Secondo un sopravvissuto il ragazzino palestinese stava festeggiando la visita di amici prima di essere ucciso dall’esercito

Ma’an News

22 giugno, 2016

Ramallah (Ma’an) – Dopo mezzanotte di lunedì cinque adolescenti palestinesi stavano tornando a casa dopo aver passato il pomeriggio in una piscina del villaggio di Beit Sira, a ovest di Ramallah, per festeggiare il recente arrivo dal Qatar di alcuni amici che erano venuti a passare l’estate nella loro cittadina d’origine, Beit Ur al-Tahta.

Tuttavia la loro allegria è finita quando un soldato israeliano ha cominciato a sventagliare l’auto con proiettili veri, uccidendo il quindicenne Mahmoud Raafat Badran e ferendo gravemente altri quattro ragazzi, uno dei quali ha raccontato a Ma’an lo svolgimento degli eventi che ha portato alla morte del ragazzino.

Uno dei feriti, il sedicenne Dawood Issam Abu Hassan, ha raccontato a Ma’an che sono stati “sorpresi da un uomo vestito di nero in borghese che è saltato fuori da una Toyota bianca ed ha iniziato a sparare contro di loro.” Il soldato è stato in seguito identificato dai media israeliani come appartenente alla brigata Kfir.

Dawood ha detto che lui e un altro ragazzino che era in auto hanno tentato di scappare dal veicolo dopo che è stato colpito per la prima volta e si sono nascosti sotto un ponte lì vicino per evitare altri colpi di arma da fuoco.

Nel frattempo Mahmoud è stato colpito a morte dalle fucilate e anche due fratelli sono rimasti seriamente feriti nell’episodio. Due dei feriti sono stati identificati da Ma’an come Majdi Badran, 16 anni, che arrivava dal Qatar, ed è stato colpito al torace, e Khaled Badran, in gravi condizioni.

Secondo Dawood le forze israeliane sono arrivate rapidamente ed hanno immediatamente iniziato a sfasciare l’auto palestinese, che si era schiantata contro il guardrail.

I genitori dei ragazzi, appena arrivati dal Qatar, hanno raccontato a Ma’an che stavano viaggiando in un’auto che seguiva quella in cui si trovavano i loro figli e sono stati obbligati ad assistere all’episodio che si è svolto davanti a loro e che hanno definito un “crimine israeliano”.

Gli operatori delle ambulanze della Mezzaluna Rossa palestinese hanno detto che i soldati israeliani hanno impedito ai soccorritori di raggiungere i palestinesi feriti per oltre un’ora e mezza.

Il padre di Mahmoud lavora come ambasciatore per il ministero degli Esteri palestinese in Arabia Saudita da parecchi anni, e fino al 1999 ha scontato una condanna a 15 anni nelle prigioni israeliane.

L’esercito israeliano ha ammesso di avere “erroneamente” aperto il fuoco contro passanti innocenti dopo che giovani palestinesi avrebbero lanciato pietre contro veicoli di coloni israeliani in quella zona. I mezzi di informazione israeliani inizialmente hanno comunicato che Mahmoud e i suoi amici che viaggiavano nell’auto erano “terroristi”.

Un portavoce dell’esercito israeliano ha detto a Ma’an che al momento dell’incidente alcuni giovani palestinesi avevano lanciato pietre e bottiglie molotov contro automobili di coloni israeliani in circolazione sulla strada 443 a ovest di Ramallah, aggiungendo che “le forze israeliane hanno agito per proteggere altri veicoli dal pericolo immediato, hanno sparato contro i sospetti e i passanti sono stati erroneamente colpiti.”

La strada è la principale via di collegamento tra Gerusalemme e le colonie israeliane illegali nella Cisgiordania occupata, il che la rende una posizione privilegiata per i giovani palestinesi che lanciano pietre in quella zona.

Ai palestinesi è stato totalmente vietato l’uso della strada 443 – denominata “la strada dell’apartheid” dai palestinesi del luogo – fino al 2009, quando una sentenza della Corte Suprema israeliana ha stabilito che il divieto al transito da parte dei palestinesi dovesse essere tolto. Tuttavia le forze israeliane continuano a limitare fortemente l’accesso dei palestinesi alla strada con il posizionamento di checkpoint dove i palestinesi sono obbligati a sottoporsi a pesanti misure di sicurezza per ottenere il permesso di passare.

Martedì l’esercito israeliano ha aperto un’inchiesta sull’uccisione. Tuttavia, secondo l’associazione israeliana per i diritti umani B’Tselem, solo il 3% delle indagini intraprese dall’esercito israeliano hanno portato all’incriminazione contro soldati, cosa che lascia ai palestinesi ed ai gruppi per i diritti umani pochissime speranze che l’indagine possa avere effettive conseguenze.

Mercoledì il membro del comitato esecutivo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina Taysir Khalid, del Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina (FDLP) ha denunciato l’assassinio.

“Il fatto che le truppe israeliane sparino frequentemente agli incroci ed ai checkpoint militari in tutta la Cisgiordania è il risultato naturale dell’educazione prevalente e dell’incoaraggiamento da parte dei circoli militari e politici israeliani,” ha detto Khalid.

Ha aggiunto che prendere di mira giovani palestinesi riflette il “cieco razzismo” che permea la società israeliana.

Martedì il segretario generale dell’OLP Saeb Erekat ha duramente condannato l’omicidio dicendo: “Questo assassinio a sangue freddo riconferma la nostra richiesta al relatore speciale ONU in merito alle esecuzioni extragiudiziarie, sommarie o arbitrarie, perché inizi un’immediata e ampia indagine sulle uccisioni extragiudiziarie israeliane contro i palestinesi, soprattutto bambini,” afferma il comunicato.

“La comunità internazionale ha la responsabilità di smettere di concedere l’impunità ad Israele per i crimini che commette contro la terra e le persone della Palestina occupata.”

Tuttavia il ministro degli Esteri israeliano ha detto in risposta all’omicidio: “Se non fosse per la difficile situazione della sicurezza, che è interamente il risultato dell’istigazione e del terrorismo palestinese, Israele non sarebbe obbligato ad utilizzare la forza per proteggere i propri civili,” nonostante l’ammissione da parte dell’esercito israeliano che Badran non aveva niente a che vedere con il lancio di pietre.

Mahmoud è uno degli oltre 220 palestinesi che sono stati uccisi dalle forze israeliane e dai coloni da quando un’ondata di ribellione politica ha travolto i territori palestinesi e Israele in ottobre. Benché un numero notevole di palestinesi siano stati uccisi in scontri con le forze israeliane, per la maggior parte sono stati colpiti a morte dopo presunti attacchi e tentativi di attacco contro israeliani, con circa 30 israeliani uccisi durante lo stesso periodo.

Gruppi per i diritti umani hanno contestato la narrazione israeliana, sostenendo che le uccisioni di palestinesi da parte delle forze israeliane rappresentano “esecuzioni extragiudiziarie”, in quanto sono state messe in atto anche quando non c’erano minacce di immediato pericolo [per i soldati. Ndtr.].

(traduzione di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA della settimana 28 giugno- 4 luglio 2016

In Cisgiordania e Israele, nel corso di quattro attacchi e presunti attacchi ad opera di palestinesi, due israeliani sono stati uccisi e altri sei feriti; tre dei presunti responsabili degli attacchi sono stati uccisi sul posto

[di seguito il dettaglio degli eventi sopraccitati]. Il 30 giugno, nell’insediamento di Kiryat Arba’ (Hebron), un giovane palestinese ha accoltellato e ucciso una 13enne israeliana ed è stato successivamente ucciso dalle guardie di sicurezza dell’insediamento. Nello stesso giorno, a Netanya (Israele), un palestinese ha accoltellato e ferito due israeliani ed è stato successivamente ucciso da un civile israeliano. Il 1° luglio, nella zona H2 di Hebron, le forze israeliane hanno ucciso una 27enne palestinese che avrebbe tentato di accoltellare uno di loro. Più tardi, nello stesso giorno, sulla strada 60 (Hebron), ignoti hanno aperto il fuoco contro una macchina con targa israeliana, uccidendo un colono israeliano e ferendo la moglie e due figli di 15 e 13 anni; sono quindi fuggiti.

In conseguenza degli attacchi sopra riportati, le forze israeliane hanno chiuso diversi snodi stradali che collegano villaggi e città palestinesi dei governatorati di Hebron e Tulkarem. Gli snodi stradali ancora accessibili sono al momento controllati da posti di blocco, dove i soldati israeliani vagliano veicoli e passeggeri. Le chiusure hanno costretto la popolazione a ricercare percorsi alternativi per raggiungere gli snodi praticabili, con tempi di attesa che vanno da pochi minuti a più di un’ora. Conseguentemente, per i circa 890.000 abitanti dei due governatorati coinvolti [Hebron e Tulkarem], l’accesso ai servizi ed ai mezzi di sostentamento risulta pesantemente intralciato.

A Bani Na’im (governatorato di Hebron), città di 26.500 abitanti e residenza di numerosi presunti autori di recenti attacchi, tutti gli ingressi per il movimento veicolare sono stati bloccati, compreso l’unico ingresso destinato ai casi di emergenza, per definire i quali sono richiesti accordi preventivi. I funzionari israeliani hanno anche annunciato la revoca di permessi di lavoro e commerciali per 2.800 residenti della città, misura che, se attuata per lungo tempo, si prevede possa avere un impatto significativo sull’ economia.

Sempre in relazione con gli attacchi sopra riportati, i mezzi di informazione hanno riferito che Israele ha approvato un piano per la costruzione di circa 800 nuove abitazioni in vari insediamenti colonici israeliani, ed ha annunciato una gara d’appalto per la costruzione di 42 unità abitative nell’insediamento colonico di Kiryat Arba, luogo in cui si è verificato uno degli attacchi [vedi il primo paragrafo]. Contemporaneamente, sempre secondo quanto riferito dai mezzi di informazione, le autorità israeliane hanno approvato i piani per la costruzione di circa 600 unità abitative per i palestinesi residenti a Gerusalemme Est.

Il 1° luglio, al checkpoint di Qalandiya (Gerusalemme), un 63enne palestinese è morto per aver inalato gas lacrimogeno ed altri 21 palestinesi sono stati feriti dalle forze israeliane. L’episodio si è verificato quando un gran numero di uomini e ragazzi, con un’età non corrispondente ai criteri prefissati dalle autorità israeliane [avere meno di 12 o più di 45 anni] per accedere senza permesso a Gerusalemme Est per la preghiera dei venerdì di Ramadan, si sono riuniti presso il checkpoint di ingresso; al loro rifiuto di allontanarsi dall’area, le forze israeliane hanno risposto sparando lacrimogeni e granate assordanti. Almeno altri 16 palestinesi sono rimasti feriti cadendo mentre fuggivano dalla zona. Sono stati segnalati anche alcuni casi di lanci di pietre da parte di palestinesi, con conseguente ferimento di un soldato israeliano. Si stima che, nel quarto venerdì di Ramadan, sia stato concesso l’ingresso in Gerusalemme Est per pregare nella Moschea di Al Aqsa a circa 73.000 palestinesi detentori di documenti di identità della Cisgiordania.

Durante scontri verificatisi in altre zone della Cisgiordania, altri 58 palestinesi, undici dei quali minori, sono stati feriti dalle forze israeliane. Nell’episodio più grave, verificatosi prima di una demolizione punitiva (vedi sotto) nel Campo profughi di Qalandiya (Gerusalemme), 26 palestinesi sono stati feriti, 20 dei quali con armi da fuoco. Gli altri ferimenti sono stati riportati durante la manifestazione settimanale a Kafr Qaddum (Qalqiliya) e durante operazioni di ricerca-arresto; la maggior quota di feriti è stata riscontrata a Dura (Hebron).

Complessivamente, in Cisgiordania, le forze israeliane hanno condotto 89 operazioni di ricerca-arresto ed arrestato 162 palestinesi; il governatorato di Gerusalemme conta il più alto numero di arresti (95, tra cui 27 minori), il governatorato di Hebron il maggior numero di operazioni (28).

Nel Campo profughi di Qalandiya (Gerusalemme), le forze israeliane hanno distrutto, per punizione, le abitazioni di due palestinesi autori, nel dicembre 2015, di una aggressione con coltello a Gerusalemme Est; nel corso dell’aggressione furono uccisi due coloni israeliani, uno dei quali colpito da “fuoco amico” e gli stessi autori dell’aggressione. A seguito delle demolizioni, due famiglie di rifugiati, composte da nove persone, sono state sfollate.

Il 29 giugno, nella città di Ya’bad (Jenin), tre palestinesi sono morti e 14 sono rimasti feriti nel corso di uno scontro armato tra famiglie palestinesi. Nello stesso giorno, nella città di Nablus, in circostanze non chiare, sconosciuti armati hanno ucciso due membri delle forze di sicurezza palestinesi e gravemente ferito una donna palestinese.

Il 1° luglio, un gruppo armato palestinese ha lanciato un razzo verso la città israeliana di Sderot, danneggiando un edificio. Secondo quanto riferito, il giorno dopo, in risposta a questo attacco, l’esercito israeliano ha effettuato una serie di attacchi aerei contro siti appartenenti a gruppi armati palestinesi; è stato colpito anche un negozio nella parte orientale della città di Gaza, con il ferimento di due palestinesi e danni materiali. Ancora in questa settimana, in almeno quindici occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento verso palestinesi presenti nelle Aree ad Accesso Riservato (ARA) a terra e in mare; non sono stati registrati feriti, ma pescatori ed agricoltori palestinesi hanno dovuto interrompere le loro attività.

In tre diversi episodi verificatisi a Burin (Nablus), Kafr Qaddum (Qalqiliya) e Wadi Fukin (Hebron), decine di alberi di proprietà palestinese, un appezzamento di terreno coltivato e due serre sono state vandalizzate, secondo quanto riferito, da coloni israeliani. Ancora in questa settimana, nei pressi di Huwwara (Nablus), un palestinese è stato colpito da pietre e ferito da un gruppo di coloni israeliani e il suo veicolo danneggiato. Inoltre, in diverse occasioni, coloni israeliani armati si sono riuniti presso gli ingressi delle città di Salfit e Nablus, impedendo l’accesso e intimidendo i palestinesi presenti.

Sono stati riportati tre episodi di lancio di pietre, da parte di palestinesi contro veicoli israeliani sulla strada 60 e 463 (Ramallah) e in Gerusalemme Est, con conseguente ferimento di quattro israeliani e danni a tre veicoli. In altri due casi, vicino a Betlemme ed Hebron, palestinesi hanno lanciato bottiglie incendiarie verso veicoli israeliani; non sono stati segnalati danni.

Il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è stato eccezionalmente aperto in entrambe le direzioni per cinque giorni (29, 30 giugno e 2, 3, 4 luglio), consentendo a quasi 3.000 persone l’uscita e ad oltre 1.600 l’ingresso a Gaza; secondo le autorità palestinesi di Gaza le persone precedentemente registrate ed in attesa di attraversare erano circa 30.000.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati settimanalmente in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informazio-ni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

sono scaricabili dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it; Web: https://sites.google.com/site/assopacerivoli

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Omicidi efferati da ambo le parti del conflitto israelo-palestinese

Si sono versate lacrime a Kiryat Arba, Sa’ir e altrove. Le ragioni sono diverse, ma i risultati sono identici ed orrendi

Haaretz

di Gideon Levy – 3 luglio 2016

“Hubb”, lo chiamavano, “Amore”, e lo portavano con loro ovunque. Era il loro figlio e fratello e lo mostravano con affetto. Era indifeso. Era nato con la sindrome di Down.

Il soldato gli ha sparato da breve distanza allo stomaco, poi se n’è andato con i suoi compagni senza controllare le condizioni di Hubb o chiamare aiuto. Lo hanno lasciato sanguinante sul terreno pietroso. Poche settimane dopo è morto in seguito alle ferite.  Arif Jaradat, del villaggio di Sa’ir, è morto a 23 anni.

Il portavoce dell’IDF [l’esercito israeliano. Ndtr.] ha detto che “i soldati hanno avvistato un palestinese che stava lanciando una bottiglia molotov” e hanno sparato “per eliminare la minaccia”. Questa affermazione è vergognosamente falsa.

Innanzitutto, i testimoni oculari hanno affermato che Arif ha solo gridato ai soldati per paura, come faceva sempre quando incontrava dei militari. E, indipendentemente dal fatto che i soldati potessero vedere o meno che si trovavano davanti un giovane affetto da sindrome di Down, era chiaro che se si fosse trattato di una bomba incendiaria, i soldati avrebbero arrestato Arif dopo averlo ferito. Ma gli hanno sparato e se ne sono andati.

A pochi kilometri da Sa’ir, a Kiryat Arba, durante il fine settimana è stato commesso lo sconvolgente omicidio di Hallel Yaffa Ariel mentre stava dormendo. Anche lei era indifesa, anche lei era giovane ed innocente. “Come puoi uccidere una tredicenne?” ha gridato sua madre. Ha ragione. E come puoi uccidere un giovane con la sindrome di Down? I cuori sono scossi, le lacrime scorrono e le gole si chiudono, sia a Kiryat Arba che a Sa’ir.

Pochi giorni fa Mahmoud Rafat Badran, un ragazzo di 15 anni, se ne stava tornando a casa con alcuni amici dopo essere stato in un parco acquatico. I soldati israeliani hanno crivellato la sua auto con 15 proiettili, pensando che i passeggeri avessero lanciato delle pietre sulla Strada 443. Rafat è rimasto ucciso e quattro suoi amici sono stati gravemente feriti dal fuoco indiscriminato. L’esercito ha affermato che si è sparato per “errore”.

Venerdì la famiglia Mark stava viaggiando a sud del monte Hebron, in Cisgiordania. Alcuni palestinesi hanno crivellato la loro auto con 19 proiettili, uccidendo il padre, Michael, e ferendo gravemente sua moglie e due figli. I primi a correre in loro aiuto sono stati dei passanti palestinesi, uno dei quali era un medico, che ha rianimato la madre, e un’ambulanza della Mezzaluna Rossa. Di nuovo una vita stroncata, di nuovo lacrime che scorrono.

Tutte queste uccisioni sono diverse, eppure simili. Per la maggior parte degli israeliani questi episodi non si possono confrontare. Il solo fatto di parlare di somiglianza  li fa infuriare. Ma la verità è che una persona indifesa è una persona indifesa, che si tratti di una ragazzina che dorme nel suo letto o di un giovane con la sindrome di Down. Ucciderli è un atto efferato.

Anche crivellare di proiettili un’auto è efferato. E’ vero, i palestinesi che hanno sparato alla macchina di Otniel volevano uccidere i passeggeri, mentre i soldati che hanno sparato contro l’auto di Beit Ur al-Tahta hanno detto di aver ucciso per sbaglio, ma il loro errore risulta inaccettabile.

Quindici proiettili per sbaglio? Hanno sparato indiscriminatamente ad un’auto senza l’intenzione di ucciderne i passeggeri? I palestinesi sparano come parte della loro resistenza all’occupazione. Gli israeliani sparano come parte della loro resistenza contro la resistenza. I motivi sono diversi, i risultati sono identici e orrendi, anche se vengono uccisi molti più palestinesi.

La maggior parte degli israeliani vive negando la realtà  in conseguenza del lavaggio del cervello a cui sono sottoposti. Il terrorismo esiste solo dalla parte dei palestinesi, solo loro agiscono con brutalità e disumanità. La realtà parallela rimane nascosta ai loro occhi – chi mai ha sentito parlare dell’uccisione di un giovane indifeso di Sa’ir? Ciò che è peggio, non c’è la volontà di prendere in considerazione l’episodio dal punto di vista palestinese.

Dietro a tutto ciò si nasconde il concetto più profondamente radicato in Israele – che i palestinesi non sono esseri umani come noi. Il loro sangue non è il nostro, versarlo non è malvagio come spargere il nostro.

Il giorno in cui più israeliani vorranno paragonare l’uccisione di Arif Jaradat a quella di Hallel Yaffa Ariel, il giorno in cui più israeliani riconosceranno l’ingiustizia ed i crimini commessi dal loro Paese, si farà il primo passo per ridurre lo spargimento di sangue. Fino ad allora continuerà. Niente lo fermerà.

(traduzione di Amedeo Rossi)




La Corte Penale Internazionale e la Palestina

La CPI e la Palestina: un esempio di dubbia giustizia

Al-Shabaka

di Sarah Kanbar – 1 luglio 2016

 

E’ passato più di un anno da quando la Palestina è diventata membro della Corte Penale Internazionale (CPI) e l’Ufficio della Procura Generale della CPI (UPG) ha iniziato l’indagine preliminare della “situazione in Palestina”. Anche se il rifiuto pressoché assoluto di Israele di collaborare con la CPI in questioni relative alla Palestina l’ha ostacolata, Israele non è l’unico intralcio al fatto che la giustizia faccia il suo corso: anche lo stesso UPG ha giocato un ruolo fondamentale nel bloccare di fatto il procedimento. 1

Nel novembre 2015 il rapporto annuale della procuratrice generale Fatou Bensouda sulle attività di indagine preliminare ha fornito un aggiornamento sulla situazione dell’indagine preliminare. In base alle informazioni del rapporto non risulta chiaro come l’UPG procederà in funzione del suo scopo generale di mettere in pratica “i due principali obiettivi dello Statuto di Roma: porre fine all’impunità, incoraggiando corretti procedimenti nazionali, e prevenire i reati” riguardo alla Palestina. Inoltre due elementi del rapporto – l’affermazione dell’UPG riguardante la condizione di Stato sovrano della Palestina ed i possibili crimini che sono stati identificati in via preliminare – inducono ulteriori critiche all’UPG, in particolare le preoccupazioni riguardo alla sua imparzialità e il suo fallimento nel rispondere alle speranze di giustizia delle vittime.

Queste lacune dell’UPG potrebbero far fallire  l’obiettivo della CPI in quanto sede per  valutare e giudicare le atrocità che avvengono in Palestina. La società civile deve esaminare attentamente il lavoro della CPI per garantire che continui ad essere un’istituzione imparziale ed apolitica. Una simile vigilanza aiuterà a ottenere l’attribuzione di responsabilità e a fare un passo avanti nel caso della Palestina.

Palestina: un banco di prova per la CPI

La CPI, che ha iniziato ad operare nel 2002, è un’istituzione giudiziaria giovane ed in evoluzione. Finora quasi tutti i casi aperti davanti alla Corte sono situazioni che riguardano Stati africani. La CPI sta solo iniziando a impegnarsi in altre regioni attraverso indagini preliminari e inchieste. Ciò si riflette nell’incremento del numero di situazioni deferite all’UPG e nell’inizio di inchieste dopo il completamento delle indagini preliminari che durano anni.

La CPI affronta la sfida dovuta a finanziamenti limitati, che la mette nella condizione di aver bisogno del sostegno finanziario degli Stati membri. La CPI non può contare sempre su questi finanziamenti e, anche quando li riceve, lo stesso fatto di averne bisogno la rende soggetta ai progetti politici di alcuni Stati. La CPI è quindi in un momento critico in cui deve dimostrare di essere un’istituzione imparziale.

Durante un recente riunione dell’assemblea degli Stati membri della CPI, il responsabile della gestione e della supervisione della CPI, membri della delegazione palestinese e rappresentanti della società civile hanno espresso l’opinione che il fatto che la CPI si occupi del caso palestinese sarà un banco di prova particolarmente significativo per la Corte. Hanno citato molte ragioni della necessità che la CPI giudichi i crimini in Palestina, compresa la vicenda dei  conflitti regionali che dura da oltre 60 anni, i negoziati falliti e la documentazione della violazione dei diritti umani – dai continui rapporti sul campo delle ONG (organizzazioni non governative) all’opinione consultiva sul Muro israeliano espressa dalla Corte Internazionale di Giustizia nel 2004.

Delegati e rappresentanti della società civile hanno anche affermato che l’UPG ha una grande quantità di informazioni che potrebbero portare a concludere efficacemente la sua indagine, benché abbiano  riconosciuto che Israele ha reso difficile l’accesso a informazioni relative all’attacco del 2014 contro la Striscia di Gaza. Inoltre hanno espresso il proprio timore che l’UPG possa cedere alla sua abitudine di perdere il sostegno delle vittime – in questo caso, palestinesi –  prolungando l’indagine.

La CPI è stata frequentemente criticata per il fatto che le vittime, che sono spesso vulnerabili e si aspettano molto dalla Corte, sono state deluse dall’incapacità della CPI di prendere provvedimenti.  Dopo aver aspettato lungo tutto il procedimento estremamente lento e non aver ricevuto una risposta, le vittime di atrocità si sentono abbandonate, e ciò provoca in loro un’ulteriore disillusione in merito al sistema giudiziario che opera sotto l’egida dei suoi Stati membri.

Durante un’indagine preliminare, l’UPG studia le comunicazioni e le informazioni per decidere se un’inchiesta e un processo possono avere luogo. Il rapporto del procuratore generale include materiale come la fase dell’indagine e i dati che sono stati analizzati. 2 L’UPG non conduce inchieste quando effettua un’indagine preliminare. Procede a un  esame e decide semplicemente se una situazione rientra nei parametri dell’articolo 53 dello Statuto di Roma, che dà luogo a un’inchiesta, salvo che il procuratore generale decida che non ci sono “basi ragionevoli” per procedere. 3 Lo Statuto di Roma non stabilisce un periodo di tempo entro il quale l’UPG debba completare un’indagine preliminare, e può essere presa in considerazione un’ ulteriore informazione dopo che un’indagine è iniziata. Quindi ci possono volere degli anni prima che un’inchiesta sia raccomandata o che l’UPG rinunci a procedere.

Ci sono due critiche che si possono fare alla CPI in base al rapporto. La prima è che la preoccupazione dell’UPG di apparire imparziale ha solo ritardato l’indagine preliminare e ha provocato il fatto che l’UPG sia andato oltre l’ambito delle proprie competenze riguardo alla questione della condizione di Stato sovrano della Palestina, un problema su cui si era concentrato il precedente procuratore generale. Secondo, prendendo in esame i crimini contro l’umanità e i crimini di guerra israeliani, la CPI potrebbe rivelarsi solo un’ennesima organizzazione internazionale che deluderà i palestinesi perché non agirebbe contro Israele e non lo obbligherebbe a rendere conto [dei propri crimini].

Il rapporto dell’UPG e la questione della condizione di Stato sovrano

Vale la pena ricordare che, dopo il 2009, quando l’Autorità Nazionale Palestinese per la prima volta ha sottoposto alla CPI una denuncia relativa all’articolo 12 (3), in cui si dichiara l’accettazione della giurisdizione della Corte, l’UPG ha eluso un’indagine preliminare sulla Palestina perché non la considerava uno “Stato”. Nel primissimo rapporto sulle attività di indagine preliminare del 2011 l’UPG ha scritto che era necessaria una definizione sulla condizione di Stato sovrano della Palestina perché potesse presentare una denuncia. Nel rapporto dell’anno successivo l’UPG ha concluso che solo un’organizzazione internazionale come le Nazioni Unite potrebbe stabilire se la Palestina è uno Stato. Pertanto si è di nuovo rifiutata di procedere con un’indagine preliminare finché questa determinazione non fosse stata fatta.

Questo rinvio è stato duramente criticato, soprattutto perché tra i compiti affidati all’UPG non è compreso il fatto di porre questioni legali in merito alla statualità ai fini della denuncia. Inoltre c’erano altre opzioni a disposizione per decidere se la Palestina potesse presentare una denuncia o persino aderire allo Statuto di Roma, come un rinvio alla Camera Preliminare d’Indagine [che valuta le richieste a procedere dell’Ufficio del procuratore. Ndtr.], che ha l’autorità di emettere una decisione. 4

Una posizione diversa riguardante la condizione di Stato sovrano della Palestina è allora comparsa nel rapporto del 2015. Il procuratore generale Bensouda ha affermato che fosse necessaria una decisione da parte delle Nazioni Unite riguardo allo status della Palestina all’ONU per decidere se potesse aderire allo Statuto di Roma. Ma poi ha scritto che l’UPG aveva deciso che la Palestina poteva presentare una denuncia in base all’articolo 12(3), utilizzando la risoluzione 67/19 dell’assemblea generale dell’ONU come base della decisione. (La risoluzione del 2012 ha elevato lo status della Palestina a livello di osservatore non membro). Tuttavia Bensouda ha anche indicato che la CPI potrebbe ancora discutere della condizione di Stato sovrano sulla base della giurisdizione territoriale o personale.

Tuttavia, come hanno sostenuto molti studiosi ed esperti, l’UPG non ha la potestà di prendere una decisione tale come definire la condizione di Stato sovrano. Invece di proclamare che la Palestina è uno Stato e di conseguenza può presentare una denuncia in base all’articolo 12(3) o aderire allo Statuto di Roma, l’UPG avrebbe potuto arrivare alle conclusione che la Palestina può presentare una denuncia perché riunisce i prerequisiti stabiliti dall’articolo 12 dello Statuto di Roma. Quest’articolo consente a un membro non statale di autorizzare la CPI ad esercitare la propria giurisdizione per un crimine che ricade sotto la materia di competenza della CPI. In sostanza, sostenere che la Palestina possa agire come se fosse uno Stato ai fini di una denuncia ex art. 12(3) va oltre la limitata competenza dell’UPG.

E’ possibile che il pronunciamento dell’UPG sulla condizione di Stato sovrano della Palestina sia stato un tentativo in buona fede di Bensouda per rimediare all’inutile operazione iniziata dal precedente procuratore generale. Tuttavia tale pronunciamento indica anche una debolezza dell’UPG, soprattutto una preoccupazione di apparire imparziale. Facendo questa dichiarazione, l’UPG ha operato una compensazione eccessiva ed è andato oltre le sue competenze, piuttosto che accettare che la Palestina potesse presentare una denuncia in base all’articolo 12(3) perché risponde ai criteri richiesti dall’articolo 12. Questa preoccupazione probabilmente continuerà a impedire che l’UPG possa completare efficacemente un’indagine.

I crimini israeliani e la giurisdizione dell’UPG

Il rapporto del 2015 è comunque un passo positivo in quanto i materiali che documentano vari crimini in Palestina sono finalmente oggetto di considerazione. L’UPG si trova attualmente nella seconda fase dell’esame, durante la quale deve stabilire se ci sono crimini che ricadono sotto la competenza giurisdizionale della CPI – specificamente crimini di guerra e contro l’umanità.

I crimini contro l’umanità sono definiti dall’articolo 7 dello Statuto di Roma. Molte tipologie di fatti sono incluse in questa definizione, però la descrizione delle intenzioni in base alle quali vengono commessi è specifica. Mentre la definizione può includere molte violazioni da parte di Israele, la loro definizione è lasciata all’UPG. I crimini di guerra, in base all’articolo 8, sono delineati in modo più ampio e riguardano un conflitto armato, gravi violazioni delle Convenzioni di Ginevra o violazioni delle leggi e delle consuetudini di guerra.

L’UPG ha indicato nel rapporto che sta rivedendo informazioni concernenti eventuali crimini commessi a Gaza, in Cisgiordania e a Gerusalemme est sia dai gruppi armati palestinesi che dalle Forze di Difesa Israeliane [IDF, l’esercito israeliano. Ndtr.]. Sta prendendo in considerazione l’indiscriminato lancio di razzi e proiettili di mortaio verso Israele da parte di gruppi armati palestinesi, attacchi lanciati da aree civili, l’uso di luoghi civili per fini militari e l’esecuzione di palestinesi che avrebbero collaborato con Israele. L’UPG sta anche esaminando materiale riguardante crimini commessi dalle Forze di Difesa Israeliane a Gaza durante l’attacco del 2014 contro la Striscia, come attacchi diretti contro edifici residenziali civili e infrastrutture, così come contro edifici dell’ONU, ospedali e scuole. Queste accuse includono bombardamenti contro aree civili assai densamente abitate come Ash-Shuja‘iyeh e Khaza’a.

Non si sa se l’UPG arriverà alla conclusione che questi crimini – in particolare crimini contro l’umanità –  ricadono sotto la sua competenza giurisdizionale. Per esempio, alcuni dei crimini contro l’umanità in questione, come l’apartheid, sono problemi inediti, cioè questioni legali senza precedenti per la CPI. Ciò significa che la CPI non ha precedenti a cui attingere, rendendo l’esito imprevedibile.

Il procuratore capo Bensouda ha anche indicato che l’UPG ha informazioni riguardanti la violenza dei coloni, il trattamento dei palestinesi nelle prigioni israeliane e i tribunali militari. Questi non necessariamente potrebbero costituire crimini contro l’umanità e quindi non ricadrebbero sotto la giurisdizione della CPI. Peraltro le informazioni riguardo al sistema giudiziario israeliano potrebbero sia dare un impulso a un intervento della CPI, sia portare a un giudizio secondo cui il sistema giudiziario israeliano è in grado di condurre correttamente dei processi. Poiché la CPI è un tribunale di ultima istanza, uno dei suoi obiettivi è incoraggiare i procedimenti giudiziari nazionali. Se l’UPG decidesse che Israele può giudicare in modo corretto questi crimini, allora  potrebbe anche concludere che l’UPG non  ha bisogno di procedere con un’inchiesta – e Israele non sarà di nuovo chiamato a risponderne. 5

La stessa CPI a giudizio

Il vantaggio di avere un’istituzione giudiziaria come la CPI è che garantisce alle vittime di crimini atroci di lunga durata la possibilità di presentare una denuncia. La condanna dell’ex dirigente politico serbo bosniaco Radovan Karadžić nel marzo 2016 per crimini di guerra commessi contro i musulmani bosniaci è un monito circa le potenzialità dei tribunali penali internazionali. La Palestina sembra essere la prova definitiva per stabilire se la CPI deve continuare ad essere una sede per evitare l’impunità e rendere responsabili i colpevoli ai più alti livelli, o se è destinata a fallire perché si piega alle ingerenze politiche.

Benché meno della metà dei rifugiati palestinesi creda che la CPI rappresenterà una soluzione durevole, l’UPG è tenuto a continuare la sua indagine preliminare sulla Palestina. Se identificherà crimini potenziali come l’apartheid o persino il trattamento dei minori nei tribunali militari, ma non gli darà seguito, i palestinesi rimarranno senza risorse e gli verrà ricordato quanto le organizzazioni internazionali siano inefficaci nel trovare una giusta soluzione al conflitto. Ciò che è peggio, Israele continuerà ad agire impunemente. Ma se la CPI utilizzerà la legge come strumento per cambiare e metterà in pratica il principio della responsabilità nazionale, non sarà solo un importante successo per i palestinesi. Sarà anche un successo per la CPI in quanto sarà la prova delle sue prerogative e capacità di non essere influenzata da pressioni esterne.

Le organizzazioni palestinesi e della giustizia internazionale dovrebbero continuare a controllare il lavoro della CPI e dell’UPG, tendendo sotto osservazione come vengono prese le decisioni. I funzionari palestinesi devono anche continuare a considerare la CPI come un’istituzione non politicizzata ed evitare la tentazione di utilizzarla come un mezzo per riaffermare la propria condizione di Stato sovrano. 6  Nonostante la sua attitudine a farsi condizionare dalla politica, c’è ancora la speranza che la Corte possa chiedere conto ai dirigenti israeliani dei loro crimini – benché un simile risultato potrebbe richiedere molti anni. Essendo  la Palestina impegnata in un lungo viaggio con la CPI, si spera che sia verso una giusta meta.

Notes:

  1. L’autrice intende ringraziare Valentina Azarova per la sua competenza e assistenza in questo lavoro, così come Linda Carter e Osamah Khalil per il loro tutoraggio e appoggio.
  2. Ci sono quattro fasi in un’indagine preliminare: esame delle informazioni ricevute; decisione se i crimini identificati ricadano o meno sotto la competenza giurisdizionale della CPI; decisione se un caso è ammissibile; conclusione se debba essere avviata un’inchiesta “nell’interesse della giustizia”.
  3. L’articolo 53 (1) (dalla a alla c) dello Statuto di Roma dispone il contesto giuridico delle indagini preliminari. Per maggiori informazioni sul quadro legale e sulle limitazioni riguardo alle indagini preliminari, vedere l’articolo di politica di Valentina Azarova “Giorno della Palestina alla Corte? Gli effetti imprevisti dell’azione della CPI,” su Al-Shabaka, 1 aprile 2015.
  4. La denuncia ex articolo 12(3) è una concessione di giurisdizione che si applica al crimine in questione e non richiede la condizione di Stato sovrano per aderito allo Statuto di Roma.
  5. Un esempio recente della decisione di un tribunale israeliano è la mancata incriminazione di un colonnello che aveva dato istruzioni alla sua unità di bombardare una clinica  a Ash-Shuja‘iyeh [nella Striscia di Gaza, durante “Margine protettivo”. Ndtr.] come rappresaglia per la morte di un membro del suo reparto.
  6. Come ha scritto Valentina Azarova, “gli interessi della Palestina sono meglio tutelati se non si fraintende la CPI come se fogge uno strumento politico, ma piuttosto tentando di depoliticizzare l’esame della situazione della Palestina da parte della CPI. Si dovrebbe definire una posizione comune, informata e pubblica sul significato della CPI in quanto meccanismo imparziale il cui scopo è assicurare il servizio fondamentale della giustizia.”

Sarah Kanbar

Sarah Kanbar ha conseguito la laurea in Giurisprudenza nel 2016 presso l’università del Pacifico,  alla Scuola di Diritto McGeorge, con una specializzazione in studi di diritto internazionale. Nella facoltà di legge Sarah ha fatto il praticantato presso l’ufficio del Consiglio Legislativo della California e nell’ufficio del Difensore d’Ufficio federale. Ha ottenuto la laurea in Storia presso l’università della California, Berkeley, concentrandosi sul rapporto tra gli Stati Uniti e il Medio Oriente. Sarah aveva pubblicato in precedenza “Rooted in Our Homeland: The Construction of Syrian American Identity” [Radicati nella nostra patria: la costruzione dell’identità siro-americana. Ndtr.] nella rivista American Multicultural Studies (Sage, 2012) [“Studi multiculturali americani”. Ndtr.] e articoli su Muftah e Kalimat Magazine.