Come Israele impedisce agli agricoltori palestinesi di lavorare le proprie terre

Amira Hass – 28 maggio 2017,Haaretz

Questa settimana è finito uno sciopero di un mese, in quanto l’Amministrazione Civile ha accettato di riesaminare le procedure riguardanti l’accesso alle terre coltivate oltre il Muro di separazione in Cisgiordania. Le ragioni dello sciopero sono veramente scomparse? Il tempo lo dirà.

Lo sciopero è finito. No, non quello famoso dei prigionieri palestinesi in Israele, ma un altro sciopero, che coinvolge decine di migliaia di famiglie palestinesi le cui terre sono rinchiuse tra il Muro di Separazione della Cisgiordania e la Linea Verde [il confine tra Israele e Cisgiordania precedente la guerra del ’67, ndtr.] – l’area nota in gergo militare come la “zona di congiunzione”.

Alla fine di febbraio i comitati palestinesi di collegamento di Qalqilyah, Tul Karm, Salfit e Jenin hanno smesso di sottoporre all’ufficio di collegamento israeliano le domande da parte di agricoltori palestinesi che chiedono i permessi per entrare nelle loro terre. (Hanno continuato a presentare richieste per altri permessi).

Parecchi terreni sono coinvolti – circa 137,000 dunams (13.700 ettari), 94.000 dei quali di proprietari privati, secondo l’Amministrazione Civile israeliana [organismo militare che gestisce l’occupazione in Cisgiordania] in Cisgiordania. Ma nuove norme, e nuove interpretazioni di quelle esistenti, hanno ridotto la terra che i palestinesi hanno il permesso di coltivare. E dalla fine dello scorso anno si sono moltiplicati i resoconti delle nuove difficoltà che i contadini devono affrontare per ottenere i permessi per coltivare la loro terra.

“Non possiamo collaborare con, e di conseguenza dare il beneplacito a, regole che renderanno più facile per Israele impossessarsi di molte altre migliaia di dunam con il pretesto che la terra è stata abbandonata,” hanno affermato i comitati di collegamento, spiegando la propria iniziativa inusuale.

Dopo circa tre mesi in cui i coltivatori sono stati impossibilitati a rinnovare i loro permessi e hanno temuto sempre più per il destino dei loro appezzamenti abbandonati, la questione è stata discussa lo scorso martedì dal capo dell’Amministrazione Civile, generale Ahvat Ben Hur, e dal vice ministro per gli Affari Civili dell’Autorità Nazionale Palestinese, Ayman Qandil. Erano presenti molte altre persone di entrambe le parti, e uno dei palestinesi [presenti] ha capito che, in cambio della ripresa immediata del lavoro dei comitati, le regole sarebbero rimaste congelate fino al 15 giugno. Durante questo periodo, Ben Hur le riconsidererà e “speriamo per il meglio”.

L’Amministrazione Civile non l’ha chiamato un “congelamento”, ma “l’esame di una serie di problemi relativi alle regole che governano la zona di congiunzione.”

Sorprendentemente questo sciopero non ha sollevato interesse oltre i coltivatori e le loro famiglie, benché riguardi il futuro dell’intero patrimonio di terre pubbliche palestinesi. Tuttavia forse non è sorprendente,perché dall’ottobre 2003 i palestinesi non hanno libertà di movimento in questa zona. Fu allora che il generale Moshe Kaplinsky, comandante delle forze israeliane in Cisgiordania, emise un ordinanza di interdizione su tutta la zona di congiunzione.

Cittadini israeliani e residenti, persone che possono immigrare in Israele in base alla “Legge del Ritorno” (questo dice l’ordinanza) e turisti possono entrare in questa zona liberamente. Solo i palestinesi hanno bisogno di un permesso per entrare nelle loro terre e case, e non vi possono accedere per qualunque altra ragione che non sia il lavoro o la residenza.

Dal 2009 l’Amministrazione Civile ogni tanto ha pubblicato il suo regolamento degli ordini in vigore per permessi di ingresso nella zona di congiunzione (e non solo per i contadini), per mettere in pratica quest’ordinanza. In febbraio è stata rilasciata la quinta versione. Questo insieme di nuove regole e nuove interpretazioni di quelle esistenti ha fatto suonare il campanello d’allarme.

Una di esse vanifica la tradizione palestinese del lavoro collettivo delle famiglie sui terreni. Infatti l’Amministrazione Civile obbliga di fatto le famiglie a dividere artificialmente la terra tra gli eredi dopo la morte del padre, anche se essi vorrebbero piuttosto considerarla come una proprietà collettiva, con alcuni che lavorano effettivamente la terra, altri che pagano il trattore, i semi o gli strumenti agricoli, ed altri ancora che vendono i prodotti. Dividere la terra porta via tempo, soprattutto a causa della doppia burocrazia israeliana e palestinese. Costa anche denaro (imposte, ecc.) e può provocare dispute.

Questa ordinanza è stata introdotta per la prima volta nel 2014. Da conversazioni con agricoltori alla fine del 2016 risulta chiaro che alcuni di loro vi si sono già adeguati. I comitati di collegamento palestinesi a quanto pare non hanno capito subito quanto fosse nefasta.

Nuova regola non scritta

Ma c’è un trucco: un’interpretazione che non compare nel regolamento. Nella seconda metà del 2016 a quanto pare qualcuno nell’ufficio di collegamento israeliano (parte dell’Amministrazione Civile) ha deciso che un appezzamento di terra di meno di cinque dunam non necessita di più di una persona che lo lavori – di conseguenza, i permessi di accesso sarebbero stati concessi solo al proprietario registrato, anche se fosse stato anziano, malato o avesse un altro lavoro.

Dalla fine del 2016 sia Haaretz che le organizzazioni per i diritti umani hanno ricevuto numerose informazioni su questa prassi.

Come per ogni regola non scritta, all’inizio si poteva pensare che si trattasse di casi isolati, forse derivanti da incomprensioni. Ma le testimonianze continuavano ad arrivare. E in risposta alle domande di Haaretz un portavoce del Coordinatore israeliano per le Attività di Governo nei Territori non ha negato che questa è effettivamente l’interpretazione utilizzata.

Dal 2014 l’Amministrazione Civile ha anche rifiutato di riconoscere che la moglie ed i figli del proprietario abbiano diritti di proprietà sulla terra. In effetti vengono loro concessi permessi di accesso sulla loro terra come “dipendenti”, il cui numero dipende dalle dimensioni del terreno, dal tipo di produzione e dalla stagione. Questa restrizione nei permessi per i membri della famiglia è il terzo problema.

Secondo i dati dell’amministrazione civile, nell’aprile 2016 sono stati concessi a contadini nella zona di collegamento 5.075 permessi. L’aprile scorso sono stati 5.218 (tutti per proprietari registrati). Presumibilmente l’incremento si deve a persone che hanno obbedito all’ordine e hanno diviso la loro terra tra i loro eredi.

Al contrario il numero di permessi per “coltivatori dipendenti ” è sceso da 12.282 nell’aprile 2016 a 9.856 lo scorso aprile. Questa riduzione dovrebbe essere in parte attribuibile allo sciopero. Ma conferma anche quello che i contadini hanno raccontato ad Haarez e all’ong [israeliana] contro l’occupazione Machsom Watch: sempre meno membri della famiglia ottengono permessi come “dipendenti”.

La norma che ha intensificato il campanello d’allarme è comparsa per la prima volta nell’ultimo regolamento. Afferma che nessun permesso verrà rilasciato per terreni di meno di 330 metri quadrati, perché “non ci sono sostanziali necessità agricole” per simili appezzamenti. Quindi, mentre l’Amministrazione Civile sta obbligando le famiglie a dividere la loro terra, afferma anche che “non ci sono sostanziali necessità agricole” per appezzamenti piccoli. Quanto ci vorrà prima che molte famiglie scoprano di avere una serie di appezzamenti piccoli, “insostenibili”, e di conseguenza non hanno il diritto di accesso alla loro terra e a lavorarla?

Per tutte queste ragioni i comitati di collegamento palestinesi hanno dichiarato lo sciopero parziale. Quindi chiunque avesse un permesso scaduto (sono validi per uno o due anni) non poteva rinnovarlo.

Una settimana fa, di sabato – prima dell’incontro di Ben Hur con Qandil – il portavoce del COGAT [Coordinamento delle Attività di Governo nei Territori, ndtr.] ha detto ad Haaretz che Ben Hur aveva autorizzato gli uffici di collegamento israeliani a ricevere le richieste di permesso direttamente da “agricoltori con appezzamenti di cinque o più dunam”. L’avvocato Alaa Mahajna, che rappresenta molti contadini di Qalqilyah a nome dell’ANP, ha affermato che in questa decisione  il limite di cinque dunam  ha confermato che le dimensioni del terreno, e non i diritti di proprietà, sono diventati il fattore decisivo per il rilascio dei permessi.

“Una china pericolosa”

L’organizzazione per i diritti umani “Hamoked” [Ong israeliana contro l’occupazione, ndtr.] – Centro per la Difesa dell’Individuo – ha aiutato i contadini a cui è stato negato il permesso ad accedere alla loro terra dal 2002. In genere l’Amministrazione Civile (subordinata al COGAT) ritira il rifiuto in seguito all’intervento di “Hamoked” (compresi ricorsi all’Alta Corte di Giustizia). Ma non tutti conoscono “Hamoked”, essa non ha le risorse per gestire decine di migliaia di casi e non è compito di “Hamoked” svolgere servizi altrui per loro.

L’avvocato Yadin Elam si è occupato di tutti i ricorsi all’Alta Corte presentati da “Hamoked” sulla questione. Lo scorso gennaio ha scritto a Ben Hur in merito ai problemi presenti in una bozza dell’ultimo regolamento e nella sua interpretazione. Ha messo in guardia riguardo a una “china pericolosa” di regole e della loro applicazione più rigida nel concedere i permessi, contrariamente all’impegno dello Stato all’Alta Corte che il danno causato ai contadini sarebbe stato minimo.

Sette anni dopo l’emanazione del primo regolamento “pare che qualcuno abbia deciso di riscriverlo e di interpretare ogni norma nel modo più dannoso che si possa immaginare,” ha scritto Elam. Ha citato il limite di cinque dunam, così come la meschina lentezza burocratica che comporta avere un permesso, con il risultato di perdere giorni di lavoro agricolo.

Elam ha scritto che le norme sono difficili da capire persino per un avvocato israeliano. Oltretutto il regolamento è pubblicato solo in ebraico, per cui quelli la cui vita dipende da esso in pratica non lo possono leggere.

La sua lettera è stata inviata anche al consigliere giuridico per la Cisgiordania, il colonnello Eyal Toledano, e al difensore civico dell’Amministrazione Civile, il tenente Bar Naorani. Gli è stata garantita una risposta, che non è ancora arrivata.

Lo scorso mese, come preliminare all’appello all’Alta Corte, Mahajna ha chiesto alla procura generale di annullare le nuove norme. Ha definito la regola dei 330 metri quadrati “draconiana, senza basi giuridiche”, aggiungendo che “contraddice il concetto fondamentale della legge e dei diritti di proprietà,” in quanto “i diritti di proprietà su un appezzamento di terreno le cui dimensioni non superano i 330 metri quadrati non sono considerati diritti e non vengono protetti.”

“Questa norma crea de facto un sistema di proprietà nuovo e fondamentalmente diverso, che si applica a due diversi gruppi nazionali sotto lo stesso regime, con tutto quello che ciò implica,” ha scritto.

La risposta che ha ricevuto è simile a quella del COGAT ad Haaretz lo scorso sabato: “In base a chiare ragioni di sicurezza, è necessario limitare la libertà di movimento sul lato della barriera di sicurezza verso Israele. L’Amministrazione Civile attribuisce importanza a garantire il diritto di accesso alla loro terra ai contadini proprietari palestinesi.”

Il COGAT ha anche detto ad Haaretz che il nuovo regolamento “intende offrire una soluzione migliore ai residenti che necessitano di permessi di accesso alla zona di congiunzione, salvaguardando le necessità di sicurezza ed evitando abusi dei permessi. Non ci sono impedimenti a un membro di una famiglia che lavora una serie di terreni per i suoi parenti, sia per il fatto che questi ultimi si trovino all’estero o per configurare una necessità agricola unendo appezzamenti. Ma per fare ciò, la richiesta deve essere accompagnata da una procura da parte del proprietario del terreno.”

Criteri per determinare il numero di dipendenti in base alle dimensioni del terreno e al tipo di prodotto sono già stati inclusi nel regolamento del 2014, così continua, con la disposizione che le richieste di far entrare più familiari della quota consentita sarebbero state prese in considerazione dal capo dell’ufficio di collegamento del distretto. Il regolamento del 2017 “ha definito il termine ‘necessità agricole’ in base al parere professionale del dirigente del personale agricolo, per garantire uniformità nel valutare queste richieste.

“Il regolamento lo stabilisce come una norma, permessi ‘agricoli’ non saranno concessi per piccoli appezzamenti che non superino i 330 metri quadrati. Questa norma può non essere rispettata se vengono presentate prove che, nonostante le piccole dimensioni del terreno, c’è una reale necessità colturale. Nel caso non ci siano queste necessità, i proprietari possono chiedere un permesso per ‘uso personale’.”

Tuttavia i permessi per ‘uso personale’ sono solo una tantum e non possono essere rinnovati automaticamente.

Centinaia di agricoltori stanno ora aspettando in fila presso gli uffici di collegamento palestinesi con richieste di rinnovo dei permessi da inoltrare alla burocrazia israeliana. Le ragioni dello sciopero sono davvero scomparse? Il tempo lo dirà.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




In seguito ad informazioni fuorvianti, Fadwa Barghouthi conferma la fine dello sciopero della fame di massa

29 maggio 2017, Ma’an

Betlemme (Ma’an) – Dopo che lunedì mattina sono state divulgate informazioni secondo cui due giorni dopo la fine dello sciopero il leader dello sciopero della fame di massa Marwan Barghouthi stava ancora rifiutando i pasti nella prigione israeliana, il Comitato Palestinese per le Questioni dei Prigionieri e la moglie di Barghouthi, Fadwa, hanno smentito queste notizie ed hanno affermato che lo sciopero della fame è stato effettivamente interrotto totalmente.

Lunedì mattina l’agenzia di notizie Al Jazeera in arabo, citando una dichiarazione congiunta presumibilmente rilasciata dallo stesso Comitato gestito dall’ Autorità Nazionale Palestinese (ANP) e dall’ong locale “Associazione dei Prigionieri Palestinesi” (PPS), ha informato che Marwan Barghouthi avrebbe rifiutato di sospendere il suo sciopero della fame finché non fosse stato rimandato alla prigione di Hadarim e potesse avere la conferma che tutti i prigionieri in sciopero della fame trasferiti dall’inizio dello sciopero fossero stati riportati anche loro nelle prigioni di provenienza. Il reportage faceva intendere che fino a lunedì mattina Barghouthi non aveva interrotto il suo sciopero.

Tuttavia la moglie di Marwan, Fadwa Barghouthi, ha spiegato che l’informazione di Al Jazeera era fuorviante, spiegando che “il leader dello sciopero della fame sarebbe stato l’ultimo a porre fine allo sciopero della fame dopo essersi assicurato che tutto fosse in regola riguardo agli altri scioperanti,” ed ha confermato che, dopo che è stato raggiunto un accordo, suo marito è stato riportato alla prigione di Hadarim.

Dal primo giorno dello sciopero della fame, Barghouthi è stato messo in isolamento nella prigione di Jalama, e poi in quella di Ashkelon per partecipare ai negoziati finali.

Commentando l’informazione del reportage di Al Jazeera, Fadwa ha detto: “E’ stata una questione di pragmatica e non si dovrebbe intendere nel senso che Marwan continua lo sciopero della fame.”

Fadwa ha aggiunto che “finora non mi è stato permesso di incontrare Marwan ed il Servizio Penitenziario Israeliano prevede che il suo avvocato, per poterlo visitare, debba ottenere un permesso dell’ufficio giudiziario del governo israeliano.”

Le sue dichiarazioni sono state confermate dal direttore dell’ufficio di Betlemme del Comitato per i Detenuti Munqith Abu Atwan, che ha detto a Ma’an che Barghouthi ha rifiutato di alimentarsi prima di essere certo che i prigionieri che hanno fatto lo sciopero della fame fossero stati riportati nelle carceri da cui erano stati spostati.

“Barghouthi ha guidato i negoziati che hanno portato alla decisione di porre fine allo sciopero della fame, ma ha informato il Comitato per le Questioni dei Prigionieri che non avrebbe mangiato finché tutti i prigionieri in sciopero della fame non fossero al sicuro e avessero iniziato a nutrirsi per primi, per essere sicuro che il Servizio Penitenziario Israeliano non infliggesse nessuna punizione ai detenuti,” ha detto.

In precedenza il Comitato aveva informato che la fine dello sciopero della fame era arrivata dopo 20 ore di negoziati con il Servizio Penitenziario Israeliano (IPS), che hanno visto l’IPS accettare l’80% delle richieste dello sciopero.

Lunedì, in una conferenza stampa a Ramallah, alla presenza del capo della PPS Qaddura Fares e del capo della Commissione di Controllo delle questioni dei detenuti Amin Shoman, il presidente del Comitato Issa Qaraqe ha annunciato formalmente il risultato dello sciopero della fame.

Tuttavia un portavoce dell’IPS ha negato quanto riferito dal Comitato a Ma’an, e ha affermato che l’unico risultato dello sciopero è stato il ripristino delle visite dei familiari due volte al mese per i prigionieri, in conseguenza di un accordo fatto tra l’ANP e il Comitato Internazionale della Croce Rossa (ICRC), in base al quale l’ANP finanzierà la seconda visita, che era stata in precedenza finanziata dall’ICRC, finché l’organizzazione internazionale non l’ha sospesa lo scorso anno.

Va osservato che nell’agosto 2016 il PPS ha affermato che il presidente palestinese Mahmoud Abbas aveva già approvato la decisione di coprire tutte le spese per la seconda visita. A quanto pare, dalla sospensione dello sciopero l’unica dichiarazione rilasciata dai dirigenti in prigione, a parte gli aggiornamenti di Barghouthi trasmessi dall’ANP e dalla sua famiglia, è arrivata dal segretario generale del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP) [storico gruppo palestinese della sinistra marxista, ndtr.] in prigione Ahmad Saadat, che si era unito allo sciopero a 17 giorni dal suo inizio.

Domenica Saadat, in assenza di una dichiarazione ufficiale della dirigenza dello sciopero, ha diffuso caute felicitazioni agli scioperanti per la loro apparente vittoria, in quanto informazioni relative al risultato dello sciopero finora sono state diffuse solo dal Comitato diretto dall’ANP e dall’IPS.

“Mentre è troppo presto per fornire una valutazione finale dei risultati dello sciopero prima delle dichiarazioni ufficiali dei dirigenti dello sciopero, possiamo dire chiaramente che l’incapacità dell’occupante di spezzare o di limitare lo sciopero è una vittoria per i prigionieri e per la loro volontà e determinazione di continuare la lotta,” ha scritto in una dichiarazione, pubblicata domenica dalla rete palestinese di solidarietà con i detenuti “Samidoun”, dal carcere di Ramon, in Israele.

Saadat ha evidenziato che “lo scontro non finisce con lo sciopero, al contrario deve continuare per rafforzare, ampliare e costruire sui risultati dello sciopero.”

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Dopo 40 giorni i palestinesi interrompono lo sciopero della fame di massa nelle prigioni israeliane

27 maggio 201, Ma’an

BETLEMME (Ma’an) – All’alba di sabato, centinaia di palestinesi detenuti nelle prigioni israeliane hanno interrotto uno sciopero della fame di massa durato 40 giorni, dopo aver raggiunto un accordo con il Servizio Penitenziario Israeliano (IPS), che ha ripristinato le visite dei famigliari dei prigionieri due volte al mese. I leader palestinesi hanno plaudito alla “vittoria” dei prigionieri, dicendo che l’accordo rappresenta “un passo importante verso il pieno rispetto dei diritti dei prigionieri palestinesi.”

Il capo del Comitato palestinese per le questioni dei prigionieri Issa Qaraqe e il capo della Associazione palestinese per i prigionieri (PPS) Qaddura Fares hanno detto in un comunicato congiunto che i prigionieri hanno sospeso lo sciopero, denominato “Libertà e Dignità”, in seguito ad oltre 20 ore di trattative tra l’IPS e Marwan Barghouthi – il leader di Fatah incarcerato, che è stato il principale dirigente dello sciopero di massa, ed altri leader dei prigionieri nel carcere di Ashkelon.

Il comunicato ha aggiunto che gli ufficiali dell’IPS hanno annunciato la fine dello sciopero dopo aver negoziato con Barghouthi, con cui l’IPS aveva insistentemente rifiutato di parlare per tutta la durata dello sciopero, in quanto gli scioperanti avevano respinto le trattative senza la presenza di Barghouthi.

La dichiarazione congiunta non ha menzionato quali delle richieste degli scioperanti fossero realmente state accettate dalle autorità carcerarie israeliane.

Un portavoce dell’IPS ha detto a Ma’an che l’accordo, che garantisce ai prigionieri una seconda visita mensile dei familiari, da finanziarsi da parte dell’ANP, è stato concluso tra lo Stato di Israele, il Comitato Internazionale della Croce Rossa (ICRC) e l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP),

In effetti questa iniziativa ha reintrodotto il numero di visite di familiari che era tradizionalmente concesso ai prigionieri palestinesi, prima che l’anno scorso l’ICRC riducesse da due ad una al mese il numero delle visite consentite, provocando proteste in tutto il territorio palestinese.

Il portavoce dell’IPS ha confermato che Barghouthi ha partecipato agli accordi, ma ha detto che l’IPS non considerava i colloqui dei “negoziati”, in quanto ripristinavano semplicemente una precedente politica e non facevano alcuna nuova concessione ai prigionieri.

Il portavoce dell’IPS ha detto a Ma’an che 834 prigionieri che erano rimasti in sciopero fino al 40^ giorno avevano interrotto lo sciopero e i 18 prigionieri che si trovavano in ospedale sarebbero stati rimandati nelle carceri israeliane quando le loro condizioni di salute fossero migliorate.

Il portavoce non ha voluto dichiarare se altre richieste, tra le quali figuravano anche il diritto ad accedere all’istruzione superiore, ad adeguate cure e trattamenti medici e la fine dell’isolamento e della detenzione amministrativa – incarcerazione senza accuse o processo – oltre ad altre richieste di diritti fondamentali, fossero state esaudite.

L’accordo è arrivato nel primo giorno del mese sacro ai musulmani del Ramadan, quando alcuni scioperanti avevano promesso di digiunare e rinunciare alla bevanda di acqua e sale consumata dai prigionieri dall’alba al tramonto – la sola fonte di nutrimento assunta dagli scioperanti.

Moltissimi prigionieri palestinesi sono stati trasferiti in ospedali israeliani durante lo sciopero della fame, e si ha notizia che i prigionieri vomitassero sangue ed avessero svenimenti. I leader palestinesi temevano la possibile morte di scioperanti se le loro richieste non fossero state accolte.

Sabato Xavier Abu Eid, un portavoce dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), ha rilasciato una dichiarazione affermando che lo sciopero della fame aveva “ trionfato”.

Nella dichiarazione si legge: “Questo è un passo importante verso il pieno rispetto dei diritti dei prigionieri palestinesi in base al diritto internazionale. E’ anche un segno della realtà dell’occupazione israeliana che non ha lasciato altra scelta ai prigionieri palestinesi se non digiunare per ottenere i diritti fondamentali che spettano loro in base al diritto internazionale.”

Come si sottolinea nella dichiarazione, lo sciopero della fame è stato uno dei più lunghi scioperi nella storia della Palestina e ha visto un’ampia partecipazione di prigionieri palestinesi di tutte le fazioni politiche.

La dichiarazione rileva che le forze israeliane hanno tentato di spezzare lo sciopero della fame con diversi provvedimenti punitivi, compreso l’utilizzo dell’isolamento dei prigionieri in sciopero, “l’istigazione” contro gli scioperanti e i loro leader, in particolare Barghouthi, e la minaccia di alimentazione forzata degli scioperanti.

L’epica resilienza e la determinazione dei prigionieri in sciopero della fame ed il loro rifiuto di sospendere lo sciopero, nonostante la repressione e le durissime condizioni che hanno affrontato, hanno permesso che la loro volontà prevalesse su quella dei carcerieri.”

La dichiarazione prosegue poi ringraziando tutti coloro che hanno espresso solidarietà ai prigionieri palestinesi, in particolare agli ex detenuti politici in Sudafrica, Irlanda e Argentina.

Nella dichiarazione si legge: “Il popolo palestinese è una nazione imprigionata ed i prigionieri palestinesi sono lo specchio di questa dolorosa realtà.”

Il portavoce dell’ANP Youssef al-Mahmoud si è anche congratulato con gli scioperanti per “aver realizzato i loro obiettivi.”

I nostri eroici prigionieri hanno ottenuto una nuova vittoria nella loro leggendaria resistenza”, ha detto, aggiungendo che il governo proseguirà nei suoi sforzi per “garantire che tutti i prigionieri palestinesi vengano liberati senza eccezioni né condizioni.”

Ha anche invitato a porre termine alle divisioni politiche in Palestina ed a lavorare per riconquistare l’unità nazionale per sostenere i palestinesi nell’affrontare le loro sfide.

Al contempo, il membro del comitato centrale di Fatah Jamal Muheisin e Qaraqe hanno tenuto una conferenza stampa in piazza Yasser Arafat a Ramallah per annunciare la “vittoria” dello sciopero della fame. Il comitato nazionale a sostegno dello sciopero ha anche emesso una dichiarazione dicendo che gli scioperanti hanno conseguito un “leggendario trionfo, costringendo il governo di occupazione a negoziare con i leader dello sciopero e con Marwan Barghouthi, dopo aver rifiutato di trattare per 40 giorni.”

La dichiarazione ha sottolineato che “l’epico sciopero della fame” ha riportato l’unità tra i palestinesi nelle prigioni israeliane e ha rinverdito lo spirito di solidarietà nazionale, che è riuscito a “sconfiggere i disegni dell’occupante.”

La dichiarazione ha aggiunto che nella giornata di sabato sarebbero state diffuse ulteriori informazioni riguardo ai dettagli dell’accordo tra I dirigenti dell’IPS e gli scioperanti.

I palestinesi incarcerati da Israele hanno attuato diversi scioperi della fame, che hanno visto la morte di parecchi scioperanti durante gli scioperi, a causa della politica israeliana di alimentazione forzata dei prigionieri, da quando l’esercito israeliano ha occupato la Cisgiordania, compresa Gerusalemme est e Gaza, nel 1967.

Le loro richieste andavano dal pretendere cibo di migliore qualità al porre fine alla tortura nelle prigioni israeliane.

Secondo l’associazione Addameer per i diritti dei prigionieri, fino ad aprile erano incarcerati nelle prigioni israeliane 6.300 palestinesi, che in maggioranza sono detenuti all’interno del territorio israeliano, in violazione del diritto internazionale che vieta di detenere palestinesi della Cisgiordania e di Gaza al di fuori dei territori occupati.

Mentre le autorità israeliane definiscono i palestinesi “prigionieri di sicurezza”, gli attivisti e le associazioni per i diritti hanno a lungo considerato i palestinesi detenuti da Israele come prigionieri politici ed hanno sistematicamente condannato l’uso israeliano delle carceri come mezzo per destabilizzare la vita politica e sociale palestinese nei territori occupati.

Addameer ha riferito che il 40% della popolazione maschile palestinese è stata detenuta dalle autorità israeliane in un certo momento della sua vita.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Lettera aperta al segretario generale dell’ONU António Guterres perché solleciti Israele a rispettare le norme minime standard dell’ONU per il trattamento dei prigionieri e le leggi internazionali sulla detenzione

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Vostra eccellenza,

Circa 1.500 palestinesi detenuti nelle carceri israeliane hanno iniziato il 37° giorno del loro sciopero della fame “Libertà e Dignità”. Le rivendicazioni degli scioperanti comprendono la richiesta ad Israele di porre fine all’uso della detenzione amministrativa; il permesso ad un maggior numero di visite dei familiari; la garanzia di servizi medici adeguati (compresi servizi specifici necessari alle donne); fine del regime di isolamento; installazione di telefoni pubblici per migliorare le comunicazioni telefoniche con le famiglie; migliore accesso all’ educazione e ad altri servizi. Lo sciopero della fame dei prigionieri nasce nel contesto dei 50 anni di occupazione israeliana del territorio palestinese e del trasferimento di migliaia di palestinesi dal territorio palestinese occupato alle prigioni all’interno di Israele, in violazione delle leggi umanitarie internazionali. [1]

La esortiamo a chiedere pubblicamente allo Stato di Israele di garantire che la sua politica di arresti e detenzioni sia pienamente conforme agli obblighi in base ai diritti umani internazionali e alle leggi umanitarie, comprese la Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici e la Convenzione contro la Tortura ed altri Trattamenti o Punizioni Crudeli, Inumani o Degradanti, nonché i relativi standard internazionali, comprese le norme dell’ONU sugli standard minimi per il trattamento dei prigionieri.[2]

 Il 16 maggio, a un mese dall’inizio dello sciopero della fame “Libertà e Dignità”, Michael Lynk, il relatore speciale dell’Onu per la situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967, ha chiesto ad Israele di rispettare le leggi internazionali e gli standard internazionali di detenzione. [3]  Nella sua dichiarazione pubblica egli ha osservato di “essere particolarmente preoccupato per l’uso della detenzione amministrativa da parte di Israele, che riguarda incarcerazioni senza imputazione, giudizio, condanna o un processo realmente giusto, così come per la possibilità di un rinnovo illimitato della detenzione”, notando che “i detenuti amministrativi sono imprigionati in base a prove segrete che né loro né i loro avvocati possono esaminare o contestare.”[4]  Lynk ha segnalato che questo uso della detenzione amministrativa “non è compatibile con le circostanze estremamente limitate in cui questa è consentita in base alle leggi umanitarie internazionali e priva i detenuti della più elementare tutela legale garantita dalle leggi internazionali sui diritti umani.”[5]  Lynk ha anche manifestato preoccupazione riguardo al fatto che i prigionieri siano tenuti in isolamento;[6] il relatore speciale dell’ONU sulla tortura ha anche riscontrato che la detenzione in isolamento per periodi prolungati può costituire un trattamento crudele, inumano o degradante, o una forma di tortura.[7]

Benché sia inusuale farlo per il Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR), il 3 maggio il CICR ha rilasciato una dichiarazione riguardo allo sciopero della fame.[8]  Il CICR ha chiesto a Israele di “assumersi le proprie responsabilità in base alle leggi umanitarie internazionali”, con particolare riguardo a quanto concerne i contatti con le famiglie dei palestinesi detenuti in Israele.[9] La dichiarazione del CICR sottolinea che “i palestinesi sono imprigionati in Israele invece che nei territori occupati, come viene richiesto dalle leggi sull’occupazione. In conseguenza di ciò, i familiari hanno un minor accesso ai loro parenti incarcerati. Hanno bisogno di premessi speciali e devono intraprendere lunghi viaggi per vedere i propri cari, con perquisizioni e tempi di attesa quando attraversano posti di controllo o nella prigione”[10] Sono problemi che anche Lynk ha individuato come “importanti impedimenti” creati alle famiglie palestinesi che cercano di raggiungere i propri parenti.[11]

Alla luce dei recenti avvenimenti all’interno delle prigioni israeliane, la dichiarazione del CICR ha espresso preoccupazione riguardo alla “sistematica sospensione” da parte di Israele delle visite dei familiari dei detenuti in sciopero della fame ed ha affermato che, in base alla Quarta Convenzione di Ginevra del 1949, “i palestinesi hanno diritto a queste visite, che possono essere limitate solo per ragioni di sicurezza, caso per caso, ma mai per ragioni strettamente punitive o disciplinari.” Il capo della delegazione del CICR in Israele e nei territori occupati, de Maio, ha affermato che “le famiglie stanno pagando il prezzo di questa situazione.” [12]

Migliori servizi per la salute sono centrali nelle richieste degli scioperanti. Attendibili fonti informative israeliane hanno recentemente segnalato che le autorità israeliane, invece di prendere misure per migliorare i servizi per la salute dei detenuti in sciopero della fame, stanno pensando di assumere medici non israeliani per l’alimentazione forzata degli scioperanti, in quanto l’Associazione dei Medici Israeliani (AMI) ha chiesto ai dottori israeliani di non cercare di alimentare a forza nessuno che partecipi allo sciopero della fame.[13]

La posizione dell’AMI è in linea con i consolidati standard medici internazionali relativi all’alimentazione forzata dei detenuti. Le autorevoli linee guida in proposito sono contenute nella dichiarazione di Tokyo dell’Associazione Mondiale dei Medici del 1975, in cui si stabilisce che “nel caso che un prigioniero rifiuti di alimentarsi e sia considerato dai medici in grado di farsi un esatto e razionale convincimento riguardante le conseguenze di un tale rifiuto volontario di nutrirsi, lui o lei non devono essere nutriti artificialmente.”[14] Come è stato rilevato da uno specialista degli aspetti medici della detenzione del Comitato Internazionale della Croce Rossa: “i medici non dovrebbero partecipare alla concreta alimentazione forzata… Simili azioni possono essere considerate una forma di tortura e in nessuna circostanza i medici dovrebbero parteciparvi con il pretesto di salvare la vita degli scioperanti.” [15] Questo approccio si adegua anche ai ‘Principi di etica medica dell’ONU riguardo al personale sanitario, in particolare medico, per la protezione di prigionieri e detenuti contro la tortura ed altri trattamenti o punizioni crudeli, inumani o degradanti’.[16]   Nel 2006 un gruppo di incaricati dell’ONU per le procedure speciali ha esaminato pratiche di alimentazione forzata ed altre, condotte dalle autorità degli USA contro detenuti a Guantanamo, ed ha stabilito che le summenzionate “norme etiche internazionalmente accettate sono implicite nel, e formano parte essenziale del, diritto alla salute. L’osservanza di questi standard etici da parte dei professionisti della salute è essenziale per concretizzare il diritto alla salute.”[17]

Le leggi e gli standard internazionali riguardanti il trattamento di persone detenute in qualunque carcere o luogo di detenzione sono gli stessi che sono richiesti nel trattamento dei palestinesi incarcerati dallo Stato di Israele – non ci sono eccezioni o deroghe concesse sulla base della nazionalità o dell’appartenenza politica – ed impegnarsi in uno sciopero della fame non violento nel tentativo di garantire che quelli che ne hanno l’autorità rispettino, proteggano e soddisfino i loro diritti umani finché sono in detenzione rappresenta un diritto inerente ad ogni persona detenuta in condizioni crudeli o illegali.

Benché queste legittime azioni non violente si concentrino specificamente sul trattamento deplorevole dei palestinesi all’interno del sistema carcerario israeliano, alle Nazioni Unite ed alla comunità internazionale nel suo complesso compete anche affrontare la collettiva e complessiva negazione dei diritti umani di ogni palestinese che vive sotto un’occupazione di 50 anni. Come l’associazione per l’appoggio ai prigionieri e per i diritti umani “Addameer” ha portato all’attenzione del mondo in una dichiarazione pubblica del 17 aprile, quando è iniziato lo sciopero della fame, “il problema dei prigionieri e dei detenuti palestinesi nelle prigioni e nei centri di detenzione israeliani trascende quello dei diritti umani individuali, riguarda anche i diritti collettivi di un intero popolo – il popolo palestinese, che continua ad essere privato del suo diritto all’autodeterminazione e alla sovranità – fondamenti basilari del diritto internazionale.” [18]

Esortiamo vivamente lei, in quanto segretario generale dell’ONU, a chiedere pubblicamente una tempestiva assicurazione da parte dello Stato di Israele che a) rispetterà ogni legge e standard internazionale pertinente riguardo al trattamento dei palestinesi detenuti nelle carceri israeliane, compresa la proibizione di trasferimento dei prigionieri dai territori occupati, e in particolare, b) accetterà le ragionevoli richieste degli scioperanti, che si basano su quelle leggi e standard internazionali e c) si asterrà da qualunque tentativo di alimentazione forzata di qualunque palestinese coinvolto nello sciopero della fame.

Cordialmente,

Center for Constitutional Rights

[Centro per i Diritti Costituzionali- USA]

International Association of Democratic Lawyers

[Associazione Internazionale dei Giuristi Democratici]

International Federation for Human Rights

[Federazione Internazionale per i Diritti Umani]

National Lawyers’ Guild

[Associazione Nazionale dei Giuristi -USA]

Palestine Legal [USA]


[1] Vedi, per es., Relatore speciale dell’ONU sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967, Michael Lynk, 19 maggio 2017 “Nessuna fine in vista, afferma l’esperto in diritti umani dell’ONU dopo 50 anni di occupazione israeliana del territorio palestinese”. Vedi in: http://www.ohchr.org/EN/NewsEv ents/Pages/DisplayNews.aspx? NewsID=21639&LangID=E.

[2] Convenzione internazionale sui diritti civili e politici e Convenzione contro la Tortura ed altri trattamenti crudeli, inumani o degradanti. Vedi in: http://www.ohchr.org/EN/Profes sionalInterest/Pages/CoreInstr uments.aspx. Vedi anche: Norme standard minime dell’ONU per il trattamento nelle prigioni (1957). Vedi in: http://www.ohchr.org/EN/Profes sionalInterest/Pages/Treatment OfPrisoners.aspx

[3] Relatore speciale dell’ONU sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967, Michael Lynk, 16 maggio 2017 “Il relatore speciale dell’ONU sui TPO chiede ad Israele di rispettare le leggi internazionali sulla detenzione (La dichiarazione del relatore speciale dell’ONU nei TPO sulla detenzione”). Vedi in: http://www.ohchr.org/EN/NewsEv ents/Pages/DisplayNews.aspx? NewsID=21624&LangID=E

[4] Dichiarazione del relatore speciale dell’ONU nei TPO sulla detenzione

[5] Dichiarazione del relatore speciale dell’ONU nei TPO sulla detenzione

[6] Dichiarazione del relatore speciale dell’ONU nei TPO sulla detenzione

[7] Rapporto periodico del relatore speciale sulla tortura e su altri trattamenti e punizioni crudeli, inumani o degradanti, U.N. Doc. A/66/268 (5 Ag. 2011) (di Juan Méndez) al par. 58.

[8]  Comitato Internazionale della Croce Rossa, 3 maggio 2017, “Comunicato stampa: i contatti dei detenuti con le loro famiglie sono un obbligo di Israele in base alle leggi umanitarie internazionali” (“comunicato stampa del CICR). Vedi in: https://www.icrc.org/en/docume nt/detainees-contacts-families -are-israels-obligation-under- ihl  

[9] Comunicato stampa del CICR

[10] Comunicato stampa del CICR

[11] Dichiarazione del relatore speciale dell’ONU per i TPO sulla detenzione.

[12] Comunicato stampa del CICR

[13] Vedi: The Times of Israel, 4 maggio 2017 ‘Israel said considering bringing foreign doctors to force feed hunger strikers’ [Israele sta pensando di ingaggiare dottori stranieri per l’alimentazione forzata degli scioperanti]. Vedi in: http://www.timesofisrael.com/i srael-said-considering-bringin g-foreign-doctors-to-force- feed-hunger-strikers/; Haaretz, 5 maggio 2017 ‘Doctors refusing to force treatment on Palestinian hunger strikers must find their own replacement’. [I medici che rifiutano trattamenti forzati sui palestinesi in sciopero della fame devono essere rimpiazzati]. Vedi in: http://www.haaretz.com/israel- news/.premium-1.787483

[14] Associazione Medica Mondiale (1975), Dichiarazione di Tokyo: Linee guida per medici riguardo alla tortura e ad altri trattamenti o punizioni crudeli, inumani o degradanti riguardo alla detenzione ed all’incarceramento. Vedi in: : https://ama.com.au/sites/defau lt/files/documents/WMA_Declara tion_of_Tokyo.pdf

[15] Reyes, H. (1998), Comitato Internazionale della Croce Rossa, Maltrattamenti e tortura, Ricerca di medicina legale (vol. 19). Vedi in: https://www.icrc.org/eng/resou rces/documents/article/other/ health-article-010198.htm

[16] Assemblea Generale dell’ONU (1982), Principi di etica medica riguardo al ruolo del personale sanitario, in particolare medico, nella protezione dei prigionieri e detenuti contro la tortura ed altri trattamenti e punizioni crudeli, inumani o degradanti. Vedi in: http://www.ohchr.org/EN/Profes sionalInterest/Pages/MedicalEt hics.aspx

[17] Commissione ONU su Economia e Società [ECOSOC], Commissione su diritti umani, situazione dei detenuti a Guantanamo, P 82, U.N. Doc. E/CN.4/2006/120, p. 82. Vedi in: https://documents-dds-ny.un.or g/doc/UNDOC/GEN/G06/112/76/PDF /G0611276.pdf?OpenElement

[18] Addameer, 17 aprile 2017, “Prendere l’iniziativa: i prigionieri politici palestinesi lanciano uno sciopero della fame di massa.” Vedi in: http://www.addameer.org/news/t ake-action-palestinian-politic al-prisoners-launch-mass- hunger-strike. Addameer (‘Coscienza’ in arabo) è un’organizzazione della società civile palestinese che appoggia i prigionieri palestinesi detenuti nelle prigioni israeliane e palestinesi con sostegno legale gratuito, assistenza e difesa legale dal 1992.

 




Sullo sciopero della fame dei prigionieri palestinesi

Dal Coordinamento Prigionieri

Oggi, 22 maggio, 36° giorno di sciopero in Palestina, sciopero generale di solidarietà dei palestinesi

 

Chiuse le istituzioni pubbliche e private, comprese scuole, università, esercizi commerciali, trasporti ed altre attività con l’esclusone dei servizi sanitari, della farmacie e delle panetterie.

La commissione dei prigionieri e la Associazione dei prigionieri palestinesi (PPS) hanno detto che le condizioni di salute dei prigionieri si stanno aggravando sempre di più e che molti prigionieri in sciopero sono stati traferiti nelle infermerie delle prigioni, negli ospedali da campo e in ospedali civili.

La commissione ha negato che esistano report israeliani circa negoziati tra la leadership dei prigionieri e l’amministrazione carceraria. (IPS)

Attivisti presidiano e bloccano le strade dei Territori occupati per impedire l’accesso dei pendolari a Ramallah e al Bireh, e nei dintorni di Gerusalemme. Anche i diplomatici esteri e i dipendenti delle organizzazioni internazionali che vivono nella periferia di Ramallah, compresi i Consoli, non hanno potuto raggiungere i loro posti di lavoro. Molte città appaiono deserte.

 

Il Comitato dei media per lo sciopero della fame ha detto che è “la prima volta dalla prima Intifada palestinese (1987-1993) che si fa uno sciopero generale in Cisgiordania, nei territori palestinesi occupati nel 1948 (attuale Israele) e nella diaspora”.

Il Comitato ha invitato inoltre tutti i palestinesi ad allestire sit-in e tende in tutti i territori, a svolgere dimostrazioni  e a partecipare ad uno “sciopero della fame”di 12  ore, dalle 10 dalle 22 di oggi (lunedì).

 

Lo sciopero generale coincide anche con l’arrivo di Donald Trump in Israele proprio oggi.

Per domani, giorno in cui Trump si incontrerà con il presidente palestinese Mahmoud Abbas a Betlemme in Cisgiordania, i palestinesi sono chiamati a partecipare ad una “giornata della collera”

 

Alcune fazioni palestrinesi hanno esortato la popolazione a scendere in piazza e nelle strade per esprimere il proprio dissenso sulla ripresa dei colloqui di pace tra l’autorità palestinese e Israele sotto il patrocinio di US.

 

Continuano raid e incursioni delle forze israeliane nelle città e nei villaggi della Cisgiordania.

 

Notizie anche da Gaza tramite Meri. La popolazione e tutte le fazioni partecipano compatte alle proteste e sit-in in appoggio ai prigionieri in sciopero della fame, nonostante Hamas non si sia associata pubblicamente.

Fonti: Ma’an News e Wafa

Al 35°giorno di sciopero altri 220 prigionieri palestinesi si uniscono agli oltre 1800 già in sciopero della fame

I leader palestinesi hanno di nuovo invitato i media a “restare prudenti” per quanto riguarda le notizie di presunte trattative tra funzionari israeliani e palestinesi per il raggiungimento di un accordo per porre fine a uno sciopero di massa prigione che, entrato nel suo 35 ° giorno, ha visto aderire altre centinaia di prigionieri.

Notizie su presunti negoziati tra funzionari della sicurezza palestinesi e funzionari dello Shin Bet erano emerse nell’ultima settimana http://www.maannews.com/Content.aspx?id=777072

Sulla veridicità di tali notizie, ha detto il Comitato per i media, formatosi a sostengo dello sciopero, bisogna essere cauti, soprattutto se le notizie provengono dai media israeliani.

Il comitato ha aggiunto che i palestinesi in sciopero della fame hanno sempre rifiutato di accettare negoziati senza la presenza della leadership dello sciopero, ed in particolare del leader di Fatah Marwan Barghouthi, che è in isolamento fin dall’inizio dello sciopero il 17 aprile. 

Ha inoltre riferito, citando Fadwa Barghouthi, moglie di Marwan Barghouthi, che altri 220 prigionieri palestinesi, appartenenti a diverse fazioni politiche, si sono uniti allo sciopero oggi.

Muhammad Dwikat, membro del Comitato centrale FDLP, ha detto che Samer Issawi, noto per aver condotto in precedenza uno degli scioperi della fame più lunghi nella storia, è stato trasferito nell’infermeria della prigione di Ramla, Israele, a causa del deteriorarsi della sua salute.

Anche le condizioni del più giovane prigioniero in sciopero della fame, il 19enne Saed Yihya Dwikat, si sono deteriorate secondo quanto comunicato alla sua famiglia dal Comitato Internazionale della Croce rossa (CICR), che lo ha visitato.

Nel frattempo, Issa Qaraque, responsabile OLP per i prigionieri, ha detto in una dichiarazione che il CICR deve “prendere posizione” circa lo stato della salute dei prigionieri in sciopero e “condurre ogni sforzo per proteggere i prigionieri e monitorare il trattamento degli stessi da parte degli israeliani.” 

Ciò è tanto più necessario, ha proseguito, dal momento che le autorità israeliane hanno imposto un blocco totale sull’informazione. In particolare mancano notizie sulle reali condizioni dei prigionieri, ed in particolare di quelli, come Marwan Barghouti, che hanno deciso di intraprendere anche lo sciopero della sete. Ha quindi attaccato Israele, per l’occultamento della realtà in corso e per gli abusi che continua a perpetrare nei confronti dei prigionieri per spezzarne la volontà.

Ad un giornalista che gli chiedeva se fossero in corso negoziati con la parte israeliana, ha confermato che vi erano degli incontri con la parte israeliana e che l’amministrazione carceraria aveva fatto filtrare alcune notizie su possibili negoziati; allo stesso tempo ha però espresso dubbi circa la reale volontà degli israeliani di voler trattare, e che tali voci, a suo parere, venivano fatte filtrare per impedire la crescita del sostegno popolare.

Proseguono gli arresti di leader palestinesi per il loro sostegno allo sciopero mentre la mobilitazione non si ferma.

Almeno 13 palestinesi sono stati arrestati in un raid all’alba del 21 maggio dalle forze israeliane nell’area di Gerusalemme. Tra questi, Nasser Abu Khdeir, leader di comunità a Gerusalemme e già prigioniero, Eteraf Rimawi, direttore del centro Bisan per la ricerca e lo sviluppo e Abdul Razeq Ferraj, direttore amministrativo e finanziario dell’Unione dei Comitati di lavoro per l’agricoltura

Sempre a Gerusalemme, scontri si sono verificati a Silwan ed in altre aree, tra manifestanti e forze israeliane, che hanno reagito con lancio di lacrimogeni e granate stordenti, che hanno causato numerosi casi di soffocamento

A Betlemme, nel corso di scontri, le forze israeliane hanno lanciato gas lacrimogeni, granate stordenti e usato proiettili di gomma contro studenti che tornavano da scuola, ferendo un bambino di 7 anni alla testa.

A Jericho nel corso di dimostrazioni sono state ferite almeno otto persone e altre hanno avuto problemi di soffocamento per i gas lacrimogeni.

Nelle colline a sud di Hebrron le forse israeliane hanno compiuto raid ed hanno distrutto un campo a presidio della popolazione minacciata di sgombero, che in quel momento ospitava quasi 200 tra attivisti israeliani e palestinesi.

Scontri e arresti si sono verificati anche in altre parti: Ramallah, Issawwiya, dintorni di Betlemme.

Continuazione della mobilitazione

Il Comitato dei prigionieri (OLP) ha dichiarato uno sciopero commerciale per la giornata odierna, in tutti Territori Occupati e in Israele, dalle 11 fino alle 14, con la partecipazione di tutti i settori, eccetto i settori dell’istruzione e della salute. 

A tal proposito, centinaia di commercianti hanno bloccato un checkpoint a Jenin e dichiarato uno sciopero commerciale, per le continue ispezioni umilianti e provocatorie che vengono condotte nei loro confronti

Nel frattempo, è stato programmato uno sciopero generale, nella giornata di lunedì, in concomitanza con l’arrivo in Israele del presidente USA Donald Trump, mentre la leadership palestinese ha chiamato ad  una “giornata della collera” martedì durante la sua prevista visita con Abbas a Betlemme.

A livello internazionale attivisti ed organizzazioni hanno lanciato una giornata di mobilitazione per il 25 maggio.

21 maggio 2017

Fonti: Sunday Daily Summary, Ma’an news, Wafa

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“Addameer” visita il leader politico in sciopero della fame Ahmad Sa’adat

Addameer

14 maggio 2017

Oggi, 14 maggio 2017, l’avvocato di “Addameer” Farah Bayadsi  ha visitato nella prigione di Ohli Kedar Ahmad Sa’adat, il dirigente politico e segretario generale del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (PFLP) in sciopero della fame. All’avvocato di “Addameer” era stata in precedenza negata la visita, ma ha ricevuto il permesso in seguito ad una richiesta all’Alta Corte [israeliana] presentata il 10 maggio 2017. Dall’inizio dello sciopero, il 17 aprile 2017, “Addameer” ha chiesto molti permessi al Servizio Penitenziario Israeliano (IPS) per visitare prigionieri e detenuti in sciopero della fame, ma l’IPS o non ha risposto o ha rifiutato le richieste.

Il 3 maggio 2017 Sa’adat si è unito allo sciopero della fame, insieme a numerosi importanti dirigenti politici palestinesi, compresi Nael Barghouthi, Hassan Salameh, Ahed Abu Ghoulmeh, Abbas al-Sayed, Ziad Bseiso, Basem al-Khandakji, Mohammed al-Malah, Tamim Salem, Mahmoud Issa e Said al-Tubasi.

Giovedì 11 maggio 2017 Sa’adat, insieme a 38 carcerati e detenuti in sciopero della fame, è stato trasferito dall’isolamento nel carcere di Ashkelon alla prigione di Ohli Kedar, sempre in isolamento. Sa’adat ha informato l’avvocato di “Addameer” che i prigionieri sono stati sottoposti a due violente perquisizioni al giorno, durante le quali i carcerati sono stati obbligati a lasciare la loro stanza, cosa che è fisicamente estenuante per i prigionieri a causa dello sciopero della fame. Ha anche aggiunto che 10 prigionieri sono tenuti in una stretta cella con un solo lavandino, un solo bagno e senza ventilatore o aria condizionata ( con un clima molto caldo), e che a ogni prigioniero sono state date tre coperte.

Bayadsi ha notato che le condizioni di salute di Sa’adat stanno peggiorando e che sembra debole, cammina e parla molto lentamente e ha perso molto peso. Inoltre il suo volto appare pallido e sta bevendo solo acqua. Sa’adat ha aggiunto che i controlli medici realizzati dall’IPS non sono sufficienti, in quanto vengono verificati solo la pressione sanguigna e il peso degli scioperanti. Secondo Bayadsi, nonostante il peggioramento delle sue condizioni di salute, Sa’adat mantiene il morale alto e intende continuare lo sciopero della fame finché le richieste dei prigionieri verranno accolte.

Sa’adat ha inoltre aggiunto che l’IPS ha imposto limitazioni ai prigionieri in sciopero della fame, tra cui un’ammenda per indisciplina di 200 shekel [circa 50 €, ndtr.]; il divieto di visite di familiari per 2 mesi; il divieto di accesso alla “mensa” (lo spaccio della prigione); sequestro del sale [il sale viene aggiunto all’acqua durante lo sciopero della fame per alleviarne le conseguenze, ndtr.] e di tutti i vestiti tranne un capo di abbigliamento per prigioniero.

Cosa più preoccupante, l’IPS ha reso ulteriormente difficile a medici indipendenti visitare i detenuti in sciopero della fame ed ha fornito loro tazze di plastica per bere dal rubinetto invece dell’acqua potabile normalmente fornita.

“Addameer”condanna fermamente un simile trattamento, che viola le “Disposizioni Standard Minime dell’ONU per il Trattamento dei Prigionieri”, che evidenziano la necessità di cure mediche adeguate in caso di detenzione. Oltre a ciò, le “Disposizioni Standard Minime dell’ONU per il Trattamento dei Prigionieri” stabiliscono che “ai prigionieri deve essere concesso, sotto il controllo necessario, di comunicare con le famiglie e con amici affidabili a intervalli regolari, sia attraverso la corrispondenza che tramite visite.”

Mentre lo sciopero della fame è arrivato al suo 28° giorno, l’ “Assistenza ai Prigionieri di Addameer” invita chi sostiene la giustizia in tutto il mondo a prendere iniziative per appoggiare i prigionieri palestinesi i cui corpi e le cui vite sono messi in pericolo per la libertà e la dignità. “Addameer” invita tutti a organizzare eventi in solidarietà con la lotta dei prigionieri e detenuti in sciopero della fame. “Addameer” chiede inoltre alla diplomazia di fare pressione su Israele perché consenta immediatamente agli scioperanti di avere accesso alle cure mediche ed alla consulenza legale necessarie.

“Addameer” inoltre sollecita tutti i partiti politici, le istituzioni, le organizzazioni e i gruppi solidali che lavorano nel campo dei diritti umani nei territori palestinesi occupati e all’estero ad appoggiare i detenuti nel loro sciopero della fame e chiede che vengano garantite le loro legittime richieste. “Addameer” continuerà a seguire da vicino lo sciopero dei prigionieri e a fornire aggiornamenti regolari sugli sviluppi della situazione.

(traduzione di Amedeo Rossi)




La proposta saudita a Israele potrebbe essere l’essenza dell’accordo che sogna Trump in Medio oriente

Zvi Bar’el – 19 maggio 2017,Haaretz

Il silenzio dei media arabi in seguito alle informazioni sui piani degli Stati del Golfo per la normalizzazione con Israele suggerisce che abbiano solide basi. La sua tempistica deriva dagli interessi comuni dei dirigenti arabi e della destra israeliana.

Il silenzio è sceso sui media arabi dopo la pubblicazione di un reportage sul piano degli Stati del Golfo per una parziale normalizzazione con Israele. Non si è sentita nessuna risposta ufficiale da parte dell’Arabia Saudita, degli Stati del Golfo o del Qatar. I soliti opinionisti hanno preferito dedicarsi ad altri argomenti, come se non avessero né sentito né visto lo scoop sul ” Wall Street Journal”. I soliti portavoce del governo in Israele sembrano essere stati colti da una malattia alle corde vocali.

Quando sono stati pubblicati reportage simili nel passato, portavoce ufficiali, sia arabi che israeliani, hanno subito diffuso una smentita. Ma questa volta non c’è ancora stata. Ciò suggerisce che ci siano solide basi sui criteri della proposta – quanto meno tra l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e gli Stati uniti.

A quanto pare, dopo il primo incontro di Trump con Mohammed bin Salman, il trentunenne figlio del re saudita e sovrano di fatto del regno, nella loro riunione a Washington di martedì sono stati definiti gli ultimi dettagli tra il principe ereditario degli E.A.U., Mohammed bin Zayed Al Nahyan, e il presidente USA Donald Trump.

I tre punti principali dell’accordo si fondano sulla concessione di permessi alle imprese israeliane di aprire succursali negli Stati del Golfo, agli aerei israeliani di volare nello spazio aereo degli E.A.U. e sull’installazione di linee telefoniche dirette tra i due Paesi. Non è ancora la totale normalizzazione che era stata promessa con l’iniziativa araba di pace del 2002 o nella sua ratifica dettagliata al summit arabo di aprile in Giordania.

Ma se arrivasse una dichiarazione ufficiale da parte di Riyadh su questa iniziativa, meriterebbe il titolo di “storica”, perché per la prima volta per una completa normalizzazione non verrebbero più richiesti il totale ritiro da tutti i territori occupati e la fine del conflitto. Al contrario, questa proposta è un percorso, consistente in varie fasi, in cui la prima si accontenta della promessa di Israele di congelare la costruzione [di colonie] nei territori.

L’altra novità è che gli Stati del Golfo tradurranno il proprio impegno concreto in un linguaggio che l’opinione pubblica israeliana può capire. Potrebbero essere in grado di esercitare pressioni locali ed internazionali sul governo israeliano se questo decidesse di rifiutare l’iniziativa.

E’ questo il modo il cui Trump pensa di avverare l’accordo che sogna per la pace tra Israele ed i palestinesi, e, se così fosse, perché gli Stati del Golfo sarebbero disposti a collaborare proprio ora?

I dirigenti della maggior parte dei Paesi arabi hanno molte cose in comune con la destra israeliana. Entrambi vedono Trump come una boccata d’aria fresca dopo la fine della presidenza di Barack Obama. Entrambi hanno interesse a contenere l’influenza dell’Iran in Medio oriente e né Israele né gli Stati del Golfo dispongono di una superpotenza alternativa agli Stati uniti. La preoccupazione riguardo alla rottura del rapporto unico creato nel corso dei decenni tra gli Stati del Golfo, soprattutto l’Arabia saudita, e le amministrazioni USA, ha portato alla conclusione che non ci sono alternative al rafforzamento dei rapporti con un presidente americano, che può anche detestare i musulmani, ma capisce il linguaggio degli affari.

Quindi Trump è stato invitato non a un solo incontro, ma a tre: il primo con il re saudita, il secondo con i dirigenti degli Stati del Golfo e il terzo con i dirigenti dei Paesi musulmani sunniti, in cui rilascerà una dichiarazione “al mondo musulmano”.

Sarà interessante fare un confronto tra il discorso di Trump ai leader del mondo musulmano con quello di Obama al Cairo nel 2009, in cui si era impegnato a costituire un’alleanza con i Paesi musulmani dopo un periodo di gelo sotto la presidenza di George W. Bush.

Trump e il re saudita Salman firmeranno due accordi per un valore di centinaia di miliardi di dollari. Uno riguarda un vasto accordo sugli armamenti di circa 100 miliardi di dollari iniziali, con un’opzione fino a 300 miliardi in un decennio. Il secondo è un accordo di investimenti sauditi in infrastrutture negli Stati uniti per circa 40 miliardi di dollari. Tutto questo si aggiunge a un nuovo accordo di difesa che sarà firmato tra Washington e gli E.A.U.

Nel passato gli Stati del Golfo, guidati dall’Arabia saudita, si sarebbero uniti alle iniziative arabe, che provenivano principalmente dall’Egitto. Nel 2002 l’iniziativa saudita fu anomala a questo riguardo, ma dopo che è naufragata in un mare di obiezioni israeliane, l’Arabia saudita si è prestata ad iniziative locali, come la riconciliazione tra Hamas e Fatah, o si è occupata della politica interna in Libano. Salman, e soprattutto suo figlio, si sono trasformati in attivi propugnatori di politiche, anche se non sempre con molto successo. La fallimentare guerra in Yemen è un esempio, la debolezza nel fare i conti con la crisi in Siria un altro. Ora cercheranno di guidare un’iniziativa politica tra Israele e i palestinesi. Il vantaggio dell’Arabia saudita e dei suoi alleati del Golfo è che non hanno la necessità, né l’intenzione, di chiedere l’accordo degli arabi radicali per queste iniziative.

La partecipazione della Siria alla Lega Araba è stata sospesa, l’Iraq è considerato un alleato dell’Iran, la Libia si sta sgretolando, lo Yemen è in guerra, la Giordania e l’Egitto sono sostenute dall’Arabia saudita, come lo sono alcuni Stati del Maghreb. Quindi una parziale o totale normalizzazione tra gli Stati del Golfo ed Israele non impegnerà altri Paesi arabi. Ma ciò deciderà la questione di chi è da biasimare per lo stallo del processo di pace se l’iniziativa non prendesse il via. E se Israele e i palestinesi avanzassero verso la ripresa di negoziati sulle principali questioni, ciò potrebbe essere utile come essenziale effetto leva.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Il dibattito sulla legalità delle colonie: domande ricorrenti

Nathaniel Berman – 11 maggio 2017,Tikkun


I. Perché adesso?

Durante lo scorso decennio la ripresa dei dibattiti sulla legalità, in particolare sulla legalità delle colonie israeliane in Cisgiordania, è diventata un aspetto inatteso della discussione pubblica su Israele/Palestina. Questa ripresa è stata principalmente il prodotto di due tipi di forze. Per un verso, chi appoggia la colonizzazione ha sostenuto che la diffusa opinione internazionale sull’illegalità delle colonie è semplicemente sbagliata. Questi sostegni vanno da un “Rapporto sullo Stato delle Costruzioni nella Regione della Giudea e Samaria” (il “Rapporto della Commissione Levy”) del governo israeliano nel 2012, fino agli articoli pubblicati sulla stampa di destra e agli attivisti che appoggiano senza sosta queste posizioni nelle reti sociali. Dall’altro, l’illegalità delle colonie è stata fortemente sostenuta dagli attivisti delle campagne critiche nei confronti di Israele, soprattutto dal movimento BDS. Questo articolo prenderà in considerazione in primo luogo l’uso dell’argomento della legalità a favore della colonizzazione, valutandone la validità ed esaminando il significato contestuale di questo ritorno.

La ripresa del dibattito sulla legalità è sorprendente perchè, di primo acchito, sembra in contrasto con gli attuali sviluppi globali. Di sicuro c’è stato un periodo, all’incirca tra il 1990 e il 2003, in cui il dibattito internazionale sull’uso della forza è stato pervaso da argomentazioni giuridiche. A posteriori è stupefacente quanto del dibattito sull’invasione del Kuwait nell’agosto 1990 e sulla risposta militare guidata dagli Stati uniti nel gennaio 1991 sia stato inquadrato in un contesto giuridico. Il periodo che ne è seguito è stato una specie di età dell’oro per i giuristi di diritto internazionale. La convinzione che la fine della Guerra Fredda significasse che le leggi internazionali che regolano l’uso della forza potessero “finalmente” essere applicate, che il Consiglio di Sicurezza potesse “finalmente” giocare il ruolo per il quale era stato istituito, divenne praticamente unanime. Anche quando simili speranze vennero infrante nel corso del decennio – in particolare per l’incapacità internazionale di bloccare il genocidio in Ruanda del 1993 -, il discorso sul diritto internazionale rimase un punto fermo fondamentale dell’opinione pubblica mondiale sull’uso della forza. Ogni intervento – od ogni assenza di intervento – venne accompagnato da vivaci dibattiti sulla sua legalità. L’invasione del Kosovo da parte della NATO nel 1999, nonostante – o forse proprio a causa di ciò – la sua dubbia legalità, produsse una grande quantità di discussioni giuridiche originali.

Ora quel periodo sembra un lontano passato, benché non si possa identificare il momento preciso della sua fine. Il Kosovo ha giocato un ruolo, come anche la decisione degli USA di non chiedere l’approvazione del Consiglio di Sicurezza perl’invasione dell’Afghanistan. Tuttavia entrambe queste azioni potrebbero essere plausibilmente (se non incontestabilmente) giustificate in base a teorie di lungo periodo (intervento umanitario nel primo caso, auto-difesa nel secondo). Ma furono l’invasione americana dell’Iraq nel 2001 e la successiva, anche se riluttante, acquiescenza nei suoi confronti da parte di gran parte della comunità internazionale, che indicarono il fatto che le norme internazionali sull’uso della forza avevano perso il loro potere di determinare la politica internazionale. Con l’invasione russa della Crimea nel 2014, entrambe le “superpotenze” di un tempo hanno chiaramente dimostrato il proprio disprezzo per queste norme internazionali. Di sicuro molti hanno condannato quell’invasione in base ad una flagrante illegalità, ma questi termini sono sembrati ben lontani dal nuovo carattere discorsivo del dibattito internazionale.

Nel conflitto Israele/Palestina, il dibattito giuridico ha giocato a lungo un ruolo centrale, anche se intermittente. Benché io non possa qui ripercorrerne l’intera storia, è sufficiente dire che il conflitto è stato modellato in modo decisivo dal dibattito su, e dall’adozione di, strumenti internazionali come il Mandato [inglese, ndtr.] in Palestina del 1922, la Risoluzione [dell’ONU, ndtr.] sulla partizione [della Palestina, ndtr.] del 1947, la Risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza del 1967 [che chiedeva il ritiro delle truppe israeliane dalla Cisgiordania, ndtr.], e così di seguito. Ma ci sono stati periodi in cui la questione della legalità pareva più o meno irrilevante per gli sviluppi politici in corso.

A mio parere, furono gli accordi di Oslo del 1993 e le loro conseguenze che hanno in gran parte favorito la più recente (anche se temporanea) marginalizzazione delle questioni giuridiche fondamentali del conflitto, come la legittimità dello Stato di Israele, il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese, la legalità delle colonie e via di seguito. Il riconoscimento reciproco dello Stato di Israele e dell’esistenza del popolo palestinese da parte di Rabin e di Arafat nel 1993 si impegnava a mettere da parte dibattiti a somma zero su pretese legali opposte e totalizzanti. Al loro posto, Oslo sembrò (anche se per poco) presagire una particolare attenzione verso un pragmatico adeguamento degli interessi reciproci, la creazione di una società palestinese e una israeliana complementari e l’oblio graduale di richieste incompatibili sulla terra e sulla sua storia.

La morte di Oslo ha avuto dimensioni sia immediate che graduali, con cause troppo complesse per essere discusse in questa sede. La seconda Intifada ha segnato la sua fine – anche se alcune delle sue strutture formali hanno resistito, e continuano ad esistere. Tuttavia questa fine non è stata inizialmente accompagnata da un ritorno alla centralità del dibattito giuridico. Ciò è stato in parte dovuto alla violenza che l’ha accompagnata: sembrava che né i principi giuridici né gli interessi concreti da quel momento in poi sarebbero più stati importanti, ma solo la forza bruta.

Tuttavia, come sempre in questo conflitto, la forza bruta non ha deciso la questione, e la battaglia ideologica a somma zero è ritornata all’ordine del giorno: da una parte, la delegittimazione di Israele come tale; dall’altra, la delegittimazione di ogni rivendicazione palestinese sulla terra. O, per usare una sintesi corrente: i sostenitori di una “soluzione dello Stato unico”, che sia Israele o Palestina, sembrano aver conquistato il sopravvento nel determinare il dibattito internazionale, utilizzando argomentazioni giuridiche per proporre richieste inconciliabili.

II. Che cos’è la legge?

Passo a una rassegna delle questioni giuridiche relative alle colonie, iniziando da quelle basilari. Una discussione giuridica esaustiva richiederebbe un intero libro (o più di uno); mi sono sforzato qui di prendere in considerazione le questioni più importanti.

Israele è uno Stato (nel significato delle leggi internazionali, non in quello americano – cioè un Paese indipendente). La sua statualità è stata riconosciuta da molti altri Stati e, cosa più importante, dalla sua condizione di Stato membro dell’ONU. Se qualunque altro Stato dovesse usare la forza contro la sua “integrità territoriale o indipendenza politica…, o in qualunque altro modo incompatibile con le finalità delle Nazioni Unite,” violerebbe l’articolo 2(4) della Carta delle Nazioni Unite, una delle regole più sacre delle leggi internazionali successive alla Seconda Guerra Mondiale. Ad un livello giuridico formale, problemi quali la “legittimità” del Sionismo, le rivendicazioni storiche ebraiche sulla terra ed altre sono semplicemente irrilevanti per lo status giuridico dello Stato di Israele.

Per parte loro, i palestinesi sono stati riconosciuti dall’ONU, da molti Stati e dalla Corte Internazionale di Giustizia (la “CIG”, ovvero la “Corte Internazionale”) come “popolo” con il diritto all’ “autodeterminazione”. In base alla Risoluzione 2625 (1970) dell’Assemblea Generale, la maggior parte delle cui norme sono considerate dall’autorità giudiziaria internazionale come vincolanti, il diritto all’autodeterminazione può essere messo in pratica in uno di questi tre modi: “la costituzione di uno Stato sovrano ed indipendente, la libera associazione o integrazione con uno Stato indipendente o la formazione in qualunque altro status politico determinata da un popolo.” Quindi, in quanto “popolo”, i palestinesi sono in possesso del diritto, anche se non ancora messo in pratica, di scegliere una di queste tre opzioni. C’è una netta preferenza internazionale perché il diritto di auto-determinazione venga realizzato attraverso uno Stato indipendente, come espresso nelle prassi statuali durante la decolonizzazione e nella Risoluzione 1514 (1960) dell’Assemblea Generale, che ha preceduto la 2625 e documento fondamentale nel processo di maturazione dell’auto-determinazione come diritto internazionale generale.

La dimensione territoriale dello Stato di Israele e l’autodeterminazione palestinese richiedono la discussione di almeno altre due questioni giuridiche. La prima riguarda lo status della “Linea Verde”, il confine che ha delimitato Israele in base agli accordi armistiziali del 1949 tra Israele e i suoi vicini, in particolare l’Egitto e la Giordania. Gli accordi dichiararono esplicitamente che non erano definitivi riguardo alle rivendicazioni giuridiche delle due parti, comprese quelle territoriali. Tuttavia gli anni successivi al 1949 videro un crescente riconoscimento internazionale, per lo meno di fatto, della Linea Verde come il confine dello Stato di Israele. Il momento esatto in cui questo riconoscimento di fatto ha acquisito un valore legale può essere difficile da indicare, anche se a quanto pare si è ampiamente verificato. Pertanto, nella sua sentenza del 2004 sul Muro di sicurezza israeliano, la CIG ha accolto implicitamente lo status de jure della Linea Verde – in particolare nella sua dichiarazione secondo cui le disposizioni della Convenzione di Ginevra per i territori occupati si applicano ai “territori palestinesi…ad est della Linea Verde,” dichiarando implicitamente che sono inapplicabili ai territori ad ovest della Linea Verde perché si trovano all’interno del territorio sovrano di Israele.

Questa dichiarazione della CIG ci porta al termine legale “occupazione”. I recenti sostenitori della colonizzazione negano insistentemente che questo termine possa essere applicato alla Cisgiordania. Essi affermano che il termine “occupazione” si possa applicare solo quando un territorio è stato tolto da uno Stato sovrano ad un altro Stato sovrano. La Cisgiordania non ha avuto un riconoscimento internazionale fin dal lontano crollo dell’Impero ottomano. Gli inglesi, succeduti agli Ottomani nel governo della Palestina, erano solo un “Potere mandatario” , una specie di fiduciario che amministrava il territorio in nome della Società delle Nazioni. La Giordania, che conquistò la Cisgiordania nella guerra del 1948, venne condannata da tutti per la successiva annessione – un’annessione riconosciuta formalmente solo dalla Gran Bretagna e forse, a un livello informale e de facto, dagli USA. L’annessione venne inizialmente condannata in quanto illegale dalla Lega Araba, che per poco non espulse la Giordania per questo problema.

Nel 1968 Yehuda Blum, uno studioso israeliano di diritto internazionale e diplomatico, fornì quello che forse fu il primo, e il più influente, argomento legale per una rivendicazione israeliana della Cisgiordania: la teoria della “mancanza di un potere sovrano a cui restituire [la terra occupata, ndtr.] “. In base a questa teoria, l’insieme delle norme internazionali che regolano “l’occupazione in situazioni di conflitto” non si applica a causa dell’assenza di un legittimo potere governante precedente a cui il territorio potesse essere “restituito”. Tuttavia Blum non arrivò fino al punto di negare che si applicasse il termine “occupazione in situazione di conflitto”. Piuttosto, la “mancanza di qualcuno a cui restituire [la terra occupata, ndtr.]” significava che venissero applicate solo le norme “dirette a salvaguardare i diritti umani della popolazione”, e non quelle “che garantiscono i diritti di restituzione al potere legittimo”. Gli attuali sostenitori della rivendicazione israeliana, tuttavia, hanno assunto con decisione il punto da cui Blum si è astenuto: la negazione della reale esistenza di un’ “occupazione”. [1]

In ogni caso, la rilevanza della “mancanza di un potere sovrano a cui restituire [la terra occupata, ndtr.] ” per la legge internazionale dell’occupazione è stata solidamente rifiutata dalla Corte Internazionale di Giustizia (così come da quasi ogni altra autorità) nella sua decisione del 2004, come ho rimarcato in precedenza. La CIG ha fondato il suo rifiuto sullo scopo delle disposizioni fondamentali delle Convenzioni di Ginevra, dei lavori preparatori (registrazione delle discussioni tra le parti della Convenzione), della successiva conferma dei pareri delle parti delle Convenzioni e di molte risoluzioni del Consiglio di Sicurezza – i metodi standard utilizzati per determinare il significato delle disposizioni di un trattato. Inoltre, come evidenzierò in seguito, la dichiarazione della Corte che tutte le disposizioni delle Convenzioni di Ginevra che governano l’occupazione di forze ostili si applicano alla Cisgiordania è ampiamente supportata dalle politiche complessive sottintese in queste disposizioni, così come altri sviluppi legali, su tutti il diritto all’autodeterminazione.

(Noto di non avere qui lo spazio per discutere della legalità dell’occupazione in quanto tale, ma solo quella della legalità delle colonie in ogni territorio occupato. Si potrebbe sostenere in modo plausibile che l’inizio dell’occupazione fosse legale nel 1967, in quanto esercizio del diritto all’auto-difesa, ma che, come ha mostrato recentemente Aeyal Gross, rimane la questione se sia diventata illegale a causa del modo in cui è stata condotta. [2])

L’argomento principale per sostenere l’illegalità delle colonie si basa su uno dei principali scopi delle regole che governano l’occupazione ostile: l’obbligo da parte dell’occupante di non cambiare il carattere del territorio occupato oltre a ciò che è richiesto da necessità strettamente militari. Questo scopo è alla base di una norma fondamentale sull’occupazione, codificata nell’articolo 43 delle Disposizioni dell’Aja del 1907: l’obbligo per lo Stato occupante di “prendere tutte le misure in suo potere per ripristinare, e garantire, il più possibile, l’ordine pubblico e la sicurezza, rispettando al contempo, eccetto in casi estremi, le leggi in vigore nel Paese.” Questa politica indica anche la proibizione di obbligare gli abitanti a giurare fedeltà allo Stato occupante (art. 45) e di confiscare la proprietà privata (art. 46), così come le norme sulla proprietà pubblica: “Lo Stato occupante deve essere visto solo come un amministratore ed usufruttuario di edifici pubblici, beni immobili, foreste e proprietà agricole dello Stato ostile, e situate nel Paese occupato. Esso deve salvaguardare il patrimonio di queste proprietà ed amministrarle in base alle norme sull’usufrutto” (art. 55). Gli articoli 46 e 55 non prevedono nessun terreno su cui un occupante possa costruire un insediamento civile, ancora meno di carattere permanente.

Di sicuro, le disposizioni dell’Aja sembrano supporre l’esistenza di un “potere sovrano a cui restituire [la terra occupata]” e vedere il ruolo dello Stato occupante come una specie di amministratore per questo potere sovrano fino ai negoziati di un trattato di pace. La teoria della “mancanza di un potere sovrano a cui restituire [la terra occupata, ndtr.]” definirebbe ogni disposizione riguardante questo assunto inapplicabile alla Cisgiordania. E, di conseguenza, ci si potrebbe benissimo chiedere: per chi lo Stato occupante sarebbe un amministratore in assenza di un potere sovrano legittimo, per chi sarebbe obbligato ad osservare le norme di usufrutto riguardo alla proprietà pubblica, in nome di chi gli sarebbe vietato imporre il proprio sistema normativo – e, in generale, i diritti di chi dovrebbe salvaguardare?

La risposta in base alle attuali leggi internazionali è chiara: la beneficiaria di tutte queste norme è la popolazione, o piuttosto il “popolo”, dei territori occupati. Va ricordato che persino Blum ha affermato che, in assenza di un precedente potere sovrano legittimo, queste norme intese a garantire i “diritti umani della popolazione” sono applicabili alla Cisgiordania, riconoscendo quindi che l’assenza di un “potere a cui restituire” non implica l’assenza di un beneficiario di almeno alcuni dei diritti concessi dalla legge dell’occupazione. Di sicuro Blum ha fatto una distinzione tra tali “diritti umani” e le rivendicazioni politiche – queste ultime, in base alla sua teoria, inapplicabili in virtù dell’assenza di un precedente potere legittimo. E la posizione di Blum sarebbe stata plausibile nel 1907.

Ma la distinzione di Blum non è più valida in base alle attuali leggi internazionali, a causa del diritto all’ autodeterminazione, che riconosce i diritti politici di “popoli” non ancora organizzati in uno Stato sovrano, e l’applicazione delle leggi internazionali in generale, con i valori che rappresentano. In base a questo riconoscimento dei diritti politici dei popoli senza Stato, il beneficiario dello status simile a quello fiduciario del territorio occupato, in assenza di un precedente potere sovrano legittimo, deve essere “il popolo” del territorio. E’ a suo beneficio che lo Stato occupante deve governare il territorio, astenersi da cambiamenti giuridici non necessari, salvaguardare la proprietà pubblica, e via di seguito.

L’argomentazione a favore della colonizzazione (e quindi dell’annessione) – secondo cui l’assenza di un precedente potere sovrano legittimo rende il territorio disponibile all’appropriazione da parte dell’occupante – ignora quindi del tutto l’emergere graduale nelle leggi internazionali del diritto all’autodeterminazione politica. Sebbene l’autodeterminazione dei popoli possa essere maturata pienamente nel diritto internazionale generale solo dopo il 1960, il principio regolò buona parte della ridefinizione dei confini europei nel primo dopoguerra. Woodrow Wilson fornì nel 1918 una delle sue prime e più esplicite formulazioni nel discorso “Quattro principi”, quando dichiarò che “popoli e province non devono essere barattati da un potere sovrano all’altro come se fossero beni mobili e pedine di un gioco” – un principio che va direttamente in senso contrario rispetto alla teoria della “mancanza di un potere sovrano per la restituzione.”

In effetti, il concetto del diritto internazionale prima del XX° secolo, che il diritto all’autodeterminazione rigetta esplicitamente, è l’antenato diretto della teoria della “mancanza di un potere sovrano per la restituzione” : quello di “ terra nullius”, terra che non è di proprietà di nessuno e di conseguenza disponibile per l’acquisizione. Questa nozione ha un lungo ed ignobile percorso nella storia dell’imperialismo, le cui fasi sono state tratteggiate dal giudice della CIG Ammoun nel caso del Sahara occidentale del 1975:

(1) L’antichità romana, quando ogni territorio che non fosse romano era nullius.

(2) L’epoca delle grandi scoperte del XVI° e XVII° secolo, durante la quale ogni territorio che non era di un sovrano cristiano era nullius.

(3) Il XIX° secolo, durante il quale ogni territorio che non fosse di proprietà di un cosiddetto Stato civilizzato era nullius.

Nel caso del Sahara occidentale la CIG respinse totalmente la nozione di terra nullius, dichiarando che “territori abitati da tribù o popoli che hanno un’organizzazione sociale e politica” non possono essere visti come terrae nullius dal punto di vista legale. Poiché tutte le “tribù” e i “popoli” hanno “un’organizzazione sociale e politica,” la Corte correttamente dichiarò che solo un territorio disabitato può eventualmente essere nullius. Pertanto l’ “acquisizione di sovranità” su un qualunque territorio abitato non può essere “effettuata unilateralmente attraverso un’ ‘occupazione'”, ma piuttosto solo tramite “accordi conclusi con i poteri locali”, che tali poteri locali siano o meno i rappresentanti di Stati.

Torniamo ora alla norma giuridica fondamentale che regola specificamente la colonizzazione, l’articolo 49(6) della Quarta Convenzione di Ginevra: “Il potere occupante non deve deportare o trasferire parti della propria popolazione civile nel territorio che occupa.” Il significato di questa disposizione è stato duramente messo in discussione nel contesto della Cisgiordania. I fautori della colonizzazione sostengono che si riferisce solo ai trasferimenti forzati di popolazione, e lo mette in relazione con le deportazioni di massa naziste nei campi di concentramento. Questa interpretazione considera i due termini, “deportazione” e “trasferimento” come sinonimi. Tuttavia l’autorevole commento sulle Convenzioni di Ginevra da parte del Comitato Internazionale della Croce Rossa (“CICR”) del 1958 ne fa una lettura molto diversa:

E’ intesa a proibire una pratica adottata durante la Seconda Guerra Mondiale da certe potenze, che trasferirono parte della propria popolazione in territori occupati per ragioni politiche e razziali o con lo scopo, come esse sostennero, di colonizzare questi territori. Tali trasferimenti peggiorarono la situazione economica della popolazione nativa e misero in pericolo la sua esistenza come etnia separata.

Nelle parole della CIG nel 2004, la norma proibisce “non solo le deportazioni o i trasferimenti forzati di popolazione come quelli messi in atto durante la Seconda Guerra Mondiale, ma anche qualunque misura presa da un potere occupante per organizzare o incoraggiare trasferimenti di parti della sua stessa popolazione nel territorio occupato.” Questa interpretazione, sostenuta dal CICR, dalla CIG e dalla maggior parte dei giuristi internazionali, è in linea con il quadro politico complessivo delle leggi sull’occupazione, secondo cui gli Stati occupanti devono evitare di fare passi per cambiare il carattere del territorio occupato – e tentativi di modificare il carattere demografico con insediamenti, e a maggior ragione qualunque passo unilaterale verso l’annessione, vanno direttamente in senso contrario rispetto a questa politica.

III. E riguardo a Sanremo?

Uno degli aspetti più sorprendenti della recente argomentazione a favore della colonizzazoine è la sua ossessione per tre testi, di circa un secolo fa, che sono culminati nella nascita del Mandato in Palestina della Società delle Nazioni: la “Dichiarazione Balfour” (1917), la Risoluzione di Sanremo (1920) e il Mandato sulla Palestina (1922). Questi documenti hanno un signficato giuridico diverso. La “Dichiarazione Balfour” britannica, che “vede(va) con favore la costituzione in Palestina di un focolare per il popolo ebraico”, era una dichiarazione unilaterale di politica da parte di uno Stato impegnato, all’epoca, in una lotta militare per il controllo della Palestina. Di per sé, non ha nessun valore giuridico internazionale. La Risoluzione di Sanremo fu un accordo tra quattro Stati (Gran Bretagna, Francia, Italia e Giappone), che dichiararono la propria intenzione di accettare alcune condizioni per essere inclusi nei Mandati in Palestina, in Siria (che evidentemente includeva il Libano) e nella Mesopotamia (che sarebbe presto stata chiamata Iraq).

I quattro Stati concordarono che il Mandato in Palestina sarebbe stato concesso alla Gran Bretagna che sarebbe stata “responsabile della messa in pratica della Dichiarazione (Balfour)”. Di nuovo, la risoluzione era una dichiarazione politica da parte di quattro Stati, ma non aveva un valore giuridico indipendente. Infine, il Mandato sulla Palestina, un trattato internazionale vincolante tra la Gran Bretagna e la Società delle Nazioni, nel suo preambolo adottò la Dichiarazione Balfour e fornì un certo numero di disposizioni dettagliate per la sua attuazione. Di questi documenti, solo il Mandato, un trattato internazionale, era legalmente vincolante – il che rende l’attuale enfasi dei sostenitori della colonizzazione sulla Dichiarazione Balfour e sulla Risoluzione di Sanremo alquanto inspiegabile da un punto di vista giuridico.

In ogni caso, persino il Mandato ha perso ogni rilevanza giuridica attuale. Il Mandato ed i testi che lo hanno preceduto furono scritti in un periodo totalmente diverso, prima di una lunga serie di radicali cambiamenti di fatto e giuridici nella situazione internazionale e regionale. Prima di tutto, questi documenti furono adottati prima della fondazione dello Stato di Israele, internazionalmente riconosciuto. La fondazione dello Stato fece più che ottenere l’obiettivo della ” costituzione in Palestina di un focolare per il popolo ebraico”: lo ha sovra-realizzato – in quanto il vago termine “focolare”, una definizione senza un preciso significato giuridico nel 1917 o in qualunque tempo precedente o successivo, venne scelto proprio per evitare la promessa di uno Stato ebraico. Un confronto del Mandato sulla Palestina con qualunque altro trattato successivo alla Prima Guerra Mondiale lo evidenzia: quando l’intenzione era quella di garantire la creazione di uno Stato indipendente per i popoli, il testo lo affermava esplicitamente.

Si potrebbe cavillare ulteriormente sul linguaggio della Dichiarazione Balfour (per esempio, sembra promettere solo che “il focolare per il popolo ebraico” sarebbe stato da qualche parte “in Palestina”, piuttosto che prevedere la costituzione della Palestina nel suo complesso come focolare ebraico). Tuttavia, la fondazione dello Stato di Israele, con la sua sovra- realizzazione della politica del “focolare”, è sufficiente a rendere superate le relative disposizioni del Mandato. In base a una norma definita da molto tempo che guida i trattati internazionali, “rebus sic stantibus,” un “fondamentale cambiamento delle circostanze” che alteri le condizioni di base sotto le quali le disposizioni di un trattato sono state adottate rende nullo il loro carattere vincolante.

Altre due disposizioni sono spesso menzionate dai fautori della colonizzazione. La prima è la disposizione del Mandato che chiede alla Gran Bretagna di “incoraggiare…un insediamento concentrato da parte degli ebrei sul territorio.” Di nuovo, con la decadenza di tutte le disposizioni relative al “focolare” in seguito all’esecutività del rebus sic stantibus, anche questa disposizione è obsoleta. Quindi la fondazione di uno Stato di Israele internazionalmente riconosciuto rende piuttosto assurda l’obbligatorietà di un potere mandatario straniero di “ incoraggiare…un insediamento concentrato”.

La seconda disposizione è l’articolo 80 della Carta dell’ONU. L’articolo 80 è parte del capitolo XII della Carta, che stabilisce la costituzione di un “Sistema internazionale di amministrazione fiduciaria” per sostituire i Mandati della Società delle Nazioni. L’articolo 80 prevede che “niente nel” capitolo XII “deve essere interpretato in sé e per sé per alterare in alcun modo i diritti, qualunque essi siano, di ogni Stato o popolo o le disposizioni di documenti internazionali esistenti.” I sostenitori della colonizzazione, facendo ricorso ad un articolo scritto da Eugene Rostow nel 1978, interpretano questa norma come se mantenesse in vigore tutte le disposizioni del Mandato sulla Palestina in relazione ad ogni parte del territorio che non sia stata “assegnata” – un termine che utilizzano per significare un territorio non ancora concesso a un potere sovrano internazionalmente riconosciuto.

Questa tesi è confutabile sotto almeno due aspetti. Anzitutto l’effettività del rebus sic stantibus, che rende obsolete le disposizioni del focolare ebraico del Mandato, non è un portato del capitolo XII, e quindi le limitazioni dell’articolo 80 semplicemente non sono pertinenti. In secondo luogo, la trasformazione dell’auto-determinazione in un diritto internazionale non solo ha cambiato la situazione giuridica (rafforzando l’argomento del rebus sic stantibus), ma significa anche che il territorio non può essere considerato “non assegnato”, semplicemente in quanto non c’è un potere sovrano riconosciuto su di esso. In ogni caso tutti questi argomenti sono stati implicitamente rifiutati dalla CIG, da quasi tutti i giuristi e dalla comunità internazionale degli Stati.

IV. E riguardo alla Risoluzione 242?

Un altro vecchio dibattito che i fautori della colonizzazione hanno rispolverato riguarda il significato della Risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza, adottata nel novembre 1967. Tra le altre cose, la risoluzione chiede “il ritiro delle forze armate di Israele da territori occupati” durante la Guerra dei Sei Giorni. I sostenitori della colonizzazione affermano che l’assenza di un articolo determinativo prima della parola “territori” significa che la risoluzione non chiede ad Israele di ritirarsi da tutti i territori occupati durante la guerra e che questa disposizione può essere rispettata ritirandosi da uno qualsiasi dei territori occupati – per esempio, ritirandosi dal Sinai in base agli accordi di Camp David del 1979. Simili argomentazioni spesso implicano il confronto tra il testo in francese ed in inglese, sottigliezze grammaticali tra l’inglese e il francese e affermazioni di varie persone coinvolte nella stesura della risoluzione. Chi appoggia la colonizzazione sostiene anche che la risoluzione legittima così le colonie israeliane.

Queste argomentazioni sono piuttosto sconcertanti. Anche se la questione grammaticale fosse corretta (cosa che non è affatto certa), la risoluzione deve essere interpretata alla luce delle norme giuridiche internazionali generali sui territori occupati. In base a queste norme, un territorio occupato durante una guerra non può essere annesso unilateralmente. Peraltro questo divieto è stabilito nella stessa Risoluzione 242, il cui secondo paragrafo introduttivo “sottolinea l’inammissibilità dell’acquisizione di territori con la guerra…” Anche se l’interpretazione di “territori” a favore della colonizzazione fosse corretta, la risoluzione stabilirebbe semplicemente che, in una soluzione negoziata del conflitto, le parti sarebbero libere di accettare cambiamenti dei confini di anteguerra. Questa lettura rende compatibile il secondo paragrafo dell’introduzione con la (controversa) interpretazione della parola “territori”. Faccio anche notare che la risoluzione non cita per niente le colonie.

In ogni caso, la risoluzione deve essere interpretata alla luce di sviluppi giuridici successivi, su tutti il quasi universale riconoscimento dei palestinesi come “popolo” con un diritto all’auto-determinazione. La risoluzione non menziona i palestinesi, che compaiono solo come anonimi “rifugiati”.

V. E riguardo ad Howard Grief?

Uno degli aspetti deludenti delle argomentazioni giuridiche a favore delle colonie è la loro apparente indifferenza verso le regole fondamentali che presiedono alla definizione dello Stato nel diritto internazionale. Ribadiscono ripetutamente l’esistenza di un piccolo numero di autori giuridici che hanno argomentato la legalità delle colonie, ignorando le migliaia che hanno espresso parere contrario, come anche le istituzioni autorevoli che hanno sostenuto la stessa cosa (quasi tutti gli Stati, le Nazioni Unite, la Corte Internazionale di Giustizia, il Comitato Internazionale della Croce Rossa, ecc.). Sostengono la superiorità degli argomenti degli autori da loro scelti e adducono che, quanto meno, la questione è “controversa” e che l’illegalità non può essere considerata definitivamente stabilita.

Gli autori giuridici citati a favore delle colonie sono un gruppo eterogeneo – comprendono alcuni avvocati di livello internazionale, come anche studiosi giuridici in altri campi che si sono occupati in certa misura di diritto internazionale; le carriere di alcuni di loro includono posizioni ufficiali nel governo di Israele. Uno di questi ultimi, particolarmente citato dai sostenitori delle colonie, è Howard Grief, un per altro oscuro avvocato canadese che è stato consulente ministeriale durante il governo Shamir, che pare sia responsabile della loro ossessione per la Risoluzione di San Remo. Quasi tutti sono personaggi chiaramente appartenenti alla destra o persino all’estrema destra dello spettro politico – compreso Howard Grief, la cui richiesta alla Corte Suprema israeliana di dichiarare illegittimi gli accordi di Oslo è stata sbrigativamente liquidata come “una posizione politica”.

Qualunque siano le variegate competenze in merito di questo gruppo, gli argomenti che prendono di mira le singole persone sono irrilevanti. Il diritto internazionale non è una scienza esatta in cui qualcosa può essere oggettivamente vera, anche se la grande maggioranza delle autorità non la riconosce come tale. E non è neppure un’indagine etica in cui (almeno secondo alcune teorie etiche) un valore può essere superiore agli altri nonostante il parere della maggioranza. Né si occupa di una ricerca religiosa sul disegno divino di una sacra scrittura. Al contrario, il diritto internazionale si definisce come relativo all’accordo tra Stati, al consenso o quasi-consenso degli studiosi e alle autorevoli interpretazioni istituzionali dei testi. Secondo le categorie universalmente accettate (codificate, tra l’altro, nello Statuto della Corte Internazionale di Giustizia), le fonti del diritto internazionale sono: 1) i trattati ratificati dagli Stati; 2) il “diritto consuetudinario internazionale” – prassi statali ampiamente diffuse che si trasformano in norme giuridiche in virtù della loro accettazione in quanto tali dalla maggioranza degli Stati (quest’ultima nota con l’espressione latina “opinio juris”); 3) “principi legislativi generali” – principi della legislazione interna agli Stati, che sono così diffusi da diventare norme giuridiche internazionali.

Inoltre, poiché molte controversie riguardano l’interpretazione dei trattati, dovremmo sottolineare che il principio che governa la formazione del diritto consuetudinario internazionale – che può essere sintetizzato nella formula “prassi + opinio juris” – ricompare in forma solo leggermente differente in relazione all’interpretazione di testi giuridici potenzialmente ambigui. Come stabilito nella Convenzione di Vienna sul “Diritto dei Trattati”:

Si dovrà prendere in considerazione, insieme al contesto:

  1. ogni successivo accordo tra le parti relativo all’interpretazione del trattato o all’applicazione delle sue disposizioni;

  2. ogni successiva prassi nell’applicazione del trattato che stabilisca l’accordo delle parti riguardo alla sua interpretazione;

  3. tutte le norme pertinenti di diritto internazionale applicabili alle relazioni tra le parti.

La polemica sull’erroneità del consenso preponderante riguardo all’illegalità delle colonie – condiviso da Stati, Corti e dall’ampia maggioranza dei giuristi di diritto internazionale – fraintende la natura del diritto internazionale. Si può, ovviamente, contestare in tutto o in parte il diritto internazionale. Ma trattarlo come se contenesse una verità eterna, che un singolo studioso o un gruppo di studiosi potrebbe scoprire indipendentemente da un simile consenso, è semplicemente un equivoco.

VI. Il dibattito come sintomo tragico ….e un’ultima fandonia

Come ho detto all’inizio, la mia opinione complessiva è che questa strana rinascita del dibattito giuridico sia un sintomo di una crescente sfiducia in una possibile soluzione del conflitto in un contesto che darebbe almeno una parziale espressione ad ognuna delle aspirazioni nazionaliste in confitto. Ma indica anche un fenomeno ancor più inquietante. Come è stato evidenziato per anni da molti osservatori, la soluzione dei due Stati – che a molti, me compreso, sembra tuttora fornire l’unico schema che potrebbe plausibilmente condurre ad una giusta e pacifica risoluzione del conflitto – è contraddetta da una “realtà di uno Stato unico” per la quale serve come alibi.

Inoltre, poiché l’occupazione appare sempre più permanente, l’argomentazione giuridica comincia ad apparire sempre più staccata dalla realtà, perché la permanenza è proprio la condizione che le norme giuridiche intendono impedire. E ancora, per tutte le ragioni esposte prima, una volta che [il termine] “occupazione” diventa obsoleto, l’alternativa non è legittimare la sovranità israeliana sulla Cisgiordania, come pretendono i sostenitori delle colonie. Piuttosto, può essere sostituita solo da termini quali “colonialismo” e “apartheid”, categorie storiche che descrivono sistemi di governo in cui i coloni e la maggioranza della popolazione sono governati da due sistemi giuridici e in cui solo i primi hanno la cittadinanza e i diritti civili e politici. Nel contesto di una “realtà di uno Stato unico”, la campagna contro l’applicabilità della forma legale “occupazione” è quindi davvero agghiacciante.

Bisogna menzionare qui un’ ultima, spiacevole fandonia. I sostenitori delle colonie contestano che coloro che ritengono che tutte le colonie debbano essere evacuate auspicano che la Cisgiordania sia “judenrein” [libera dagli ebrei, ndtr.], paragonando così gli oppositori delle colonie ai nazisti. Questo è falso, davvero osceno, per così tanti aspetti ed in così tanti modi, che ci vorrebbe un altro saggio per citarli tutti. Dato che la mia attenzione qui si incentra sul diritto internazionale, mi limiterò ad un solo punto. Il progetto coloniale non può essere onestamente descritto come uno sforzo da parte di singoli ebrei di affittare o acquistare case e il cui diritto di farlo dovrebbe essere garantito da qualcosa come una legge anti-discriminazione. Il progetto coloniale implica lo spostamento collettivo di parti della popolazione civile di uno Stato in un territorio sotto occupazione militare di quello Stato.

Il progetto è stato avviato e continua ad essere diretto da dirigenti, dello Stato e non, la cui intenzione dichiarata era, ed è, agevolare la definitiva imposizione della sovranità israeliana sull’intero territorio o su parte di esso. Il progetto è stato avviato soprattutto (benché non esclusivamente), e continua ad essere ampiamente gestito, da persone guidate da un’ideologia nazionalista-messianica, che ritiene che la proprietà della terra da parte dello Stato di Israele e/o del popolo ebraico sia disposta dalla volontà divina. Il progetto è condotto con l’appoggio dell’intera potenza militare israeliana e da una massiccia spesa del governo in case ed infrastrutture. In breve: le questioni giuridiche essenziali non riguardano la discriminazione abitativa o la proprietà privata –e ancor meno il giudizio morale dei singoli coloni.

Se alcuni coloni sono estremisti violenti e razzisti e molti sono semplicemente indifferenti alla realtà umana dei palestinesi in quanto individui e in quanto popolo, altri sono normali famiglie attirate in Cisgiordania dagli incentivi economici del governo, alcuni sono esempi di spiriti apolitici e vi sono persino alcuni, come il rabbino Menachem Froman, che sono sinceri pacifisti. Le questioni giuridiche riguardano le azioni di uno Stato tenuto al rispetto di norme internazionali che regolano un territorio occupato durante un conflitto armato, norme che proibiscono atti che mirino all’imposizione unilaterale della sovranità su tale territorio ed alla subordinazione della sua popolazione, di cui il progetto di colonizzazione è la forma più eclatante.

1) Bisogna anche notare che gli scritti successivi di Blum, pubblicati dopo Oslo, indicano che non attribuisce più la stessa rilevanza alla teoria che propose nel 1968.

2) Aeyal Gross, “The writing on the wall: rethinking the international law of occupation” [ “La scritta sul muro: ripensare le leggi internazionali sull’occupazione”] (Cambridge, 2017).

Nathaniel Berman è professore di Affari Internazionali, Diritto e Cultura Moderna della cattedra Rahel Varnhagen presso il Centro Cogut per le Discipline Umanistiche della Brown University, e condirettore del progetto “Religione e Internazionalismo”.

Ha di recente pubblicato “Passion and ambivalence: colonialism, nationalism and international law” [“Passione e ambivalenza: colonialismo, nazionalismo e diritto internazionale”] (Brill, 2012).

(traduzione di Amedeo Rossi e Cristiana Cavagna)




Rapporto OCHA del periodo 2 maggio – 15 maggio (due settimane)

Quattro aggressioni e tentate aggressioni con coltello contro le forze israeliane hanno provocato l’uccisione di due sospetti aggressori: un minore palestinese e un cittadino della Giordania; oltre al ferimento di un israeliano e di due palestinesi.

Il 7 maggio, nella città vecchia di Gerusalemme, le forze israeliane hanno sparato e ucciso una ragazza palestinese di 16 anni che, secondo fonti ufficiali israeliane, avrebbe tentato di accoltellare un gruppo di poliziotti. B’Tselem, organizzazione israeliana dei diritti umani, ha affermato che, sebbene la ragazza brandisse un coltello, “si era fermata a diversi metri dagli ufficiali, [e] non rappresentava un pericolo per loro”. Ad oggi, nel 2017, in Cisgiordania questo è il sesto minore palestinese ucciso dalle forze israeliane nel contesto di aggressioni, presunte aggressioni e scontri. Sempre a Gerusalemme, il 13 maggio, un cittadino giordano 57enne (rifugiato palestinese) ha pugnalato e ferito un poliziotto israeliano e successivamente è stato colpito e ucciso. Inoltre, in base ai resoconti dei media israeliani, il 10 e 15 maggio, in due distinti episodi, presso il checkpoint di Salem (Jenin) e nella zona H2 della città di Hebron, le forze israeliane hanno sparato e ferito due giovani palestinesi che avrebbero tentato di accoltellare dei soldati israeliani.

Nel periodo in esame [2-15 maggio], in Cisgiordania le violenze e gli scontri con le forze israeliane sono aumentati: una giovane palestinese è stata uccisa ed altri 255 palestinesi, di cui 26 minori, sono stati feriti. La maggioranza degli scontri si è verificata il 15 maggio, durante le manifestazioni per commemorare il 69° anniversario di quello che i palestinesi chiamano “An Nakba” [= la catastrofe, cioè la proclamazione unilaterale, nel 1948, della nascita dello Stato di Israele], così come durante le manifestazioni in solidarietà con i palestinesi detenuti nelle carceri israeliane, che sono in sciopero della fame da più di 30 giorni per protestare contro le loro condizioni di detenzione. La giovane (di cui sopra) è una palestinese di 22 anni, uccisa con arma da fuoco durante gli scontri scoppiati nel villaggio di Nabi Salah (Ramallah), nel corso della manifestazione settimanale contro l’acquisizione di terre da parte di coloni israeliani. Almeno 35 dei feriti (14%) sono stati colpiti da armi da fuoco, mentre la maggior parte dei rimanenti ha subito lesioni da inalazione di gas lacrimogeni (circa il 40%) e da proiettili di gomma (quasi il 30%).

In numerosi checkpoints della Cisgiordania sono stati rilevati lunghi ritardi che hanno reso difficile l’accesso ai servizi e ai luoghi di lavoro. Durante il periodo di riferimento, nel contesto di crescenti tensioni e violenze, le forze israeliane hanno dispiegato almeno 160 “checkpoint volanti” ad hoc, più che raddoppiando la media bisettimanale registrata dall’inizio dell’anno; tra questi i “checkpoint volanti” allestiti agli ingressi principali delle città di Qalqiliya, Hebron e Betlemme. Inoltre, in diversi momenti di questo periodo, 40 checkpoint parziali (cioè non presidiati in modo permanente) sono stati attivati e presidiati da soldati che fermavano i veicoli palestinesi per effettuare controlli e ricerche.

Il 15 maggio, nel mare a nord-ovest della città di Gaza, le forze navali israeliane hanno aperto il fuoco contro una barca da pesca, uccidendo un pescatore di 23 anni. Secondo il Centro Palestinese per i Diritti Umani, l’episodio si è verificato a circa tre miglia nautiche dalla costa [cioè in zona non vietata da Israele]. In almeno altre 22 occasioni, le forze navali israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento in direzione di pescatori che navigavano nelle Aree ad Accesso Riservato (ARA): in uno dei casi hanno ferito un pescatore. All’inizio di questo mese, e fino al 7 giugno, in occasione della stagione della pesca delle sardine, nella parte meridionale della Striscia di Gaza, i militari israeliani hanno esteso la zona di pesca consentita, portandola da sei a nove miglia nautiche; viceversa, lungo la costa settentrionale, l’accesso oltre le sei miglia è rimasto precluso. Dall’inizio del 2017 ad oggi ci sono già stati, in mare, almeno 133 casi di apertura del fuoco: il bilancio è di un morto [vedi sopra] e otto feriti.

In Area C e Gerusalemme Est, per mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito 13 strutture palestinesi sfollando 22 persone e colpendo i mezzi di sostentamento di altre 40. Nove delle strutture abbattute si trovavano a Gerusalemme Est; sei di queste ultime erano collocate nella comunità di Al Walaja, nella parte illegalmente annessa ad Israele e dove le autorità israeliane hanno recentemente ripreso la costruzione della Barriera. Le altre quattro strutture demolite erano in Area C, nelle comunità di Al Jiftlik (valle del Giordano) e di Ar Ram (governatorato di Gerusalemme).

Due palestinesi sono stati feriti e strutture agricole sono state vandalizzate in episodi di cui sono stati protagonisti coloni israeliani. Nella zona H2 della città di Hebron, coloni israeliani hanno fisicamente aggredito e ferito il Direttore della scuola elementare di Qurtuba; nei pressi dell’insediamento colonico di Kiryat Arba (Hebron), un palestinese è rimasto ferito dai frammenti di vetro della sua auto contro la quale coloni israeliani avevano lanciato pietre. Gli agricoltori dei villaggi di Al Khadr (Betlemme) e Qusra (Nablus) hanno riferito che una recinzione e due serbatoi per l’acqua sono stati vandalizzati da coloni israeliani, rispettivamente di Ahiya e di Alon Shevut.

Secondo resoconti di media israeliani, cinque coloni israeliani sono stati feriti e almeno dieci veicoli sono stati danneggiati in diversi casi di lancio di pietre e bottiglie incendiarie ad opera di palestinesi, nei pressi di Gerusalemme, Ramallah, Hebron e Betlemme.

È rimasta ferma la Centrale elettrica di Gaza, chiusa il 17 aprile per esaurimento delle proprie riserve di carburante; perdurano così i tagli di 20-22 ore giornaliere alla erogazione di energia elettrica. L’approvvigionamento elettrico dall’Egitto, dopo la riparazione dei guasti alle linee elettriche, è ripreso temporaneamente il 7 maggio, ma è stato nuovamente interrotto il 12 maggio. Questa situazione continua a compromettere la fornitura dei servizi essenziali, operanti ai livelli minimi e affidati al funzionamento di generatori elettrici di emergenza.

Il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è stato eccezionalmente aperto in una direzione per quattro giorni durante il periodo (6-9 maggio), consentendo a 3.068 palestinesi di entrare a Gaza. Secondo le autorità palestinesi di Gaza, oltre 20.000 persone, tra cui casi umanitari, sono registrate e in attesa di uscire da Gaza attraverso Rafah.

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Ultimi sviluppi

Secondo le prime notizie dei media, il 18 maggio, durante una protesta nella città di Huwwara (Nablus), un colono israeliano ha sparato, uccidendo un 23enne e ferendo un fotografo, entrambi palestinesi.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Il comitato [di appoggio ai prigionieri]: il servizio penitenziario israeliano sposta tutti i detenuti in sciopero della fame verso prigioni con ospedali da campo

17 maggio 2017,Ma’an News

Ramallah (Ma’an) – Mercoledì sera [17 maggio 2017] il capo del “Comitato Palestinese per le Questioni dei Prigionieri” Issa Qaraqe ha rilasciato una dichiarazione in cui afferma che tutti i prigionieri palestinesi in sciopero della fame, il cui numero è stimato attorno ai 1.300, sono stati trasferiti in tre prigioni israeliane “per il fatto che si trovano nei pressi di ospedali israeliani,”

Qaraqe ha detto che tutti i prigionieri che partecipano allo sciopero della fame di massa [denominato] “Libertà e Dignità”, che è entrato mercoledì nel 31° giorno, sono stati trasferiti da decine di prigioni israeliane e concentrati nelle prigioni israeliane di Beersheba a sud, di Shatta a nord e di Ramla al centro – ciascuna delle quali è dotata al proprio interno di un ospedale da campo predisposto all’inizio dello sciopero.

“Questo passo evidenzia la gravità delle condizioni di salute degli scioperanti,” ha affermato Qaraqe. Un portavoce del servizio penitenziario israeliano (ISP), tuttavia, ha detto a Ma’an che solo i prigionieri in sciopero della fame delle prigioni di Ketziot e Nafha, nella zona desertica del Negev, sono stati trasferiti nella prigione di Beersheba, “in modo che si trovino più vicini alla zona centrale di Israele, nel caso abbiano bisogno di un trattamento ospedaliero.”

Alla domanda se i prigionieri fossero curati in ospedali civili, il portavoce ha affermato che i detenuti sono in genere assistiti negli ospedali da campo delle carceri, ma che, su indicazione dei medici, se necessario verranno trasferiti in un ospedale civile.

Il ministero dell’Interno israeliano ha confermato che dall’inizio dello sciopero della fame le autorità israeliane hanno installato ospedali da campo per i prigionieri palestinesi.

L’iniziativa ha provocato la preoccupazione che gli scioperanti, che negli ultimi giorni hanno subito un grave deterioramento delle condizioni di salute, siano alimentati a forza in massa – violando gli standard internazionali di etica professionale dei medici e le leggi internazionali, che considerano questa pratica inumana o persino come una forma di tortura.

Una dichiarazione rilasciata martedì dal comitato informativo istituito per appoggiare lo sciopero ha avvertito che i detenuti in sciopero della fame sono “arrivati ad una condizione di salute critica”, segnata da vomito cronico, riduzione della vista, svenimenti e una perdita di peso in media di 20 chili.

Ai prigionieri in sciopero della fame è stato anche imposto il divieto assoluto di ricevere visite dai familiari e devono affrontare continui trasferimenti arbitrari nel tentativo dell’IPS di interrompere il loro sciopero.

Secondo il comitato informativo, lunedì l’IPS ha spostato 36 prigionieri in sciopero dalla prigione di Ofer a un cosiddetto ospedale da campo nella prigione di Hadarim.

Lunedì il comitato ha ribadito le preoccupazioni sugli ospedali da campo, affermando che “in quelle strutture il ruolo dei dottori ricorda quello dei carcerieri che offrono ogni genere di cibo ai detenuti malati e propongono di fornire trattamenti medici in cambio della fine dello sciopero,” sostiene la dichiarazione, denunciando che gli ospedali da campo sono inadeguati e non equipaggaiti per fornire cure mediche, e sono semplicemente solo un altro mezzo per portare e spingere i detenuti a interrompere il loro sciopero.

I partecipanti allo sciopero stanno rifiutando cibo e vitamine dall’inizio dello sciopero il 17 aprile, e per il loro sostentamento bevono solo una miscela di sale ed acqua.

Tra le altre rivendicazioni di diritti fondamentali, gli scioperanti stanno chiedendo la fine del divieto alle visite dei familiari, il diritto di continuare a studiare, cure e assistenza medica adeguate e la fine del regime in isolamento e della detenzione amministrativa – incarcerazione senza imputazione o processo.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Il trattamento che Israele infligge ai prigionieri palestinesi “potrebbe costituire una forma di tortura”

17 maggio 2017,Middle East Monitor

I maltrattamenti ai prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane sono stati condannati, con voci secondo cui i prigionieri palestinesi in sciopero della fame verrebbero alimentati a forza. Si tratta di una pratica che, come ha ripetuto il relatore speciale dell’ONU, “secondo gli esperti dei diritti umani potrebbe costituire una forma di tortura.”

Martedì sono state manifestate preoccupazioni da parte del relatore speciale dell’ONU sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi, il quale ha esortato Israele a rispettare le leggi e gli standard internazionali sulle condizioni di detenzione. Michael Lynk ha affermato di essere particolarmente preoccupato della detenzione amministrativa.

“L’uso della detenzione amministrativa da parte di Israele non rispetta le circostanze estremamente limitate in cui questa è consentita dalle legge internazionali, e priva i detenuti delle fondamentali garanzie giuridiche previste dalle leggi internazionali sui diritti umani,” ha spiegato. L’esperto dell’ONU ha sottolineato che si pensa che circa 500 detenuti palestinesi siano sottoposti al regime della carcerazione amministrativa.

Lynk ha anche notato che molti dei 6.000 prigionieri palestinesi incarcerati da Israele sono tenuti in prigioni all’interno di Israele e non nei Territori Occupati, in violazione delle leggi umanitarie internazionali. “Questi trasferimenti creano serie difficoltà alle famiglie dei prigionieri che vogliano fargli visita, a causa della difficoltà di ottenere permessi di ingresso in Israele, ” ha evidenziato,”così come a causa dei viaggi spesso faticosi che le famiglie devono intraprendere per raggiungere i propri familiari.”

Commentando i rapporti che ha ricevuto riguardo ai maltrattamenti dei prigionieri – che includono la detenzione in isolamento, la negazione della comunicazione con gli avvocati e il fatto di subire altre forme di deprivazione – Lynk è stato categorico nel dire che in qualunque Paese i detenuti hanno il diritto di impegnarsi in scioperi della fame per protestare contro le proprie condizioni di vita. “Non dovrebbero essere puniti in conseguenza di ciò,” ha aggiunto. “L’alimentazione forzata è una pratica che secondo gli esperti di diritti umani può costituire una forma di tortura.”

Il relatore speciale sta attualmente svolgendo la sua visita annuale nella regione. A causa della mancata cooperazione di Israele riguardo alla sua richiesta di viaggiare nei Territori Palestinesi Occupati, si prevede che sarà ad Amman, in Giordania, dal 15 al 19 maggio.

(traduzione di Amedeo Rossi)