovanni L.V.

* note

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati settimanalmente in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informazioni, corredate da dati numerici e grafici statistici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati. Sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: http://www.ochaopt.org/reports.aspx?id=104&page=1

Sullo stesso sito sono reperibili mappe dettagliate della Striscia di Gaza e della Cisgiordania:
Striscia di Gaza:
http://www.ochaopt.org/documents/Gaza_A0_2014_18.pdf
Cisgiordania:
http://www.ochaopt.org/documents/Westbank_2014_Final.pdf

La scrivente “Associazione per la pace – gruppo territoriale di Rivoli”, stante l’imparzialità dell’Organo che li redige, utilizza i Rapporti per diffondere un’informazione affidabile sugli eventi che accadono in Palestina. Pertanto, traduce i Rapporti in italiano (escludendo i dati statistici ed i grafici) e li invia agli interessati. Tali Rapporti sono anche scaricabili dal sito Web dell’Associazione, alla pagina:
https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali




Il Brasile rifiuta il colono della Cisgiordania come ambasciatore israeliano

Fonti ufficiali israeliane sostengono che le relazioni diplomatiche saranno compromesse se il Brasile non riconosce Dani Dayan come prossimo ambasciatore a Brasilia

Redazione di MEE

 

Il Brasile avrebbe respinto la nomina da parte di Israele di un colono come suo prossimo ambasciatore, con un’iniziativa che secondo Israele danneggerà le relazioni diplomatiche tra i due Paesi.

Dani Dayan, un 60enne che vive nella colonia di Ma’ale Shomron in Cisgiordania, è stato nominato in agosto come nuovo ambasciatore israeliano a Brasilia.

Tuttavia il Brasile deve ancora approvare la nomina del diplomatico, nato in Argentina, in seguito a pressioni in Brasile contro la sua nomina e proteste rivolte alla presidentessa Dilma Rousseff a proposito di Dayan.

La nomina ad ambasciatore deve essere approvata dalla nazione ospite – un procedimento noto come “gradimento”. Però, se nessuna approvazione viene espressa entro due mesi, si intende che la scelta non è stata accettata. .

Dayan è stato un membro autorevole del Yesha Council, un insieme di organizzazioni di coloni ebrei in Cisgiordania, e gli attivisti brasiliani temono che l’approvazione della sua scelta potrebbe essere vista come un appoggio alle colonie israeliane, che in base alle leggi internazionali sono illegali.

La scorsa settimana, quando il precedente ambasciatore israeliano Reda Mansour ha lasciato Brasilia, una fonte ufficiale brasiliana ha detto a “The Times of Israel” [giornale on line israeliano indipendente. Ndtr.] che il governo non avrebbe risposto alla nomina di Dayan e invece avrebbe aspettato che il governo israeliano capisse l’antifona.

Tuttavia la viceministro degli esteri Tzipi Hotovely ha detto ai media israeliani che i rapporti si sarebbero inaspriti se Dayan non fosse stato accettato da Brasilia.

“Lo Stato di Israele declasserà i rapporti diplomatici con il Brasile a un livello secondario se la nomina di Dani Dayan non sarà confermata,” ha detto Hotovely alla rete televisiva israeliana Channel 10.

In una recente intervista con Haaretz, Dayan ha accusato il governo israeliano di starsene con le mani in mano invece di fare pressione sul governo brasiliano perché accetti la sua nomina.

“Io non so se sarò ambasciatore in Brasile e personalmente non mi importa molto,” ha affermato Dayan. “Mi renderebbe le cose ancora più semplici, ma sto lottando per il prossimo ambasciatore che è un colono.”

“La risposta israeliana all’attuale situazione determinerà come verrà designato il Paese ospite del prossimo ambasciatore proveniente da Giudea e Samaria (la Cisgiordania) o, non sia mai, creerà una situazione per cui centinaia di migliaia di israeliani saranno esclusi dallo svolgere il ruolo di ambasciatori a causa del loro luogo di residenza e che Israele vi si adegui.”

I rapporti tra il Brasile ed Israele hanno conosciuto un costante declino negli ultimi anni. Nel 2010 il Brasile ha riconosciuto la Palestina come Stato sovrano entro i confini del 1967, facendo infuriare Israele.

Nello stesso anno l’ex-presidente brasiliano Luiz Inacio Lula da Silva ha stretto rapporti con l’Iran, nemico di Israele, andando in visita a Teheran nel maggio di quell’anno.

Durante l’offensiva israeliana nella Striscia di Gaza della scorsa estate [operazione “Margine Protettivo”. Ndtr.], durante la quale più di duemila palestinesi sono stati uccisi, il Brasile ha richiamato il proprio ambasciatore da Israele e ha condannato “l’uso sproporzionato della forza da parte di Israele che ha provocato un grande numero di vittime civili, compresi donne e bambini.”

Il governo israeliano ha contrattaccato definendo il Brasile un “nano diplomatico” che crea “problemi” piuttosto che “contribuire alle soluzioni”.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Rapporto settimanale Ocha periodo 1 – 14 dicembre 2015 (due settimane).

Il periodo di riferimento di due settimane (1-14 dicembre) ha registrato 15 aggressioni, o presunte tali, da parte di palestinesi; 13 degli autori, o presunti autori, sono stati uccisi (tra essi due minori di 16 e 17 anni) mentre un altro minore di 16 anni è stato ferito. Nel corso delle suddette aggressioni sono rimasti feriti 31 israeliani, tra cui un bimbo e 13 membri delle forze di sicurezza [1]

Gli episodi comprendono otto accoltellamenti e tentativi di accoltellamento, cinque investimenti con auto e due scontri a fuoco effettuati da presunti palestinesi che sono fuggiti. Tredici di questi episodi sono avvenuti in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, e due a Gerusalemme Ovest. Le circostanze di numerosi episodi rimangono controverse. Nessuno degli autori e presunti autori, secondo quanto riferito, apparteneva a fazioni o gruppi armati.

Secondo i media israeliani, il Ministero israeliano della Giustizia ha aperto un’indagine penale sulla sparatoria ed il ferimento di una ragazza palestinese di 16 anni, accusata di aver effettuato un accoltellamento a Gerusalemme Ovest, il 23 novembre; a quanto riferito, l’inchiesta non riguarderà l’uccisione della ragazza palestinese di 14 anni, avvenuta nella stessa circostanza. Questa è la prima indagine, di cui si ha notizia, relativa alla condotta tenuta dalle forze israeliane nel rispondere all’ondata di aggressioni palestinesi verificatesi a partire dal 1° ottobre 2015. A seguito di tali aggressioni sono stati uccisi 71 palestinesi ed altri 23 sono stati feriti, sollevando serie preoccupazioni per il probabile uso eccessivo della forza e uccisioni extragiudiziali.

Nel corso di tre diversi episodi, le forze israeliane hanno ucciso, con armi da fuoco, tre palestinesi: nel contesto di una operazione di ricerca-arresto nel campo profughi di Ad Duheisha (Betlemme); durante le manifestazioni vicino alla recinzione che circonda Gaza; all’ingresso nord della città di Hebron.

Altri 1.409 palestinesi sono stati feriti in questi e in altri scontri verificatesi in tutti i Territori palestinesi occupati (oPt): 102 nei pressi della recinzione che circonda Gaza e i rimanenti [1.307] in diverse località della Cisgiordania. La stragrande maggioranza delle lesioni (1.290) ha avuto luogo nel contesto di proteste contro l’occupazione di lunga data e le politiche israeliane connesse, tra cui il trattenimento da parte delle autorità israeliane dei corpi dei palestinesi uccisi dalle forze israeliane negli ultimi mesi. Almeno il 7% dei ferimenti avvenuti in Cisgiordania, e il 43% di quelli nella Striscia di Gaza, sono stati causati da armi da fuoco, mentre la maggior parte dei restanti sono stati causati da proiettili di gomma o inalazione di gas lacrimogeno. Il maggior numero di feriti (422) relativi ad una singola località, continua ad essere registrato nella città di Qalqiliya: questi includono un gran numero di persone non coinvolte negli scontri, ma curati per aver inalato gas lacrimogeno mentre attraversavano il posto di blocco che controlla l’unico ingresso alla città o per averlo inalato nelle loro case in prossimità degli scontri.

Nel periodo in esame, le forze israeliane hanno arrestato 365 palestinesi in Cisgiordania, più di un quarto nel governatorato di Gerusalemme, durante 214 operazioni di ricerca-arresto. Nella Striscia di Gaza, due pescatori palestinesi sono stati arrestati nel contesto delle restrizioni israeliane in materia di accesso al mare. Anche un componente dello staff della Mezzaluna Rossa Palestinese è stato arrestato mentre usciva da Gaza attraverso il valico di Erez.

Le autorità israeliane hanno demolito, mediante esplosivo, due appartamenti: nel campo profughi di Shu’fat (Gerusalemme Est) e nella città di Nablus. Erano case di famiglia di due palestinesi (uno ucciso e l’altro in carcere) sospettati di aggressioni contro israeliani nel 2014 e 2015. 37 persone (inclusi 18 minori) sono stati sfollati: le due famiglie interessate alle demolizioni ed i residenti di cinque appartamenti adiacenti alla casa di Nablus, gravemente danneggiati dall’esplosione. Altri tre appartamenti, adiacenti alla casa demolita nel campo profughi di Shu’fat, hanno subito danni. Entrambi gli episodi hanno innescato scontri con le forze israeliane e il conseguente ferimento di 46 palestinesi. Dal 1° ottobre le autorità israeliane, per la “necessità di dissuadere i palestinesi dal compiere aggressioni”, hanno effettuato 14 demolizioni punitive, sfollando un totale di 108 palestinesi, tra cui 54 minori (sia dalle case interessate al provvedimento, sia da quelle confinanti).

In area C e a Gerusalemme Est, a causa della mancanza di permessi di costruzione, sei strutture abitative, tra cui tende finanziate da donatori, e una struttura commerciale sono state demolite. Le demolizioni di Gerusalemme Est sono avvenute nella zona di Beit Hanina ed hanno provocato lo sfollamento di due famiglie di profughi registrati (16 persone, tra cui 10 minori). Una delle demolizioni in Area C è stata effettuata nella comunità pastorizia di Al Hadidiya, nel nord della Valle del Giordano che, dal 25 novembre, ha subìto ripetute demolizioni o confische di strutture. Nel corso del periodo, sono state demolite e confiscate tre tende, finanziate da donatori e fornite come aiuto umanitario post-demolizione; sfollati quindi, per la terza volta, 15 palestinesi, tra cui quattro minori. Altre quattro tende, finanziate da donatori, sono state confiscate. In un altro caso, nella comunità pastorizia di At Tabban (Hebron), le forze israeliane hanno confiscato materiale fornito da un’organizzazione internazionale per la riparazione di sette abitazioni: questa è una delle 14 comunità della zona Massafer Yatta a rischio di trasferimento forzato, a causa della designazione dell’area come “zona per esercitazioni a fuoco”.

Nel quartiere Silwan di Gerusalemme Est, le autorità israeliane hanno notificato a tre famiglie palestinesi ordini di sfratto da attuare entro 20 giorni. Questo consegue ad una sentenza di un tribunale israeliano a favore di ‘Ateret Cohanim, organizzazione di coloni che rivendica la proprietà dell’edificio. La stessa organizzazione ha anche avviato un procedimento legale contro altre tre famiglie dello stesso quartiere. Secondo l’organizzazione israeliana per i diritti umani Ir Amin, a Gerusalemme Est, circa 130 famiglie palestinesi sono soggetti a procedimenti giudiziari, nel contesto delle attività di insediamento [di israeliani] nel cuore dei quartieri palestinesi.

In Area C, le autorità israeliane hanno spianato con bulldozer una zona agricola vicino al villaggio di Shufa (Tulkarem), perché “terra di stato”; nel corso dell’operazione hanno distrutto una grande serra di pomodori, 4.500 mq di terra coltivata a spinaci e una rete di irrigazione; hanno inoltre sradicato e sequestrato 150 ulivi e 40 alberi di limone. I beni in questione costituivano la principale fonte di reddito per nove famiglie, composte da 59 persone. Secondo Peace Now, nel mese di ottobre di quest’anno, nei villaggi di Jinsafut (Qalqiliya) e Deir Istiya (Salfit), le autorità israeliane hanno dichiarato “terra di stato” 30.000 mq di terra, per consentire la legalizzazione retroattiva di strutture esistenti, oltre che nuove costruzioni nella colonia israeliana di Karnei Shomron.

Il 4 e il 7 dicembre, le forze israeliane hanno sparato numerose granate verso la zona di Fukhari, ad est di Khan Younis e contro un luogo di addestramento militare a sud-est della città di Gaza, causando danni ad alcune case adiacenti; il contesto di questi incidenti rimane poco chiaro. Inoltre, in almeno 15 occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco contro palestinesi nelle Aree ad Accesso Riservato (ARA) a terra e in mare, senza causare vittime o danni; sono inoltre entrati nella Striscia di Gaza in due occasioni, durante le quali hanno effettuato operazioni di livellamento del terreno e scavi.

Gruppi armati palestinesi di Gaza hanno sparato diversi razzi verso Israele, tutti ricaduti in Gaza. In due casi, gruppi armati palestinesi hanno aperto il fuoco contro veicoli militari israeliani nei pressi della recinzione che circonda Gaza; le forze israeliane hanno risposto sparando con mitragliatrici pesanti. Non sono stati segnalati feriti.

È stato riferito che l’8 dicembre, 14 palestinesi sono rimasti intrappolati per quattro ore in un tunnel per il contrabbando, sotto il confine tra la Striscia di Gaza e l’Egitto. Il tunnel è crollato prima che una squadra palestinese di soccorso riuscisse a raggiungerli: sette i feriti.

Due palestinesi (uno in possesso di cittadinanza israeliana) sono stati feriti in due diversi attacchi di coloni israeliani: il conducente di un bus israeliano che è stato aggredito vicino alla colonia di Betar Illit (Betlemme) e un pastore che è stato attaccato dal cane di un colono israeliano nella parte settentrionale della Valle del Giordano. Sono stati segnalati ulteriori episodi di impossessamento di proprietà, impedimento degli spostamenti di palestinesi e intimidazioni; ad esempio, nella zona H2 di Hebron, ad alunni ed insegnanti è stato impedito di raggiungere la loro scuola.

Nel periodo in esame, tre coloni israeliani sono stati arrestati, e sono attualmente sotto interrogatorio, in relazione all’attacco incendiario del 6 settembre nel villaggio di Duma, che provocò la morte di tre membri della stessa famiglia [palestinese] e gravi lesioni ad un altro membro.

Oltre i ferimenti di israeliani riportati sopra (paragrafo 1), sei coloni israeliani, tra cui un minore, sono rimasti feriti dal lancio di pietre contro veicoli in transito nei governatorati di Betlemme, Hebron e Ramallah, in Cisgiordania.

Il governatorato di Hebron continua ad essere la zona più colpita dalle restrizioni di movimento, con conseguenti lunghi ritardi e interruzioni all’accesso a servizi e mezzi di sussistenza per gran parte della popolazione. Tutti gli itinerari (incluse le strade sterrate) che conducono alle principali arterie di traffico (strade 60, 356, 35 e 317) sono rimasti o interamente bloccati per il transito dei veicoli, o sono controllati da posti di blocco “volanti” dispiegati per gran parte del tempo. Il blocco totale include tre delle strade principali di accesso alla città di Hebron, così come gli ingressi principali ad As Samu’, Bani Nai’m e al campo profughi di Al Arrub. L’accesso dei palestinesi all’area di insediamento [colonico], all’interno della zona di Hebron City sotto controllo israeliano (H2), è rimasto fortemente limitato, includendo il divieto di ingresso per i maschi tra i 15 e i 25 anni in alcune aree (via Shuhada e [quartiere di] Tel Rumeida), ad eccezione dei residenti.

I movimenti dei palestinesi, in alcune parti della Cisgiordania settentrionale e centrale, continuano ad essere impediti da posti di blocco e altri ostacoli. Il 9 dicembre, a seguito di una sparatoria, due delle strade principali della città di Tulkarem sono state bloccate con cancelli in ferro, e da allora sono rimaste chiuse. A Ramallah il checkpoint che controlla il principale accesso orientale alla città (DCO checkpoint) è stato chiuso in entrambe le direzioni per due giorni. Contemporaneamente, nel resto del governatorato, i palestinesi continuano ad essere gravati dalla chiusura di altre importanti vie di accesso : un segmento della Old Road 60; l’ingresso orientale di Ein Yabrud (serve 40 villaggi); gli ingressi principali ai villaggi di ‘Abud, Sinjil e Al Mughayir. Per quattro giorni durante il periodo di riferimento, l’esercito israeliano ha chiuso il posto di blocco parziale di Nabi Salih, che interessa direttamente cinque villaggi della zona (circa 17.000 persone). Nel governatorato di Gerusalemme, circa 20.000 palestinesi continuano a risentire della chiusura dell’ingresso principale della città di Ar Ram, e di un posto di blocco permanente collocato ad uno degli ingressi del villaggio Hizma. A Gerusalemme Est, nel periodo di riferimento, sette dei nuovi checkpoint e blocchi stradali, schierati in ottobre 2015, sono stati rimossi, mantenendo operativi otto ostacoli, che pregiudicano l’ingresso e l’uscita dai quartieri di Issawiya, Sur Bahir e Jabal al Mukkabir.

Il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è stato aperto in entrambe le direzioni, il 3 e 4 dicembre, consentendo a 1.526 persone di uscire da Gaza e ad 860 di entrarvi. Il valico è rimasto chiuso, anche per l’assistenza umanitaria, dal 24 ottobre 2014, ad eccezione di 39 giorni di aperture parziali.

_______________________ fine del testo del Rapporto ________________________

[1]  I dati OCHA per la protezione dei civili includono gli episodi che si sono verificati al di fuori dei Territori occupati solo se risultano coinvolti, sia come vittime che come aggressori, persone residenti nei Territori occupati. I feriti palestinesi riportati in questo rapporto includono solo persone che hanno ricevuto cure mediche da squadre di paramedici presenti sul terreno, nelle cliniche locali o negli ospedali. Le cifre sui feriti israeliani si basano su notizie di stampa.


Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Il 15 dicembre, secondo i media israeliani, due palestinesi sono stati uccisi con armi da fuoco dalle forze israeliane: avevano investito con i loro veicoli soldati israeliani che stavano conducendo una operazione di ricerca-arresto nel campo profughi di Qalandiya (Gerusalemme).

“Associazione per la pace – gruppo di Rivoli”
Ezio R. e Giovanni L.V.

assopacerivoli@yahoo.it




Come le colonie israeliane soffocano l’economia palestinese

Al Shabaka e Ma’an News

Sintesi

Israele vede le linee giuda recentemente  emanate dall’Unione Europea per l’etichettatura di alcuni prodotti delle sue colonie come la punta dell’iceberg. Teme che ciò aprirà la porta a misure più dure contro la sua colonizzazione illegale e sta mettendo in campo le forze filo-israeliane in Europa e negli Stati Uniti. Uno degli argomenti continuamente ripetuti è che l’etichettatura danneggia i lavoratori palestinesi.

In questo documento la responsabile politica di Al-Shabaka Nur Arafeh e le consulenti politiche  Samia al-Botmeh e Leila Farsakh sfatano gli argomenti addotti da Israele contro la decisione dell’Unione Europea di etichettare i prodotti delle colonie, dimostrando l’impatto devastante che il sistema delle colonie israeliane ha avuto sull’economia palestinese togliendo ai palestinesi la terra, l’acqua e altre risorse e creando una massiccia disoccupazione. Affrontano anche la condizione di quei lavoratori palestinesi – una minoranza della forza lavoro – che sono stati obbligati a guadagnarsi da vivere proprio nelle colonie che hanno danneggiato in modo così grave l’economia dei palestinesi e più in generale i loro diritti. Proseguono esaminando il passo dell’Unione Europea (UE) e suggeriscono le iniziative successive che l’UE dovrebbe prendere per rispettare pienamente le leggi internazionali ed europee1.

Il contesto

Ci sono voluti anni all’Unione Europea per sviluppare la sua posizione sull’etichettatura dei  prodotti delle colonie che Israele ha costruito sui territori palestinesi e siriani [le Alture del Golan. Ndtr.] fin da quando li ha occupati nel 1967. La Commissione Europea ha emanato una decisione nel 1998 in cui si sospettava che Israele stesse violando l’accordo di associazione con l’UE, firmato nel 1995 e entrato in vigore nel 2000, che esentava i prodotti israeliani dal pagamento di dazi doganali. Nel 2010 la Corte Europea di Giustizia ha confermato che i prodotti provenienti dalla Cisgiordania non beneficiavano del trattamento doganale preferenziale in base all’accordo di associazione dell’UE con Israele e che le affermazioni delle autorità israeliane non erano vincolanti per le autorità doganali dell’UE.

Tuttavia è stato solo nel 2015 che l’UE ha preso la decisione a lungo attesa di adeguare le proprie azioni alle sue stesse regole, in parte come risposta alla crescente pressione da parte della società civile perché riconoscesse l’illegalità delle colonie. Il 10 settembre il Parlamento Europeo ha approvato una risoluzione che chiede l’etichettatura dei beni delle colonie israeliane in quanto prodotti negli “insediamenti israeliani” piuttosto che in “Israele” e che garantisce che non beneficino del trattamento  preferenziale sugli scambi in base al Trattato di Associazione tra l’Ue ed Israele. Due mesi dopo, l’11 novembre, l’UE ha emanato le linee guida attese da molto tempo riguardo all’etichettatura, che ha definito in un linguaggio molto discreto come  una “Comunicazione Interpretativa”. Tuttavia i prodotti delle colonie saranno ancora commerciati con l’Unione Europea (EU), lasciando ai consumatori la “decisione informata” se comprare o meno questi prodotti.

Israele sostiene che l’iniziativa dell’UE è “discriminatoria” e che è dannosa per l’economia palestinese in generale e per i lavoratori palestinesi in particolare. E’ chiaramente un tentativo da parte di Israele di distogliere l’attenzione internazionale dalla realtà dell’illegale colonizzazione israeliana, dei suoi effetti profondamente negativi per l’economia palestinese e degli obblighi morali e giuridici dell’UE. In effetti, l’intera colonizzazione da parte di Israele è illegale in base al diritto internazionale, come riconfermato dalla Corte Internazionale di Giustizia nel suo “Parere consultivo” del 2004 sul Muro di Separazione costruito da Israele. Il trasferimento da parte di Israele della sua popolazione nei territori occupati è una violazione della Convenzione dell’Aja del 1907 e della Quarta Convenzione di Ginevra del 1949.

Lo sfruttamento economico dei Territori Palestinesi Occupati da parte delle colonie

Il presente rapporto riguarda i territori occupati da Israele nel 1967 – la Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, la Striscia di Gaza e le Alture del Golan, e più specificamente le colonie israeliane e gli avamposti costruiti nei Territori Palestinesi Occupati (TPO)2. Non affronta tutte le violazioni delle leggi internazionali e dei diritti dei palestinesi da parte di Israele.

Il fatto che la costruzione delle colonie israeliane si sia basata sullo sfruttamento economico dei TPO è stato ampiamente documentato. Ciò ha incluso la confisca di ampie zone di terra palestinese  e la distruzione di proprietà palestinesi per utilizzarle a scopi edilizi ed agricoli; la confisca di risorse idriche, al punto che 599.901 coloni utilizzano sei volte più acqua che tutta la popolazione palestinese della Cisgiordania, composta da 2.86 milioni di abitanti; l’appropriazione di luoghi turistici e archeologici; lo sfruttamento di cave, miniere, risorse del Mar Morto e di altre risorse naturali non rinnovabili dei palestinesi, come sarà argomentato in seguito.

Le colonie sono anche state agevolate da un sistema infrastrutturale di strade, di checkpoint e dal Muro di Separazione, portando alla creazione di bantustan isolati in Cisgiordania e all’appropriazione di altra terra palestinese.

In conseguenza di ciò attualmente le colonie israeliane controllano circa il 42% della terra della Cisgiordania. Questo dato comprende aree edificate così come i confini municipali delle colonie israeliane. Questi confini attualmente comprendono un’area 9,4 volte più ampia di quelle edificate nelle colonie della Cisgiordania e sono proibiti ai palestinesi che non hanno un permesso per accedervi.

La maggioranza delle colonie della Cisgiordania sono costruite nell’Area C, che rappresenta il 60% della Cisgiordania e che è molto ricca di risorse naturali3. Secondo uno studio della Banca Mondiale, il 68% dell’Area C è stato destinato alle colonie israeliane, mentre meno dell’1% è stato concesso all’utilizzo da parte dei palestinesi.

All’interno dell’Area C lo sfruttamento da parte delle colonie israeliane è concentrato nella Valle del Giordano e nella parte settentrionale del Mar Morto. Le colonie israeliane controllano l’85,2% di queste zone, che sono le terre più fertili della Cisgiordania. L’abbondante disponibilità di acqua e il clima favorevole forniscono le migliori condizioni per l’agricoltura. Di conseguenza producono il 40% delle esportazioni di datteri da Israele. Nel contempo i palestinesi hanno il divieto di vivere lì, costruire o persino pascolare il loro bestiame con il pretesto che si tratta di “terre statali”, di ” zona militare” oppure di “riserve naturali”.

Israele ricorre anche ad altri metodi per espellere i palestinesi dalle loro terre, distruggendo le case, proibendo la costruzione di scuole e ospedali e negando ai residenti l’accesso a servizi essenziali come l’elettricità, l’acqua e l’escavazione di pozzi. Al contrario, molte colonie sono definite “aree di priorità nazionale”, permettendo loro di ricevere incentivi finanziari dal governo israeliano nei settori dell’educazione, della salute, dell’edilizia, dello sviluppo industriale ed agricolo4.

I proventi israeliani derivanti dallo sfruttamento della terra palestinese e delle risorse della Valle del Giordano e dell’area settentrionale del Mar Morto sono stimati attorno ai 500 milioni di shekel all’anno (circa 118 milioni di euro). Per avere un’idea dell’impatto sull’economia palestinese, vale la pena di notare che i costi indiretti delle restrizioni imposte da Israele all’accesso palestinese all’acqua nella Valle del Giordano – e di conseguenza l’impossibilità di coltivare la loro terra – erano pari a  663 milioni di dollari [circa 616 milioni di euro. Ndtr.], l’equivalente dell’8,2% del prodotto interno lordo palestinese nel 2010.

Nel frattempo Israele continua a costruire nuove colonie. Netanyahu, durante il suo discorso all’US Center for American Progress [organizzazione liberal vicina ai Clinton e ad Obama. Ndtr.] in novembre, ha sostenuto che nessuna nuova colonia è stata edificata negli ultimi vent’anni. Di fatto 20 colonie israeliane sono state approvate durante i suoi mandati, tre delle quali erano avamposti illegali che sono state successivamente regolarizzate dal governo.

La manifestazione più recente della politica di colonizzazione israeliana è la ripresa della costruzione del Muro di Separazione nei pressi di Beit Jala in Cisgiordania, che di fatto separa gli abitanti del villaggio dalle terre coltivate di loro proprietà nella valle di Cremisan. Il percorso di questo tratto di Muro è stato disegnato per permettere l’annessione della colonia di Har Gilo, a sud di Gerusalemme, mettendola in collegamento con la colonia di Gilo, che si trova all’interno dei confini del Comune di Gerusalemme creati da Israele dopo l’inizio dell’occupazione, nel 1967.

Un’economia palestinese strangolata dalle colonie

La colonizzazione illegale da parte di Israele ha avuto decisamente un effetto profondamente negativo sull’economia palestinese. Il controllo israeliano su acqua e terra ha contribuito a ridurre la produttività del lavoro del settore agricolo ed il suo contributo al PIL: l’apporto di agricoltura,  settore forestale e della pesca è sceso dal 13,3% del 1994 al 4,7% nel 2012, ai prezzi attuali. Lo sversamento di rifiuti solidi e liquidi dalle zone industriali delle colonie nei TPO ha ulteriormente inquinato l’ambiente, la terra e l’acqua dei palestinesi.

L’accesso limitato alle cospicue risorse del Mar Morto ha impedito ai palestinesi di sviluppare il settore dei cosmetici e altre industrie, basate sull’estrazione di minerali. Uno studio della Banca Mondiale stima che se non ci fossero state restrizioni alla disponibilità di queste risorse, la produzione e la vendita di magnesio, potassio e bromo avrebbe comportato un valore annuo di 918 milioni di dollari [circa 844 milioni di euro. Ndtr.] per l’economia palestinese, l’equivalente del 9% del PIL nel 2011.

Le drastiche limitazioni nell’accesso alle miniere e alle cave nell’Area C ha anche ostacolato la possibilità per i palestinesi di estrarre ghiaia e pietre. Il valore lordo annuo stimato come perdita per l’economia palestinese per l’estrazione da cave e miniere è di 575 milioni di dollari [circa 529 milioni di euro. Ndtr.]. In totale, si stima che le limitazioni all’accesso ed alla produzione nell’Area C sono costate all’economia palestinese 3.4 miliardi di dollari [più di 3.1 miliardi di euro Ndtr.]. Come esaminato in un precedente documento di Al-Shabaka, Israele controlla persino l’accesso dei palestinesi al loro stesso campo elettromagnetico – una politica a cui contribuiscono le colonie –  creando perdite tra gli 80 ed i 100 milioni di dollari annui [dai 73 ai 92 milioni di euro. Ndtr.] per gli operatori palestinesi delle telecomunicazioni.

Inoltre l’assenza di contiguità territoriale all’interno della Cisgiordania, unita ad altre restrizioni israeliane al movimento ed all’accesso, ha frammentato la sua economia  in piccoli mercati non connessi tra loro. Ciò ha incrementato i tempi ed i costi di trasporto delle merci da una zona della Cisgiordania ad un’altra e dalla Cisgiordania al resto del mondo. In seguito a ciò, la competitività dei prodotti palestinesi sui mercati locali e internazionali è stata indebolita.

Oltretutto, poiché l’economia in Cisgiordania è stata viziata dall’imprevedibilità e dall’incertezza – il che non è sorprendente, in quanto l’area è sottoposta a un’occupazione militare –  il costo ed i rischi di fare impresa sono aumentati. Ciò ha peggiorato il clima per gli investimenti, limitato lo sviluppo economico e aumentato la disoccupazione e la povertà. Nel complesso si stima che il costo diretto ed indiretto dell’occupazione sia stato di circa 7 miliardi di dollari [6,4 miliardi di euro. Ndtr] nel 2010 – circa l’85% del PIL palestinese stimato5.

Spossessati: i lavoratori palestinesi nelle colonie israeliane

L’economia palestinese è stata quindi colpita da fragilità strutturali e settoriali che sono principalmente dovute all’occupazione israeliana e alla colonizzazione. L’espropriazione di terra, acqua e risorse naturali da parte delle colonie e il controllo restrittivo di Israele sui movimenti, l’accessibilità e altre libertà ha indebolito la base produttiva dell’economia, che non è più in grado di generare occupazione e investimenti sufficienti ed è sempre più dipendente dall’economia israeliana e dagli aiuti dall’estero.

Questa dura realtà economica è il fattore principale che porta alcuni palestinesi a lavorare nelle colonie israeliane – si stima che siano state solo il 3,2% del totale degli occupati della Cisgiordania nel terzo quadrimestre del 20156. Invece di essere auto-sufficienti proprietari dei mezzi di produzione, i palestinesi sono stati spossessati delle loro risorse economiche e dei loro diritti dall’occupazione militare e dalle colonie israeliane e sono stati trasformati in manodopera a basso costo.

Infatti la maggior parte dei lavoratori palestinesi nelle colonie è impiegata in lavoro di bassa qualifica e retribuzione: almeno la metà di loro è utilizzata nel settore edile. Ciò significa che meno del 2% del totale della popolazione palestinese occupata sarebbe colpita nel caso di chiusura delle industrie israeliane nelle colonie.

I lavoratori palestinesi nelle colonie sono sottoposti a condizioni di lavoro difficili e a volte pericolose, e si stima che il 93% di loro non abbia un sindacato che li rappresenti. Di conseguenza sono soggetti a licenziamenti arbitrari ed alla revoca del permesso di lavoro se rivendicano i propri diritti o cercano di sindacalizzarsi. Una ricerca del 2011 ha scoperto che la maggioranza dei lavoratori palestinesi avrebbe lasciato il proprio lavoro nelle colonie se avesse trovato un’alternativa nel mercato del lavoro palestinese.

Mentre si  sostiene che i lavoratori palestinesi nelle colonie ricevono un salario superiore a quello del mercato del lavoro palestinese, è il caso di notare che sono pagati in media meno della metà del salario minimo israeliano. Ad esempio a Beqa’ot, una colonia israeliana nella Valle del Giordano, i palestinesi sono pagati il 35% del salario minimo legale. E’ da notare che gli impianti di impacchettamento della Mehadrin, il più grande esportatore israeliano di frutta e verdura nell’UE, si trovano in questa colonia.

In breve, è proprio il colonialismo di insediamento israeliano che nuoce ai palestinesi, molto più che l’etichettatura da parte dell’UE dei prodotti delle colonie. Quello di cui i palestinesi hanno bisogno non è più lavoro nelle colonie o più dipendenza dall’economia israeliana. Piuttosto quello di cui i palestinesi hanno bisogno è lo smantellamento delle colonie israeliane, la fine dell’occupazione e la piena realizzazione dei loro diritti in base alle leggi internazionali. Solo allora potranno realmente migliorare la base produttiva dell’economia palestinese, generare opportunità di lavoro, garantirsi autonomia e auto-sufficienza e smettere di essere dipendenti dagli aiuti internazionali.

La distanza tra la retorica dell’UE e le sue azioni

E’ contro questo contesto che il ruolo dell’UE nei riguardi delle colonie israeliane deve essere messo in discussione. L’UE riconosce che le colonie israeliane costruite nei TPO sono illegali. La sua “Comunicazione Interpretativa” stabilisce chiaramente che l’UE, “in linea con le leggi internazionali, non riconosce la sovranità di Israele sui territori occupati da Israele dal giugno 1967.” Tuttavia l’UE continua ad importare beni dalle colonie israeliane (soprattutto frutta e verdura fresche coltivate nella Valle del Giordano) per un valore annuo stimato in 300 milioni di dollari [276 milioni di euro. Ndtr.]. E’ più di 17 volte il valore medio annuale dei prodotti esportati dai TPO nell’UE tra il 2004 e il 2014.

Nonostante la “Comunicazione Interpretativa”, rimane una grande discrepanza tra i discorsi dell’UE e le sue azioni, e la “Comunicazione” è insufficiente per adempiere agli obblighi legali dell’UE per varie ragioni. In primo luogo, non tutti i prodotti provenienti dalle colonie israeliane devono essere etichettati. Solo la frutta fresca e le verdure, il pollame, l’olio d’oliva, il miele, l’olio, le uova, il vino, i cosmetici e i prodotti organici sono soggetti all’indicazione obbligatoria dell’origine. Cibi pre-confezionati e prodotti industriali che non siano cosmetici sono soggetti solo all’indicazione volontaria dell’origine.

In più le imprese israeliane che operano nelle colonie possono facilmente aggirare l’etichettatura dei loro prodotti. Ad esempio, possono mettere insieme beni prodotti nelle colonie con altri prodotti in Israele per evitare che siano etichettati come “prodotti nelle colonie”. Possono utilizzare l’indirizzo di un ufficio all’interno dei confini di Israele internazionalmente riconosciuti come l’indirizzo ufficiale dell’impresa piuttosto che l’effettivo luogo di produzione. L’UE dovrebbe anche rilevare il fatto che le imprese che etichettano i propri prodotti come provenienti dalle colonie possono ricevere delle compensazioni dal governo israeliano per le eventuali perdite. Si stima che il bilancio dello Stato abbia destinato circa 2 milioni di dollari [1,8 milioni di euro. Ndtr.] ogni anno negli ultimi 10 anni per compensare le imprese israeliane delle colonie per le perdite cui devono far fronte a causa della fine del trattamento doganale di favore e di altre agevolazioni.

Nel contempo le stesse linee guida per l’etichettatura sono un’arma spuntata, in quanto “l’applicazione delle attuali disposizioni ricade sotto la responsabilità principale degli Stati membri”, come stabilisce la “Comunicazione Interpretativa” dell’UE. Cosa ancora più importante, limitandosi ad etichettare i prodotti provenienti dalle colonie e mantenendo al contempo relazioni commerciali e investimenti con queste ultime, l’UE sta in realtà continuando a finanziare l’espansione degli insediamenti ed a perpetuare l’occupazione israeliana, lo sfruttamento delle risorse naturali e l’appropriazione delle terre palestinesi –  una situazione illegale che l’UE sostiene di non “riconoscere”.

Inoltre, in chiara opposizione con quanto sostiene, l’UE intraprende progetti con imprese israeliane che sono profondamente coinvolte nelle colonie e nell’occupazione. Per esempio, l’UE ha approvato 205 progetti con la partecipazione israeliana a “Horizon 2020”, il più vasto programma di ricerca e innovazione dell’UE. Le imprese israeliane che vi partecipano comprendono Elbit, che è direttamente coinvolta nella costruzione degli insediamenti e del Muro; le Israel Aerospace Industries [industrie aerospaziali israeliane], che forniscono i macchinari necessari per la costruzione del Muro; l’università Technion, che lavora con il complesso militare israeliano. Banche europee sono anche legate a banche israeliane che forniscono mutui ipotecari ai coloni, finanziano le autorità israeliane nelle colonie e nella costruzione di insediamenti che godono del sostegno da parte dello Stato e altre attività economiche che promuovono la colonizzazione.

Pertanto la “Comunicazione Interpretativa” dell’UE sembra essere principalmente un atto simbolico, attraverso il quale [l’UE] risponde solo formalmente alla crescente richiesta della società civile europea, sempre più favorevole al movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) guidato dai palestinesi,  che vuole che essa rispetti i propri regolamenti e che Israele sia chiamato a rendere conto delle proprie azioni. In base alle leggi internazionali gli Stati terzi sono obbligati a non riconoscere come lecita una situazione illegale, a non fornire alcun tipo di assistenza per mantenere una situazione illegale e a collaborare per garantire che Israele rispetti le leggi umanitarie internazionali. In altre parole, l’UE e i suoi Stati membri dovrebbero fare quanto possibile per porre fine alla colonizzazione da parte di Israele.

Come l’UE potrebbe rispettare meglio la legge

L’UE dovrebbe iniziare a trasformare le sue parole in misure concrete per rendere Israele responsabile, istituendo un blocco totale su ogni attività economica, finanziaria, commerciale e di investimenti diretta o indiretta con le colonie israeliane, seguendo le orme di Copenhagen, Reykjavik e recentemente Amsterdam. Come raccomandato poco tempo fa in un rapporto del Consiglio Europeo delle Relazioni Estere [centro studi paneuropeo, i cui membri sono ex-ministri degli esteri, imprenditori, intellettuali ed attivisti, il cui scopo è promuovere il dibattito e favorire una politica estera efficace fondata sui valori europei. Ndtr.], dovrebbe anche sospendere le relazioni finanziarie con le banche israeliane, soprattutto quelle che finanziano l’occupazione e la costruzione delle colonie. In più, da parte loro gli Stati membri dell’UE dovrebbero cessare ogni relazione con le colonie israeliane.

Va qui osservato che l’UE è il principale partner commerciale di Israele, con scambi totali attorno ai 30 miliardi di euro nel 2014, che rappresentano circa il 33% del totale delle esportazioni israeliane di beni e servizi nel 20147. Il commercio dell’UE con le colonie israeliane rappresenta meno dell’1% del commercio dell’UE con Israele. Una iniziativa seria da parte dell’UE avrebbe un impatto consistente sulla colonizzazione israeliana e sulla prolungata occupazione militare.

Oltre a passare dall’etichettatura dei prodotti delle colonie a porre fine ad ogni relazione con gli insediamenti israeliani, i Paesi europei dovrebbero prendere in considerazione un embargo di tutti i prodotti israeliani. Fin da quando l’UE ha riconosciuto che il controllo di Israele sui TPO è una situazione di occupazione – un’occupazione militare che dura da circa 50 anni – avrebbe dovuto affrontare le cause profonde dell’occupazione, cioè la politica del governo israeliano, piuttosto che solo il suo effetto, ossia le colonie.

Per esempio, nel caso dell’apartheid in Sud Africa, un boicottaggio concentrato solo sugli affari che riguardavano le township non avrebbe avuto un grande effetto sul sistema di apartheid. Allo stesso modo, boicottare solo i prodotti degli insediamenti israeliani avrebbe un impatto molto minore che boicottare il sistema concreto che sta organizzando la colonizzazione dei territori per fare pressione su Israele perché ponga fine all’occupazione. Per questo è importante vietare ogni prodotto israeliano e non solo quelli delle colonie. Un simile passo prenderebbe di mira, tra le altre cose, l’inganno israeliano riguardo all’origine dei prodotti e delle materie prime che provengono dagli insediamenti. E’ difficile controllare, a meno che siano realmente boicottate le imprese e non solo i loro beni e servizi. In effetti molte delle imprese che lavorano nelle colonie provengono da Israele piuttosto che dai territori del 1967.

Gli appelli per un boicottaggio totale stanno aumentando e trovando adesioni in luoghi imprevisti. Per esempio, due docenti universitari statunitensi hanno recentemente sostenuto in un editoriale sul ” Washington Post” che boicottare solo i prodotti delle colonie “non avrebbe un impatto sufficiente”. Hanno invece proposto “un ritiro dell’aiuto e del supporto diplomatico USA e il boicottaggio e il disinvestimento dall’economia israeliana” per modificare i piani strategici di Israele.

Per la Palestina, un simile divieto aiuterebbe a proteggere i prodotti palestinesi, aumenterebbe la loro competitività e aiuterebbe in futuro a rafforzare la capacità dell’economia palestinese di integrarsi con quella internazionale, una volta che la libertà sia garantita. Il boicottaggio di tutti i prodotti ed i servizi israeliani sarebbe un modo efficace per dare la possibilità ai palestinesi di sconfiggere il colonialismo israeliano. Ciò sarebbe molto più efficace che fornire assistenza per lo sviluppo a settori specifici e risponderebbe direttamente alla richiesta del popolo palestinese di libertà e diritti umani.

Note:

  1. Le autrici ringraziano l’ufficio Palestina/Giordania della fondazione Heinrich-Böll per la cooperazione e la collaborazione con Al-Shabaka in Palestina. Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità delle autrici e non riflettono necessariamente l’opinione della fondazione Heinrich-Böll.
  2. Gli avamposti delle colonie sono costruiti senza l’autorizzazione ufficiale del governo israeliano. Tuttavia ricevono supporto finanziario da ministeri, agenzie governative, fondazioni locali ed internazionali e da privati (soprattutto dagli USA). Spesso Israele dopo un certo lasso di tempo li “legalizza”.
  3. In base agli accordi di Oslo, la Cisgiordania è stata divisa provvisoriamente in Area A, che dovrebbe essere sotto il controllo dell’Autorità Nazionale Palestinese ma è sottoposta a frequenti incursioni militari israeliane, Area B, sotto controllo condiviso di israeliani e palestinesi, ed Area C, sotto controllo esclusivo di Israele. Questo periodo provvisorio è scaduto nel maggio 1999.
  4. Per maggiori informazioni vedi “Trading Away Peace: How Europe helps sustain illegal Israeli settlements.” [“Vendere la pace: come l’Europa aiuta a sostenere le illegali colonie israeliane “]
  5. I costi diretti sono i costi supplementari sostenuti dai palestinesi in conseguenza delle restrizioni imposte dagli israeliani all’accesso ed al movimento, compresi i maggiori costi dell’acqua e dell’elettricità. I costi indiretti sono le perdite di entrate provenienti dalla produzione che i palestinesi avrebbero potuto fare se non ci fossero state queste limitazioni da parte israeliana. Un esempio di costi indiretti è rappresentato dal valore aggiunto dell’estrazione delle risorse del Mar Morto.
  6. In base all’inchiesta sulla forza lavoro realizzata nel novembre 2015 dal PCBS [Palestinian Central Bureau of Statistics, istituzione ufficiale del governo palestinese. Ndtr.], nel periodo luglio-settembre 2015 il numero di lavoratori palestinesi nelle colonie israeliane in Cisgiordania era di 22.100, su un totale di 674.900 lavoratori in Cisgiordania.
  7. Da confrontare con il commercio dell’UE con i TPO, che nel 2014 è stato di circa 154 milioni di euro.

(Traduzione di Amedeo Rossi)




La rivolta dei giovani palestinesi – Quale ruolo per i partiti politici?

Parte 8

di Alaa Tartir

Al-Shabaka Maannews

Al-Shabaka è un’organizzazione indipendente no profit che ha come obiettivo informare e stimolare il dibattito pubblico sui diritti umani e sull’autodeterminazione dei palestinesi nel contesto delle leggi internazionali.

Questa è l’ottava parte di una pubblicazione divisa in otto segmenti sull’attuale assenza di un’autentica dirigenza nazionale palestinese e sulla rivolta dei giovani contro la prolungata occupazione militare da parte di Israele e la negazione dei diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati (TPO).

La parte è stata scritta da Alaa Tartir, il direttore di Al-Shabaka e anche ricercatore post dottorato al Graduate Institute of International and Development Studies di Ginevra

Chi proteggerà e amplierà l’ondata palestinese di collera attualmente in corso nei territori occupati e come? Dovremmo tutti essere interessati a rispondere in modo approfondito a questa domanda. Il continuo sacrificio del popolo palestinese non deve essere sfruttato, ancora una volta, dalla tradizionale elite politica palestinese come carta [da giocare] in qualche nuova tornata di negoziati destinati a fallire. Non deve nemmeno diventare semplicemente un modo per le autorità di far sfogare la rabbia dei giovani.

L’incapacità prolungata della dirigenza tradizionale palestinese di realizzare le aspirazioni dei palestinesi ha fornito un’opportunità alle nuove avanguardie, quali gli attivisti della società civile palestinese e gli oppositori dell’ANP. Peraltro costoro devono ancora sfruttare appieno quest’occasione. C’è bisogno di un completo cambiamento della classe dirigente palestinese. Ci vorranno tempo, risorse e una determinazione politica nonché una mobilitazione di massa nei momenti cruciali. Gli obiettivi politici e le forme di lotta sono le questioni fondamentali a cui dare una risposta. L’alternativa sta prendendo forma, ma è ancora giovane come i ragazzi che si stanno ribellando. È importante occuparsi di tali questioni subito: senza il sostegno necessario e gli strumenti per coordinare i tentativi e le iniziative , il movimento rapidamente morirà.

Le nuove avanguardie palestinesi devono agire ora per mettere insieme i loro sforzi per creare una strategia di lotta che faccia crescere piuttosto che prosciugare le potenzialità e le energie dell’ondata [di collera]. È un compito arduo, ma è l’unico modo per evitare un’altra delusione che aumenterebbe l’attuale frustrazione e il disorientamento. I momenti di trasformazione storica non sono mai facili.

Quest’impostazione coinvolgerà su diversi fronti momenti di scontro. In altre parole, ciò non dovrebbe essere limitato a una presenza fisica davanti ai checkpoint, ma [occorre] estenderlo all’ambito politico, economico, a quello dei media e ad altri. Indubbiamente lo scontro in una situazione di colonizzazione è l’unico modo per cambiare lo squilibrio di potere, affrontando la situazione sul terreno e costruendo un percorso per il futuro.

Gli attuali movimenti [organizzati] dai giovani e dalle nuove avanguardie della società civile incarnano le politiche dello scontro: stanno agendo collettivamente per sfidare le autorità e la loro pretesa di essere rappresentativi [della volontà del popolo palestinese]. Tuttavia abbiamo bisogno di passare da una situazione odierna di rabbia a un movimento che rappresenti la società palestinese nella sua interezza, trasformandola in una società fondata sui movimenti sociali e sulle reti trasversali che si occupano di questioni politiche, economiche e sociali. Ciò può essere fatto basandosi sulle reti sociali esistenti e su altre per proporre obiettivi di interesse generale, lavorando per la liberazione dalla colonizzazione e sfidando le autorità repressive e le elite. Ciò può trasformare l’attuale ondata di collera in una situazione permanente di scontro con il colonizzatore così come in un movimento sociale che avvicini il colonizzato alla libertà e all’autodeterminazione.

Questo pezzo è parte della pubblicazione di una tavola rotonda di Al-Shabaka. La versione completa è stata originariamente pubblicata sul sito di Al-Shabaka il 23 novembre 2015.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono agli autori e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’Agenzia Ma’an News.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)