Non è tutto tranquillo sul fronte del Golan: l’equazione israelo-siriana cambia

Middle East Eye Yossi Melman

20 settembre 2016

La Siria ha dato l’annuncio di un cambio di politica quando ha lanciato delle rappresaglie contro l’esercito israeliano nel Golan la settimana scorsa ?

Gli avvenimenti dell’ultima settimana sembrano indicare che l’equazione israeliano-siriana sta per cambiare per la prima volta dopo lo scoppio della sanguinosa guerra civile in Siria cinque anni e mezzo fa.

Così almeno sembrava nelle ore precedenti l’alba di martedì scorso.

Con un’azione inusuale, una batteria antiaerea siriana ha lanciato due missili S-200 terra-aria contro dei combattenti e dei droni israeliani. Li hanno mancati. Il servizio stampa dell’esercito israeliano ha smentito l’affermazione del portavoce dell’esercito siriano secondo cui i missili avevano abbattuto un aereo ed un drone israeliani ed ha dichiarato che i missili non avevano neanche sfiorato gli aerei dell’ aviazione israeliana.

I responsabili del governo israeliano e gli ufficiali dell’esercito cercano di stabilire se il lancio di missili stia a significare un cambio di politica da parte di Assad, o se si tratti di una dimostrazione di forza simbolica.

Gli aerei israeliani hanno bombardato delle postazioni di artiglieria dell’esercito siriano. Dal punto di vista israeliano, si trattava di una missione di routine e dal 2012 circa un centinaio di missioni di questo genere sono state effettuate. Questi bombardamenti fanno parte della politica israeliana di rappresaglia per le granate e i razzi che cadono sul suo lato delle alture del Golan.

Questa prassi non fa differenza tra i proiettili dovuti a tiri accidentali o intenzionali, benché si tratti soprattutto di “sforamenti” accidentali della guerra tra l’esercito ed i gruppi ribelli siriani concentrati lungo il confine israeliano.

Ogni volta che le granate cadono in Israele, fatto accaduto più volte dall’inizio della guerra, sia che provengano da armi dell’esercito o dei ribelli siriani, Israele considera il governo di Assad responsabile in quanto regime sovrano sul proprio territorio.

Non è un caso

Tutti questi incidenti, fino a domenica 11 settembre, sono rimasti senza reazione da parte del regime siriano – almeno per quanto ne sa l’opinione pubblica. Oggi i responsabili del governo israeliano e gli ufficiali dell’esercito cercano di stabilire se il lancio di missili S-200 significhi un cambio di politica da parte di Assad o sia solo una dimostrazione di forza simbolica.

Tuttavia una cosa è chiara fin d’ora: il lancio di missili nella regione di Quneitra non era un caso. L’esercito siriano ha diffuso un comunicato ufficiale riguardo all’incidente.

Si tratta del secondo caso conosciuto di rappresaglia dell’esercito di Assad contro l’attività militare israeliana in territorio siriano, ma è il primo incidente di questo genere ad essere reso pubblico. Il primo caso, sette mesi fa, non era stato segnalato da Israele o dal governo siriano.

Sabato scorso due altri missili hanno oltrepassato i confini della guerra in Siria, ma questa volta sono stati intercettati dal sistema di difesa anti-missile israeliano, la cosiddetta “Cupola di ferro” [Iron Dome, ndt].

Da parecchi anni, come ha ammesso il primo ministro Benjamin Netanyahu alcune settimane fa, l’esercito israeliano agisce a suo piacimento nello spazio aereo siriano in violazione della sovranità della Siria e dell’accordo di disimpegno del marzo 1974, firmato dai due paesi dopo la guerra del Kippur (guerra d’ottobre) del 1973.

Voi siete sovrani”

Anche se Israele non ha mai reso pubbliche le sue incursioni, i media esteri hanno più volte segnalato che l’esercito israeliano ha utilizzato aerei da caccia e droni per missioni di ricognizione. Per oltre dieci volte ha attaccato obbiettivi dell’esercito siriano, alcuni dei quali alla periferia di Damasco: depositi, fabbriche e convogli per il trasferimento di armi sofisticate (missili terra-terra di precisione, missili antiaerei, radar e missili antinave) a Hezbollah in Libano.

Di fronte a tutti questi attacchi l’esercito di Assad ha messo da parte la propria dignità e non ha reagito. Non ha reagito nemmeno quando Israele ha abbattuto un aereo da combattimento Sukhoi siriano vicino al suo confine qualche anno fa.

Secondo dei rapporti esteri, Israele ha anche portato a termine, in diverse altre occasioni, degli omicidi di ufficiali superiori di Hezbollah con attacchi aerei. Tra questi obbiettivi vi erano Jihad Moughniyeh, figlio di Imad Moughniyeh, un alto responsabile di Hezbollah ucciso in un attentato con un’autobomba nel 2008; un generale dei Guardiani della rivoluzione islamica iraniana; nel dicembre 2015, nel suo covo di Damasco, il terrorista druso libanese Samir Kuntar, che aveva trascorso 26 anni in una prigione israeliana per l’uccisione di una famiglia israeliana.

Lebanese Hezbollah supporters carry the coffin of militant Jihad Mughniyeh during his funeral in a southern Beirut suburb on January 19, 2015. Iran confirmed today that a general of its elite Revolutionary Guards died in an Israeli strike on Syria that also killed six members of Lebanese militant group Hezbollah. AFP PHOTO /JOSEPH EID / AFP PHOTO / JOSEPH EID

Questi incidenti sono avvenuti in un contesto di tentativi da parte di Hezbollah e del comandante della Forza al-Qods dei Guardiani della rivoluzione, il generale iraniano Qassem Suleimani, di installare delle infrastrutture militari sulle alture del Golan e, con l’avallo di Assad, di sferrare attacchi contro Israele. Gli attacchi israeliani hanno sventato questo piano dell’asse Hezbollah-Iran-Siria.

Inoltre l’esercito israeliano ha risposto con tiri di artiglieria, missili e attacchi aerei simbolici contro gli avamposti dell’esercito siriano quasi ogni volta che dei proiettili provenienti da combattimenti tra l’esercito siriano ed i gruppi ribelli vicino al confine hanno “sforato” e sono caduti in territorio israeliano.

Le reazioni dell’esercito israeliano sono state misurate e principalmente mirate ad inviare un messaggio al regime: per noi, siete sovrani.

Crescente fiducia

L’ultimo incidente testimonia la crescente fiducia dell’esercito di Assad, che è riuscito, soprattutto grazie all’aiuto dei russi, ad estendere il proprio controllo in Siria (che copre ancora solo il 30% del territorio) ed a consolidare il regime mentre l’opposizione si indebolisce e lo Stato Islamico sta arrivando all’inizio della sua fine.

La maggioranza delle parti in gioco – Israele, il regime di Assad, la Russia ed alcuni dei gruppi ribelli – non ha alcun interesse a peggiorare la situazione al confine ed a provocare uno scontro militare.

Man mano che l’esercito del regime siriano intensifica i suoi attacchi contro i ribelli, soprattutto quelli non lontani dal confine con Israele, le possibilità che colpi accidentali cadano in territorio israeliano aumentano.

Così, anche la probabilità di un’escalation delle tensioni e di un avanzare delle violenze fino al livello di quello che finora era il confine relativamente tranquillo delle alture del Golan aumenta, nonostante il fatto che la maggioranza delle parti in gioco non abbia alcun interesse a peggiorare la situazione al confine ed a provocare uno scontro militare.

Di fatto, l’ipotesi che emerge dalle fonti militari israeliane, dopo uno scambio di messaggi con la Russia, è che una guerra tra Israele e la Siria non sia all’orizzonte, malgrado le recenti tensioni.

Non è certamente interesse di Assad trascinare nel conflitto le potenti forze israeliane.

Yossi Melman è un opinionista specializzato nella sicurezza e nell’informazione israeliana. E’ co-autore di ‘Spies against Armageddon’.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono solo all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Traduzione di Cristiana Cavagna




La “Legge sull’Espulsione”: ecco com’è la democrazia israeliana

La Nakba continua

di Jonathan Cook

Washington Report on Middle East Affairs, ottobre 2016

E’ stato difficile conciliare le azioni e parole del primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu.

Egli è stato uno dei principali promotori di una nuova legge – approvata il 19 luglio – che assegna al parlamento israeliano, la Knesset, nuovi poteri draconiani: una maggioranza di tre quarti dei suoi membri può espellere un parlamentare eletto se non ne condivide le opinioni.

Nota come la “Legge sull’Espulsione”, la misura è universalmente vista come un modo per i partiti ebraici della Knesset di espellere parlamentari che rappresentano la numerosa minoranza palestinese. Un israeliano su cinque è palestinese.

Eppure, meno di una settimana dopo Netanyahu ha postato sulle reti sociali un video in ebraico e inglese in cui chiedeva scusa ai cittadini palestinesi per i suoi commenti, molto criticati, fatti l’anno scorso durante le elezioni politiche israeliane.

Allora aveva sollecitato i suoi sostenitori ad andare a votare, mettendo in guardia che “gli arabi” – cioè il milione e settecentomila cittadini palestinesi di Israele – “stanno andando a votare in massa.”

Ha detto che i suoi commenti sono stati fraintesi. Al contrario, egli ha invitato “i cittadini arabi di Israele a far parte della nostra società – in massa. Lavorate in massa, studiate in massa, prosperate in massa…Sono orgoglioso del ruolo che gli arabi giocano nei successi di Israele. Voglio che svolgiate un ruolo ancora più importante.”

Tuttavia la “Legge sull’Espulsione” minaccia di limitare gravemente il ruolo dei palestinesi nella Knesset, l’unica istituzione pubblica di Israele di maggiore visibilità.

Secondo “Adalah”, il centro giuridico che rappresenta la minoranza palestinese, la “Legge sull’Espulsione” non ha eguali in nessuno Stato democratico. L’associazione nota che si tratta dell’ultima di una serie di leggi miranti a limitare rigidamente i diritti della minoranza palestinese in Israele e a contrastare il dissenso.

Altri temono che questa misura in sostanza svuoterà la Knesset dei suoi partiti palestinesi.

“Questa legge viola ogni norma democratica e il principio in base al quale le minoranze devono essere rappresentate, ” ha affermato Mohammed Zeidan, direttore dell'”Associazione per i Diritti Umani” di Nazareth. “Manda all’opinione pubblica il messaggio secondo cui è possibile, persino auspicabile, avere una Knesset solo ebrea.”

I quattro partiti palestinesi presenti in parlamento, in una coalizione denominata “Lista Unitaria”, il 22 luglio hanno mandato una lettera aperta mettendo in guardia che Netanyahu e il suo governo “vogliono una Knesset senza arabi.”

Zeidan ha sottolineato come ciò potrebbe rapidamente avvenire: “Basterebbe che un parlamentare palestinese venga espulso e ci sarebbero enormi pressioni sugli altri perché diano le dimissioni per protesta.”

Yousef Jabareen, un membro palestinese della Knesset per la “Lista Unitaria”, ha detto che la legge ha creato “parlamentari in libertà vigilata”, minacciati perché stiano zitti o perché “si comportino bene”. I suoi effetti, ha aggiunto, potrebbero privare decine di migliaia di votanti del diritto di essere rappresentati.

“La minaccia di espulsione servirà come una tattica per metterci a tacere,” ha detto Jabareen, “impedendo inoltre la possibilità per i membri della Knesset di adempiere fedelmente al programma che hanno promesso ai propri elettori.”

Chi ha proposto questa legge ha fatto poco per mascherare l’intenzione di utilizzare questa misura solo contro i parlamentari palestinesi. Con 13 seggi, la “Lista Unitaria” è attualmente il terzo maggior gruppo sul totale dei 120 seggi della Knesset.

Il primo bersaglio di questa legge è Haneen Zoabi, un’esponente del partito Balad [partito che sostiene che Israele dovrebbe essere uno Stato per tutti i cittadini e che i palestinesi con cittadinanza israeliana debbano essere riconosciuti come minoranza nazionale. Ndtr. ]che è stata aggredita da molti parlamentari ebrei della Knesset (vedi giugno/luglio 2015 su Washington Report, p. 13). La misura era originariamente stata chiamata “Legge Zoabi”.

Alla fine di giugno, in un drammatico preludio all’approvazione della legge, più di una dozzina di parlamentari ebrei hanno scatenato violente proteste in parlamento nei confronti di Zoabi mentre lei stava facendo un discorso riguardante il patto di riconciliazione del governo israeliano con la Turchia. Ha dovuto essere difesa dalle guardie della Knesset.

Aveva scandalizzato i parlamentari riferendosi all’ “assassinio” di 10 attivisti umanitari da parte del commando israeliano nel 2010 [la strage sulla nave turca Mavi Marmara. Ndtr.]. La marina israeliana aveva attaccato una flottiglia di solidarietà, a cui Zoabi aveva partecipato, mentre stava navigando in acque internazionali dalla Turchia verso Gaza. L’incidente aveva portato alla rottura con Ankara.

Invece di criticare i parlamentari ebrei, Netanyahu aveva detto che Zoabi aveva “passato ogni limite” con i suoi commenti contro i commando e che non c’era “posto per lei nella Knesset”.

Allo stesso modo il leader dell’opposizione Isaac Herzog aveva chiesto di censurare tutti i discorsi di Zoabi dal canale TV della Knesset.

Festeggiando l’approvazione della legge, Netanyahu ha postato sulle reti sociali: “Quelli che appoggiano il terrorismo contro Israele e i suoi cittadini non faranno parte della Knesset israeliana.”

Zeidan ha affermato che la nuova legge rappresenta “una pericolosa escalation” nella più generale tendenza ad eliminare il dissenso e ad incitare all’odio.” Stiamo entrando in una nuova epoca. Prima c’erano leggi e politiche razziste, ma ora siamo andando rapidamente verso il vero e proprio fascismo.”

“I continui incitamenti contro la minoranza palestinese, dal primo ministro in giù, si spingono fin nelle piazze, dove ci saranno più violenze e più attacchi contro i cittadini palestinesi da parte della popolazione israeliana.”

Secondo la polizia israeliana, in luglio Zoabi avrebbe rifiutato una guardia del corpo della Knesset, nonostante il livello di minacce contro di lei lo richiedesse.

Procedimenti contro politici possono essere intrapresi con l’appoggio di 70 parlamentari. Un’espulsione può essere portata a termine se 90 parlamentari ritengono che il politico abbia incitato al razzismo o abbia appoggiato la lotta armata contro Israele. Nella legge non c’è una definizione su cosa costituisca un “appoggio”.

“Adalah” ha sottolineato che la Knesset potrà prendere in considerazione le affermazioni del parlamentare – e l’interpretazione di queste data dalla maggioranza – e non solo azioni o obiettivi manifesti.

Finora un politico avrebbe potuto essere destituito dalla Knesset solo se coinvolto in un grave crimine.

Netanyahu ha presentato la proposta di legge in febbraio, dopo che Zoabi e due suoi colleghi di Balad alla Knesset, Jamal Zahalka e Basel Ghattas, hanno incontrato una dozzina di famiglie palestinesi di Gerusalemme est occupata i cui figli erano stati uccisi durante attacchi solitari o in scontri con le forze di sicurezza. I tre parlamentari avevano promesso di aiutare a fare pressione sul governo perché restituisse i corpi per il funerale.

Autorità israeliane hanno sostenuto che la visita equivaleva ad un appoggio al “terrorismo”. I tre sono stati sospesi dalla Knesset per parecchi mesi. In base alla nuova legge, potrebbero essere espulsi per sempre.

Zahalka, leader del partito Balad, ha detto che i parlamentari palestinesi dovrebbero affrontare un “tribunale illegale, in cui parlamentari ostili fungerebbero da giudice e giuria. “

Ha detto che la “Lista Unitaria” si stava preparando a mandare una lettera all’Unione Interparlamentare, un’ istituzione che rappresenta 170 parlamenti di tutto il mondo, sollecitandola ad espellere la Knesset.

Data l’ampia maggioranza necessaria per ottenere l’espulsione di un parlamentare, alcuni hanno sostenuto che la nuova legge sarà praticamente impossibile da mettere in pratica.

Zahalka non è d’accordo. Egli dice: “Se durante il primo atto vedi un fucile, sai che nell’ultimo verrà usato. Ed è così con questa legge. Quando ci sarà la prossima “emergenza” o la prossima guerra, i parlamentari ebrei – anche quelli che ora criticano la legge – si uniranno per espellere chi dissente.”

Zoabi si è ritrovata ripetutamente aggredita praticamente da tutti i partiti ebrei della Knesset.

Nell’estate 2014, durante un massiccio attacco israeliano contro Gaza noto come “Margine Protettivo”, la commissione etica della Knesset l’ha sospesa per un tempo record di sei mesi – il più lungo periodo allora permesso.

Durante un’intervista ad una radio israeliana, aveva criticato i palestinesi responsabili del rapimento di tre giovani israeliani nella Cisgiordania occupata, ma si era rifiutata di chiamarli “terroristi”. Gli israeliani erano in seguito stati trovati morti.

Zahalka ha detto che i parlamentari palestinesi ora affrontano una situazione “straordinaria”. “In ogni Paese, l’immunità parlamentare conferisce agli eletti diritti più ampi di quelli dei comuni cittadini per permettere loro di svolgere i propri compiti in parlamento,” ha affermato. “Solo in Israele i rappresentanti eletti avranno maggiori restrizioni alla libertà di parola e di azione dei comuni cittadini.”

La “Lista Unitaria” ha detto che intende presentare appello alla Corte Suprema contro la legge.

La “Legge sull’Espulsione” fa seguito alla messa fuorilegge lo scorso anno del Movimento Islamico del nord, il movimento extra-parlamentare più seguito tra la minoranza palestinese in Israele (vedi Washington Report, Gen/febbr. 2016, p.24). Il suo capo, lo sceicco Raed Salah, è considerato un leader spirituale per una grande parte della comunità.

All’epoca, Netanyahu ha insinuato che il Movimento Islamico fosse legato ad attività “terroristiche”. Tuttavia indiscrezioni al giornale Haaretz provenienti da ambienti ministeriali hanno rivelato che i servizi di sicurezza israeliani non avevano trovato tali legami.

Zeinad aveva osservato che da qualche tempo la destra israeliana stava conducendo una battaglia per liberare la Knesset dei partiti palestinesi.

Negli ultimi 15 anni la Commissione Elettorale Centrale, che è dominata dai partiti ebrei, ha ripetutamente tentato di escludere parlamentari palestinesi dalla partecipazione alle elezioni. Tuttavia la Corte Suprema israeliana ha ribaltato queste decisioni in appello.

Nel 2014 il governo ha tentato una strada diversa. Ha approvato una “Legge Soglia”, alzando il quorum necessario per ottenere un seggio alla Knesset. Il quorum è stato fissato troppo in alto per i quattro piccoli partiti palestinesi.

Tuttavia la mossa ha avuto l’effetto contrario. I partiti hanno risposto formando la “Lista Unitaria”, ed è diventata una delle maggiori formazioni alla Knesset dopo le elezioni politiche dello scorso anno.

E’ stato in quel contesto, ha affermato Zeidan, che, alla vigilia delle elezioni, Netanyahu ha fatto il suo commento molto criticato, mettendo in guardia sul fatto che “gli arabi stanno andando a votare in massa.”

Asad Ghanem, un professore di politica dell’università di Haifa, ha sostenuto che la “Legge sull’Espulsione” può realizzare l’ obiettivo dichiarato di Netanyahu di scoraggiare la partecipazione dell’elettorato palestinese. L’astensionismo dei votanti della minoranza è sceso a poco meno della metà dopo la creazione della “Lista Unitaria” in tempo utile per le elezioni del 2015.

“Se si vede che questi attacchi alla rappresentanza politica degli arabi alla Knesset continuano,” ha detto Ghanem, “allora i votanti potrebbero concluderne che quando è troppo è troppo e che è arrivato il momento di rinunciare alla partecipazione politica.”

Jonathan Cook è un giornalista che vive a Nazareth e vincitore del premio speciale di giornalismo Martha Gellhorn. E’ autore di “Sangue e religione” e di “Israele e lo scontro di civiltà”.

(Traduzione di Amedeo Rossi)




I soldati israeliani uccisero dozzine di prigionieri nel corso di una delle guerre combattute dall’esercito israeliano (IDF) nei primi decenni dell’esistenza dello Stato di Israele.

di Aluf Benn,

Haaretz ,16 settembre 2016

Secondo una testimonianza ottenuta da Haaretz, ai prigionieri fu ordinato di mettersi in fila e voltarsi, prima di essere colpiti alla schiena. L’ufficiale che diede l’ordine venne rilasciato dopo aver scontato sette mesi di prigione, mentre il suo comandante fu promosso ad un alto grado.

I soldati israeliani uccisero dozzine di prigionieri durante una delle guerre combattute dall’IDF nei primi decenni di esistenza dello stato di Israele. L’ufficiale che aveva dato l’ordine di uccidere i prigionieri subì un processo, ma se la cavò con una condanna ridicolmente mite. Il suo comandante fu promosso ad grado molto superiore e l’intera vicenda venne insabbiata.

Le dozzine di prigionieri erano soldati degli eserciti nemici. Si erano arresi dopo la battaglia ed avevano deposto le loro armi. Alcuni di loro erano gravemente feriti.

I soldati israeliani che presero inizialmente il controllo del luogo dove loro si erano arresi li radunarono in un cortile interno circondato da un muro, diedero loro del cibo e parlarono con loro delle loro vite e del servizio militare.

Alcune ore dopo questi soldati vennero assegnati ad un’altra missione ed altre forze militari israeliane vennero inviate a sostituirli nel luogo in cui erano tenuti i prigionieri. Questo cambio della guardia pose il problema tra gli ufficiali preposti su che cosa fare dei soldati nemici catturati, poiché i nuovi militari si rifiutarono di assumersene la responsabilità, mentre quelli in partenza non avevano mezzi per il trasporto dei prigionieri.

Il comandante della compagnia che era l’ufficiale responsabile del posto ordinò allora ai suoi soldati di uccidere i prigionieri. Secondo la testimonianza rilasciata ad Haaretz, ai prigionieri venne ordinato di mettersi in fila e di voltarsi, quindi furono fucilati alla schiena. Un ufficiale nemico che era stato utilizzato come traduttore fuggì, ma fu colpito a morte da soldati del nuovo contingente, che erano in una jeep. Dopo il massacro un bulldozer dell’esercito ammucchiò i corpi in una fossa improvvisata.

Due testimonianze oculari del massacro dei prigionieri furono rilasciate al reporter di Haaretz molti anni fa. Secondo una di esse, da parte di un uomo che disse di essersi rifiutato di ubbidire all’ordine, il comandante gli ordinò di scendere ed uccidere i prigionieri feriti. Lui rifiutò perché prima i prigionieri gli avevano chiesto se sarebbero stati uccisi e lui aveva risposto di no.

Il comandante lo minacciò di inviarlo alla corte marziale per disobbedienza ad un ordine, ma lui continuò a rifiutarsi. Allora un altro uomo – il secondo testimone – saltò in piedi e si offrì volontario per eseguire l’ordine.

La testimonianza della seconda persona, che confessò di aver partecipato all’uccisione dei prigionieri insieme a tre suoi commilitoni, concorda a grandi linee con quella del primo testimone, benché essi non fossero in contatto e nessuno dei due conoscesse il contenuto della conversazione svoltasi con l’altro. Una differenza era che il secondo uomo sosteneva di aver anch’egli inizialmente rifiutato di ubbidire all’ordine, ma quando il comandante aveva insistito, lui aveva accettato di eseguirlo. Aggiunse che, dopo aver ucciso i prigionieri, si avvicinò e li colpì nuovamente da soli cinque metri di distanza, per assicurarsi che fossero tutti morti.

L’esercito israeliano avviò un’indagine della polizia militare sull’incidente, che si concluse con un processo per omicidio nei confronti del comandante della compagnia. Fu condannato a tre anni di prigione e rilasciato dopo soli sette mesi.

Il comandante sostenne che gli venne ordinato di uccidere i prigionieri dal suo superiore, che in seguito ottenne un’alta carica nell’esercito. Non è chiaro se l’ufficiale superiore sia mai stato indagato, ma sicuramente non subì mai un processo. Il comandante della compagnia lavorò come guida turistica dopo aver lasciato l’esercito, e quando anni dopo fu intervistato sull’argomento da un giornalista di Haaretz, rispose che “l’argomento è riservato” e gli suggerì di rivolgere le domande “ai servizi di sicurezza”.

Questo assassinio di dozzine di prigionieri fu uno dei più gravi crimini nella storia dell’IDF, ma l’esercito lo nascose e lo insabbiò. Portare alla luce i fatti è importante anche oggi, per comprendere la storia delle regole morali di combattimento dell’IDF ed imparare lezioni di leadership, di educazione e di comando per il futuro.

Traduzione di Cristiana Cavagna




Soluzione dei due Stati e razzismo israeliano

Il sostegno israeliano ad una soluzione dei due stati basata sul razzismo

Ben White

 

Middle East Eye – Lunedì 19 settembre 2016

 

Quello che unisce i sostenitori irriducibili del colonialismo di insediamento sionista è semplice: il razzismo contro i palestinesi.

La scorsa settimana “The Guardian” [giornale inglese di centro-sinistra. Ndtr.] ha pubblicato la recensione scritta da Nick Cohen di un nuovo libro intitolato “Il problema della sinistra con gli ebrei”. La recensione di Cohen era abbastanza prevedibile, e il libro in sé, scritto da Dave Rich del  “Community Security Trust” [gruppo di autodifesa ebraico sospettato di rapporti con i servizi di sicurezza israeliani. Ndtr.] non è il fulcro di questo editoriale.

Piuttosto, voglio richiamare l’attenzione su una breve citazione della recensione di Cohen, che è istruttiva per quello che evidenzia dell’attuale dibattito su antisemitismo e sinistra, così come su domande più generali su  sionismo, anti- sionismo e sulla continua lotta dei palestinesi per l’autodeterminazione.

In un articolo breve, Cohen dedica parecchio spazio a una definizione parodistica dell’anti-sionismo. Egli scrive:

A partire dagli anni ’70, gli oppositori di Israele hanno dovuto decidere se l’anti-sionismo significasse una realizzazione dei diritti nazionali dei palestinesi attraverso la soluzione dei due Stati, che riconosce che la Palestina era il fulcro dei nazionalismi ebreo ed arabo in conflitto, o se gli richiedesse un appoggio a una guerra mortale, che avrebbe portato ad uno Stato puro dal punto di vista etnico e (con il sorgere del fondamentalismo sunnita) religioso.

Qui Cohen elabora la sua fondamentale alternativa falsa tra una soluzione dei due Stati che preservi Israele come “Stato ebraico” o un unico Stato “puramente sunnita”.

Che dire allora di uno Stato unico, democratico e decolonizzato? Sembrerebbe che Nick Cohen non pensi che i palestinesi siano abbastanza “civilizzati” per questo.

Nessun diritto al ritorno

Naturalmente, come ha sempre scritto, Cohen è assolutamente contrario al ritorno dei profughi palestinesi a casa. Perché? Sulla base del fatto che “distruggerebbero (Israele) in quanto Stato ebraico.” Il che ci porta alla domanda: chi sta effettivamente difendendo qui l’idea di uno “Stato etnicamente…puro”?

Questo tipo di proiezione da parte dei sostenitori di Israele è particolarmente evidente quando il discorso verte sull’idea di una soluzione di uno Stato unico democratico.

“I palestinesi vorrebbero buttare fuori gli ebrei!” sostengono i sostenitori di uno Stato creato attraverso la pulizia etnica, e che continua a praticarla anche adesso.

“Gli ebrei sarebbero cittadini di serie B!” dicono i sostenitori di uno Stato in cui i cittadini palestinesi affrontano una disuguaglianza sistematica, e le cui forze armate tengono milioni di palestinesi senza Stato sotto un regime militare ancora più esplicitamente discriminatorio.

L’argomentazione di Cohen mi ha ricordato le obiezioni di Yiftah Curiel, portavoce dell’ambasciata israeliana, durante un dibattito dell’inizio di quest’anno all’università di Oxford: “L’obiettivo di uno Stato unico,” ha detto, “è già stato sperimentato, e si chiama Siria.”

Da dove cominciare a descrivere le differenze che rendono un simile paragone quanto meno superficiale e semplicistico? Al peggio, si tratta di semplice razzismo: l’assunto implicito – o non tanto implicito, nel caso di Cohen – è che gli arabi sono incompatibili con una democrazia.

Una compagnia preoccupante

La difesa da parte di Cohen dell’attuale pulizia etnica con l’evocazione di un’ipotetica, futura pulizia etnica non è l’unico esempio di proiezione. Forse il suo prediletto argomento centrale da demolire è quello che vede una causa comune tra “sinistra”, o “progressisti”, e “sostenitori della “Fratellanza Musulmana”.

Eppure è  Cohen, in quanto si autodefinisce “liberal”, che si ritrova in allarmante compagnia quando arriva a difendere l’etnocrazia di Israele.

Per esempio, la scorsa settimana il ministro della Difesa israeliano Avigdor Lieberman, residente in una colonia e capo del partito ultra-nazionalista Yisrael Beiteinu, ha parlato agli studenti nell’università di Ariel (situata all’interno della Cisgiordania) ed ha ripetuto il suo ben noto sostegno ad uno scambio di popolazione e terra tra coloni e cittadini palestinesi di Israele.

Perché? Bene, come lo ha definito Lieberman, è inaccettabile per i coloni ebrei essere spostati dalla Cisgiordania con un accordo di pace, per poi lasciare Israele con tutti quei cittadini palestinesi che distruggono la demografia di uno “Stato ebraico”.

“Abbas non vuole neanche un ebreo sul suo territorio mentre da noi ci si aspetta che diventiamo uno Stato bi-nazionale,” ha detto.

Questa avversione per il “bi-nazionalismo”, o anche per ogni soluzione in cui la “maggioranza ebraica” artificialmente e violentemente creata non sia protetta da un muro (gioco di parole) e garantita per sempre, è un punto di vista condiviso da tutti, da Lieberman fino a gente come la politica dell’opposizione israeliana Tzipi Livni.

Per Livni “pace e due Stati per due popoli” è “un imperativo”, in modo da  “evitare il problema statistico demografico che i palestinesi superino il numero degli israeliani,” e per “preservare l’ebraicità del modello di Israele come Stato ebraico e democratico.”

O, come Livni ha detto una volta agli studenti di una scuola di Tel Aviv, “una volta creato uno Stato palestinese”,  lei potrebbe guardarsi in giro e dire ai cittadini palestinesi di Israele: “La soluzione nazionale per voi è altrove.”

Nick Cohen annuirebbe in segno di approvazione. Perché quello che unisce i difensori incondizionali del colonialismo di insediamento sionista, che siano “liberal” o “falchi”, e indipendentemente dalle loro opinioni su qualunque altra questione, è semplice:  il razzismo anti-palestinese.

Ben White è l’autore di “Aparthied israeliano: una guida per principianti” e “Palestinesi in Israele: segregazione, discriminazione e democrazia.” Scrive per Middle East Monitor e i suoi articoli sono stati pubblicati da Al Jazeera, al-Araby, Huffington Post, The Electronic Intifada, The Guardian’s Comment is free ed altri.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Il video di Netanyahu sulla “pulizia etnica” viene criticato duramente dal Dipartimento di Stato

Mondoweiss, 9 settembre 2016

Philip Weiss

 

Oggi il primo ministro Benjamin Netanyahu ha postato un altro dei suoi video in inglese riguardo al conflitto. Nel video si sostiene che quelli che vogliono creare uno Stato palestinese propugnano la “pulizia etnica” degli ebrei dai territori occupati e che alcuni Stati di larghe vedute appoggiano un simile piano

[Dal video di Netanyahu]

Ma la leadership palestinese chiede addirittura lo Stato palestinese a una condizione: senza ebrei. C’è una definizione per questo: pulizia etnica. E questa richiesta è vergognosa. È ancora più vergognoso che la comunità internazionale non la consideri tale. Alcuni Paesi, peraltro di ampie vedute, promuovono addirittura questa vergogna. Vi siete mai chiesto se accettereste la pulizia etnica nel vostro Paese? Un territorio senza ebrei, ispanici, neri? Da quando in qua la xenofobia è una base per [ottenere] la pace?…Penso che sia l’intolleranza verso gli altri ad ostacolare la pace”

 

E il Dipartimennto di Stato [USA] è stato veloce oggi nel criticare il primo ministro, riportando una descrizione della vera pulizia etnica, quella dei palestinesi. Segnali di una nuova fermezza dell’amministrazione Obama nei suoi ultimi giorni?

[Dalla conferenza Stampa del Capo dell’Ufficio Stampa del Dipartimento di Stato USA ndt]

Sig.[Elisabeth]Trudeau. Abbiamo visto il video del primo ministro israeliano. Naturalmente noi dissentiamo fortemente dall’idea che coloro che si oppongono alla colonizzazione o che la percepiscono come un ostacolo alla pace in qualche modo propugnano la pulizia etnica degli ebrei dalla Cisgiordania. Noi crediamo che l’uso di quel tipo di terminologia è inopportuno e dannoso. La questione delle colonie deve essere risolta nella parte finale dei negoziati tra le due parti. Noi condividiamo la visione di tutte le passate amministrazioni USA e la forte opinione della comunità internazionale che la continua colonizzazione è un ostacolo alla pace. Noi continuiamo ad appellarci a entrambe le parti affinché dimostrino con azioni e con iniziative politiche una sincera adesione alla soluzione dei due Stati.

Abbiamo più volte manifestato la nostra forte preoccupazione per il fatto che la politica del fatto compiuto si muove nella direzione opposta. Per essere chiari: il fatto indiscutibile è che già quest’anno migliaia di unità abitative nelle colonie sono state programmate per gli israeliani nella Cisgiordania , avamposti illegali e unità coloniali non autorizzate sono stati retroattivamente legalizzati, più terra della Cisgiordania è stata confiscata per l’uso esclusivo degli israeliani e c’è una drammatica crescita delle demolizioni risultante in più di 700 strutture palestinesi distrutte, con l’espulsione di più di 1000 palestinesi. Come abbiamo già detto molte volte, ciò solleva reali domande circa le intenzioni di Israele sul lungo periodo rispetto alla Cisgiordania.

Domanda: Quindi a lei il video non è piaciuto molto, giusto?

Sig. Trudeau: Giusto

D. Per cui avete – non lei personalmente, ma l’amministrazione – chiarito le vostre impressioni, oltre ai suoi commenti in questo momento, agli israeliani?

Sig. Trudeau: Sì. Stiamo parlando direttamente con il governo israeliano su questo.

D. Voglio dire, c’è qualcosa che lei possa fare? Cioè , lui ha detto questo, sembra che ci creda ed è un punto di vista abbastanza forte. Anche se lei dissente da ciò, cosa gli ha chiesto di fare? Voglio dire, gli avete chiesto di tornare completamente sui suoi passi oppure..

Sig. Trudeau: Non voglio entrare nelle nostre discussioni diplomatiche. Quello che posso dire è: inopportuno , inutile. Parleremo con i nostri alleati e amici israeliani e vedremo cosa ne esce.

Mondoweiss: Notate il riferimento alle demolizioni delle case e ai 1000 palestinesi sfollati.

Questo è un punto di partenza.

Traduzione di Carlo Tagliacozzo




La “S” di BDS: Lezioni da trarre dalla campagna contro la Elbit Systems (III parte)

Da: Al-Shabaka

09 Settembre 2016

In questo editoriale politico di Al-Shbaka Maren Mantovani e Jamal Juma analizzano alcuni sviluppi che il complesso militare industriale di Israele deve affrontare, con una particolare attenzione alla campagna contro Elbit Systems. L’editoriale analizza i momenti difficili che l’industria si trova di fronte, il mito della superiorità tecnologica di Israele, i cambiamenti locali e globali dell’industria e le alleanze emerse per opporsi alla militarizzazione ed alle tendenze sicuritarie nelle varie società. In base a questa analisi delineano indicazioni preziose ed identificano percorsi da seguire per il movimento globale di solidarietà con la Palestina.

Fare causa comune contro la militarizzazione

L’appello per un totale embargo militare verso Israele non si basa soltanto sulla richiesta palestinese di porre termine all’impunità di Israele e alla complicità di tutto il mondo con il suo regime di apartheid. Fa anche parte di una lotta globale contro le guerre e la repressione e contro la militarizzazione e gestione sicuritaria della società. C’è una crescente consapevolezza delle modalità attraverso cui le esportazioni israeliane militari e “per la sicurezza interna” contribuiscono a queste prassi con nuove tecnologie e metodologie sviluppate nel processo di occupazione militare, apartheid e pulizia etnica del popolo palestinese. A loro volta, la militarizzazione e la gestione sicuritaria contribuiscono a sostenere l’industria militare israeliana e le politiche contro i palestinesi.

Parallelamente al crescente ruolo di Israele in questa militarizzazione, i movimenti in tutto il mondo stanno facendo causa comune con il movimento BDS contro la repressione e la discriminazione da parte delle forze militari e di polizia. La campagna contro la compagnia israeliana “di sicurezza interna” International Security and Defense Systems (ISDS) ne è un importante esempio. La ISDS è stata fondata nel 1982 da ex-agenti del Mossad. Giornalisti di inchiesta e ex-membri di giunte militari riferiscono che ISDS ha addestrato gli squadroni della morte in Guatemala, El Salvador, Honduras e Nicaragua ed ha preso parte a golpe e a tentativi di colpo di stato in Honduras e Venezuela.

Attualmente ISDS addestra la famigerata forza di polizia militare BOPE a Rio de Janeiro, ammettendo con orgoglio che la polizia nelle favelas utilizza le stesse tecniche che Israele usa a Gaza. ISDS ha anche ottenuto un contratto che le ha fatto molta pubblicità con i Giochi Olimpici di Rio del 2016. Movimenti palestinesi come Stop the Wall (Fermare il Muro, ndt) e il Comitato Nazionale del BDS (BNC) hanno unito le loro forze a quelle dei movimenti popolari di Rio che lavorano per i diritti umani nelle favelas, in una campagna denominata “Giochi Olimpici senza apartheid”, per ottenere la cancellazione del contratto.

Analoghi rapporti sono stati instaurati tra il movimento di solidarietà palestinese e gli attivisti neri negli USA, che nel 2015 hanno emesso una dichiarazione di solidarietà sostenuta da oltre 1000 attivisti ed intellettuali neri, che afferma che “l’uso massiccio da parte di Israele della detenzione e dell’arresto dei palestinesi evoca l’incarcerazione di massa del popolo nero negli USA, inclusa la detenzione politica dei nostri rivoluzionari” e fa appello alla lotta comune contro la compagnia di sicurezza G4S. Inoltre nell’agosto 2016 il movimento “Black Lives Matter” (la vita dei neri è importante, ndt) ha appoggiato il movimento BDS.

Il muro al confine tra USA e Messico è un altro luogo che vede la lotta comune tra attivisti della solidarietà palestinesi e il popolo indigeno colpito dalla messa in pratica delle metodologie e tecnologie israeliane nella loro terra, in cui la Elbit Systems ricopre un ruolo centrale.

La campagna nell’UE per sospendere i finanziamenti alla Elbit Systems e ad altre compagnie militari israeliane riguarda un maggiore coinvolgimento per ogni cittadino europeo. Con un budget di 80 miliardi di euro (circa 88 miliardi di dollari al tasso di cambio di fine 2015), l’attuale programma di finanziamento dell’UE per la ricerca e lo sviluppo Horizon 2020 è tra i maggiori progetti di finanziamento al mondo. Ridistribuisce il denaro dei contribuenti soprattutto a istituzioni aziendali ed accademiche che sviluppano ricerche al servizio di grandi business, compresa la cooperazione con le imprese militari israeliane. I progetti di ricerca con le imprese militari israeliane spesso sviluppano tecnologie a doppio uso (sia militare che civile) in aperta violazione delle norme dell’UE e contribuiscono alla militarizzazione ed alla deriva sicuritaria delle società europee. La maggioranza degli europei, se sapesse come è stato usato il suo denaro, probabilmente concorderebbe sul fatto che l’UE nuoce non solo ai palestinesi, ma anche ai suoi stessi cittadini spendendo denaro in guerre che creano nuovi rifugiati ed in tecnologie che controllano, discriminano per razza ed opprimono gli europei invece di andare incontro alle loro necessità.

Prendere di mira i punti deboli delle forze armate israeliane

La nota informativa ha cercato di fornire una panoramica del complesso militare industriale di Israele e di identificare delle possibilità d’azione che permettano di ridurre i profitti industriali e poi portino ad un embargo delle armi finché non vengano ottenuti i diritti dei palestinesi. Si tratta indubbiamente di un impegno importante: il complesso industriale militare comprende imprese potenti, propaganda e sistemi di promozione e vendita spudorati, impianti di difesa globale che spesso sono lontani dal discorso e dalla portata degli attivisti della solidarietà. Eppure non è solo un’esigenza etica per i paesi quella di interrompere le relazioni militari con Israele finché esso non rispetti il diritto internazionale; è anche una campagna che può essere vinta. Sicuramente, sulla base dell’esperienza fino ad ora e alla luce della precedente analisi, ci sono diverse possibilità da prendere in considerazione per gli attivisti.

Al livello più basilare, sono indispensabili l’educazione dell’opinione pubblica e la mobilitazione. La maggior parte delle persone comprende intuitivamente che i rispettivi governi non dovrebbero mantenere relazioni militari con una potenza di occupazione che sferra sistematici attacchi militari contro la Striscia di Gaza sotto assedio ed altri paesi vicini, così come compie incursioni, raid, demolizioni di case ed altre violazioni di diritti umani contro la Cisgiordania e Gerusalemme est occupate – soprattutto poiché questi atti non soltanto infrangono il loro codice morale, ma anche le leggi dei loro paesi e le leggi internazionali. Il numero dei difensori dei diritti umani che si impegnano nel boicottaggio e disinvestimento è in aumento; è solo questione di tempo perché il numero di coloro che spingono per le sanzioni, e soprattutto per le sanzioni militari, cresca fino a raggiungere una massa critica.

La solidarietà con la Palestina da parte di comunità anch’esse colpite dalla militarizzazione e messa in sicurezza ha una lunga storia, soprattutto in America Latina, dove Israele ed i suoi agenti privati per decenni hanno appoggiato ed addestrato gli squadroni della morte e le dittature. La consolidata collaborazione tra i neri americani, i latini e i popoli indigeni negli USA, a fronte della militarizzazione esponenziale delle metropoli europee, significa che una vasta ed organizzata rete di attivisti ha il potenziale per svilupparsi anche in occidente. Nel caso della UE, una pressione dell’opinione pubblica potrebbe essere utilizzata per sostenere le argomentazioni tecniche per contestare il finanziamento di Horizon 2020 alle forze armate israeliane – e ad altri enti – complici dell’occupazione.

Nelle loro campagne gli attivisti dovrebbero anche evidenziare che la tecnologia militare israeliana non è né così efficace né così scevra da problemi come pretende la propaganda. I gravi problemi con la produzione di droni israeliani e le questioni relative a Iron Dome (sistema di difesa antimissile, ndt) sono solo due esempi. Ancor più convincente è il fatto che Israele sta minando la capacità dei paesi di gestire la propria difesa, sottraendo loro la capacità industriale a favore di Israele ed usando i suoi sistemi di sicurezza per fare spionaggio nei confronti dei paesi clienti, con l’effettivo risultato della perdita della loro sovranità ed indipendenza nazionale.

La Elbit Systems, grande com’è, è particolarmente vulnerabile alle azioni degli attivisti.

E’ l’unica impresa militare privata israeliana di queste dimensioni ed è perciò più vulnerabile alle crisi, ai rischi di speculazione finanziaria e alla ristrutturazione economica. La Elbit Systems è gravemente indebitata ed ha bisogno di garantirsi un continuo flusso di liquidità per onorare il debito. La sua presenza sempre più globale rende più facile agli attivisti in diversi paesi attaccare la Elbit o le sue filiali. Inoltre anche la crescente dipendenza dell’industria militare dagli aiuti del bilancio statale israeliano la rende vulnerabile, accrescendo anche la vulnerabilità dello stato.

Gli attivisti dovrebbero anche trarre lezione dall’esperienza: Israele si mette sempre in grado di trarre vantaggio quando arrivano al potere nuovi governi o si implementano nuove politiche nazionali. Anche gli attivisti dovrebbero mettersi in grado di sviluppare programmi adeguati alla situazione del momento per affrontare i cambiamenti di governo. E’ la chiave per garantirsi, dove possibile, impegni o leggi da parte di governi amici contro il commercio militare con Israele o per trarre vantaggio da circostanze in cui governi ostili applicano politiche contrarie agli interessi di Israele. Fare leva sulle dinamiche interne in tali circostanze è un fattore essenziale di successo.

Se si vogliono attuare sanzioni militari contro Israele, la società civile palestinese e gli attivisti dovranno lavorare sodo per fare pressione sull’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e sull’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) perché usino i loro contatti diplomatici e qualunque potere di persuasione di cui dispongano sia nei confronti di singoli stati che delle Nazioni Unite. In particolare, dovrebbero assicurarsi che OLP/ANP usino ogni mezzo possibile per impedire e contrastare il commercio di armi tra gli stati del Golfo ed Israele.

Non c’è modo di prevedere quando il vento cambierà. Ma le lotte popolari contro la repressione, la guerra e l’apartheid, rafforzate da una crescente percezione negativa del complesso industriale militare israeliano, potrebbero colpire al cuore un’industria che da un lato sostiene l’aggressione israeliana e dall’altro prospera grazie ad essa. Il mito della tecnologia militare israeliana si sta lentamente sgretolando e un’industria militare israeliana più privatizzata è altrettanto esposta ai rischi del mercato globale quanto lo sono altre imprese. L’appello per sanzioni militari può iniziare a far presa anche prima che i governi siano pronti ad attuare un embargo a pieno titolo.

Fonte: Ma’an News Agency

Al- Shabaka è un’organizzazione no profit indipendente la cui finalità è educare e rafforzare la discussione pubblica sui diritti umani e l’autodeterminazione dei palestinesi nel quadro delle leggi internazionali.

Traduzione di Cristiana Cavagna per BDS Italia




La “S” di BDS: lezioni da trarre dalla campagna contro la Elbit System (II parte)

Da: Al Shabaka

Al- Shabaka è un’organizzazione no profit indipendente la cui finalità è educare e rafforzare la discussione pubblica sui diritti umani e l’autodeterminazione dei palestinesi nel quadro delle leggi internazionali.

7 settembre, 2016

In questo editoriale politico di Al-Shabaka Maren Mantovani e Jamal Juma analizzano alcuni sviluppi che il complesso militare industriale di Israele deve affrontare, con una particolare attenzione alla campagna contro Elbit System. L’editoriale analizza i momenti difficili che l’industria si trova di fronte, il mito della superiorità tecnologica di Israele, i cambiamenti locali e globali dell’industria e le alleanze emerse per opporsi alla militarizzazione e alle tendenze sicuritarie nelle varie società. In base a questa analisi essi delineano indicazioni preziose ed identificano percorsi da seguire per il movimento globale di solidarietà con la Palestina.

Sfatare il mito della superiorità tecnologica israeliana

L’industria militare israeliana è un elemento fondamentale dell’economia del paese. Impiega circa 50.000 addetti, ne sostiene altrettanti nell’indotto e rappresenta il 13% di tutte le esportazioni industriali. Le 600 compagnie che costituiscono il settore dipendono fortemente dai mercati esteri: l’80% della produzione militare israeliana è destinata alle esportazioni. La capacità da parte di Israele di finanziare guerre, mantenere il suo complesso militare industriale e competere sul mercato globale dipende dalla sua reputazione come paese con armamenti all’avanguardia e “testati sul campo”.

Negli ultimi anni l’opinione pubblica ha acquisito una sempre maggiore consapevolezza del fatto che il marchio “testati sul campo” sta per armi sviluppate durante massacri e crimini di guerra contro i palestinesi ed il popolo arabo. Proteste in tutto il mondo, come l’occupazione di fabbriche di Elbit in Gran Bretagna ed Australia, flash mobs in molti luoghi, petizioni e reportage approfonditi e la copertura mediatica hanno contribuito a questa crescente consapevolezza.

Per contrastare le proteste della società civile, in continuo aumento, chi difende le relazioni militari con Israele sostiene che la cooperazione militare con e gli acquisti da Israele sono di interesse nazionale del paese. Tuttavia, l’idea che le armi israeliane siano inevitabilmente la scelta migliore da un punto di vista tecnologico e che adottare un embargo militare significherebbe compromettere la “sicurezza nazionale” è un altro mito da sfatare.

Dall’attacco israeliano contro il Libano nel 2006 il mito della superiorità bellica di Israele ha subito delle battute d’arresto. Come hanno dovuto riferire persino i media israeliani, gli Hezbollah [milizia sciita libanese che combatte contro l’esercito israeliano, ndt] hanno reso inutilizzabili almeno 20 “indistruttibili” carri armati Merkava. Dopo la guerra, Israele ha iniziato a comprare carri armati Abram costruiti negli Stati Uniti (USA).

Quanto all’ “Iron Dome” [sistema antimissilistico utilizzato per distruggere i razzi lanciati da Gaza, ndt] israeliano, la sua efficacia è stata messa in dubbio in seguito all’attacco israeliano contro Gaza del 2014, ed alcuni esperti di tecnologie militari israeliani e statunitensi lo hanno condannato come “la più grande bufala del mondo”. Persino progetti riguardanti le esportazioni di tecnologie hanno sofferto costi e difficoltà crescenti. E’ il caso del drone ” Watchkeeper”, rifiutato dal governo francese all’inizio di quest’anno. Ha avuto ripetuti incidenti e si è persino rivelato inadatto al volo nelle condizioni meteorologiche del Regno Unito.

Oggi l’industria militare israeliana cerca di penetrare in nuovi mercati promuovendosi come leader nella sicurezza informatica. Tuttavia, la lunga serie di scandali spionistici che hanno coinvolto le imprese israeliane di software ed elaborazione dati ha messo in dubbio la capacità di Israele di “rendere sicura” qualsiasi cosa. Infatti ci sono molte indicazioni del fatto che le imprese israeliane utilizzano contratti all’estero per passare informazioni sensibili alle agenzie di intelligence israeliane. Per esempio Amdocs, la più grande impresa israeliana di software, è stata ripetutamente accusata di spionaggio, anche negli USA.

In più c’è un continuo passaggio di personale tra l’unità d’élite dello spionaggio israeliano – l’Unità 8200 di intelligence militare – e il settore di high-tech e informatico del paese. “E’ praticamente impossibile trovare una compagnia che produce tecnologia che non abbia personale dell’8200,” dice Yair Cohen, un ex generale di brigata che una volta comandava l’Unità 8200 e oggi guida il dipartimento di spionaggio informatico alla “Elbit System”. Il procedimento è molto semplice: Israele permette all’ex personale dell’Unità 8200 di utilizzarne la tecnologia per costituire la propria start-up (facendo a volte enormi profitti) e in cambio ottiene accesso a informazioni in tutto il mondo, installando concretamente un “cavallo di Troia” all’interno di istituzioni che cercano la sicurezza elettronica.

Alcuni circoli della difesa considerano utile trattare con Israele perché trasferirà una tecnologia che altri importanti esportatori di armi negli Usa o in Europa non cederebbero. Israele ha ripetutamente venduto a paesi nei confronti dei quali l’opinione pubblica ha imposto limiti alle relazioni militari o embarghi di armi. Molte risoluzioni dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (ONU) hanno condannato rapporti militari tra Israele e il Sudafrica dell’apartheid durante gli anni ’80. Israele ha anche stabilito relazioni militari con le giunte militari in Argentina e in Cile nel 1976 ed esteso i propri rapporti con le brutali dittature in America Latina dopo che l’amministrazione Carter ha ridotto l’assistenza militare USA.

Tuttavia il trasferimento di tecnologia israeliana comporta sempre dei compromessi per chi voglia fare scelte politiche che non corrispondono agli interessi di Israele e degli USA. Durante l’ultimo periodo dell’amministrazione del National Congress indiano [partito indiano che ha governato il paese per molti anni, ndt], dal 2004 al 2014, che ufficialmente ha mantenuto una posizione filo-palestinese, alcuni diplomatici in via confidenziale si sono lamentati del fatto che strette relazioni militari con Israele hanno reso difficile al governo prendere misure concrete di solidarietà con il popolo palestinese. Il recente dibattito in Brasile sulle misure che il settore della difesa avrebbe potuto prendere come ritorsione contro la ferma presa di posizione del paese contro gli insediamenti è un altro esempio. La Cina è stata uno dei principali partner militari di Israele fino al 2005, quando gli USA hanno chiesto ad Israele di interrompere qualunque relazione militare. In seguito a ciò, anche le forniture militari che la Cina aveva già comprato sono state bloccate e sono rimaste senza pezzi di ricambio.

Cambiamenti locali e globali nell’industria bellica di Israele

Nel periodo pre-statale e nei primi anni dalla nascita dello stato, le energie che hanno posto le basi dell’industria militare israeliana furono centrate sull’equipaggiamento di un esercito che avrebbe conquistato la Palestina ed espulso la popolazione autoctona.

Negli anni successivi, ex-membri dell’esercito crearono una moltitudine di piccole compagnie “per la sicurezza” per monetizzare le proprie competenze nella repressione. Israele ha esternalizzato le proprie relazioni internazionali più compromettenti in campo militare a queste imprese, che gli permettono di negare ogni coinvolgimento. Allo stesso tempo, le principali industrie militari, Israeli Aerospace Industries (IAI), Rafael Advanced Defense Systems e Israeli Military Industries (IMI), sono rimaste statali per garantire il controllo diretto. Solo Elbit Systems è stata in grado di prosperare, in quanto più importante industria militare privata israeliana allo stesso livello delle imprese statali.

Con il tempo, il settore delle industrie belliche è diventato relativamente indipendente. Rifornisce ancora il governo per mantenere il suo regime e per le sue necessità di politica estera, ma ha sviluppato propri interessi specifici. Il campanello d’allarme suonato dall’industria militare israeliana nell’ottobre 2015 è stato un tentativo di fare pressione sullo Stato israeliano e di assicurarsi che questo ed i contribuenti avrebbero garantito che la riduzione delle esportazioni e la caduta dei profitti venissero compensate da un intervento del governo. Il governo israeliano ha distribuito lucrosi contratti alla fine dell’anno. In più, sono stati generosamente distribuiti stanziamenti di bilancio per le industrie militari, compresi aiuti a favore della commercializzazione.

Tentativi di privatizzare IMI, che produce, tra le altre armi, munizioni a grappolo israeliane, verranno probabilmente conclusi presto. Ciò significa che il processo ventennale di privatizzazione delle imprese pubbliche ha raggiunto il cuore dell’industria militare. La vendita di IMI ha incontrato delle difficoltà per timore di un possibile monopolio da parte di Elbit System, che è l’unico partecipante alla gara per l’assegnazione, ed anche per le accuse di comportamento scorretto da parte del capo dell’Autorità delle imprese pubbliche.

Tuttavia le ultime notizie sono che l’affare è di nuovo in corso. Ciò è destinato ad approfondire la dinamica per cui i profitti delle imprese militari ora privatizzate spettano a loro, mentre il peso delle perdite è sostenuto dallo stato e dai cittadini.

Le tendenze globali nel settore bellico sono un altro elemento che produce cambiamenti all’interno dell’industria militare israeliana. La crescente richiesta, nel settore mondiale delle armi, di produrre all’interno del paese acquirente, compresi accordi di compensazione e di trasferimento ed addestramento tecnologico, ha portato le imprese militari israeliane come Elbit Systems a perseguire una strategia di acquisizioni a livello globale. Invece di potenziare le industrie della difesa nazionale dei paesi acquirenti, questa strategia ha creato un effetto di denazionalizzazione, esternalizzando l’industria in Israele. Elbit System oggi è presente con nomi diversi e in vari settori in tutto il mondo. Una delle ultime acquisizioni di Elbit è Nice Systems, un’impresa di software per elaborazione dati con una presenza in oltre 150 Paesi, che ha tra i suoi clienti società private così come istituzioni pubbliche locali. Mentre questa strategia intende espandere i profitti di Elbit Systems, ciò consente potenzialmente al movimento internazionale BDS di prendere di mira gli interessi di Elbit non solo a livello di ministeri federali della Difesa, ma più vicino a casa.

Inoltre la strategia di acquisizioni da parte di Elbit Systems significa che si indebita per acquistare altre compagnie e creare una multinazionale. Per sostenere questa politica deve garantirsi un continuo flusso di denaro. Questo è un rischio notevole, in quanto una caduta degli investimenti e dei contratti o una riduzione della fiducia e una percezione negativa sul mercato degli investimenti potrebbe portare ad una crisi di solvibilità. E se Elbit Systems vuole trasferire potenziali perdite globali sullo Stato, Israele se lo può permettere?

Guardando alle prospettive dell’industria bellica israeliana, è importante mettere in evidenza che le vendite complessive dell’industria sono cresciute a oltre 5 miliardi di dollari alla fine del 2015. Ciò è dovuto ad una serie di nuovi contratti negli ultimi mesi dell’anno, benché le vendite siano state ancora significativamente inferiori a quelle dell’anno precedente. Tuttavia, le industrie militari israeliane hanno in prospettiva parecchie importanti opportunità di esportazione, che solleciteranno l’attenzione del movimento di solidarietà palestinese.

Si prevede che gli attuali negoziati di Israele con gli USA per un nuovo aiuto militare di 10 anni porteranno a Israele molto più degli attuali 3,1 miliardi di dollari all’anno. Date le imminenti elezioni presidenziali USA e i candidati dei due principali partiti, il movimento dovrà sicuramente lavorare duramente su questo. Comunque l’accordo ha la possibilità di sfidare il complesso militare industriale israeliano. Nelle discussioni è compresa l’intenzione degli USA di ridurre la percentuale di fondi che Israele può spendere nella sua industria bellica.

Reuven Ben-Shalom, l’ex-capo del ramo nordamericano della divisione di pianificazione strategica dell’esercito israeliano, definisce una simile prospettiva come “devastante per le imprese belliche israeliane.” Anche il presidente dell’Associazione delle Imprese di Israele, Shraga Brosh, ha messo in guardia che se le intenzioni degli USA si realizzeranno, “dozzine di linee di produzione e persino tutte le fabbriche della Difesa chiuderanno, migliaia di lavoratori verranno licenziati e lo Stato di Israele perderà la propria indipendenza in materia di difesa.” Quindi un aumento degli aiuti militari

potrebbe in realtà trasformarsi in una batosta per l’industria bellica israeliana, con l’effetto a medio termine che le imprese israeliane delocalizzeranno la produzione o incrementeranno gli accordi industriali con gli USA per garantirsi il costante accesso agli aiuti militari statunitensi.

Nel caso dell’Europa, le vendite regionali sono più che duplicate lo scorso anno, arrivando a 1,63 miliardi di dollari, rispetto ai 724 milioni del 2014. La cooperazione europea con Israele è destinata a continuare ad aumentare, in quanto l’UE chiude ulteriormente le frontiere per contenere la crescente immigrazione, con bombe e sparatorie nelle città europee utilizzate per giustificare la crescente spesa per la militarizzazione ed il controllo della popolazione.

Autorità israeliane e dirigenti d’impresa sono consapevoli che questa tendenza è positiva per gli affari israeliani. Subito dopo gli attacchi del 2015 a Parigi, i leader israeliani hanno sottolineato che solo le tecnologie israeliane possono salvare l’Europa. Secondo Itamar Graff, un importante funzionario di SIBAT, l’agenzia per la cooperazione internazionale per la difesa del ministero della Difesa israeliano, si prevede che l’Europa spenderà 50 miliardi di dollari in appalti nel campo della “sicurezza interna” – sufficienti per le imprese israeliane di ogni dimensione per fare profitti significativi, vendendo prodotti sviluppati per reprimere i palestinesi.

Anche l’America latina, nonostante una contrazione delle vendite a 577 milioni di dollari nel 2015, può offrire nuovi mercati, a causa del riflusso dell’ondata di governi progressisti nella regione, soprattutto in Brasile, dove il governo golpista ha immediatamente spinto per rapporti più stretti con Israele. In Argentina il governo di destra recentemente eletto ha iniziato il proprio mandato offrendo ad Israele una più stretta cooperazione militare e per la sicurezza.

Le importazioni della regione Asia – Pacifico sono leggermente scese a 2,3 miliardi nel 2015 rispetto a circa 3 miliardi nel 2014. Tuttavia l’andamento complessivo nell’ultimo decennio mostra un deciso aumento delle esportazioni belliche a questa regione. L’Asia rappresenta il 29% delle entrate di Elbit Systems, e ci sono margini per aumentarle, dato che Israele recentemente ha approvato uno stanziamento speciale per Elbit Systems perché commercializzi i propri prodotti in Cina. Inoltre Elbit Systems ha da poco formato una joint venture con imprese indiane per vendere più droni al paese, e nel marzo di quest’anno Rafael Advanced Defense Systems ha firmato un accordo di cooperazione di 10 miliardi di dollari con il gigante indiano Reliance Defense. In base a quanto riferito, il governo indiano starebbe per firmare con Israele anche un accordo per la difesa di 3 miliardi di dollari e starebbe prendendo in considerazione la cooperazione con Israele per la costruzione di una barriera nel Kashmir. Ancora più inquietanti dell’espansione di Israele in questi mercati sono le informazioni secondo cui alcuni Stati del Golfo sono in lizza per comprare il sistema antimissile Iron Dome.

Fonte: Ma’an News Agency

Traduzione di Amedeo Rossi per BDS Italia

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La “S” in BDS: L’insegnamento della Campagna della Elbit Systems (Parte I)

Da: Al-Shabaka

Al-Shabaka è un’organizzazione indipendente senza scopo di lucro la cui missione è di educare e stimolare il dibattito pubblico sui diritti umani palestinesi e sull’autodeterminazione nel quadro del diritto internazionale.

In questo documento programmatico di Al-Shabaka, Maren Mantovani e Jamal Juma analizzano alcune delle congiunture che il complesso militare industriale di Israele si trova ad dover affrontare, con un focus particolare sulla campagna contro la Elbit Systems.

6 settembre 2016

Il rapporto esamina i momenti difficili che attendono il settore, il mito della superiorità tecnologica israeliana, i cambiamenti locali e globali del settore, e le alleanze emergenti al fine di ribaltare (il processo di, n.d.t.) militarizzazione e la cartolarizzazione delle aziende. Sulla base di questa analisi, essi traggono insegnamenti importanti e identificano, per il movimento globale per la solidarietà palestinese, gli indirizzi da perseguire.

Le più grandi aziende militari di Israele l’anno scorso hanno lanciato il segnale d’allarme per un calo dei contratti internazionali, citando tra i motivi i budget ridotti, una maggiore concorrenza e una minore richiesta dei prodotti israeliani. Si tratta di un indicatore del fatto che l’industria delle armi israeliana potrebbe non essere così imbattibile come sembra? Che cosa ha indotto il crollo del commercio di armi con le aziende israeliane? Qual è stato il ruolo del movimento a guida palestinese per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS), che ha chiesto le sanzioni militari come parte della sua campagna per promuovere i diritti umani?

Un settore “imbattibile” si confronta con momenti difficili.

Per anni, i palestinesi e i loro sostenitori – personaggi mondiali come Desmond Tutu, Adolfo Peres Esquivel, Naomi Klein e Noam Chomsky – hanno chiesto un embargo militare immediato e globale contro Israele sostenendo la sua responsabilità nelle violazioni dei diritti umani dei palestinesi. Decine di migliaia di persone hanno firmato petizioni e gli attivisti hanno manifestato contro le aziende legate al settore militare israeliano. Negli ultimi dieci anni, gli attivisti hanno condotto una campagna contro la Elbit Systems, una delle più grandi compagnie militari di Israele. Lo sforzo va da pressioni a livello governativo ad attività di blocco delle filiali della Elbit in paesi come l’Australia, il Regno Unito (UK), e il Brasile.

Una dozzina di istituti finanziari, tra cui quasi tutti i principali fondi pensione scandinavi, non stanno più investendo nella Elbit Systems. Inoltre, e in particolare a seguito di importanti attacchi israeliani, alcuni governi europei hanno adottato misure restrittive, inclusi il congelamento temporaneo del commercio di armi e il rifiuto di licenze di esportazione di armi. Ad esempio, il Regno Unito ha revocato cinque licenze di esportazione di armi dopo il massacro di Gaza del 2009-10, la Spagna ha congelato la vendita di armi dopo il massacro di Gaza del 2014, e durante il periodo del suo governo di centro-sinistra (2005-13), la Norvegia ha rifiutato costantemente le licenze di esportazione di armi a Israele e ha anche impedito che un costruttore tedesco sperimentasse nelle sue acque sommergibili di appartenenza israeliana. Il Sud Africa ha di fatto cessato le sue relazioni militari con Israele.

Eppure, fino a poco tempo sembrava che queste azioni mantenessero un impatto simbolico: L’industria militare israeliana appariva imbattibile, come le armi che produceva. La situazione è cambiata nel mese di ottobre dello scorso anno, quando le più grandi aziende militari di Israele hanno chiesto un incontro con il governo per discutere su come affrontare la riduzione delle esportazioni militari, che si prospettavano, al momento, in calo dai 7,5 miliardi di dollari del 2012 ai circa 4,5 miliardi di dollari nel 2015. Le aziende sottolineavano che il margine di profitto dell’industria della difesa di Israele è di circa il 4,5 per cento – 5,5 per cento, contro l’8 per cento – 9 per cento del settore della difesa in ambito mondiale. Esse adducevano come motivi “budget ridotti, maggiore concorrenza, minore richiesta di prodotti israeliani, e la crescita delle richieste di trasferimento di know-how e di lavoro all’estero.

La spesa militare globale è rimasta pressoché invariata negli ultimi anni e in effetti è aumentata dell’1 per cento nel 2015. Ci si aspetta  che le entrate da uno dei prodotti di esportazione militari chiave di Israele – i droni – dovrebbe quasi raddoppiare da 6,4 miliardi a 11,5 miliardi di dollari tra il 2014 e il 2024. Mentre le ragioni citate dall’industria militare israeliana sembrano rappresentare una descrizione accurata delle tendenze nel settore del commercio militare mondiale, il calo delle esportazioni israeliane non può essere spiegato semplicemente a causa di una mancanza di domanda per gli armamenti.

È vero, l’industria militare israeliana è riuscita a garantire le esportazioni per oltre 5 miliardi di dollari nel 2015 – una lieve ripresa rispetto all’anno precedente – e gli sviluppi politici a livello mondiale possono essere di buon auspicio per il settore nel prossimo futuro. Ma il complesso militare industriale si trova ad affrontare cambiamenti nelle dinamiche del suo commercio e della propaganda. L’erosione del marchio “Made in Israel”, anche nei settori della difesa e della sicurezza, alla quale hanno contribuito gli sforzi del movimento BDS 2014, è un terreno fertile in cui i sostenitori dei diritti umani possono ottenere un cambiamento.

Interrogato di recente circa l’impatto del BDS sulle operazioni della Elbit Systems, l’amministratore delegato Bezhalel Machlis ha ammesso: “Non sto dicendo che non sia una minaccia, ma penso che complessivamente siamo in grado di gestire la cosa.” Gli attivisti per i diritti umani stanno ora affrontando la sfida di incrementare la capacità del movimento BDS in modo che incida sull’economia di guerra israeliana in misura tale che possa passare dall’essere una minaccia al diventare un cambiamento definitivo.

In che modo la Elbit Systems e la campagna Brand Israel stanno perdendo terreno.

(Dopo, n.d.t.) quasi un decennio di campagna per fermare  investimenti, contratti e altre forme di cooperazione con la Elbit Systems, alcuni insegnamenti possono essere tratti circa il mix di dinamiche di mercato, strutture di governo, e l’attivismo, che contribuisce al cambiamento. Questa sezione si concentra sulle più recenti perdite subite dalla Elbit in Francia e in Brasile: due governi che hanno avuto visioni quasi opposte sulla Palestina e la legittimità del movimento BDS.

La decisione contraria della Francia all’offerta della Elbit nella sua ultima gara sui droni, all’inizio del 2016, è stata una cattiva, inaspettata, notizia per l’azienda. Il drone Watchkeeper, ora scartato, deriva dal drone Elbit Hermes 450, che venne utilizzato nei massacri contro Gaza. Il Watchkeeper era in costruzione nel Regno Unito da una joint venture tra Elbit e una società del Regno Unito. Un intensa campagna della società civile in Francia ha chiesto l’esclusione del Watchkeeper dalla gara per motivi di coinvolgimento della Elbit in crimini di guerra israeliani, mentre nel Regno Unito gli attivisti hanno protestato nei confronti del sito di produzione del Watchkeeper.

La società francese Segem, che alla fine ha vinto l’appalto, ha minimizzato il fatto che i suoi droni includono anche la tecnologia Elbit. Invece, ha celebrato la sua tecnologia e produzione “nazionale”. Solo pochi anni fa, il tag “Made in Israel” sarebbe stato valutato come un plus per un drone. Oggi, la crescente tendenza a garantire la crescita delle industrie militari nazionali e un optimum di trasferimenti di tecnologie ha rappresentato un elemento centrale, erodendo il fascino della tecnologia militare israeliana in tutto il mondo. Questo inoltre, in ultima analisi, contribuisce ad uno degli obiettivi dei difensori dei diritti umani palestinesi – la riduzione dei profitti che Israele ricava dalla sua macchina da guerra – e rafforza il sostegno per l’acquisizione dei risultati.

Non è chiaro fino a che punto la pressione del movimento di solidarietà con la Palestina abbia influenzato la decisione del governo francese, che ha sviluppato leggi contro il BDS ancora più draconiane di quelle in Israele. Tuttavia, nel mese di aprile Israele ha riferito che nel 2015 il governo francese ha respinto un altro affare, in questo caso riguardo la tecnologia di sorveglianza. Fox News ha citato un “esperto israeliano dell’antiterrorismo molto titolato:” “Alle autorità francesi è piaciuto, ma il funzionario è tornato e ha riferito che esistevano istruzioni dall’alto di non comprare la tecnologia israeliana” Se il rapporto non è una propaganda rivolta a spingere avanti altri contratti, indica una riluttanza inaspettata all’interno degli ambienti governativi francesi a stipulare accordi con Israele.

In Brasile, la filiale locale della Elbit, AEL Sistemas, ha visto la fine di un decennio, durante il quale i suoi ricavi sono cresciuti in modo esponenziale, con una quota in ogni grande progetto di difesa brasiliana. Il paese è stato uno dei maggiori importatori di armi israeliane, quinto tra il 2009 e il 2014 e uno dei clienti più importanti per i droni  Elbit. Tuttavia, nel dicembre 2014, la società ha perso il suo primo progetto strategico: il governo di Rio Grande do Sul, nel sud del Brasile, ha annullato un memorandum d’intesa con AEL Sistemas per lo sviluppo di un parco tecnologico per la costruzione di satelliti militari. L’accordo è stato contrastato da una intensa campagna della società civile per un embargo militare. Questa campagna era fondata sulla solidarietà con il popolo palestinese e sulla necessità di porre fine all’impunità di Israele, ma è andata anche oltre. Ha ‘smascherato il tentativo di AEL Sistemas’ di passare come una società brasiliana e ha rivelato che era una filiale israeliana, sottolineando il fatto che le imposte brasiliane sarebbero state incanalate verso Israele. Inoltre, ha dimostrato che il trasferimento di tecnologia, in effetti, sarebbe passato dalle università brasiliane ad una società israeliana. In definitiva, il governo ha addotto vincoli di bilancio e il suo impegno alla cooperazione con la comunità e palestinese e ai movimenti come ragioni per porre fine al progetto. Questa è stata una chiara vittoria per il movimento BDS.

Nel mese di gennaio del 2016, la Elbit Systems ha dovuto abbandonare il suo progetto di ricerca e sviluppo del drone (R & S) in Brasile, che aveva lanciato nel 2011 in pompa magna. Il Ministero della Difesa, guidato da un membro del partito comunista filo-palestinese del Brasile, fino al colpo di stato contro il governo del maggio di quest’anno, ha rifiutato i fondi per la sua attuazione. La reticenza del ministero è stata senza dubbio influenzata dalla presa di posizione politica del governo brasiliano. Un alto funzionario della difesa brasiliano ha scatenato una discussione sui media, quando ha avvertito che la spaccatura diplomatica provocata dal rifiuto del Brasile di accettare un leader dei coloni come ambasciatore di Israele avrebbe potuto ritardare l’esecuzione dei contratti militari tra i due paesi. Questa preoccupazione è stata ripresa da altre figure come l’ex-ministro della Difesa, Celso Amorim, il quale sosteneva che ora è il “tempo di diversificare i nostri fornitori” e ridurre la dipendenza eccessiva dalla tecnologia israeliana.

Vale la pena notare che le organizzazioni palestinesi come Stop the Wall e il movimento di solidarietà con la Palestina avevano fornito la prova del fatto che il software, il monitoraggio e la tecnologia di sorveglianza israeliana erano a quel tempo parte integrante di quasi tutti i progetti di sviluppo industriale strategici del Ministero della Difesa brasiliana.

La tecnologia avionica nella maggior parte dei velivoli, l’arsenale dei droni in Brasile, la tecnologia di sorveglianza nei sistemi di controllo delle frontiere, la tecnologia dei carro armati del Brasile, e il sistema di comunicazione delle forze di mare brasiliane sono tutti forniti sia dalla Elbit Systems o da Israel Aerospace Industries  che dalle loro filiali. Ciò si traduce in modo efficace in una perdita di sovranità nazionale e indipendenza, i principi fondamentali sui quali sono impegnate le strutture della difesa. Un rapporto del 2015 da The Marker, il più importante quotidiano economico di Israele, ha giustamente sottolineato che “ragioni politiche” hanno portato a un congelamento de facto delle transazioni militari con il Brasile – uno sviluppo che è particolarmente doloroso per la Elbit Systems.

Senza dubbio, i tempi duri che la Elbit Systems ha dovuto affrontare in Brasile sono in gran parte causa dell’inasprirsi delle relazioni tra Brasile e Israele durante gli ultimi anni del governo guidato dal Partito dei Lavoratori, che ha governato il paese dal 2003 al maggio 2016. Questo a sua volta è in parte il risultato della crescente influenza del movimento BDS nel paese e l’accettazione delle sue argomentazioni nell’ambito di settori del Partito dei Lavoratori. Le campagne di sensibilizzazione che cercano di smantellare

il “Brand Israel” sottolineano che le armi israeliane sono “testate sul terreno” contro i palestinesi e avvertono il pubblico del fatto che i soldi delle tasse vengono spesi per sostenere le imprese militari israeliane. Queste strategie sono penetrate fin dentro l’organizzazione della difesa. Tuttavia, sarà ora necessario per i sostenitori per i diritti umani dei palestinesi identificare nuove strategie, dato il colpo di stato contro il Governo eletto.

Il fallimento del Watchkeeper nel vincere la gara coi droni francesi dimostra che anche in contesti del tutto ostili alle richieste di un embargo militare, l’incantesimo della tecnologia militare israeliana può sbiadire e altri interessi possono prevalere. E’ fondamentale capire che cosa, in un governo apparentemente antagonista ad atteggiamenti pro-Palestina, sta creando spaccature tra i settori militari israeliano e francese e come capitalizzare su questo nel migliore dei modi. Una nuova proposta per un ulteriore contratto su droni, in cui la Elbit Systems è di nuovo tra gli offerenti, rende questo sforzo urgente.

Ciò che queste occasioni di studio dimostrano è che investire tempo ed energia nella comprensione  delle dinamiche nei settori della sicurezza e della difesa della patria è fondamentale per lo sviluppo efficace dell’attivismo del BDS. In questa fase, dato che i vantaggi di una cooperazione militare con Israele diventano sempre più discutibili, gli attivisti  per la Palestina  possono usare questa conoscenza acquisita per fornire, o trovare, alleati che possono offrire argomenti che soddisfano gli interessi dei decisori nazionali. Il risultato netto potrebbe essere la riduzione del mercato dell’industria militare israeliana.

Fonte:  Ma’an News Agency

Traduzione di Aldo Lotta per BDS Italia




il doppio standard di Israele riguardo all’uso di scudi umani

Ma’an News 8 agosto 2016 

di Ben White

Nonostante il fatto che le fonti ufficiali israeliane abbiano ripetutamente sostenuto che nell’estate 2014 [durante l’operazione militare “Margine protettivo” contro Gaza. Ndtr.] le fazioni palestinesi hanno metodicamente fatto ricorso a scudi umani, ci sono scarse prove, se non nessuna, che questo crimine, come definito dalle leggi internazionali, sia stato commesso da Hamas e da altri gruppi.

Anche se fosse stato così, ciò non assolverebbe Israele dalla sua responsabilità di rispettare le leggi.

Ci sono prove che non siano state prese sufficienti precauzioni riguardo al fatto di aver lanciato attacchi nelle vicinanze di non combattenti – benché lo stesso esercito israeliano abbia dichiarato che solo il 18% dei razzi sono stati sparati “da strutture civili”. Quindi, dato il ricorso della propaganda israeliana a questo cliché, la scarsità di prove che i palestinesi abbiano fatto ricorso a scudi umani è sorprendente.

Nel contempo, tuttavia, c’è un’attendibile ed abbondante documentazione del fatto che le truppe israeliane hanno utilizzato scudi umani per molti anni. Come elencato dall’ong israeliana B’Tselem, durante la seconda Intifada, iniziata nel settembre 2000, “l’esercito israeliano ha utilizzato civili palestinesi come scudi umani” come “applicazione di una decisione presa da alti gradi dell’esercito.” Secondo fonti ufficiali, fin quando nel 2005 la Corte Suprema israeliana non ha dichiarato questa prassi illegale, l’esercito israeliano ha seguito la procedura degli scudi umani in 1.200 occasioni nei 5 anni precedenti.

Eppure, nonostante la decisione della corte, ci sono stati numerosi esempi documentati della persistenza di questa pratica. Nel novembre 2006 i soldati israeliani hanno utilizzato un palestinese come scudo umano durante un’operazione militare a Betlemme. Nel 2007 B’Tselem ha documentato 14 casi di uso di scudi umani – compresi due bambini a Nablus. Nell’ottobre 2007, l’attuale vicecomandante dell’esercito israeliano, Yair Golan [che nel maggio 2016 durante una commemorazione dell’Olocausto Golan ha tracciato un parallelo tra il clima politico in Israele e la Germania degli anni ’30. Ndtr.], è stato oggetto di un semplice “biasimo” per aver ordinato ai soldati di utilizzare scudi umani. Quando due soldati sono stati arrestati per aver usato un bambino palestinese come scudo umano durante l’operazione “Scudo protettivo”, sono stati condannati a tre mesi con sospensione condizionale della pena e degradati.

Questo tipo di impunità è stato condannato nel giugno del 2013 dal Comitato ONU sui diritti del bambino, che ha citato 14 casi di “bambini palestinesi” utilizzati come “scudi umani ed informatori” dal gennaio 2010 alla fine del marzo 2013. Nonostante la condanna internazionale, gli esempi sono continuati: nell’aprile 2013 i soldati israeliani hanno usato ragazzini palestinesi ammanettati come scudi umani mentre sparavano contro manifestanti in Cisgiordania, mentre nel luglio 2014 i soldati “hanno obbligato i membri di una famiglia ad accompagnarli” durante un’irruzione in una casa a Hebron.

In realtà, tutte le accuse fatte dai portavoce israeliani contro le fazioni palestinesi- con scarse o nulle prove a sostenerle, tranne creative vignette o infografiche – hanno un parallelo nei crimini documentati dell’esercito israeliano. Utilizzare case per operazioni militari? L’esercito israeliano ha occupato e trasformato in avamposti case palestinesi, mentre i residenti sono stati confinati in alcune parti delle loro proprietà. Mascherarsi da non combattente per commettere attacchi violenti? Nel novembre 2015 le forze di occupazione israeliane si sono vestite con abiti civili – compreso un travestimento da donna incinta su una sedia a rotelle- durante un’irruzione in un ospedale di Hebron dove hanno ucciso a sangue freddo un uomo.

Le forze israeliane hanno utilizzato scudi umani anche durante le invasioni di Gaza. Nel luglio 2006, per esempio, a Beit Hanoun alcuni soldati hanno tenuto sei civili, compresi due bambini, “all’ingresso di stanze in cui i soldati si sono piazzati, per circa 12 ore,” durante “un’intensa sparatoria tra i soldati e palestinesi armati.” Il rapporto Goldstone ha documentato incidenti anche durante l’operazione “Piombo fuso”, in cui civili “sono stati bendati e ammanettati e sono stati obbligati ad entrare in alcune case davanti ai soldati israeliani.” La commissione d’inchiesta ONU che ha stilato il rapporto ha concluso che “questa pratica rappresenta un uso dei civili palestinesi come scudi umani,” e che “non sarebbe difficile concludere che si è trattato di una prassi ripetutamente adottata…durante l’operazione militare a Gaza.”

L’operazione “Margine protettivo” non è stata un’eccezione nelle attività dell’esercito israeliano che provano l’uso di civili palestinesi come scudi umani. In base a un resoconto registrato da “Difesa Internazionale dei Bambini- Palestina”, alcuni soldati israeliani “hanno usato ripetutamente” un 17enne palestinese “come scudo umano per cinque giorni,” obbligandolo sotto la minaccia delle armi a “cercare tunnel”, e sottoponendolo a maltrattamenti fisici. Il direttore esecutivo dell’ Ong, Rifat Kassis, ha sottolineato come “fonti ufficiali israeliane abbiano mosso accuse generiche (che i combattenti di Hamas utilizzassero scudi umani), mentre i soldati israeliani hanno adottato una condotta che rappresenta un crimine di guerra.”

La Commissione d’inchiesta ONU sul conflitto a Gaza del 2014 ha segnalato “informazioni sull’uso di scudi umani (da parte di soldati israeliani) nel contesto di operazioni di perlustrazione” sul terreno a Gaza. La commissione ha citato un caso in cui le forze israeliane “hanno sparato da dietro.. uomini nudi, utilizzandoli come scudi umani” per ore. Agli uomini “era stato detto dai soldati che erano stati piazzati davanti a una finestra per impedire ai combattenti di Hamas di rispondere al fuoco.” La commissione ha concluso che “il modo in cui i soldati israeliani hanno obbligato civili palestinesi a stare in piedi davanti alle finestre, a entrare in abitazioni/ in zone sottoterra e/o a svolgere funzioni pericolose di natura militare, costituisce una violazione del divieto dell’uso di scudi umani contenuta nell’articolo 28 della IV convenzione di Ginevra e può rappresentare un crimine di guerra.”

Ben White è uno scrittore, giornalista, ricercatore e attivista inglese specializzato in Palestina e Israele. Quello che segue è un estratto tratto dall’ultimo e-book di White, “La guerra del Gaza del 2014: 21 domande e risposte.” Ulteriori informazioni si possono trovare qui

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’agenzia Ma’an News.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Sì, Netanyahu, parliamo pure di pulizia etnica

Haaretz – 11 settembre 2016

di Gideon Levy

Trasformare i coloni israeliani in vittime è l’atto di impudenza più strabiliante da parte del primo ministro fino ad ora.

L’unica pulizia etnica di massa che ha avuto luogo qui è stata nel 1948, quando circa 700.000 arabi sono stati obbligati a lasciare le loro terre.

Israele ne sa qualcosa di pulizia etnica. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ne sa qualcosa di propaganda. Il video che ha postato venerdì dimostra entrambe le cose. Ecco la verità, ancora un’altra testimonianza della faccia tosta israeliana: l’evacuazione dei coloni dalla Cisgiordania (che non è mai avvenuta, e presumibilmente non avverrà mai) è pulizia etnica.

Sì, lo Stato che ti ha portato la grande pulizia etnica del 1948, che non ha mai, in fondo al suo cuore, abbandonato il sogno dell’espulsione, e che non ha mai smesso di portare avanti metodicamente micro-espulsioni nella Valle del Giordano, nelle colline meridionali di Hebron, nella zona di Ma’aleh Adumim [grande colonia nei pressi di Gerusalemme est. Ndtr.] e anche nel Negev [zona meridionale di Israele, da cui vengono espulse le comunità beduine con cittadinanza israeliana. Ndtr.] – questo Stato chiama lo spostamento dei coloni pulizia etnica. Questo Stato paragona gli invasori dei territori occupati ai figli della terra che si aggrappano alle loro terre e case.

Netanyahu ha dimostrato ancora una volta di essere quello vero, il più autentico rappresentante della “israelicità”, che ha creato una realtà tutta sua: trasformare la notte in giorno, senza vergogna e senza alcun senso di colpa, senza inibizioni.

In Israele molta gente, forse la maggioranza, lo prenderà per buono. I coloni della Striscia di Gaza sono diventati “espulsi”, la loro evacuazione una “deportazione”. Non solo è legittimato un atto aggressivo e violento – la colonizzazione -, ma i suoi attori sono vittime.

Gli ebrei sono vittime. Sempre gli ebrei, solo gli ebrei. Un primo ministro israeliano meno sfrontato ed arrogante di Netanyahu non oserebbe pronunciare il termine “pulizia etnica”, per via della trave nel suo stesso occhio. Poche campagne di propaganda oserebbero arrivare così lontano. Eppure ogni tanto la realtà si intromette.

E la realtà è affilata come un rasoio. L’unica pulizia etnica di massa che ha avuto luogo qui è stata nel 1948. Circa 700.000 esseri umani, la maggioranza, sono stati obbligati a lasciare le loro case, le loro proprietà, i loro villaggi e le terre che sono state loro per secoli. Alcuni sono stati espulsi con la forza, fatti salire su dei camion e portati via; alcuni sono stati intenzionalmente spaventati perché scappassero; altri ancora se ne andarono, forse senza ragione. Non gli è mai stato consentito di tornare, tranne pochi, anche solo per ricuperare le loro cose.

Non poter tornare è stato ancora peggio che essere espulsi. Ciò prova che la pulizia etnica è stata intenzionale. Non è rimasta neanche una comunità araba tra Jaffa e Gaza, e tutte le altre aree sono sfregiate dai resti di villaggi, le vestigia della vita. Questa è una pulizia etnica – non c’è altro termine per definirla. Più di 400 villaggi e cittadine sono stati spazzati via dalla faccia della terra, le loro rovine coperte da comunità ebraiche, foreste e bugie. La verità è stata celata dagli ebrei israeliani e ai discendenti dei deportati è stato vietato di commemorarli – né un monumento né una lapide, per parafrasare Eugeny Yevtushenko.

Il numero dei coloni ora supera quello degli espulsi. Hanno invaso una terra che non era loro, con l’appoggio dei vari governi israeliani e l’opposizione del mondo intero, e sapevano che la loro impresa era costruita sul ghiaccio. Loro e i governi israeliani non solo hanno brutalmente violato le leggi internazionali, che non sono minimamente rispettate in Israele. Hanno violato anche la legge israeliana, con l’appoggio di una magistratura assoggettata.

Il furto di terra è anche una violazione della legge messa in pratica in Israele e nei territori. Quando israeliani, e il resto del mondo, hanno cominciato ad abituarsi a questa situazione, ad accettarla come inevitabile, salta fuori il primo ministro e alza il livello della sua sfacciataggine: i coloni sono in realtà vittime. Non quelli che loro hanno espulso, non quelli che hanno spogliato della loro terra. Nella realtà, secondo Netanyahu, i coloni che hanno costruito con il proposito di escludere un compromesso con i palestinesi non sono un ostacolo, e lui li equipara ai ” she’erit haplita” – ciò che resta dei palestinesi che sono rimasti in Israele, per prendere in prestito un termine da ciò che è restato dopo l’Olocausto.

Il linguaggio può essere distorto per qualunque scopo, propaganda per ogni perversione morale. Addio, realtà, qui tu non conti più niente.

(traduzione di Amedeo Rossi)