E’ tempo di porre fine alla “hasbarà”: i media palestinesi e la ricerca di una narrazione comune

Ma’an News – 24 maggio 2016

di Ramzy Baroud

Il solo fatto di essere insieme a centinaia di giornalisti palestinesi e ad altri professionisti dei media di ogni parte del mondo è stata un’esperienza edificante.

Per molti anni i media palestinesi sono stati sulla difensiva, incapaci di articolare un messaggio coerente, lacerati tra fazioni e cercando disperatamente di contrastare la campagna mediatica israeliana, con le sue falsificazioni e l’instancabile propaganda, o “hasbarà”.

E’ ancora troppo presto per affermare che ci sia stato un qualche cambiamento di paradigma, ma la seconda conferenza di Tawasol a Istanbul, che ha avuto luogo il 18 e 19 maggio, è servita come un’opportunità per prendere in considerazione un vasto cambiamento del panorama mediatico e di mettere in luce le sfide e le opportunità che i palestinesi devono affrontare nella loro ardua lotta.

Non solo ci si aspetta che i palestinesi demoliscano anni ed anni di disinformazione israeliana, imperniata su un discorso storico irreale che è stato venduto al resto del mondo come un fatto, ma anche che costruiscano una propria lucida narrazione che sia libera dai capricci di fazione e da vantaggi personali.

Ovviamente non sarà facile.

Il mio messaggio alla conferenza “La Palestina nei media”, organizzata dal “Forum Internazionale della Palestina per i Media e la Comunicazione” è che, se la dirigenza palestinese non è capace di raggiungere l’unità politica, almeno gli intellettuali palestinesi devono insistere nell’unificare la loro narrazione. Persino il più disposto al compromesso tra i palestinesi può essere d’accordo sulla centralità della Nakba, della pulizia etnica dei palestinesi e della distruzione dei loro villaggi e città nel 1947-48.

Possono, e devono, anche concordare sull’atrocità e sulla violenza dell’occupazione; sulla disumanizzazione ai chekpoint militari; sulla sempre maggiore riduzione degli spazi in Cisgiordania come risultato delle colonie illegali e della colonizzazione di quanto rimane della Palestina; sul soffocante dominio nella Gerusalemme occupata; sull’ingiustizia dell’assedio a Gaza; sulle guerre unilaterali contro la Striscia di Gaza che hanno ucciso più di 4.000 persone, per la maggior parte civili, nel corso di sette anni – e molto altro.

Il professor Nashaat al-Aqtash dell’università di Birzeit, forse più realisticamente, ha ridotto ulteriormente le speranze. “Se potessimo anche solo essere d’accordo su come presentare la narrazione riguardo ad Al-Quds (Gerusalemme) e alle colonie illegali, almeno sarebbe un inizio,” ha detto.

Il fatto ovvio è che i palestinesi hanno più cose in comune di quante ne vorrebbero ammettere. Sono stati vittime delle stesse circostanze, lottato contro la stessa occupazione, sofferto le stesse violazioni dei diritti umani e devono affrontare le stesse conseguenze future determinate dallo stesso conflitto. Tuttavia, molti sono stranamente incapaci di liberarsi dalle loro affiliazioni di fazione, di carattere tribale.

Naturalmente non c’è niente di male nell’avere orientamenti ideologici e nell’appoggiare un partito politico piuttosto che un altro. Tuttavia ciò determina una crisi morale quando le affiliazioni di parte diventano più forti di quelle con la lotta collettiva e nazionale per la libertà. Tristemente, molti sono ancora intrappolati in questa logica.

Ma le cose stanno anche cambiando; succede sempre. Dopo oltre due decenni di fallimenti del cosiddetto “processo di pace” e il rapido incremento della colonizzazione dei territori occupati, oltre all’estrema violenza utilizzata per raggiungere questi risultati, molti palestinesi si stanno finalmente rendendo conto di questi tristi fatti. Non ci può essere libertà per il popolo palestinese senza unità e senza resistenza.

Resistenza non deve necessariamente significare un fucile e un coltello, ma piuttosto l’utilizzazione delle energie di una nazione, in patria e nella “shatat” (diaspora), insieme alla mobilitazione delle comunità in tutto il mondo a favore della giustizia e della pace. Ci dev’essere al più presto un movimento in cui i palestinesi dichiarino una lotta globale contro l’apartheid, coinvolgendo tutti i palestinesi, la loro dirigenza, le fazioni, la società civile e le comunità ovunque. Devono parlare con una sola voce, dichiarare un solo obiettivo e formulare le stesse richieste, continuamente.

E’ sconcertante rendersi conto che una nazione così offesa per tanto tempo sia stata così incompresa, mentre i responsabili sono largamente assolti e visti come vittime. A un certo punto, alla fine degli anni ’50, il primo ministro israeliano David Ben Gurion si è reso conto della necessità di unificare la narrazione sionista riguardo alla conquista ed alla pulizia etnica della Palestina.

Secondo le rivelazioni del giornale israeliano” Haaretz”, Ben Gurion temeva che la crisi dei rifugiati palestinesi non si sarebbe risolta senza un sistematico messaggio israeliano secondo cui i palestinesi avevano abbandonato la loro terra di loro spontanea volontà, seguendo le direttive di vari governi arabi.

Naturalmente anche questo era un’invenzione, ma molte supposte verità nascono da una sola menzogna. Egli diede incarico ad un gruppo di accademici di presentare la storia assolutamente falsificata, ma coerente, sull’esodo dei palestinesi. Il risultato fu il documento Doc GL-18/17028 del 1961. Quel documento, da allora, è servito come pietra angolare dell’ “hasbarà” israeliana relativa alla pulizia etnica della Palestina. I palestinesi se ne andarono e non furono cacciati, era il punto cruciale del messaggio. Israele ha continuato a ripetere questa menzogna per oltre 55 anni e, ovviamente, molti gli hanno creduto.

Finché solo recentemente, grazie agli sforzi di un crescente gruppo di storici palestinesi – e di coraggiosi israeliani – che hanno smentito la propaganda, una narrazione palestinese sta prendendo forma, benché molto ci sia ancora da fare per controbilanciare il danno che è già stato fatto.

Infatti, una reale vittoria della verità ci sarà soltanto quando la narrazione palestinese non sarà più vista come una “contro-narrazione”, ma come una legittima storia autonoma, libera dai limiti di un atteggiamento difensivo e dal peso di una storia carica di menzogne e di mezze verità.

L’unico modo in cui lo vedo realizzabile è quando gli intellettuali palestinesi dedicano più tempo e sforzi nello studio e nel racconto di una “storia popolare” della Palestina, che possa finalmente umanizzare il popolo palestinese e sfidare la percezione polarizzata dei palestinesi come terroristi o eterne vittime. Quando la persona comune diventa il centro nella storia, i risultati sono più pregnanti, efficaci e incisivi.

La stessa logica può essere applicata anche al giornalismo. Oltre a trovare le loro vicende comuni, i giornalisti palestinesi devono raggiungere il mondo intero, non solo il loro tradizionale circolo di amici e sostenitori affezionati, ma la società nel suo complesso. Se la gente comprende veramente la verità, soprattutto da un punto di vista umano, non può certo appoggiare il genocidio e la pulizia etnica.

E con “il mondo intero” non mi riferisco certo a Londra, Parigi e New York, ma all’Africa, al Sud America, all’Asia e a tutto il Sud del mondo. Le nazioni di quell’emisfero possono comprendere pienamente la sofferenza e l’ingiustizia dell’occupazione militare, della colonizzazione, dell’imperialismo e dell’apartheid. Temo che l’importanza attribuita alla necessità di contrastare la “hasbarà” israeliana in Occidente abbia portato a destinare una sproporzionata quantità di risorse ed energie in pochi luoghi, ignorando al contempo il resto del mondo, il cui appoggio è stato a lungo la spina dorsale della solidarietà internazionale. Non deve essere data per scontata.

Tuttavia la buona notizia è che i palestinesi hanno fatto notevoli progressi nella giusta direzione, benché senza il riconoscimento della dirigenza palestinese. La cosa fondamentale ora è la capacità di unificare, dare forma e costruire sugli sforzi esistenti in modo che tale crescente solidarietà si trasformi in un grande successo nel suscitare una consapevolezza globale e rendere Israele responsabile dell’occupazione e della violazione dei diritti umani.

Ramzy Baroud è un editorialista di fama internazionale, scrittore e fondatore di PalestineChronicle.com. Il suo ultimo libro è “Mio padre era un combattente per la libertà: la storia non raccontata di Gaza.”

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’agenzia Ma’an News.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA sulla settimana 17- 23 maggio 2016

Una 17enne palestinese è stata uccisa dalla polizia di frontiera israeliana mentre si avvicinava al checkpoint di Beit Iksa, a nord di Gerusalemme. Secondo i media israeliani, prima di essere colpita, la ragazza aveva sollevato un coltello e non aveva rispettato l’ordine di fermarsi.

Non sono stati segnalati feriti tra le forze israeliane. Dall’inizio del 2016, nel corso di aggressioni e presunte aggressioni, le forze israeliane hanno ucciso 52 palestinesi sospetti aggressori, mentre, nel corso dell’ultimo trimestre del 2015, ne furono uccisi 89. Le circostanze di molti episodi hanno creato preoccupazione per l’uso eccessivo della forza.

Le autorità israeliane hanno restituito alle loro famiglie i cadaveri di cinque palestinesi, sospettati di aver perpetrato attacchi contro israeliani. Vengono tuttora trattenuti i corpi di altri nove palestinesi. Il 24 maggio, le autorità israeliane hanno comunicato che avrebbero sospeso la consegna dei cadaveri, a causa di un episodio di presunta violazione delle condizioni concordate per lo svolgimento dei funerali.

In Cisgiordania almeno 49 palestinesi, tra cui quattro minori e una donna, sono stati feriti dalle forze israeliane, in prevalenza durante scontri; la maggior parte dei ferimenti si sono verificati durante le manifestazioni per commemorare il 68° anniversario di quello che, in riferimento ai fatti del 1948, i palestinesi definiscono “Al-Nakba” [la Catastrofe]: in particolare ad Al ‘Eizariya e Silwan (Gerusalemme) e a Ni’lin (Ramallah). Altri feriti si sono avuti nelle manifestazioni settimanali a Kafr Qaddum (Qalqiliya); a Deir Isitya (Salfit), durante una protesta contro la recinzione di una strada principale che impedisce l’accesso alla terra e durante alcune delle 82 operazioni di ricerca-arresto svoltesi nella settimana. Il lancio di lacrimogeni in uno degli scontri verificatisi nel campo profughi di Al Fawwar (Hebron) ha appiccato il fuoco e bruciato 45 ulivi e viti. A Gaza, durante le manifestazioni presso la recinzione, due palestinesi sono stati feriti con armi da fuoco.

Nella Striscia di Gaza, in almeno 13 occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco nelle Aree ad Accesso Riservato (ARA) lungo la recinzione perimetrale e in mare. In uno di questi casi un contadino è stato ferito, mentre dieci pescatori, tra cui un minore, sono stati costretti a togliersi i vestiti e nuotare verso le imbarcazioni delle forze navali israeliane, dove sono stati arrestati. Pur mancando una comunicazione ufficiale o una delimitazione, le aree fino a 300 metri dalla recinzione perimetrale sono considerate zone “vietate”, fatta eccezione per gli agricoltori che possono avvicinarsi fino a 100 metri; tuttavia fino a 1.000 metri le aree sono considerate ad alto rischio, e ciò ne scoraggia la coltivazione.

Il 22 maggio, le autorità israeliane hanno annunciato la revoca del divieto di importazione di cemento per il settore privato nella Striscia di Gaza. Il divieto, in vigore dal 3 aprile 2016, era motivato dalla preoccupazione israeliana per il possibile dirottamento di materiali da costruzione verso gruppi armati e dalla scoperta di un tunnel sotterraneo sotto il confine tra Gaza ed Israele.

Le forze israeliane hanno bloccato temporaneamente due delle strade principali per il villaggio Hizma (Gerusalemme), impedendo l’accesso veicolare a circa 7.000 persone. Ciò ha fatto seguito alla esplosione, verificatasi la settimana precedente al checkpoint di Hizma (che controlla l’accesso a Gerusalemme Est), di un ordigno artigianale che ferì un soldato.

A Gerusalemme Est, per mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, le autorità israeliane hanno demolito tre case palestinesi ed un locale per la preghiera, sfollando 26 persone, tra cui nove minori, e coinvolgendone altre otto. Dall’inizio del 2016, a Gerusalemme Est sono state demolite 72 strutture (di cui tre per motivi punitivi), rispetto alle 79 dell’intero anno 2015.

Il 18 maggio, un tribunale israeliano si è pronunciato a favore di una organizzazione di coloni che rivendicava la proprietà di tre appartamenti e due negozi nella zona di Sheikh Jarrah di Gerusalemme Est, ordinandone lo sgombero entro il 10 giugno 2016. Quattro famiglie sono a rischio imminente di sfollamento. A Gerusalemme Est, la creazione di insediamenti israeliani nel cuore dei quartieri palestinesi ha inasprito le tensioni e compromesso le condizioni di vita dei palestinesi residenti.

Nella zona H2 della città di Hebron, sotto controllo israeliano, un gruppo di coloni israeliani è entrato in una casa palestinese ed ha aggredito fisicamente e ferito un 16enne palestinese e suo padre. Le forze israeliane sono intervenute e, in base alle affermazioni dei coloni israeliani che sostenevano di essere stati antecedentemente aggrediti dai due, hanno arrestato il ragazzo e suo padre.

Secondo i media israeliani, un bus israeliano che transitava vicino al villaggio di Tuqu ‘(Betlemme) e la metropolitana leggera di Gerusalemme hanno subito danni: il primo per uno sparo e la seconda per il lancio di una bottiglia, presumibilmente ad opera di palestinesi.

Durante il periodo di riferimento il valico di Rafah è stato chiuso sul lato egiziano. L’ultima volta è stato aperto l’11 e il 12 maggio, dopo 85 giorni consecutivi di chiusura. Secondo le autorità palestinesi, almeno 30.000 persone, di cui circa 9.500 malati e 2.700 studenti, sono registrate e in attesa di attraversare. Dall’inizio del 2016, le autorità egiziane hanno aperto il valico di Rafah solo per cinque giorni su 144.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati settimanalmente in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informazio-ni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: http://www.ochaopt.org/reports.aspx?id=104&page=1

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

sono scaricabili dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it; Web: https://sites.google.com/site/assopacerivoli




Io c’ero

di Uri Avnery

21 maggio, 2016  Gush Shalom

“Per favore non scrivere di Ya’ir Golan!”, mi ha pregato un amico. “Qualunque cosa scriva uno di sinistra come te non farà che danneggiarlo!”

Così per alcune settimane ho evitato di farlo. Ma non posso tacere oltre.

Il Generale Ya’ir Golan, vice Capo di Stato Maggiore dell’esercito israeliano, ha tenuto un discorso in occasione del Giorno della Memoria dell’Olocausto. Indossando la sua uniforme, ha letto un testo preparato in anticipo e ben ponderato, che ha provocato uno scalpore non ancora sopito.

Decine di articoli sono stati pubblicati su di lui, alcuni di condanna, altri di lode. A quanto pare, nessuno ha potuto rimanere indifferente.

La frase principale è stata: “Se qualcosa mi terrorizza della memoria dell’Olocausto, è la consapevolezza dei terribili sviluppi verificatisi in generale in Europa, e particolarmente in Germania, 70, 80, 90 anni fa, e il ritrovarne traccia qui in mezzo a noi, oggi, nel 2016.”

Si è scatenato l’inferno. Come!!! Tracce di nazismo in Israele? Un paragone tra ciò che i nazisti hanno fatto a noi e ciò che noi stiamo facendo ai palestinesi?

Novant’ anni fa era il 1926, uno degli ultimi anni della repubblica tedesca. Ottant’ anni fa era il 1936, tre anni dopo l’ascesa al potere del nazismo. Settant’ anni fa era il 1946, all’indomani del suicidio di Hitler e della fine del Reich nazista.

Dopo tutto mi sento obbligato a scrivere riguardo al discorso del generale, perché io c’ero.

Da bambino sono stato testimone degli ultimi anni della Repubblica di Weimar (così chiamata perché la sua costituzione è stata stilata a Weimar, la città di Goethe e Schiller). In quanto ragazzo interessato alla politica, ho assistito alla Machtergreifung (“presa del potere”) nazista ed ai primi sei mesi di governo nazista.

So di che cosa parlava Golan. Benché apparteniamo a due differenti generazioni, condividiamo lo stesso background. Entrambe le nostre famiglie provengono da piccole cittadine della Germania occidentale. Suo padre ed io probabilmente abbiamo avuto molte cose in comune.

C’è un rigido precetto in Israele: nulla può essere paragonato all’Olocausto. L’Olocausto è unico. E’ successo a noi, gli ebrei, poiché noi siamo unici. (Gli ebrei religiosi aggiungerebbero: “Perché Dio ci ha prescelti”.)

Ho infranto quel precetto. Appena prima che Golan nascesse, ho pubblicato (in ebraico) un libro intitolato “La svastica”, in cui raccontavo i miei ricordi d’infanzia e cercavo di trarre da essi delle conclusioni. Era la vigilia del processo ad Eichmann ed io ero sconvolto dalla scarsa conoscenza riguardo al periodo nazista tra i giovani israeliani di allora.

Il mio libro non si occupava dell’Olocausto, che avvenne quando io ormai vivevo in Palestina, ma di una questione che mi ha turbato attraverso gli anni ed ancora oggi: come è potuto accadere che la Germania, forse la nazione più colta al mondo a quel tempo, la patria di Goethe, Beethoven e Kant, abbia eletto democraticamente come leader uno psicopatico delirante come Adolf Hitler?

L’ultimo capitolo del libro si intitolava “Può succedere qui!” Il titolo era preso da un libro dello scrittore americano Sinclair Lewis, intitolato ironicamente “Non può succedere qui”, in cui descriveva una ascesa nazista negli Stati Uniti.

In quel capitolo disquisivo sulla possibilità che un partito ebraico di tipo nazista arrivasse al potere in Israele. La mia conclusione era che un partito nazista può arrivare al potere in qualunque paese del mondo, se vi sono le condizioni giuste. Sì, anche in Israele.

Il libro fu ampiamente ignorato dal pubblico israeliano, che a quell’epoca era travolto dalla tempesta emotiva provocata dalle tremende rivelazioni del processo Eichmann.

Adesso arriva il generale Golan, uno stimato militare professionista, e dice le stesse cose.

E non con una considerazione estemporanea, ma in un’occasione ufficiale, indossando la sua uniforme di generale, leggendo un testo preparato e ponderato.

La tempesta è scoppiata, e non si è ancora calmata.

Gli israeliani hanno un atteggiamento autoprotettivo: quando si trovano di fronte a verità scomode, evitano di affrontare l’essenziale e si occupano di aspetti secondari e irrilevanti. Tra le decine e decine di reazioni sulla stampa, in televisione e sulle piattaforme politiche, quasi nessuna si è confrontata con la dolente opinione del generale.

No, l’accesa discussione che si è scatenata verte sulle seguenti questioni: è consentito ad un militare di alto grado dell’esercito esprimere un’opinione su questioni riguardanti l’istituzione civile? E farlo in uniforme militare? In un’occasione ufficiale?

Un ufficiale dell’esercito dovrebbe tacere le proprie convinzioni politiche? O esprimerle soltanto a porte chiuse – “in sedi appropriate”, come ha detto un furioso Benyamin Netanyahu?

Il Generale Golan gode di altissimo rispetto nell’esercito. Come vice capo di Stato Maggiore era finora quasi sicuramente candidato a capo di Stato Maggiore, quando il titolare lascerà la carica dopo i consueti quattro anni.

L’avverarsi di questo sogno, condiviso da ogni generale dello Stato Maggiore è ora molto lontano. Praticamente Golan ha sacrificato la sua prossima promozione per estrinsecare il suo allarme e dargli la più ampia risonanza.

Si può solo aver rispetto per un tale coraggio. Credo di non aver mai incontrato il generale Golan e non conosco le sue opinioni politiche. Però ammiro il suo gesto.

(In certo modo mi torna alla mente un articolo pubblicato dalla rivista inglese Punch prima della prima guerra mondiale, quando un gruppo di giovani ufficiali dell’esercito fece una dichiarazione contro la politica del governo in Irlanda. La rivista disse che, pur disapprovando l’opinione espressa dagli ufficiali ribelli, era orgogliosa del fatto che ufficiali così giovani fossero pronti a sacrificare la loro carriera per le proprie convinzioni.)

La marcia nazista verso il potere iniziò nel 1929, quando la Germania fu colpita dalla terribile crisi economica mondiale. Un minuscolo e irrisorio partito di estrema destra diventò una forza politica con cui fare i conti. Da allora in quattro anni divenne il più grande partito del paese e prese il potere (anche se ancora aveva bisogno di governare insieme ad altri partiti).

Io c’ero quando ciò accadde, un ragazzo di una famiglia nella quale la politica diventò il principale argomento a cena. Ho visto quando la repubblica è crollata, gradualmente, lentamente, passo dopo passo. Ho visto i nostri amici di famiglia sventolare la bandiera con la svastica. Ho visto il mio insegnante delle superiori alzare il braccio entrando in classe e dire “Heil Hitler” per la prima volta (per poi rassicurarmi in privato che niente era cambiato).

Ero l’unico ebreo in tutto il ginnasio (scuola superiore). Quando le centinaia di ragazzi – tutti più alti di me – alzarono le braccia e cantarono l’inno nazista, ed io non lo feci, mi minacciarono di rompermi le ossa se fosse successo nuovamente. Pochi giorni dopo lasciammo la Germania per sempre.

Il Generale Golan è stato accusato di paragonare Israele alla Germania nazista. Nulla del genere. Un’attenta lettura del suo discorso dimostra che ha paragonato gli sviluppi in Israele agli eventi che condussero alla disintegrazione della Repubblica di Weimar. E questo è un paragone fondato.

I fatti che accadono in Israele, soprattutto dopo le ultime elezioni, assomigliano paurosamente a quegli eventi. Certo, il contesto è totalmente diverso. Il fascismo tedesco nacque dall’umiliazione della resa nella prima guerra mondiale, dell’occupazione della Ruhr da parte di Francia e Belgio dal 1923 al 1925, dalla tremenda crisi economica del 1929, dalla miseria di milioni di disoccupati. Israele riporta la vittoria nelle sue numerose azioni militari, noi viviamo una vita agiata. I pericoli che ci minacciano sono di natura del tutto differente. Derivano dalle nostre vittorie, non dalle nostre sconfitte.

Certo, le differenze tra l’Israele di oggi e la Germania di allora sono molto più grandi delle similitudini. Ma queste similitudini esistono, e il generale ha fatto bene a segnalarle.

La discriminazione nei confronti dei palestinesi praticamente in tutte le sfere della vita può essere paragonata al trattamento degli ebrei nel primo periodo della Germania nazista. (L’oppressione dei palestinesi nei territori occupati ricorda di più il trattamento dei cechi nel “protettorato” dopo il tradimento di Monaco [cioé l’accettazione da parte di Francia e Gran Bretagna dell’occupazione della Cecoslovacchia da parte dei nazisti, ndt.].)

Il diluvio di leggi razziste alla Knesset (Parlamento israeliano), quelle già adottate e quelle in itinere, richiama fortemente le leggi adottate dal Reichstag nei primi giorni del regime nazista. Alcuni rabbini invitano al boicottaggio dei negozi arabi. Come allora. Il grido “Morte agli arabi” (“Judah verrecke”?) si sente sistematicamente durante le partite di calcio. Un membro del parlamento ha auspicato la separazione tra neonati ebrei ed arabi negli ospedali. Un capo rabbino ha dichiarato che i goyim (i non ebrei) sono stati creati da Dio per servire gli ebrei. I nostri ministri dell’educazione e della cultura sono impegnati a sottomettere scuole, teatri ed arti alla linea di estrema destra, cosa che era conosciuta in Germania come “Gleichschaltung”. La Corte Suprema, il vanto di Israele, viene attaccata senza sosta dal ministro della giustizia. La Striscia di Gaza è un enorme ghetto.

Ovviamente nessuno sano di mente potrebbe paragonare neanche lontanamente Netanyahu al Fuhrer, ma qui ci sono partiti politici che emanano un forte odore di fascismo. La marmaglia politica che occupa l’attuale governo Netanyahu avrebbe facilmente trovato posto nel primo governo nazista. 

Uno dei principali slogan del nostro attuale governo è sostituire la “vecchia dirigenza”, considerata troppo liberale, con una nuova. Uno dei principali slogan nazisti era sostituire “das System”.

Tra l’altro, quando i nazisti arrivarono al potere, quasi tutti gli ufficiali di alto grado dell’esercito tedesco erano convinti antinazisti. Presero anche in considerazione un putsch contro Hitler. Il loro leader politico fu giustiziato sommariamente un anno dopo, quando Hitler liquidò i suoi oppositori nel suo stesso partito. Ci viene detto che il generale Golan è ora protetto da una guardia del corpo personale, cosa mai accaduta ad un generale nella storia di Israele.

Il generale non ha menzionato l’occupazione e le colonie, che sono sotto il controllo dell’esercito. Ma ha ricordato l’episodio avvenuto poco prima che lui tenesse il suo discorso, e che sta ancora scuotendo Israele: nella Hebron occupata, sotto controllo dell’esercito, un soldato ha visto un palestinese gravemente ferito che giaceva senza aiuto a terra, si è avvicinato e lo ha ucciso con un colpo alla testa. La vittima aveva tentato di assalire alcuni soldati con un coltello, ma non costituiva più una minaccia per nessuno. Si è trattato di una chiara trasgressione agli ordini vigenti nell’esercito, ed il soldato è stato trascinato di fronte alla corte marziale.

Si è alzato un grido in tutto il paese: il soldato è un eroe! Dovrebbe essere decorato! Netanyahu ha telefonato a suo padre per assicurargli il suo appoggio. Avigdor Lieberman [leader di un partito ultranazionalista, ndt.] è entrato nell’affollata aula del tribunale per esprimere la propria solidarietà al soldato. Pochi giorni dopo Netanyahu ha nominato Lieberman ministro della difesa, il secondo più importante incarico in Israele.

Prima di ciò, il Generale Golan ha ricevuto un forte appoggio da parte del ministro della difesa, Moshe Ya’alon e del Capo di Stato Maggiore, Gadi Eisenkot. Probabilmente è stata questa la ragione immediata della revoca di Ya’alon e della nomina di Lieberman al suo posto. Assomiglia ad un putsch.

Sembra che Golan non sia solo un ufficiale coraggioso, ma anche un profeta. L’inserimento del partito di Lieberman nella coalizione di governo conferma i più neri timori di Golan. E’ un altro colpo fatale alla democrazia di Israele.

Sarò condannato ad assistere agli stessi sviluppi per la seconda volta nella mia vita?

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Le radici del conflitto:la Nakba palestinese come parte della più vasta “catastrofe” araba

16 maggio, 2016, Maan News

di Ramzy Baroud

Negli ultimi 68 anni, ogni 15 maggio, i palestinesi commemorano il loro esilio collettivo dalla Palestina . La pulizia etnica della Palestina per fare spazio a una ‘patria ebraica’ è avvenuta a prezzo di una implacabile violenza e di una continua sofferenza. I palestinesi fanno riferimento a questa esperienza che dura tuttora come”Nakba” o “Catastrofe”.

Tuttavia, la ‘Nakba’ non è semplicemente un caso palestinese, ma è anche una ferita araba che continua a sanguinare.

La “Nakba” araba è stata precisamente l’accordo Sykes-Picot del 1916, che ha suddiviso gran parte del mondo arabo tra le potenze occidentali in competizione tra loro. Un anno dopo, la Palestina è stata rimossa del tutto dalla questione araba e “promessa” al movimento sionista in Europa, dando luogo ad uno dei conflitti più duraturi della storia moderna.

Come è potuto accadere?

Quando il diplomatico britannico, Mark Sykes, all’età di 39 anni è deceduto a causa dell’epidemia di spagnola, nel 1919, un altro diplomatico, Harold Nicolson, ha descritto la sua influenza sulla regione mediorientale in questo modo:

“E’stato a causa del suo indefesso impulso e della sua perseveranza, del suo entusiasmo e della sua fede, che il nazionalismo arabo e il sionismo sono diventati due delle nostre cause di guerra di maggior successo.

“Retrospettivamente sappiamo che Nicolson ha parlato troppo presto. La caratteristica del”nazionalismo arabo” cui si riferiva nel 1919 era fondamentalmente diversa dai movimenti nazionalisti che hanno fatto presa in diversi paesi arabi negli anni ’50 e ’60. Lo slogan del nazionalismo arabo negli anni successivi fu la liberazione e l’indipendenza dal colonialismo occidentale e dai suoi alleati locali.

Il contributo di Sykes all’avvento del sionismo non ha nemmeno prodotto una maggiore stabilità. Dal 1948, il sionismo e il nazionalismo arabo sono stati in costante conflitto, provocando deprecabili guerre ed altrettanto continui spargimenti di sangue.

Tuttavia, il contributo duraturo di Sykes per la regione araba è stato il suo ruolo di primo piano nella firma dell’accordo Sykes – Picot noto anche come l’ accordo dell’Asia Minore, un centinaio di anni fa. Quel trattato infame tra la Gran Bretagna e la Francia, che è stato negoziato con il consenso della Russia, ha plasmato la geopolitica del Medio Oriente per un intero secolo.

Nel corso degli anni, le sfide allo status quo imposto dall’ [accordo] Sykes -Picot non sono riuscite a modificare radicalmente i confini arbitrariamente disegnati che dividevano gli arabi in “sfere di influenza” amministrate e controllate dalle potenze occidentali.

Eppure, la persistente eredità [dell’accordo] Sykes – Picot potrebbe eventualmente essere messa in dubbio sotto la pressione delle nuove violente circostanze, con il recente avvento di’Daesh’ e la creazione di una sua propria versione di confini altrettanto arbitrari che comprendono ampie zone della Siria e dell’Iraq, come nel 2014, in concomitanza con l’attuale discussione sulla divisione della Siria in una federazione.

Perché l’accordo Sykes Picot?

L’accordo Sykes-Pycot è stato firmato in conseguenza dei violenti avvenimenti che coinvolsero in quegli anni la maggior parte dell’Europa, dell’Asia, dell’Africa e del Medio Oriente.

Tutto è iniziato quando, nel mese di luglio del 1914, è scoppiata la prima guerra mondiale. L’Impero Ottomano immediatamente ha preso parte alla guerra, schierandosi con la Germania, in parte perché era consapevole del fatto che gli alleati – costituiti principalmente dalla Gran Bretagna, Francia e Russia – avevano l’ambizione di prendere il controllo di tutti i territori ottomani, che includevano anche le regioni arabe della Siria, della Mesopotamia, dell’Arabia, dell’Egitto e del Nord Africa.

Nel novembre del 1915 la Gran Bretagna e la Francia hanno avviato seriamente i negoziati, con lo scopo di dividere l’eredità territoriale dell’Impero ottomano nell’eventualità di una conclusione a loro favore della guerra.

Così, una mappa, disegnata con delle linee rette usando una matita Chinagraph, ha condizionato in gran parte il destino degli arabi, dividendoli in base alle varie ipotesi di appartenenze tribali e di confessioni religiose prese a casaccio.

La divisione del bottino

Mark Sykes è stato il negoziatore per conto della Gran Bretagna e François Georges Picot il rappresentante della Francia. I diplomatici convennero che, una volta che gli ottomani fossero stati sonoramente sconfitti, la Francia avrebbe ricevuto le zone contrassegnate con una (a), che comprendevano la regione del sud- est della Turchia, il nord dell’Iraq, la maggior parte della Siria e il Libano.

L’area ( b) è stata contrassegnata come territori sotto il controllo britannico, che includevano la Giordania, l’Iraq meridionale, Haifa e Acri in Palestina, e la fascia costiera tra il Mare Mediterraneo e il fiume Giordano .

Alla Russia, d’altra parte, sarebbero stati concessi Istanbul, l’Armenia e gli strategici stretti turchi.

L’improvvisata mappa consisteva non solo di linee, ma anche di colori, insieme a un linguaggio attestante il fatto che i due paesi consideravano la regione araba in termini puramente convenzionali, senza prestare la minima attenzione alle possibili ripercussioni del fatto di tagliare a fette intere civiltà aventi una multiforme storia di cooperazione e di conflitto.

L’eredità del tradimento

La prima guerra mondiale terminò l’11 novembre 1918, dopo di che ebbe inizio sul serio la divisione dell’Impero Ottomano .

Gli inglesi e i francesi estesero i [loro] mandati su entità arabe divise, mentre al movimento sionista venne concessa la Palestina, su cui tre decenni più tardi venne formato uno Stato ebraico .

L’accordo, che è stato accuratamente progettato per soddisfare gli interessi coloniali occidentali, ha lasciato dietro di sé un’eredità di divisioni, tensioni e guerre.

Mentre lo status quo ha creato una stabile egemonia dei paesi occidentali sul destino del Medio Oriente, non è riuscito invece a garantire un qualche grado di stabilità politica o a creare un sistema di uguaglianza economica.

L’accordo Sykes – Picot è stato siglato segretamente per un motivo preciso: era completamente in contrasto con le promesse fatte agli arabi durante la Grande Guerra. Alla leadership araba, sotto il comando di Sharif Hussein, era stata promessa, in cambio dell’aiuto agli alleati contro gli ottomani, la completa indipendenza dopo la guerra.

Ai paesi arabi ci sono voluti molti anni e successive ribellioni per ottenere la loro indipendenza. Il conflitto tra gli arabi e le potenze coloniali ha determinato l’ascesa del nazionalismo arabo, che è sorto nel bel mezzo di contesti estremamente violenti e ostili, o più precisamente, come un loro risultato.

Il nazionalismo arabo potrebbe essere riuscito a mantenere una parvenza d’identità araba, ma è fallito nel produrre una risposta valida e unitaria al colonialismo occidentale.

Quando la Palestina – che fu promessa già nel novembre del 1917 [la dichiarazione Balfour, ndt] dalla Gran Bretagna come focolare nazionale per gli ebrei- è diventata Israele, ospitando per lo più coloni europei, il destino della regione araba a est del Mediterraneo è stato marchiato come il territorio del conflitto permanente e dell’antagonismo.

È qui, in particolare, che si percepisce soprattutto la terribile eredità dell’accordo Sykes – Picot in tutta la sua violenza, miopia e spregiudicatezza politica.

Cento anni dopo che due diplomatici, un britannico e un francese, hanno diviso gli arabi in sfere di influenza, l’accordo Sykes – Picot rimane una realtà pugnace ma dominante del Medio Oriente.

Dopo cinque anni che la Siria è in preda a una violenta guerra civile, il marchio Sykes – Picot ancora una volta si fa sentire, in quanto la Francia, la Gran Bretagna, la Russia – e ora gli Stati Uniti – stanno prendendo in considerazione quello che il Segretario di Stato americano, John Kerry, ha recentemente definito il ‘ Piano B ‘ – cioè la divisione della Siria sulla base di linee religiose, probabilmente in accordo con una nuova interpretazione occidentale delle “sfere di influenza”.

La mappa Sykes – Picot può anche essere stata un’ idea rozza disegnata frettolosamente nel corso di una guerra globale, ma, da allora, è diventata il principale quadro di riferimento che l’Occidente usa per ridisegnare il mondo arabo e per “controllarlo come desidera e come ritengono eventualmente opportuno.”

La ‘ Nakba ‘ palestinese, pertanto, deve essere intesa come parte integrante dei vasti disegni occidentali sul Medio Oriente di un secolo fa, quando gli arabi erano (e rimangono) divisi e la Palestina era (e rimane ) conquistata .


Ramzy Baroud è un giornalista accreditato a livello internazionale, scrittore e fondatore di Palestine Chronicle.com. Il suo ultimo libro è “Mio padre era un combattente per la libertà: la storia non raccontata di Gaza”


Le opinioni espresse in quest’articolo sono dell’autore e non rispecchiano necessariamente la politica editoriale dell’Agenzia Ma’an News.


(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




“Un popolo, una nazione”: una rappresentazione visiva dell’ignoranza .

Se una qualunque immagine vale mille parole, questa immagine potrebbe valere mille editoriali sul pericoloso declino della democrazia israeliana.

di Asher Schechter, 13 maggio 2016

Haaretz

Mercoledì sono iniziati i festeggiamenti per il 68° Giorno dell’Indipendenza di Israele, con una cerimonia ufficiale sul Monte Herzl a Gerusalemme, che tradizionalmente scandisce il passaggio dal lutto solenne del Giorno della Memoria di Israele all’atmosfera celebrativa dello Yom Ha’atzmaut (Giorno dell’Indipendenza). La cerimonia, il cui tema quest’anno è stato l’ “eroismo civico”, ha rispettato tutte le caratteristiche della tradizione: fuochi d’artificio, discorsi, una cerimonia di accensione della torcia a celebrazione delle imprese di israeliani che hanno dato importanti contributi alla società e portabandiera con diversi colori che formavano i simboli dell’identità nazionale israeliana.

Mentre i soldati passavano da una formazione raffigurante un sacro simbolo ad un’altra – una colomba della pace, una stella di David – a un certo punto hanno formato una frase che avrebbe dovuto sconcertare chiunque avesse una pur minima conoscenza della storia: “un popolo, una nazione.”

E’ una frase che, se la pronunciate in tedesco, in Germania, è più che probabile che veniate arrestati per apologia. Il motivo? E’ più che una piccola reminiscenza di uno slogan in voga proprio di un certo regime tedesco dagli anni ’30. Di fatto, si tratta di una traduzione quasi letterale. La differenza è che, quando i tedeschi hanno originariamente coniato questa frase, essa finiva con le parole “un Fuhrer”.

Per essere chiari, Israele non è affatto simile alla Germania nazista in alcun modo e in alcuna forma. Le persone responsabili di aver inserito l’inquietante frase durante la celebrazione nazionale di Israele probabilmente lo hanno fatto per sbaglio, senza alcuna conoscenza del suo precedente utilizzo.

Tuttavia, è difficile immaginare una raffigurazione più appropriata dei pericolosi processi che stanno prendendo corpo nella società israeliana – gli stessi processi rispetto a cui il capo di Stato Maggiore dell’esercito israeliano Yair Golan ha messo in guardia la settimana scorsa – e dell’ignoranza storica che in vario modo li alimenta, dell’evocazione inconsapevole di uno slogan nazista durante le celebrazioni del Giorno dell’Indipendenza di Israele.

Nel respingere risolutamente ogni similitudine tra la frase e lo slogan nazista, la ministra della Cultura Miri Regev (che era la responsabile della cerimonia) in qualche modo è riuscito a peggiorare le cose: “La frase ‘un popolo, una nazione’ è un’espressione della giusta aspirazione del movimento sionista fin dal suo inizio: stabilire uno Stato ebraico.” Le similitudini, nondimeno, ci sono, chiare come il sole. Ciò che ha fatto Regev è ciò che le destre fanno sempre: contrastare le critiche alle loro azioni confondendole con l’antisemitismo. Questa impresa è un po’ più ardua da compiere quando si difende l’ utilizzo di uno slogan nazista invece di ammettere semplicemente il proprio errore.

Anche in assenza di scomodi riferimenti storici, la frase “un popolo, una nazione” è molto sconcertante. Un popolo? Il 20% dei cittadini di Israele sono palestinesi. Se Israele include solo “un popolo”, che ne è del gruppo etnico che costituisce un quinto della sua popolazione? E già che ci siamo, che ne è delle altre minoranze etniche, come i drusi e i beduini? Che ruolo hanno in questa “unica nazione”?

La frase “un popolo, una nazione” è l’ultimo degli incessanti tentativi di Israele di negare l’esistenza dei suoi cittadini arabi. Due anni fa, quando l’Autorità israeliana per la popolazione, l’immigrazione e le frontiere (PIBA) pubblicò l’annuale elenco dei nomi di battesimo più popolari in Israele, risultarono in testa i nomi ebraici Yosef, Daniel e Uri, anche se in seguito si scoprì che il più popolare nome di battesimo è in realtà Mohammad (un nome che, come ogni altro nome arabo, non era neppure inserito nella classifica dei primi dieci).

Il mese scorso un sondaggio condotto dal giornale israeliano “Hayom” ha rilevato che il 48% dei ragazzi ebrei israeliani ritiene che gli arabi israeliani non debbano essere ammessi a candidarsi alle elezioni. Un mese prima, un sondaggio del “Pew Research Center” ha mostrato che il 48% degli ebrei israeliani pensano che gli arabi israeliani dovrebbero essere “trasferiti” o “espulsi”.

“Un popolo, una nazione”, dunque, può essere considerata una dichiarazione di intenti, in un certo senso. I membri arabo-israeliani della Knesset (Parlamento israeliano, ndt.) stanno già lottando contro proposte di legge miranti a privare del diritto di voto gli arabi israeliani, come la “legge di sospensione”, che consente ai deputati di sospendere altri parlamentari dalla Knesset con un voto di maggioranza di 90 membri. Questo progetto di legge è passato in prima lettura a marzo.

L’esclusione e la persecuzione degli arabo- israeliani erano un tempo il lato nascosto del sistema politico e giuridico di Israele. Fatti che esistevano, ma che venivano negati. “Un popolo, una nazione” li porta alla luce nel modo più esplicito che si possa immaginare: celebrandoli insieme a simboli nazionali come il calendario a sette bracci e la colomba della pace.

Ma neanche il riferimento storico, pur inconsapevole, dovrebbe essere sottovalutato. La sua tempistica, una settimana dopo che Golan è stato “rimproverato” per aver “ridimensionato” l’Olocausto poiché aveva paragonato certe tendenze nella società israeliana del 2016 ai “terribili sviluppi” verificatisi in Germania decenni fa, non potrebbe essere più premonitrice. Quando Golan ha messo in guardia sui pericoli di tendenze sociali come “intolleranza, violenza, autodistruzione e decadimento morale”, tendenze spesso collegate alla nascita del nazismo in Germania, era di questo che probabilmente voleva parlare.

Non è la prima volta che la foga antidemocratica di Israele ha inavvertitamente imitato le parole di illustri anti-semiti. L’anno scorso Benjamin Netanyahu è riuscito ad ottenere la rielezione mettendo in guardia gli elettori del Likud sul fatto che “gli arabi si stanno precipitando ai seggi in massa”. Come riportato da Gilad Halpern sulla rivista +972 di questa settimana, quelle risultano essere esattamente le stesse identiche parole riferite agli ebrei nella Polonia dei primi anni del Ventesimo Secolo.

Benjamin Netanyahu è un appassionato studioso di storia ebraica, ma è sicuramente possibile che non fosse a conoscenza di questa poco nota citazione, rintracciata dal professor Yaacov Shavit dell’università di Tel Aviv tra gli scritti di Ze’ev Jabotinsky (scrittore e leader della destra sionista, principale riferimento ideologico di Netanyahu, ndt.). Neppure coloro che hanno piazzato la frase “un popolo, una nazione” nel bel mezzo della cerimonia del Giorno dell’Indipendenza di Israele, molto probabilmente ne sapevano di più.

E proprio questa può essere la cosa peggiore a proposito di tutto ciò. In fin dei conti, le società non fanno semplicemente una scelta razionale ed informata per diventare antidemocratiche. Molte volte, questa direzione è ampiamente guidata dall’ignoranza della storia.

Gli israeliani imparano molte cose a scuola a proposito dell’Olocausto. Da adulti, sono circondati dalla sua memoria. Ma gran parte di questa memoria è incentrata sulla vittimizzazione degli ebrei, su una narrazione che radica gli orrori del nazismo nelle tradizioni antisemite. Se questo è vero, ciò che manca è il ricordo dell’intolleranza, della violenza, del nazionalismo estremista e del degrado morale che condussero quelle tradizioni a manifestarsi con metodi indicibili. Non si trattava solo di “Juden raus!”. Ma anche di “Ein volk, ein reich, ein fuhrer.”

Come recita il vecchio adagio, coloro che non conoscono il passato, sono condannati a ripeterlo. Benché non ci sia alcun rischio che Israele possa mai assomigliare alla Germania nazista, sta però prendendo una strada molto inquietante. Non ci credete? Guardate l’immagine sopra citata. Ora c’è la prova fotografica.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




La condizione dei prigionieri politici palestinesi

dossier prigionieri 2016-4




I diritti dei minori calpestati in Palestina

I DIRITTI DEI MINORI CALPESTATI IN PALESTINA




Rapporto OCHA della settimana 10-16 maggio 2016

A Gerusalemme Est, tre israeliani, tra cui due donne anziane, sono stati feriti con coltelli in due distinte aggressioni. La polizia israeliana ha arrestato il sospetto autore palestinese di una delle aggressioni, mentre, nel secondo caso, i responsabili sono fuggiti.

Al checkpoint di Hizma (Gerusalemme), secondo quanto riferito, un soldato israeliano è stato ferito dall’esplosione di un ordigno; in relazione a questo episodio, sono stati arrestati due palestinesi. Dall’inizio di aprile 2016, è stato registrato un calo significativo, rispetto ai mesi precedenti, nella frequenza di aggressioni palestinesi e presunte aggressioni contro israeliani.

Nei Territori palestinesi occupati, in scontri con le forze israeliane sono rimasti feriti almeno 78 palestinesi, tra cui 32 minori. La maggior parte degli scontri si sono verificati durante le manifestazioni per commemorare il 68° anniversario di quello che, riferendosi al 1948, i palestinesi chiamano “al-Nakba” [la catastrofe]*. Lacrimogeni sparati dalle forze israeliane in due degli scontri hanno appiccato il fuoco e parzialmente bruciato 30 alberi a Kafr Qaddum (Qalqiliya) e parte di una casa a Kafr ad Dik (Salfit).

* nota di Assopace: il 14 maggio 1948 gli ebrei proclamarono unilateralmente la nascita dello Stato di Israele. L’intervento degli Stati Arabi scatenò la prima delle guerre arabo-israeliane. Gli israeliani, vincitori, occuparono parte del territorio destinato dall’ONU ai palestinesi: circa 600.000 ebrei, in fuga dai paesi arabi, trovarono rifugio in Israele mentre circa 750.000 palestinesi fuggirono nei paesi arabi vicini (campi profughi).

In un altro episodio, in cui non ci sono stati scontri, un incendio è scoppiato vicino al villaggio di Beit ‘Awa (Hebron) a seguito del lancio di bengala (razzi illuminanti) da parte delle forze israeliane: sono bruciati circa 25 ettari di terra coltivata ad ulivo. Le circostanze di questo episodio rimangono poco chiare.

In Cisgiordania le forze israeliane hanno condotto 78 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 106 palestinesi; il più alto numero di arresti (31) è stato registrato nel governatorato di Gerusalemme. Due di queste operazioni hanno innescato scontri che hanno provocato il ferimento di quattro palestinesi. Nella Striscia di Gaza, in Aree di mare ad Accesso Riservato, 12 pescatori, tra cui quattro minorenni, sono stati costretti a togliersi i vestiti e nuotare verso imbarcazioni delle forze navali israeliane dove sono stati arrestati.

Le forze israeliane hanno revocato le restrizioni imposte nel novembre 2015 sull’accesso dei palestinesi non residenti ad alcune parti della città di Hebron attraverso due punti di controllo chiave (Container e Gilbert checkpoint); nonostante questa facilitazione, il movimento dei palestinesi all’interno dell’area di insediamento israeliano della città rimane soggetto a forti restrizioni. A Gerusalemme Est, le autorità israeliane hanno vietato a due palestinesi l’accesso alla Moschea di Al Aqsa per due e tre mesi rispettivamente, a motivo del loro coinvolgimento in proteste contro l’ingresso di coloni israeliani nello stesso sito.

L’11 e il 12 maggio, in occasione della Giornata della Commemorazione [dei soldati caduti e delle vittime del terrorismo] e della Giornata dell’Indipendenza di Israele [è lo stesso evento che i palestinesi ricordano come al-Nakba], le autorità israeliane hanno dichiarato una chiusura generale della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, impedendo ai titolari di permesso di accedere ad Israele e a Gerusalemme Est, eccetto casi umanitari urgenti ed alcune altre eccezioni. Tutti i valichi commerciali sono stati chiusi.

Le autorità israeliane hanno consegnato alle loro famiglie i cadaveri di due palestinesi, sospettati di aver perpetrato attacchi contro israeliani. Sono ancora trattenuti i cadaveri di altri 13 palestinesi.

In Area C della Cisgiordania, le autorità israeliane hanno demolito o confiscato 16 strutture di proprietà palestinese per mancanza dei permessi di costruzione. Il 16 maggio, nella comunità beduina palestinese di Jabal al Baba (Gerusalemme), sette container ad uso abitativo, finanziati da donatori, sono stati demoliti ed i materiali per realizzarne altri tre sono stati confiscati. Tale Comunità si trova in una zona destinata [da Israele] all’espansione dell’insediamento colonico di Ma’ale Adumim (il piano E1) ed è una delle 46 comunità beduine nella Cisgiordania centrale a rischio di trasferimento forzato a causa di un piano di “rilocalizzazione” avanzato dalle autorità israeliane. Altri sei strutture di sostentamento sono state demolite nei villaggi di Al Walaja (Betlemme) e Deir al Ghusun (Tulkarem).

Nel corso della settimana sono stati registrati due aggressioni da parte di coloni, con lesioni o danni a palestinesi: nella zona H2 della città di Hebron, una palestinese e sua figlia sono state fisicamente aggredite e ferite da un gruppo di coloni israeliani; in Asfeer (Hebron), un villaggio palestinese situato nella zona chiusa dietro la Barriera, circa 30 coloni hanno vandalizzato la recinzione di una casa e molestato la famiglia, invitandoli a lasciare la zona.

Il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è stato eccezionalmente aperto l’11 e 12 maggio. A fronte di oltre 30.000 persone registrate e in attesa di attraversare, tra cui circa 9.500 malati e 2.700 studenti, è stata consentita l’uscita da Gaza a 739 palestinesi e l’ingresso a 1.220. Questa apertura è avvenuta dopo 85 giorni consecutivi di chiusura – il periodo più lungo dal 2007.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati settimanalmente in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informazio-ni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: http://www.ochaopt.org/reports.aspx?id=104&page=1

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

sono scaricabili dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it; Web: https://sites.google.com/site/assopacerivoli




L’antisionismo è antisemitismo?

The News Arab – Pubblicato il 29 aprile 2016

di

Hilary Aked

Nelle scorse settimane la stampa inglese è stata inondata da affermazioni secondo cui dirigenti della sinistra avrebbero fatto affermazioni antisemite.

In qualche caso sono persino stati fatti commenti apertamente razzisti e sollevati legittimi timori. Ma di fatto altre sono state manifestazioni di anti-sionismo. Le affermazioni di Malia Bouattia, la nuova presidentessa eletta dell’Unione Nazionale degli Studenti del Regno Unito, in assoluto la prima donna di colore a ricoprire questo ruolo, sono forse il più evidente esempio di quest’ultimo caso.

I media hanno dato spazio a quanti sostengono esplicitamente che l’antisemitismo e l’antisionismo sono “la stessa cosa”. Ma questa commistione è pericolosa e sbagliata. Tende a mascherare un movimento politico (il nazionalismo ebraico) con un’identità etnico- religiosa (l’ebraismo). Oltre ad essere analiticamente sbagliato, ciò è anche privo di una base empirica.

L’ideologia sionista presenta varie tendenze, ma tutte le varianti del sionismo politico sono unificate dalla fede nella giustezza di uno Stato nazionale per gli ebrei. Il trattato di Theodor Herzl [il padre del sionismo. Ndtr.] Der Judenstaat [Lo Stato ebraico] del 1896 fornisce una delle più autorevoli dichiarazioni iniziali di questo movimento, che non è esistito da molto più di un secolo e che è stato, per quasi la metà di questo tempo, un movimento politico veramente marginale all’interno delle comunità ebraiche.

Benché oggi sia vero che la maggioranza degli ebrei probabilmente affermi di appoggiare il sionismo, ci sono ancora importanti minoranze che non lo fanno e che non lo hanno mai fatto, per una vasta gamma di ragioni, sia religiose che politiche.

Oltretutto, la generazione più giovane si sta sempre più allontanando dal sionismo persino nelle sue forme teoretiche ed astratte, proprio a causa di quello che il sionismo attualmente esistente – incarnato nel moderno Stato di Israele – sta facendo e che ha continuato a fare in concreto per decenni. Lo testimonia, ad esempio, la recente crescita negli Stati Uniti di “Jewish Voice for Peace” [“Voci ebraiche per la pace”], che appoggia il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) per far pressione su Israele affinché rispetti i diritti dei palestinesi.

In particolare negli Stati Uniti, oggi il movimento politico sionista si fonda in larga misura sul Sionismo cristiano. Come ha concisamente sintetizzato il “Gruppo di Ebrei socialisti” [collettivo di ebrei socialisti nato in Gran Bretagna negli anni ’70. Ndtr.]: non tutti gli ebrei sono sionisti e non tutti i sionisti sono ebrei.

Proprio per aver fatto una distinzione tra Ebraismo e Sionismo, Bouattia è stata accusata da Hannah Weisfeld, del gruppo sionista liberale “Yachad”, di dimostrare una “mancata comprensione dell’identità ebraica”. Si tratta di una versione attenuata della tesi secondo cui i due concetti sono sinonimi. Purtroppo sono invece le affermazioni di Weisfeld che rischiano di fomentare l’antisemitismo, in quanto sembrano implicitamente insinuare che tutto il popolo ebraico è in qualche modo intrinsecamente legato alle azioni oppressive di Israele.

Questo concetto è stato in realtà già smentito da un tribunale britannico. Quando il professor Ronnie Fraser ha sostenuto che il suo sindacato era antisemita per aver preso in considerazione il boicottaggio di Israele, le sue argomentazioni sono state rigettate e il tribunale ha osservato che “credere nel progetto sionista o il legame con Israele…non fa intrinsecamente parte dell’Ebraismo.”

Quindi, se l’antisionismo non è antisemitismo, che cos’è?

Nella sua originaria incarnazione, il movimento sionista – che si è sviluppato nel contesto dell’imperialismo britannico ed europeo in Medio Oriente – si è identificato come un movimento coloniale; una delle sue prime istituzioni, per esempio, era denominata “Autorità per la colonizzazione ebraica”. Nel contempo, lo stesso Herzl scrisse al colonialista inglese Cecil Rhodes – la cui statua all’università di Oxford era diventata il simbolo di un nascente movimento antirazzista – chiedendogli di appoggiare il suo progetto, che egli definì “coloniale”.

Ma quando si svilupparono e conquistarono la libertà movimenti anti-colonialisti in tutto il mondo i gruppi a favore di Israele sentirono la necessità di dare una nuova etichetta al sionismo. Lo hanno fatto in modo molto efficace; oggi il sionismo è presentato come un “movimento di liberazione” e l’antisionismo è accusato di negare “il diritto all’esistenza” di Israele, benché non esista un simile concetto nelle leggi internazionali.

Tutto ciò nonostante il fatto che i diritti fondamentali del popolo palestinese – tra molti altri, quelli alla vita, al ritorno alle proprie case, alla libertà di movimento – siano, e siano stati per decenni, negati. Incredibilmente, siamo spinti a credere che non sia pericoloso lo Stato nazione etnicamente esclusivista responsabile di queste violazioni, ma che lo siano quelli che criticano l’ideologia sionista che è alla base di questo regime.

Significativamente, ciò non implica che gli antisionisti non possano essere antisemiti. A volte le due cose si sovrappongono. Ciò non esclude neppure la comprensione del fatto che, dopo gli orrori dell’Olocausto, il crescente appoggio al sionismo in linea di principio fosse per molti versi comprensibile.

Ma il sionismo non è solo una questione astratta e la maggior parte degli antisionisti non stanno cercando “di negare il diritto dei popolo ebraico all’autodeterminazione”, come spesso viene sostenuto oggi. Semplicemente essi fanno notare il dato storico per cui ciò è stato realizzato, attraverso la creazione dello Stato di Israele, e conservato a spese degli abitanti nativi del territorio.

Mentre i palestinesi si preparano a celebrare i 68 anni della Nakba, è tempo che più persone in Occidente imparino che uno dei principali ‘successi’ del sionismo è stata la pulizia etnica di 700.000 palestinesi, che sono ancora oggi rifugiati, così come i loro discendenti.

Di fronte alla fine del paradigma dei due Stati e alla riemersione dell’idea di una soluzione per uno Stato unico – che significherebbe la fine del progetto sionista – così come alla crescita del BDS, il rinnovato tentativo di equiparare antisionismo ed antisemitismo è una mossa fondamentalmente disperata da parte dei sostenitori di Israele.

In effetti le testimonianze di forte antirazzismo di gente come Malia Bouattia sono assolutamente coerenti con l’opposizione al sionismo. I palestinesi sono esplicitamente oppressi dallo Stato di Israele in base alla loro identità etnica. Dalle strade esclusivamente per ebrei agli insediamenti illegali (colonie), il sionismo concreto ha significato una società basata sui privilegi etnici di un gruppo e sulla subordinazione dell’altro. Oggi l’antisionismo non è né più né meno che l’opposizione a Israele in quanto Stato coloniale di insediamento.

Hilary Aked è un’analista e ricercatrice i cui studi di dottorato riguardano l’influenza della lobby israeliana nel Regno Unito.

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità dell’autrice e non riflettono necessariamente quelle di “The News Arab”, del suo comitato editoriale o della sua redazione.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA della settimana 3- 9 maggio 2016

Nel corso di una serie di raid aerei e cannoneggiamenti effettuati da carri israeliani sulla Striscia di Gaza, una 54enne palestinese, intenta a coltivare la sua terra ad est di Khan Younis, è stata uccisa e altri otto civili palestinesi, tra cui sei minori, sono stati feriti.

La violenza si è intensificata il 4 maggio, quando le forze israeliane sono entrate nella Striscia di Gaza ed hanno avviato operazioni militari, a quanto riferito in seguito alla scoperta di un tunnel sotto il confine tra Gaza ed Israele. Gruppi armati palestinesi hanno risposto con colpi di mortaio verso le forze israeliane; non sono stati segnalati feriti israeliani. Durante la settimana, in cinque occasioni, le forze israeliane sono entrate nella Striscia di Gaza, hanno spianato il terreno ed effettuato scavi.

Il 3 maggio, un 36enne palestinese ha investito i soldati israeliani in servizio ad un posto di blocco “volante” nei pressi di Deir Ibzi’ (Ramallah); ne ha feriti tre ed è stato successivamente ucciso dagli altri soldati. Più tardi, la stessa notte, il corpo del palestinese è stato consegnato alla famiglia. Questo porta a 51 il numero di palestinesi uccisi dalle forze israeliane, dall’inizio del 2016, in Cisgiordania, durante attacchi e presunti attacchi.

Il 5 maggio, le autorità israeliane hanno comunicato che intendono consegnare quanto prima i cadaveri di palestinesi sospettati di aver perpetrato attacchi contro israeliani negli ultimi sei mesi. Durante il periodo di riferimento, a Gerusalemme Est, uno di questi cadaveri è stato riconsegnato alla famiglia, con la condizione che il funerale fosse limitato a 30 persone, e che fosse versato un deposito di 20.000 NIS (pari a 4.675 euro) a garanzia del rispetto di suddetta condizione. Le autorità israeliane trattengono ancora 15 corpi.

Nei Territori palestinesi occupati, in scontri con le forze israeliane, sono stati feriti 86 palestinesi, tra cui dieci minori. La maggior parte di questi scontri sono scoppiati durante proteste: manifestazioni settimanali a Kafr Qaddum (Qalqiliya) e proteste nei pressi della recinzione che separa Gaza e Israele, oppure nel corso di operazioni di ricerca-arresto. Tra i feriti, un 15enne colpito alla testa da un proiettile di metallo rivestito di gomma, nel villaggio di Al Khader (Betlemme), vicino ad una scuola, durante scontri tra forze israeliane ed un gruppo di ragazzi. Inoltre, tre giornalisti palestinesi sono stati feriti da schegge di granate assordanti sparate dalle forze israeliane durante una manifestazione tenuta al checkpoint di Beituniya, nei pressi della prigione di Ofer (Ramallah), in occasione della Giornata Mondiale della Libertà di Stampa.

Nel governatorato di Hebron, vicino al villaggio di Beit Einoun, le forze israeliane hanno riaperto due cancelli metallici che impedivano ai palestinesi l’accesso ad una importante strada di collegamento. A partire dalla loro chiusura, avvenuta nel mese di ottobre 2015, nei pressi dei cancelli si sono verificati vari attacchi e presunti attacchi contro le forze israeliane ivi operanti, con conseguente uccisione di otto palestinesi e il ferimento di sei soldati israeliani. L’apertura è stata decisa per ridurre le tensioni e facilitare il movimento di 35.000 persone: impiegati, studenti e pazienti che in precedenza erano costretti a lunghe ed onerose deviazioni.

Nella città di Nablus, le autorità israeliane hanno demolito “per punizione” la casa di famiglia di un palestinese, attualmente in stato di detenzione, accusato dell’uccisione di due coloni israeliani, avvenuta il 1° ottobre 2015. Di conseguenza, la moglie incinta è stata sfollata; inoltre, a causa dei danni arrecati durante la demolizione a due appartamenti adiacenti, sono stati coinvolti altri otto palestinesi, tra cui due minori.

Il 6 maggio, per mancanza di un permesso di soggiorno, una 36enne palestinese, madre di tre figli, è stata espulsa a forza dalle autorità israeliane da Gerusalemme Est, dove viveva da anni. La donna, titolare di documento di identità della Cisgiordania, è sposata con il titolare di documento di identità di Gerusalemme che, attualmente, sta scontando una pena detentiva per un attacco perpetrato nel 2002, dopo il quale la loro casa venne sigillata.

Il 9 maggio, secondo quanto riferito dall’organizzazione di coloni di ‘Ateret Cohanim, un gruppo di coloni israeliani si è trasferito in un edificio di tre piani nella città vecchia di Gerusalemme Est; non sono stati segnalati sfollamenti. A Gerusalemme Est, dal 1967, le leggi e la prassi israeliana hanno agevolato l’acquisizione di proprietà e la creazione di insediamenti nel cuore dei quartieri palestinesi. Nel 2015, coloni israeliani si sono impossessati di quattro case, sfollando 17 palestinesi.

Questa settimana sono stati registrati quattro attacchi di coloni israeliani contro palestinesi: nella città di Hebron l’aggressione fisica contro un difensore dei diritti umani; a Shufa (Tulkarem) un furto di bestiame; due episodi di vandalismo contro proprietà vicino a Deir Istiya e a Kifl Haris (entrambe in Salfit). In questa ultimo caso, secondo quanto riferito, coloni israeliani accompagnati da forze israeliane, sono entrati nel villaggio per visitare un sito religioso e, mentre impedivano ad abitanti palestinesi di rientrare nelle loro case, hanno compiuto atti vandalici.

Nella Striscia di Gaza, per l’uso improvvido di candele impiegate per far fronte alla grave carenza di energia elettrica, tre bambini (di 9 mesi, 2 e 4 anni) sono morti per un incendio scoppiato nella loro casa. Durante la settimana, in circostanze simili, sono stati segnalati almeno altri cinque casi che hanno provocato lesioni a tre persone. Da sette settimane consecutive sono in corso interruzioni di energia elettrica (fino a 18-20 ore al giorno), che subordinano l’erogazione dei servizi pubblici fondamentali alla disponibilità del carburante necessario ad azionare generatori di emergenza. Durante la settimana, in tutta la Striscia di Gaza, ci sono state diverse proteste contro questa situazione.

Durante la settimana, il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è rimasto chiuso in entrambe le direzioni, portando a 84 giorni il periodo di chiusura ininterrotta: il più lungo a partire dal 2007. Le autorità di Gaza hanno segnalato che risultano registrate e in attesa di attraversare più di 30.000 persone, tra cui circa 9.500 malati e 2.700 studenti.

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Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

L’11 maggio, l’Egitto ha aperto il valico di Rafah con Gaza, in entrambe le direzioni, per due giorni. Questa apertura fa seguito ad 85 giorni consecutivi di chiusura; il periodo più lungo a partire dal 2007.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati settimanalmente in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informazio-ni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: http://www.ochaopt.org/reports.aspx?id=104&page=1

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

sono scaricabili dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

considerano già noti ai lettori abituali. In caso di discrepanze, fa testo la versione originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it; Web: https://sites.google.com/site/assopacerivoli