Una nuova realtà sotterranea sta prendendo forma lungo il confine tra Gaza e Israele

Amos Harel, 15 maggio 2017, Haaretz

L’aumentata pressione da parte di Abbas potrebbe spingere Hamas a cercare di compiere un’incursione oltre frontiera. La massiccia barriera israeliana anti-tunnel provoca il fatto che Hamas abbia aumentato i posti di vedetta – cosa non necessariamente negativa.

Nelle ultime settimane il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas ha progressivamente incrementato la pressione sul governo di Hamas nella Striscia di Gaza. Le misure punitive si sono susseguite: interruzione del pagamento della tassa sul combustibile importato, taglio di un terzo dei salari di 45.000 impiegati statali a Gaza che sono ancora pagati dall’ANP, interruzione dei pagamenti per l’elettricità di Gaza proveniente da Israele.

I funzionari israeliani della Difesa hanno ancora difficoltà a spiegare il cambiamento di approccio da parte di Abbas, visto che nell’ultimo decennio, fin da quando Hamas ha preso il potere nella Striscia, non ha mai affrontato direttamente l’organizzazione. L’allora primo ministro israeliano Ariel Sharon nel 2003 disse di Abbas: “Il pulcino non ha ancora messo le piume”. Ma adesso che il pulcino ha compiuto 82 anni, qualcosa evidentemente è cambiato.

Una possibile spiegazione è che Abbas pensi che Hamas alla fine si troverà di fronte a una rivolta interna – una speranza condivisa da alcuni israeliani. L’ipotesi è che i gazawi scenderanno in piazza, proprio come gli egiziani che hanno riempito piazza Tahrir al Cairo sei anni fa, e deporranno il governo islamico di Gaza.

A tutt’oggi comunque non vi sono segnali di un tale evento. Lo scorso inverno, quando si sono verificati problemi simili con la fornitura di energia, è scoppiata una breve ondata di proteste, ma Hamas è stata in grado di reprimerle.

L’aggravamento dei problemi degli abitanti di Gaza

Questa primavera il panorama è un po’ diverso. Le gravi riduzioni di energia colpiscono principalmente le istituzioni pubbliche, come ospedali e scuole. Molti gazawi, abituati alle interruzioni della fornitura di energia, hanno comprato dei generatori in proprio. Far funzionare un generatore costa molti soldi, ma potrebbe non essere ancora sufficiente perché i gazawi giungano al punto di rottura.

Anche se la popolazione perdesse la pazienza, è difficile che i capi di Hamas rinuncino al loro progetto più importante, il governo islamista che hanno imposto a Gaza dal maggio del 2007. Piuttosto, se la pressione aumentasse, probabilmente cercheranno un’altra via per uscire dalla trappola.

Un’opzione potrebbe essere quella di incoraggiare la popolazione a fare manifestazioni “spontanee” lungo il confine con Israele, nel tentativo di dirottare la rabbia verso Israele (ogni dura reazione da parte dei soldati israeliani inasprirebbe ulteriormente la situazione). Un’altra alternativa è l’azione militare – un raid oltre frontiera attraverso un tunnel o in altro modo, che svierebbe l’attenzione della gente dalla responsabilità di Hamas per le sofferenze del suo popolo.

Le sofferenze si stanno aggravando in quanto Hamas, che raccoglie le tasse su ogni minimo prodotto che entra nella Striscia, sta ancora destinando la maggior parte del denaro disponibile per rafforzare le proprie potenzialità militari. Questa settimana, il numero di camion che trasportano merci da Israele e Cisgiordania a Gaza è stato in media di 1000 al giorno – cinque volte la media giornaliera prima dell’ultimo conflitto tra Hamas e Israele nell’estate del 2014.

Dichiarazioni di Hamas

Una nuova realtà sta prendendo forma lungo il confine tra Gaza ed Israele. Con discrezione, Israele ha iniziato a costruire una nuova barriera contro i tunnel che attraversano il confine. La barriera comprende un muro sotterraneo, una recinzione sul terreno ed un complesso sistema di sensori e dispositivi di monitoraggio. I lavori sono iniziati in alcuni brevi tratti vicino alla zona nord di Gaza e si prevede che nei prossimi mesi verranno notevolmente incrementati.

Hamas sorveglia da vicino. All’interno di Gaza, a circa 300 metri dal confine, l’organizzazione ha aumentato in modo significativo il numero dei suoi posti di vedetta. Quasi sempre, quando dal lato israeliano compaiono gru ed escavatori, spuntano le vedette dal lato palestinese.

Questo non è necessariamente negativo dal punto di vista israeliano. La “pattuglia di confine” di Hamas si adopera per impedire agli infiltrati di entrare in Israele. Arresta la maggior parte di loro ed in un caso recente ha persino aperto il fuoco contro un palestinese che cercava di entrare in Israele. Alti ufficiali israeliani dicono che Hamas si sta anche impegnando ad impedire il lancio di razzi.

Gli avamposti di Hamas aiutano anche l’esercito [israeliano] a reagire immediatamente se un razzo o un’arma fa fuoco comunque su Israele. Cioè gli avamposti diventano obbiettivi che Israele attacca sulla base del fatto che Hamas è responsabile per qualunque cosa avvenga nel territorio sotto il suo controllo.

Evidentemente anche Hamas comprende le regole del gioco. Altrimenti è difficile spiegare perché quasi nessuno è stato ferito in questi attacchi punitivi israeliani.

E’ chiaro che lungo il confine di Gaza è stato intrapreso un impegnativo progetto costruttivo. La barriera sarà lunga solo circa 65 chilometri, più o meno un quarto della lunghezza della barriera lungo il confine israelo-egiziano, ma il lavoro sul confine di Gaza è incomparabilmente più complesso.

Quando gli storici e i geografi studieranno i confini israeliani nel corso degli ultimi due decenni, scopriranno che un personaggio poco conosciuto ha influenzato la topografia più di tutti i leader e i generali messi insieme. Quest’uomo è il generale di brigata Eran Ophir, capo dell’amministrazione militare per la costruzione della barriera. Dopo la barriera di separazione in Cisgiordania, quella lungo il confine egiziano e quella sulle alture del Golan, adesso Ophir si sta occupando della barriera lungo il confine di Gaza.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Il disegno di legge sullo Stato-Nazione ebraico di Israele è una ‘dichiarazione di guerra’

Jonathan Cook

per Al Jazeera – 11 Maggio 2017

Il parlamento Israeliano ha approvato in via preliminare un nuovo disegno di legge che definisce Israele come ‘nazione del popolo ebraico’.

La nuova legislazione tesa a consolidare la definizione di Israele come Stato che appartiene esclusivamente agli ebrei di tutto il mondo è una “dichiarazione di guerra” nei confronti dei cittadini Palestinesi di Israele, hanno annunciato i leader della minoranza questa settimana.

Il disegno di legge, che definisce Israele come la “Nazione del popolo ebraico”, ha superato mercoledì il suo primo voto nel parlamento israeliano, dopo che domenica aveva già ricevuto il supporto unanime di una commissione governativa.

Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha promesso di fare in modo che il provvedimento sia tradotto in legge entro 60 giorni.

Tra le altre disposizioni, la legge – conosciuta comunemente come disegno di legge dello Stato-Nazione ebraico – revoca lo status di lingua ufficiale dell’arabo, nonostante esso sia la lingua madre di un cittadino su cinque.

La popolazione di Israele include una numerosa minoranza di 1,7 milioni di palestinesi.

La legge afferma che gli ebrei di tutto il mondo hanno un diritto “esclusivo” all’auto-determinazione in Israele, e chiede al governo di rafforzare i legami con le comunità ebraiche al di fuori di Israele.

Inoltre assegna maggiore potere ai cosiddetti “comitati di ammissione” che impediscono ai cittadini palestinesi di vivere in centinaia di comunità che controllano la maggior parte del territorio di Israele.

 

Un pericolo per i colloqui di pace

Oltre a questo, chi la critica teme che la legge sia finalizzata ad intralciare ogni prospettiva di ripristinare i colloqui di pace con la leadership palestinese nei Territori Occupati. Il presidente USA Donald Trump è atteso nella regione per la fine di questo mese, per quello che si presume sia un tentativo di riavviare il processo di pace, il quale è in fase di stallo da molto tempo.

Netanyahu però ha già chiarito che insisterà sulla condizione preliminare che, il presidente palestinese Mahmoud Abbas, riconosca Israele come Stato ebraico. Il nuovo disegno di legge di fatto enuncia le caratteristiche dello Stato che Abbas sarebbe tenuto a riconoscere.

Netanyahu ha detto questa settimana che tutti i partiti sionisti in parlamento dovrebbero supportare la legge. “Il disegno di legge stabilisce il fatto che lo Stato di Israele è lo Stato-Nazione del popolo ebraico nella nostra patria storica”, ha detto ai sostenitori del suo partito, il Likud.

Ha poi aggiunto: “Non c’è nessuna contraddizione tra questo disegno di legge e l’uguaglianza di diritti per tutti i cittadini di Israele.”

Tuttavia i leader della minoranza palestinese si sono dichiarati assolutamente contrari.

 

Non spariremo’

Ayman Odeh, capo del partito a maggioranza palestinese “Lista Unitaria” del parlamento Israeliano, ha avvertito che la legge assicurerebbe “la tirannia della maggioranza sulla minoranza”.

Sulla base del disegno di legge solo l’ebraico sarebbe lingua ufficiale, mentre all’arabo sarebbe soltanto concesso uno “status speciale”. I cittadini palestinesi già lamentano come la maggior parte dei servizi pubblici e dei documenti ufficiali non siano forniti in arabo.

L’obiettivo è quello di dipingere il razzismo istituzionale in Israele come assolutamente normale, e garantire che la realtà dell’apartheid sia irreversibile”, ha detto ad Al Jazeera Haneen Zoabi, membro palestinese del parlamento israeliano.

Fa parte dell’immaginario della destra – loro negano che qui ci sia una popolazione indigena che vive ancora nella propria terra. Non spariremo a causa di questa legge.”

 

Maggiori diritti

Sul piano strettamente giuridico, il disegno di legge dello Stato-Nazione ebraico apporta dei cambiamenti limitati. Sin dalla sua fondazione nel 1948 Israele si è definito come uno Stato del popolo ebraico anziché di tutti i cittadini del Paese, inclusa la sua minoranza palestinese.

La “Legge del Ritorno” del 1950 permette solo agli ebrei di emigrare in Israele e di ricevere la cittadinanza. Adalah, un’associazione per i diritti legali, ha documentato la presenza di decine di leggi che discriminano esplicitamente i cittadini palestinesi.

Ma la nuova legge è significativa per ragioni che vanno al di là del suo immediato impatto giuridico.

Non da ultimo essa fornisce all’auto-definizione di Israele come Stato-Nazione del popolo ebraico qualcosa di simile ad uno status costituzionale, ha osservato Ali Haider, avvocato per i diritti umani ed ex co-direttore di Sikkuy, un’organizzazione che fa pressione a favore di eguali diritti di cittadinanza.

Il disegno di legge, se approvato, si unirà ad un gruppo di Leggi Fondamentali destinate a costituire le fondamenta di ogni futura costituzione. Tali leggi prevalgono sulle leggi ordinarie e sono molto più difficili da abrogare.

Questo è un passo molto pericoloso perché rende esplicito in una Legge Fondamentale il fatto che tutti gli ebrei, anche quelli che non sono cittadini, hanno maggiori diritti in Israele di quei cittadini che sono palestinesi,” ha detto ad Al Jazeera.

 

Intimidazione dei giudici

Una bozza alternativa della nuova legge, che concedeva uguali diritti a tutti i cittadini, è stata effettivamente bloccata dal governo a gennaio, quando stava per essere presa in esame.

Haider ha detto che la nuova versione fornirebbe le basi costituzionali per giustificare un’ondata di leggi finalizzate alla marginalizzazione dei cittadini palestinesi ed all’erosione dei loro diritti in quanto cittadini.

Una” Legge di Espulsione” approvata l’anno scorso dà al parlamento israeliano il potere di espellere i deputati palestinesi se fanno dichiarazioni politiche che la maggioranza ebraica non approva. Un altro disegno di legge presentato al parlamento, la “Legge dei Muezzin“, mette a tacere la chiamata islamica alla preghiera.

Tali leggi saranno quasi sicuramente contestate dinanzi alla Corte Suprema di Israele. “I giudici saranno molto più riluttanti ad intervenire se il disegno di legge dello Stato-Nazione ebraico sarà in vigore,” ha detto Haider. “Si sentiranno costretti ad ignorare fondamentali principi democratici ed a dare priorità al carattere ebraico di Israele.”

Ha inoltre aggiunto che ci sarà una scarsa opposizione da parte dell’opinione pubblica ebraica. Un sondaggio dell’Istituto Israeliano per la Democrazia dello scorso dicembre ha rilevato che più della metà degli ebrei Israeliani vorrebbe che qualunque cittadino che rifiuta la definizione di Israele come Stato ebraico fosse privato di diritti fondamentali.

 

Preparativi per l’annessione

Un altro obiettivo chiave del disegno di legge per il governo di Netanyahu è il suo probabile impatto su ogni iniziativa finalizzata a riattivare i colloqui di pace con i palestinesi. Abbas e Donald Trump si sono incontrati la scorsa settimana.

Il governo di Netanyahu non aderisce più nemmeno a parole all’idea che potrebbe accettare uno Stato palestinese. La maggior parte dei dibattiti all’interno del governo israeliano si concentra invece sull’intensificazione della costruzione degli insediamenti e sui preparativi per l’annessione di aree della Cisgiordania.

Zoabi ha osservato che, da quando è salito al potere nel 2009, Netanyahu ha lavorato instancabilmente per persuadere Washington ad accettare un nuovo prerequisito per il dialogo, ovvero che la leadership Palestinese dovrà prima di tutto riconoscere Israele come Stato ebraico.

 

Sacrificare i diritti dei rifugiati

Il nuovo disegno di legge metterebbe Abbas in una difficile posizione, che gli consentirebbe di iniziare le trattative con Israele solo se egli prima accettasse di sacrificare sia i diritti dei cittadini palestinesi di Israele alla pari cittadinanza, sia quelli dei milioni di rifugiati palestinesi al ritorno alle proprie vecchie case.

La legge è rivolta non solo ad Abbas ma anche a Trump,” ha detto Zoabi. “Gli fornisce una mappa che spiega con esattezza su cosa si potrà negoziare e come dovranno essere le condizioni della soluzione.”

Avi Dichter, un membro del partito di Netanyahu che ha preparato la bozza del disegno di legge, ha spiegato lo scopo diplomatico con il quale sarebbe utilizzato.

Ha detto al sito Israeliano Ynet: “L’aspirazione dei palestinesi di eliminare lo Stato-Nazione del popolo ebraico non è più un segreto”. Ha aggiunto che Israele dovrà “pretendere che i propri nemici lo riconoscano come lo Stato-Nazione del popolo ebraico”.

Netanyahu gli ha fatto eco, dicendo questa settimana che il disegno di legge è “la risposta più chiara possibile a coloro che stanno provando a negare la profonda connessione tra il popolo di Israele e la sua terra”.

 

Regime di apartheid

Probabilmente non è una coincidenza il fatto che al disegno di legge dello Stato-Nazione ebraico venga assegnato un trattamento prioritario, mentre ministri dell’estrema destra nel governo di Netanyahu stanno preparando un provvedimento separato per applicare la legge israeliana in Cisgiordania. Questo è un elemento chiave per il tentativo dei coloni e dei loro sostenitori all’interno del governo di annettere la Cisgiordania di soppiatto.

Marzuq al-Halabi, un giornalista palestinese che scrive per il sito israeliano “972”, ha avvertito questa settimana che, sulla scia del disegno di legge dello Stato-Nazione ebraico, il governo cercherà di ridisegnare i confini di Israele in modo da includere una parte o tutta la Cisgiordania.

Il “regime di apartheid” che ne risulterebbe “creerebbe… ‘crimini giustificati’ contro il popolo palestinese, come ad esempio il trasferimento o la rimozione della popolazione,” ha scritto.

Un editoriale di Haaretz ha concordato sul fatto che Netanyahu stia gettando le fondamenta per annettere la Cisgiordania senza conferire diritti alla popolazione palestinese ivi presente.

La nuova legge, ha dichiarato, è finalizzata ad essere “la base costituzionale per l’apartheid” in Israele e nei territori occupati, in modo da consentire ad Israele di “mantenere il controllo su… una maggioranza palestinese che vive sotto il proprio dominio”.

(Traduzione di Francesco Balzani)




I prigionieri palestinesi hanno difficoltà a stare in piedi nel 23° giorno di sciopero della fame di massa

MA’AN NEWS AGENCY

9 maggio 2017

GERUSALEMME (Ma’an) – Nel momento in cui circa 1600 prigionieri palestinesi martedì hanno raggiunto il 23°giorno di sciopero della fame, il “Comitato Palestinese per le Questioni dei Prigionieri” ha avvertito che gli scioperanti sono entrati in una fase pericolosa, riferendo che le loro condizioni di salute stanno considerevolmente peggiorando. I prigionieri politici chiedono che si interrompa il divieto delle visite dei familiari, il diritto di accedere a un’istruzione superiore, cure e trattamenti sanitari adeguati e la fine dell’isolamento e della detenzione amministrativa – carcerazione senza accuse né processo – oltre ad altre richieste di diritti fondamentali.

Secondo una dichiarazione rilasciata martedì dal Comitato, i prigionieri hanno cominciato a perdere l’equilibrio a causa di attacchi di capogiro, soffrono di acuti dolori e di perdita di peso.

La dichiarazione sottolinea che le autorità israeliane hanno predisposto delle ambulanze all’esterno di ogni carcere ed afferma che “il governo di occupazione tratta gli scioperanti con tale crudeltà e brutalità da arrivare a compromettere totalmente la loro salute e condurli alla morte.”

Il Comitato ha accusato il Servizio carcerario israeliano (IPS) di tormentare quotidianamente le persone in sciopero della fame. La dichiarazione aggiunge: “Il Servizio carcerario israeliano ogni giorno effettua ispezioni usando cani poliziotto e getta acqua sui prigionieri invece di dar loro da bere.”

Molti degli scioperanti sono anche finiti in isolamento o sono stati più volte trasferiti all’interno del sistema delle carceri israeliane, hanno subito aggressioni, incursioni notturne in cella, confisca di oggetti personali, condizioni di detenzione inumane ed hanno addirittura ricevuto una multa di centinaia di shekel come punizione per il rifiuto del cibo.

Tuttavia gli scioperanti sono ancora determinati, nonostante I maltrattamenti, la fame e il dolore e sono impegnati a costringere l’IPS a garantire I loro diritti, secondo una lettera fatta uscire di nascosto da una cella di isolamento nella prigione di Ashkelon dal giornalista palestinese Muhammad al-Qiq.

La lettera, pubblicata dall’ufficio stampa Asra di Gaza, dice che la determinazione dei prigionieri in sciopero della fame è “molto alta”.

Al-Qiq è diventato famoso per aver intrapreso un estenuante sciopero della fame di 94 giorni in un carcere israeliano nel 2016 ed ha iniziato un secondo sciopero della fame individuale che è terminato in marzo, dopo che ha ottenuto un accordo con Israele.

Nella lettera ha scritto di avere già perso seri chili da quando si è unito allo sciopero della fame di massa cinque giorni fa. “Una volta che si sono imposti di combattere l’occupante con lo stomaco vuoto, gli eroici prigionieri avranno l’ultima parola”, ha affermato.

Immediatamente dopo l’inizio dello sciopero, l’IPS ha vietato le visite di avvocati e familiari ai detenuti in sciopero e nei primi 20 giorni di sciopero gli avvocati hanno avuto accesso solo alle prigioni di Askelon e Ofer.

Domenica per la prima volta gli avvocati hanno potuto visitare i prigionieri in sciopero della fame nelle prigioni di Ktziot e Nitzan, dopo che l’IPS è stato costretto a concedere le visite degli avvocati in seguito ad una petizione all’Alta Corte israeliana presentata dall’Ong giuridica “Adalah” e dal “Comitato Palestinese per le Questioni dei Prigionieri.”

In seguito all’udienza della Corte, l’avvocato di “Adalah “Muna Haddad ha denunciato l’IPS per “aver aggiunto al danno la beffa “, imponendo il divieto incostituzionale: “I prigionieri palestinesi hanno intrapreso lo sciopero per protestare contro le condizioni inumane ed umilianti a cui sono sottoposti e, come risposta, l’IPS ha preso misure punitive che hanno violato ancor di più i diritti dei prigionieri.”

Lunedì l’avvocato dell’ “Associazione per i Prigionieri Palestinesi (PPS)” Khalid Mahajneh ha detto di essere stato il primo avvocato dall’inizio dello sciopero della fame a cui è stato consentito l’accesso ai prigionieri in sciopero nella prigione di Nafha.

Ha fatto visita al prigioniero Mujahed Hamed, della città di Silwad nella Cisgiordania centrale occupata, che è stato in sciopero della fame fin dall’inizio.

Hamed ha detto a Mahajneh di essere stato trasferito a Nafha dalla prigione di Ashkelon, insieme ai suoi compagni di sciopero Amin Abu Radaha, Mazen al-Qadi, Ayman Jiem, Muhammad al-Sabbah e Mustafa Arrar.

Quando si trovava ancora nella prigione di Ashkelon, le forze dell’IPS hanno fatto irruzione nelle celle, hanno cercato di perquisire fisicamente gli scioperanti e quando i prigionieri hanno fatto resistenza sono stati aggrediti. Hamed ha detto che stava ancora soffrendo di dolori al petto come conseguenza del pestaggio e che da allora gli sono state rifiutate cure mediche.

Ha aggiunto che l’IPS ha tentato di ricattarlo, offrendogli le cure se avesse posto fine al suo sciopero.

Dopo il trasferimento a Nafha gli scioperanti sono stati costretti a bere acqua dai gabinetti, dopo che gli è stata negata l’acqua potabile dalle autorità dell’IPS.

Nei giorni seguenti, Hamed ha detto di essere stato testimone di trasferimenti quotidiani di prigione di scioperanti debilitati, all’interno e all’esterno di Nafha, nel tentativo da parte dell’IPS di interrompere il loro sciopero.

Ha confermato che dal primo giorno di sciopero ai prigionieri in sciopero della fame a Nafha è anche stata comminata una multa per aver rifiutato il cibo, è stato negato l’accesso alla mensa, è stato vietato di ricevere visite e sono stati requisiti gli effetti personali.

Hamed ha segnalato che a Nafha i prigionieri in sciopero della fame sono divisi in cinque gruppi, compreso uno trasferito in un discusso ospedale da campo installato per chi è in sciopero della fame.

Hamed ha riferito che i prigionieri in condizioni di salute deteriorate o quelli che sono stati picchiati dagli agenti dell’IPS sono portati nell’ospedale da campo, dove vengono ricattati con la possibilità di ricevere cure mediche e pasti se interrompono il loro sciopero.

Ha anche detto che il personale della prigione e dell’ospedale da campo mette in giro false notizie, come parte di una guerra psicologica che si svolge in tutte le prigioni israeliane, per indurre i prigionieri a smettere lo sciopero della fame.

Nel frattempo, “Adalah” ha scritto lunedì in un comunicato stampa che le domande di Yousif Jabarin, un membro del parlamento israeliano, di far visita al leader dello sciopero Marwan Barghouthi – che è rinchiuso in isolamento da quando è iniziato lo sciopero – sono state respinte.

“Adalah” ha citato le parole di Jabarin: “Il rifiuto (dell’IPS) di tutte le mie richieste di visitare Barghouthi costituisce una grave offesa alla mia attività politica come membro della Knesset ed all’immunità parlamentare. Non vi è dubbio che lo sciopero dei prigionieri sia di enorme rilievo pubblico e che rientri nel mio ruolo di pubblico rappresentante eletto esaminare e valutare le politiche dell’IPS relative a questo tema. Questo può avvenire, oltre che con altri mezzi, facendo visita ai prigionieri.”

Secondo le organizzazioni palestinesi, le autorità israeliane hanno incarcerato circa un milione di palestinesi dalla nascita dello Stato di Israele nel 1948 e la successiva occupazione di Cisgiordania, Gerusalemme est e Striscia di Gaza nel 1967.

Secondo l’organizzazione per i diritti dei prigionieri “Addameer”, ad aprile risultavano detenuti nelle carceri israeliane circa 6300 palestinesi.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Human Rights Watch: La FIFA decide di continuare a ‘sponsorizzare i giochi nelle terre rubate (palestinesi)’

11 maggio 2017 Ma’an News

BETLEMME (Ma’an) – Human Rights Watch (HRW) ha condannato la cancellazione di una votazione alla conferenza della FIFA di giovedì nella capitale del Bahrein Manama, che avrebbe dovuto decidere se la partecipazione di sei squadre di calcio israeliane con base nelle colonie illegali israeliane in Cisgiordania sarebbe stata ammessa alle gare nei territori palestinesi, affermando che l’associazione internazionale del football ha deciso di continuare a “sponsorizzare i giochi sulle terre rubate.”

BETLEMME (Ma’an) – Human Rights Watch (HRW) ha condannato la cancellazione di una votazione alla conferenza della FIFA di giovedì nella capitale del Bahrein Manama, che avrebbe dovuto decidere se la partecipazione di sei squadre di calcio israeliane con base nelle colonie illegali israeliane in Cisgiordania sarebbe stata ammessa alle gare nei territori palestinesi, affermando che l’associazione internazionale del football ha deciso di continuare a “sponsorizzare i giochi sulle terre rubate.”

Era previsto che il congresso tenesse una votazione finale sulla risoluzione palestinese che proibiva di giocare le gare della FIFA nelle colonie israeliane – costruite nei territori palestinesi occupati, in violazione del diritto internazionale.

HRW, insieme ad altre organizzazioni, ha chiesto alla FIFA di impedire all’Associazione di Football Israeliana (IFA) di “organizzare attività calcistiche” nei territori palestinesi ed ha ribadito l’illegalità delle colonie israeliane disseminate nei territori, in base alla Quarta Convenzione di Ginevra, che vieta ad una potenza occupante di trasferire la propria popolazione civile nel territorio da essa occupato, configurando così tali azioni come crimine di guerra.

La questione ha costituito una preoccupazione cruciale per l’Associazione di Football Palestinese (PFA) e nel maggio 2015 è stato creato il Comitato di monitoraggio della FIFA per Israele-Palestina, guidato da Tokyo Sexwale. Il comitato era responsabile di mettere sotto osservazione le restrizioni da parte di Israele alla libertà di movimento dei giocatori palestinesi e la legalità delle squadre israeliane con sede nelle colonie illegali in Cisgiordania.

Secondo Al Jazeera il mandato del comitato doveva scadere a maggio. Tuttavia il presidente della FIFA Gianni Infantino è intervenuto nella conferenza di giovedì e , prima della votazione, ha presentato una proposta per estendere il mandato del comitato fino a marzo 2018, a quanto sembra per permettere a IFA e PFA di raggiungere un accordo. Secondo HRW, la proposta è passata con la maggioranza del 70%.

Tuttavia la PFA e parecchie organizzazioni per i diritti umani hanno insistentemente chiesto alla FIFA di agire riguardo al problema, vietando alle squadre israeliane di giocare nei territori palestinesi o sospendendo l’adesione di Israele all’associazione se le autorità israeliane rifiutassero di rispettare le leggi internazionali.

Le sei squadre provengono dalle colonie israeliane illegali di Kiryat Arba, Givat Ze’ev, Maaleh Adumim, Ariel, Oranit e Tomer.

HRW ha affermato che alle sei squadre non dovrebbe essere permesso di svolgere attività calcistiche su terre “illegalmente sottratte e interdette ai palestinesi della Cisgiordania.”

Dopo quattro anni non è chiaro perché la FIFA necessiti ancora di un altro anno per decidere se rispettare o no le proprie stesse regole”, ha aggiunto HRW, riferendosi alle accuse palestinesi in base alle quali la FIFA sta violando le sue stesse norme interne non attivandosi sulla questione in quanto i membri della FIFA non potrebbero giocare partite sul territorio di un altro membro senza aver ottenuto un permesso ufficiale.

HRW ha affermato in un rapporto del 2016: “Permettendo alla IFA di giocare partite all’interno delle colonie, la FIFA si sta impegnando in un’attività commerciale che sostiene le colonie israeliane.”

Nel contempo le squadre palestinesi hanno subito pesanti restrizioni di movimento, tra cui subire gravi problemi con le autorità israeliane ai checkpoint all’interno della Cisgiordania, che a volte impediscono ai calciatori di gareggiare con altre squadre della Cisgiordania.

L’anno scorso la PFA è stata anche costretta a rinviare la finale [del campionato], quando le autorità israeliane hanno impedito ai giocatori palestinesi della Striscia di Gaza di oltrepassare il valico di Erez controllato da Israele per partecipare ad un incontro di calcio che si teneva nel distretto di Hebron, nel sud della Cisgiordania.

I calciatori palestinesi devono anche subire retate e la violenza che caratterizza la presenza dei soldati israeliani nei territori palestinesi, in quanto lo scorso anno decine di calciatori e di tifosi palestinesi hanno sofferto delle conseguenze del fatto di aver respirato gas lacrimogeni, quando le forze israeliane hanno sparato candelotti su una folla di 1200 palestinesi che si erano radunati nel villaggio di al-Ram, nel distretto di Gerusalemme della Cisgiordania, per vedere una partita.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




I media USA su Israele: la libertà di stampa che non c’è mai stata

Belen Fernandez

Martedì 2 maggio 2017 Middle East Eye

L’America è il bastione della libertà di stampa? Nel Giorno della Libertà di Stampa nel Mondo, questo concetto crolla quando si tratta di Israele.

Mercoledì 3 maggio segna il “Giorno della Libertà di Stampa nel Mondo”.

Qualcuno vedrà sicuramente la ricorrenza come uno scherzo, dato che l’attuale capo del cosiddetto “mondo libero” è un presidente degli USA impegnato a fare la guerra ai media.

Ma, benché possa sembrare che Donald Trump costituisca un allontanamento dalla normalità in una Nazione che si è così accuratamente presentata come un bastione della libertà di stampa, di pensiero, di espressione e di tutte quelle belle cose, i media USA non sono mai stati propriamente liberi.

In fondo, oltre a svolgere regolarmente un ruolo da ragazze pon pon a favore delle conquiste militari e imprenditoriali, i mezzi di informazione americani hanno anche rispettato una persistente linea rossa: criticare Israele, l’adorabile democrazia-che-non-lo-è del Medio Oriente.

Prendiamo in considerazione un aneddoto raccontato da Thomas Friedman, del “New York Times”, egli stesso un convinto sionista, a cui tuttavia è capitato di parlare di bombardamenti israeliani “indiscriminati” su Beirut ovest in un articolo del 1982 – quando l’invasione israeliana del Libano uccise circa 20.000 libanesi e palestinesi, la stragrande maggioranza dei quali civili.

Come racconta lo stesso Friedman, la sua redazione eliminò il termine “indiscriminati”, dopodiché egli scrisse una nota accusandola di vigliaccheria. A.M. Rosenthal, ex-direttore esecutivo del “Times”, allora “esplose contro l’insubordinazione (di Friedman)” e lo convocò in termini minacciosi ad un incontro, che finì per essere un “pranzo lungo ed emotivo, con lacrime da entrambe le parti” e un aumento di stipendio di 5.000 dollari per Friedman.

Il pranzo culminò con un “caldo abbraccio” di Rosenthal e l’avvertenza: “Ora ascoltami, tu, piccolo astuto: non rifarlo mai più.”

Lezione imparata. Alla faccia dei 20.000 morti.

Non è mai stato pubblicato”

Per inciso, il 1982 ha rappresentato un raro picco nella libertà di stampa riguardo ad Israele – si potrebbe dire una momentanea mini-glasnost.

In un recente messaggio mail, l’ex capo corrispondente per il Medio oriente di “ABC News” [rete televisiva statunitense, ndtr.] Charles Glass mi ha spiegato che “non ci fu nessun inviato americano che sia stato in Libano negli anni ’70 e ’80 che non abbia dovuto lottare con i suoi editori e direttori negli USA ”sui reportage a proposito del comportamento di Israele nella regione.

Una finestra (di informazione critica) fu aperta subito dopo Sabra e Shatila nel settembre 1982 – i tre giorni di massacri appoggiati da Israele di alcune migliaia di rifugiati palestinesi a Beirut – ma si richiuse subito dopo.”

Un esempio emblematico: nel 1984, Glass inviò un reportage per “ABC News” sugli squadroni della morte israeliani nel sud del Libano – un argomento senza dubbio degno di nota, in particolare alla luce dei considerevoli flussi finanziari USA verso Israele.

Quell’articolo non è mai stato pubblicato, anche se nessuno mi ha detto perché,” ricorda Glass. “L’articolo era attendibile, (con) molti testimoni oculari, anche dell’ONU, e con prove scientifiche.”

Dopo essere stato continuamente rimandato da un editore a New York con la scusa di notizie più urgenti, il reportage venne alla fine scartato del tutto perché “non più attuale”.

Nel frattempo, l’effimera mini-glasnost del 1982 aveva prodotto negli USA una massa di censure ancora più aggressive. Il sito web del “Committee for Accuracy in Middle East Reporting in America” [Comitato per l’Accuratezza nell’informazione sul Medio Oriente in America] (CAMERA), un gruppo islamofobo fondato quell’anno a Washington, sottolineò di essere nato in risposta “a come il “Washington Post” aveva informato dell’incursione israeliana in Libano e alla complessiva parzialità anti israeliana del giornale.”

Naturalmente, questa è gente che – se ci si impegnasse — riuscirebbe a trovare “pregiudizi contro Israele” persino in Benjamin Netanyahu.

Asserviti alla propaganda

Attualmente un esame accurato del sito web “CAMERA” fornisce una valanga di prevedibili titoli come “CAMERA induce la redazione del ‘New York Times’ a una correzione”, “CAMERA suggerisce alla NPR [radio pubblica nazionale USA, ndtr.] una rettifica sulla richiesta di annessione”, “La versione di Vogue per giovani promuove la narrazione palestinese per i lettori adolescenti”, “CAMERA suggerisce al ‘Washington Post’ una correzione su ‘Gaza occupata’”, “ Il “Christian Science Monitor [quotidiano statunitense con una rubrica religiosa quotidiana, ndtr.] mente in merito ad Israele”, e così di seguito.

E CAMERA, vale la pena ripeterlo, è solo uno del miscuglio di organizzazioni ed individui che spendono denaro ed influenza in giro per associare la minima critica delle atrocità israeliane con l’antisemitismo e per impedire comunque una discussione ragionata.

Ricordiamo una delle principali atrocità attuali: l’assassinio nel 2014 da parte di un raid aereo israeliano di quattro giovani palestinesi che giocavano a pallone sulla spiaggia di Gaza – una controprova dell’attacco di 50 giorni da parte di Israele che alla fine ha eliminato 2.251 vite palestinesi, 551 delle quali di bambini.

Il relativo titolo del “New York Times” ha affermato: “Ragazzi ritratti sulla spiaggia a Gaza e nel centro del conflitto mediorientale”. E’ più o meno l’equivalente di “Uomo va a sbattere contro una pallottola, e con le sue domande esistenziali,” oppure “Maiale si materializza sotto il coltello del macellaio, sollevando problemi epocali sulla gerarchia nella catena alimentare.”

Lo concediamo, il titolo del “Times” avrebbe potuto essere anche peggiore se il giornale avesse ripreso più letteralmente le tradizioni del portavoce israeliano – ad esempio: “Maiale lancia efferato attacco contro coltello da macellaio e viene ucciso per auto-difesa.”

Durante una comparsa su “Democracy Now!” [programma statunitense di notizie in tv, radio e internet di un’ora e di orientamento progressista, ndtr.] nel bel mezzo della guerra del 2014, Noam Chomsky ha criticato duramente i media americani per la loro diligente riproduzione della linea israeliana: “Non abbiamo bisogno di ascoltare la CBS, perché possiamo ascoltare direttamente le agenzie di propaganda israeliane…è un momento vergognoso per i media USA, dato che continuano ad essere asserviti ai grotteschi servizi della propaganda di uno Stato violento e aggressivo.”

Questa vergogna naturalmente riguarda anche l’establishment governativo degli USA , che ha accuratamente coltivato la propria predilezione per la grottesca violenza e che trova una notevole quantità di vantaggi politici ed economici nelle politiche israeliane di saccheggio omicida.

E il “Giorno della Libertà di Stampa nel Mondo” è il momento più adeguato per riflettere su ciò.

  • Belen Fernandez è l’autrice de “Il messaggero imperiale: Thomas Friedman al lavoro”, edito da Verso. E’ autrice e scrittrice della rivista “Jacobin” [quadrimestrale statunitense di sinistra, ndtr.]

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi]




Il figlio di Marwan Barghouti: “Mio padre è un terrorista esattamente come Nelson Mandela”

Gideon Levy e Alex Levac – 6 maggio 2017, Haaretz

Aarab Barghouti, 26 anni, è il figlio di Marwan Barghouti, il militante di Fatah in carcere che sta guidando uno sciopero della fame nelle prigioni israeliane. E’ convinto che gli israeliani non avranno mai nessun altro partner per la pace come suo padre.

Aarab Barghouti era un bambino piccolo quando sono diventato amico di suo padre, Marwan Barghouti, ed era ancora un ragazzino quando suo padre è stato arrestato dalle forze israeliane ed in seguito processato e condannato a 5 ergastoli, più 40 anni, dopo essere stato ritenuto colpevole di cinque omicidi e successivamente di tentato omicidio. L’ultima volta che ho incontrato suo padre quando era ancora un uomo libero è stato nel novembre 2001: era ricercato ma non ancora arrestato.

Dopo che qualcuno ha spalmato una sostanza sconosciuta sulle finestre del nascondiglio in cui avevamo stabilito di incontrarci, l’incontro è stato spostato. La volta successiva l’ho visto nel tribunale distrettuale di Tel Aviv. Ed è stata anche l’ultima volta. Aarab, il suo figlio minore, aveva 11 anni quando suo padre è stato arrestato, ed è ora un bellissimo, brillante studente di 26 anni. Con una elegante kefiah attorno al collo, prende posto per una lunga conversazione su skype con me dalla sua residenza di San Francisco.

Il nostro colloquio ha avuto luogo all’inizio di questa settimana, alla vigilia del “Giorno dell’Indipendenza” [in cui si festeggia la creazione dello Stato di Israele, ndtr.]. I boati dei fuochi d’artificio nel cielo di Tel Aviv ogni tanto sovrastavano la sua voce, in quello che era una specie di avvenimento surreale: una conversazione con il figlio dell’ “arciterrorista”, come suo padre è chiamato in Israele, durante i festeggiamenti per l’indipendenza del Paese. Solo persone che conoscono suo padre sanno che era un vero uomo di pace, e probabilmente lo è ancora. Suo figlio dice che si identifica totalmente con tutto quello che suo padre rappresenta.

Aarab, che recentemente ha terminato il suo master in analisi finanziaria e gestione di investimenti al Saint Mary’s College della California, a Moraga (Ca), pensa di tornare presto a casa. Lo aspettano molte offerte di lavoro a Ramallah. Egli non ha intenzione di seguire le orme di suo padre, soprattutto per non provocare ancora più dolore a sua madre, Fadwa. “Per noi l’attività politica significa prigione, e lei ha già sofferto abbastanza,” dice. Dalla prigione suo padre lo ha incoraggiato a continuare i suoi studi all’estero. In precedenza, Aarab aveva conseguito una laurea in economia dell’università di Bir Zeit, nei pressi di Ramallah, dove suo padre si era specializzato in scienze politiche.

Il suo primo ricordo di suo padre gli viene da una vacanza con la famiglia in Tunisia nel 1998 o nel 1999. Non aveva mai visto prima, e sicuramente non dopo, suo padre così contento, dice da San Francisco. Nel mio incontro con Marwan, nel novembre 2001, quando i carri armati israeliani erano già a Ramallah, mi disse che era stato al Ramat Gan Safari [zoo di Tel Aviv, ndtr.] con i suoi figli circa un mese prima. Aarab non vide suo padre, che era latitante, per circa tre mesi prima dell’arresto, il 15 aprile 2002. Nel novembre 2001, passammo nei pressi della sua casa insieme – Marwan la indicò, le diede un’occhiata e non disse niente. I suoi figli – tre maschi e una femmina – erano probabilmente là in quel momento, ma lui non osava più entrare. Era convinto che il suo destino fosse quello di essere assassinato da Israele.

“Ho paura ma non sono un codardo,” mi disse nella piccola macchina in cui c’erano anche le sue due guardie del corpo disarmate. I passanti lo salutavano. Quattro anni prima, nel “Giorno della Terra” del 1997, mentre viaggiavamo in mezzo a pneumatici bruciati in giro per la Cisgiordania, mi aveva chiesto: “Quando capirete che niente spaventa i palestinesi come le colonie?” Citò un amico che aveva detto: “Voi israeliani avete un presente e non un futuro, e noi palestinesi abbiamo un futuro ma non un presente. Dateci il presente ed avrete un futuro.” Allora, vedendo dei carri armati che stavano in agguato alla fine della strada, aggiunse: “Nessuno al mondo riuscirà a spezzare la volontà di un popolo con la forza militare. Non siamo né commando né organizzazioni. Siamo un popolo.”

Pronunciava sempre la parola ebrea che significa occupazione, “kibush”, con una b dolce- “kivush”. E’ possibile che durante i suoi lunghi anni di prigione abbia imparato a pronunciarlo con una b dura.

Marwan Barghouti era un tifoso della squadra di calcio Hapoel di Tel Aviv. Disse di temere il momento in cui i palestinesi avrebbero perso la speranza. Ora sta digiunando per garantire condizioni più umane per le migliaia di prigionieri palestinesi. Non è il primo sciopero della fame che guida in prigione, ma è il più lungo.

La scorsa settimana suo figlio Aarab ha lanciato una campagna su Facebook – “la sfida dell’acqua salata” – in cui celebrità arabe ed altre sono riprese mentre bevono acqua salata in solidarietà con i palestinesi in sciopero della fame, per i quali l’acqua salata è l’unico alimento. La prossima domenica [7 maggio, ndtr.] segnerà la fine della terza settimana dello sciopero.

Aarab è preoccupato per la salute di suo padre. Nessuno, tranne le sue guardie carcerarie, lo ha visto per due settimane, da quando le autorità della prigione hanno impedito al suo avvocato di incontrarlo.

“Mio padre è forte, ma non è più giovane – quest’anno compirà 58 anni,” dice Aarab. “Lo sciopero inciderà sulla sua salute, e spero che le autorità carcerarie dimostrino umanità e pongano fine al loro atteggiamento arrogante di non negoziare con mio padre. I prigionieri non stanno chiedendo molto, solo condizioni minime.”

Al tempo dell’arresto di suo padre, Aarab era in casa di suo zio nel villaggio di Kobar, a nordovest di Ramallah, dove Marwan Barghouti è nato e cresciuto. Ricorda di aver visto l’arresto di suo padre in televisione, e di essere scoppiato a piangere. Fu il peggior momento della sua vita, che non dimenticherà mai. Né avrebbe mai pensato che quel momento sarebbe durato così tanto. Fu solo dopo otto mesi che incontrò suo padre per la prima volta in prigione insieme al fratello maggiore, Sharaf. “Ricordo di aver avuto paura, “rammenta. “Attraversammo circa 20 cancelli. Il babbo era in isolamento, e quando arrivammo due secondini lo controllavano dalla sua parte e dalla nostra, e c’erano un sacco di telecamere attorno a noi.”

“Mi piacque il modo in cui ci fece forza e ci confortò,” continua Aarab. “Non voleva mostrare alcun segno di debolezza davanti a noi. E’ sempre positivo. Sapevo già allora che tipo di interrogatorio e di torture aveva subito, ma come sempre non smetteva di sorridere. Tutto quello che voleva era che stessimo bene.”

In un’occasione Aarab fu portato a un’udienza in tribunale durante il processo di suo padre, e fu preso a schiaffi in faccia dal membro di una famiglia israeliana in cui qualcuno era stato ucciso. Fino al suo sedicesimo compleanno, Aarab vide suo padre due volte al mese – viaggi estenuanti di 20 ore fino alla prigione di Be’er Sheva per visite di 45 minuti con un vetro tra loro. Compiuti i 16 anni, gli venne concessa solo una visita all’anno. Durante gli ultimi cinque anni, Israele gli ha consentito solo tre visite, e non ha più visto suo padre negli ultimi due anni.

Sua sorella Ruba visita il padre due volte all’anno. Una volta ha portato la figlia di otto mesi, Talia, ma le guardie della prigione hanno rifiutato di consentire alla bambina di entrare anche solo per un momento, sulla base del fatto che non era una parente di primo grado. Talia ora ha 4 anni e ha una sorellina, Sarah. Nessuna delle due ha incontrato il nonno. Lo conoscono solo in foto.

La visita di Aarab di due anni fa alla prigione di “Hadarim”, nei pressi di Netanya, rimane impressa nella sua memoria. “Ricordo piccoli dettagli, “dice. “Ho visto i peli bianchi improvvisamente comparsi nella sua barba, ed aveva anche più capelli bianchi in testa. Ho visto occhi arrossati. Sinceramente l’ho visto invecchiato. Tutti pensano che quelle visite gli davano forza, ma lui dava forza a noi. Quell’uomo è incredibile. Può dare speranza e forza a tutto un popolo. Durante tutto il tragitto fino a lui, penso a come potrò dare forza al suo spirito – ma lui da forza a me. Mi parla del futuro. Mi incita a studiare. Mi cambia la vita, è il mio maestro di vita. Mi spinge a studiare, e ogni volta che sto studiando mi ricordo del suo sorriso.”

Suo padre è stato incarcerato da un tribunale israeliano per 5 omicidi, dico ad Aarab; è chiaro che per gli israeliani è un terrorista.

“E’ stato un processo politico che non era fondato su alcuna prova o fatto,” risponde Aarab. “Mio padre fu corretto e chiaro: negò tutto e sostenne che si trattava di un processo politico. E’ stato condannato a cinque ergastoli. Anche (Nelson) Mandela fu condannato all’ergastolo. Mio padre è un uomo di pace. Ha sempre cercato la pace. L’unica cosa che non dimenticherà mai sono i diritti del suo popolo. Chiedi a un palestinese qualunque – non solo in Palestina ma ovunque nel mondo – e più del 90% sarà d’accordo che la politica di mio padre e il suo pensiero su una soluzione sono la strada giusta. Non sta chiedendo molto, ma il governo israeliano non vuole persone che rivendichino i diritti del popolo palestinese.”

“Anche in prigione mio padre cerca la pace. Nessuno cambierà ciò. Solo la propaganda israeliana lo presenta come un terrorista. Anche Nelson Mandela venne dipinto come un terrorista. Passò 27 anni in prigione. E poi divenne un eroe e gli venne assegnato il premio Nobel per la Pace. Mio padre è un terrorista esattamente come Nelson Mandela. Agli israeliani voglio dire: se ammirate Mandela, dovreste sapere che mio padre sta ripercorrendo la storia di Mandela. E se non stimate Mandela, non mi importa quello che pensate. Sono sicuro che un giorno gli israeliani arriveranno alla conclusione che l’unica soluzione è la pace, e non avrete mai un partner come lui. Un giorno, gli israeliani vedranno chi è Marwan Barghouti.”

Che cosa proporrebbe che suo padre facesse in modo diverso? “Quando guardo lui e il suo percorso, penso che sia perfetto. Mio padre non è un pacifista e non è un terrorista. Mio padre è una persona normale che sta lottando per i diritti del suo popolo. Se solo non fosse in prigione. Ha sacrificato la sua vita in nome della giustizia. E’ una cosa nobile. Viviamo solo una volta, e lui ha scelto il modo migliore di vivere.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Testo integrale della risoluzione dell’Unesco del 1 maggio 2017 sui “Territori occupati”.

testo inglese:

1 maggio 2017

Nota redazionale: il primo maggio 2017 il comitato esecutivo dell’UNESCO ha approvato una risoluzione, di cui riportiamo di seguito la traduzione, in cui si condannano le politiche israeliane riguardo al patrimonio culturale e religioso nei territori palestinesi occupati, comprese Gerusalemme est e Gaza.

In questo caso il testo acquista una particolare rilevanza perché, nonostante sia stato modificato e moderato rispetto a quello votato nel 2016, il rappresentante dell’Italia, interrompendo la tradizionale astensione su questi argomenti, ha votato contro il testo. Il ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale Angelino Alfano ha motivato così questa decisione: “La nostra opinione e’ molto chiara: l’Unesco non può diventare la sede di uno scontro ideologico permanente in cui affrontare questioni per le cui soluzioni sono deputate altre sedi. Coerentemente con quanto dichiarato a ottobre noi, dunque, voteremo contro la risoluzione, sperando che questo segnale molto chiaro venga ben compreso dall’Unesco”. Ad ottobre infatti l’Italia si era astenuta. Il testo della risoluzione evidenzia quanto le affermazioni di Alfano siano pretestuose ed ignorino la funzione eminentemente politica che Israele attribuisce ai beni artistici e culturali, ed in particolare all’archeologia, nei territori palestinesi occupati. Come più volte affermato prima dal governo Renzi e poi da quello Gentiloni, il nostro Paese si dimostra sempre più prono alle posizioni politiche del governo israeliano.

Oltre all’Italia, hanno votato “no” altri nove Paesi: Stati Uniti, Gran Bretagna, Olanda, Lituania, Grecia, Paraguay, Ucraina, Togo e Germania.

Ventidue Paesi hanno votato a favore: Russia, Cina, Brasile, Svezia, Sud Africa, Iran, Malaysia, Mauritius, Nigeria, Senegal, Bangladesh, Pakistan, Vietnam, Nicaragua, Chad e sette Paesi arabi.

Ventitré Paesi si sono astenuti: Francia, Spagna, Slovenia, Estonia, India, Argentina, Messico, Giappone, Haiti, Repubblica Dominicana, Saint Kitts, Kenya, Trinidad, Albania, Camerun, Costa d’Avorio, Ghana, Mozambico, Uganda, El Salvador, Corea del sud e Sri Lanka.

Tre Paesi non hanno partecipato al voto: Nepal, Serbia e Turkmenistan.

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Presentata da: Algeria, Egitto, Libano, Marocco, Oman, Qatar e Sudan

Il comitato esecutivo

,1. Avendo esaminato il documento 201 EX/30

2. Richiamandosi alle disposizioni della Quarta Convenzione di Ginevra (1949) ed ai suoi protocolli aggiuntivi (1977), alle Convenzioni dell’Aja del 1907 su leggi ed usi della guerra terrestre e per la protezione del patrimonio culturale in caso di conflitto armato (1954) ed i suoi protocolli addizionali, alla Convenzione sui mezzi per proibire e impedire l’importazione, l’esportazione e il trasferimento illeciti di proprietà di beni del patrimonio culturale (1970) e alla Convenzione per la protezione del Patrimonio mondiale culturale e naturale (1972), all’inserimento della Città Vecchia di Gerusalemme e delle sue mura nell’elenco del Patrimonio dell’Umanità su richiesta della Giordania (1981) e nella lista del Patrimonio Mondiale in Pericolo (1982) e alle raccomandazioni, risoluzioni e decisioni dell’UNESCO riguardo alla protezione del patrimonio culturale, così come a risoluzioni e decisioni dell’UNESCO riguardo a Gerusalemme, richiamando anche precedenti decisioni dell’UNESCO riguardo alla ricostruzione ed allo sviluppo di Gaza come anche a decisioni dell’UNESCO sui due siti palestinesi ad Al-Khalil/Hebron e a Betlemme,

3. Affermando che niente nella presente decisione, che intende, tra l’altro, salvaguardare il patrimonio culturale della Palestina e il carattere particolare di Gerusalemme est, può in alcun modo incidere sulle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza e delle Nazioni Unite e su decisioni riguardo allo status legale della Palestina e di Gerusalemme in materia, compresa la risoluzione 2334 (2016) del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite,

30.I Gerusalemme

4. Riaffermando l’importanza della Città Vecchia di Gerusalemme e delle sue mura per le tre religioni monoteiste,

5. Ricordando che ogni misura ed azione legislativa ed amministrativa presa da Israele, la potenza occupante, che abbia alterato o abbia la pretesa di alterare il carattere e lo status della Città Santa di Gerusalemme, e in particolare la “legge fondamentale” su Gerusalemme, non ha alcuna validità e deve essere immediatamente revocata,

6. Ricordando ancora una volta le 11 decisioni del comitato esecutivo: 185 EX/Decision 14, 187 EX/Decision 11, 189 EX/Decision 8, 190 EX/Decision 13, 192 EX/Decision 11, 194 EX/Decision 5.D, 195 EX/Decision 9, 196 EX/Decision 26, 197 EX/Decision 32, 199 EX/Dec.19.1, 200 EX/Decision 25 e le sette decisioni del Comitato per il Patrimonio dell’Umanità: 34 COM/7A.20, 35 COM/7A.22, 36 COM/7A.23, 37 COM/7A.26, 38 COM/7A.4, 39 COM/7A.27, 40 COM/7A.13,

7. Lamenta che le autorità israeliane occupanti non abbiano interrotto i lavori ed i progetti di scavo, anche di tunnel, a Gerusalemme est, soprattutto all’interno ed attorno alla Città Vecchia di Gerusalemme, che sono illegali dal punto di vista delle leggi internazionali, e rinnova la propria richiesta ad Israele, la potenza occupante, di proibire tutte le violazioni che non sono conformi a quanto previsto dalle convenzioni, risoluzioni e decisioni dell’UNESCO a questo proposito;

8. Lamenta inoltre il rifiuto israeliano di mettere in pratica la richiesta dell’UNESCO al Direttore generale perché nomini un rappresentante permanente che risieda stabilmente a Gerusalemme est per informare regolarmente su ogni aspetto riguardante il campo di pertinenza dell’UNESCO a Gerusalemme est, e rinnova la propria richiesta al Direttore generale perché nomini il prima possibile il summenzionato rappresentante;

9. Sottolinea di nuovo la necessità urgente di realizzare la missione di monitoraggio reattivo dell’UNESCO della Città Vecchia di Gerusalemme e delle sue mura, e invita il Direttore generale ed il Centro per il Patrimonio dell’Umanità ad esercitare ogni possibile azione, in linea con il loro mandato e in conformità con le indicazioni delle convenzioni, decisioni e risoluzioni dell’UNESCO in merito, per garantire l’immediata realizzazione della missione e, nel caso di una sua mancata attuazione, per proporre possibili misure efficaci per garantirla;

30.II Ricostruzione di Gaza

10. Deplora gli scontri militari all’interno ed attorno alla Striscia di Gaza e le vittime civili provocate, così come il costante impatto negativo nei campi di competenza dell’UNESCO, gli attacchi contro scuole ed altre strutture educative e culturali, comprese le violazioni dell’intangibilità delle scuole dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e gli interventi per i profughi palestinesi in Medio Oriente (UNRWA);

11. Deplora inoltre il continuo blocco israeliano della Striscia di Gaza, che danneggia il libero e sostenibile movimento di personale, studenti e beni per il soccorso umanitario e chiede ad Israele di attenuare immediatamente questo blocco;

12. Ringrazia il Direttore generale per le iniziative già messe in atto a Gaza nel campo dell’educazione, della cultura e della gioventù e per l’incolumità degli operatori dell’informazione, gli chiede di proseguire nel suo attivo coinvolgimento nella ricostruzione delle strutture educative e culturali di Gaza danneggiate e ripete, a questo proposito, la sua richiesta di rafforzare l’Antenna UNESCO a Gaza e di organizzare al più presto un incontro informativo sull’attuale situazione a Gaza nei settori di competenza dell’UNESCO e sui risultati dei progetti svolti dall’UNESCO;

30.III I due siti palestinesi di Al-Haram Al-Ibrahimi/Tomba dei Patriarchi ad Al-Khalil/Hebron e della moschea Bilal Ibn Rabah/Tomba di Rachele a Betlemme

13. Riafferma che i due siti in questione, che si trovano ad Al-Khalil/Hebron e a Betlemme, sono parte integrante dei Territori Palestinesi Occupati e condivide la convinzione affermata dalla comunità internazionale che i due siti sono di importanza religiosa per l’Ebraismo, il Cristianesimo e l’Islam;

14. Deplora i continui scavi, lavori e costruzione di strade private per i coloni e di un muro all’interno della città vecchia di Al-Khalil/Hebron da parte israeliana, che sono illegali in base alle leggi internazionali e danneggiano l’autenticità e l’integrità del sito, e la conseguente negazione della libertà di accesso ai luoghi di preghiera, e chiede ad Israele, la potenza occupante, di porre fine a tutte le violazioni che non sono in conformità con le disposizioni delle convenzioni, risoluzioni e decisioni dell’UNESCO a questo proposito;

15. Lamenta l’impatto visivo del muro sul sito della moschea Bilal Ibn Rabah/Tomba di Rachele a Betlemme, così come il rigido divieto di accesso per i fedeli cristiani e musulmani palestinesi al sito, e chiede che le autorità israeliane ristabiliscano le caratteristiche originali del paesaggio attorno al sito e tolgano il divieto di accesso ad esso;

30. IV

16. Decide di includere questi argomenti sotto la voce denominata “Palestina Occupata” nell’ordine del giorno della sua 202esima sessione, e invita il Direttore generale a sottoporle un rapporto sui progressi compiuti in merito.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Analisi: le voci palestinesi ed ebree devono sfidare insieme il passato di Israele

Ramzy Baroud, 

24 aprile 2017, Ma’an News

Analisi: le voci palestinesi ed ebree devono sfidare insieme il passato di Israele.

Israele ha fatto ricorso a tre principali strategie per soffocare le richieste palestinesi di giustizia e diritti umani, compreso il diritto al ritorno per i rifugiati.

Una è dedicata a riscrivere la storia; un’altra tenta di sviare l’attenzione dalle varie situazioni nel loro complesso; una terza mira a rivendicare la narrazione palestinese come essenzialmente israeliana.

La riscrittura della storia ha visto la luce molto prima di quanto alcuni storici possano pensare. La macchina della hasbara (propaganda israeliana, ndtr.) israeliana si è messa in movimento quasi contemporaneamente al Piano Dalet (Piano D), che prevedeva la conquista militare della Palestina e la pulizia etnica dei suoi abitanti.

Ma l’attuale narrazione relativa alla “Nakba” – o “Catastrofe” – che ha colpito il popolo palestinese nel 1947 e 1948 è stata orchestrata negli anni ‘50 e ‘60.

In un articolo intitolato: “Il pensiero catastrofico: Ben Gurion ha cercato di riscrivere la storia?”, Shay Hazkani ha rivelato l’interessante processo attraverso cui il primo ministro di Israele, Ben Gurion, ha lavorato a stretto contatto con un gruppo di studiosi ebrei israeliani per sviluppare la versione degli eventi per descrivere ciò che avvenne nel 1947-48: la fondazione di Israele e la distruzione della Palestina.

Ben Gurion intendeva diffondere una versione della storia che coincidesse con la posizione politica di Israele. Aveva bisogno di “prove” per sostenere tale posizione.

Le “prove” alla fine sono diventate “storia” e non è stata permessa nessun’altra narrazione per contestare l’ appropriazione israeliana della Nakba.

Ha scritto Hazkani: “Probabilmente Ben Gurion non ha mai sentito il termine ‘Nakba’, ma ben presto, alla fine degli anni ’50, il primo Primo Ministro di Israele ha compreso l’importanza della narrazione storica”.

Il premier israeliano ha assegnato agli studiosi dipendenti dalla pubblica amministrazione il compito di confezionare una storia alternativa, che continua ancor oggi a permeare il pensiero israeliano.

Sviare l’attenzione dalla storia – o dall’attuale realtà della terribile occupazione della Palestina – è un’operazione che è durata per quasi 70 anni.

Dall’iniziale mito della Palestina come “terra senza popolo per un popolo senza terra” fino all’odierna pretesa che Israele sia un’icona di civiltà, tecnologia e democrazia, circondata da selvaggi arabi e musulmani, le distorsioni ufficiali da parte di Israele sono incessanti.

Perciò mentre i palestinesi si organizzano per commemorare la guerra del 5 giugno 1967, che ha portato, finora, a 50 anni di occupazione militare, Israele sta allestendo una grande festa, un’ imponente “celebrazione” della sua occupazione militare dei palestinesi.

L’assurdità non sfugge a tutti gli israeliani, ovviamente.

Uno Stato che celebra 50 anni di occupazione è uno Stato che ha smarrito la direzione ed ha perso la propria capacità di distinguere il bene dal male”, ha scritto l’opinionista israeliano Gideon Levy su Haaretz.

Che cosa c’è precisamente da celebrare, Israele? Cinquant’anni di spargimenti di sangue, di violenze, di depredazione e sadismo? Solo società che non hanno coscienza celebrano simili anniversari.”

Levy sostiene che Israele ha vinto la guerra del 1967, ma “ha perso quasi tutto il resto.”

Da allora, l’arroganza di Israele, il suo disprezzo per il diritto internazionale, “il perdurante disprezzo per il mondo intero, la presunzione e la prepotenza” hanno raggiunto livelli senza precedenti.

L’articolo di Levy si intitola: “La nostra Nakba.”

Levy non cerca di recuperare la narrazione palestinese, ma dimostra sinteticamente che i trionfi militari di Israele sono stati una disgrazia, specialmente perché non ne è seguito alcun senso di riflessione nazionale o tentativo di correggere le ingiustizie del passato e del presente.

Comunque il processo di rivendicazione del termine “Nakba” è stato perseguito astutamente dagli autori israeliani per molti anni.

Per quegli studiosi, “la Nakba ebraica” si riferisce agli ebrei arabi che sono arrivati nel nuovo Stato indipendente di Israele, in gran parte in seguito alla pressione dei dirigenti sionisti perché gli ebrei di tutto il mondo “facessero ritorno” alla patria biblica.

Un editoriale del Jerusalem Post lamentava che “la macchina propagandistica palestinese ha convinto l’opinione pubblica mondiale che il termine ‘rifugiato’ è sinonimo del termine ‘palestinese’.”

Facendo questo, gli israeliani che tentano di appropriarsi della narrazione palestinese sperano di creare un’equiparazione nel discorso, che ovviamente non corrisponde alla realtà.

L’editoriale fornisce la cifra di 850.000 “rifugiati ebrei” della “Nakba ebraica”, numero di poco superiore a quello dei rifugiati palestinesi espulsi dalle milizie israeliane al momento del processo di fondazione di Israele.

Fortunatamente, queste pretese in malafede sono sempre più smentite anche da voci ebraiche.

Poche, ma significative, voci tra gli intellettuali israeliani ed ebrei in tutto il mondo hanno il coraggio di riconsiderare il passato di Israele.

Si contrappongono giustamente a una versione della storia che è stata accettata in Israele e in Occidente come l’ indiscussa verità che sta dietro la nascita di Israele nel 1948, l’occupazione militare di ciò che rimaneva della Palestina nel 1967 ed altre circostanze storiche.

Questi intellettuali lasciano un segno nel discorso Palestina-Israele dovunque vadano. Le loro voci sono particolarmente significative nel contrastare le verità ufficiali e i miti storici israeliani.

Scrivendo su “Forward” [giornale della comunità ebrea di New York fondato nel 1897, ndtr.], Donna Nevel rifiuta di accettare che la discussione sul conflitto in Palestina abbia inizio con la guerra e l’occupazione del 1967.

Nevel critica i cosiddetti sionisti progressisti, che insistono nell’impostare la discussione solo sul problema dell’occupazione, limitando così ogni possibilità di soluzione alla “soluzione dei due Stati.”

Non solo questa “soluzione” è superata e non è praticamente possibile, ma la discussione esclude la “Nakba”, ossia “Catastrofe”, del 1948.

Ha scritto Nevel: “La Nakba non rientra in queste discussioni perché è la conseguenza e la più chiara manifestazione del sionismo. Chi ignora la ‘Nakba’ – cosa che hanno sistematicamente fatto le istituzioni sioniste ed israeliane – rifiuta di riconoscere il sionismo come illegittimo fin dall’inizio della sua realizzazione.”

Questa è esattamente la ragione per cui la polizia israeliana recentemente ha bloccato la “Marcia del Ritorno”, che i palestinesi svolgono ogni anno in Israele.

Per anni Israele ha temuto che un crescente movimento tra i palestinesi, gli israeliani ed altri nel mondo spingesse per un cambio di paradigma per comprendere le radici del conflitto in Palestina.

Questo nuovo modo di pensare è stato una conseguenza razionale della fine del “processo di pace” e dell’abbandono della soluzione dei due Stati.

Incapace di sostenere i suoi miti fondativi, non in grado nemmeno di offrire un’alternativa, il governo israeliano adesso sta usando misure coercitive per rispondere al nascente movimento: punire chi insiste nel commemorare la “Nakba”, sanzionare le organizzazioni che prendono parte a tali eventi, fino a perseguire come traditori gli individui ed i gruppi di ebrei che si discostano dalle posizioni ufficiali.

In questi casi la coercizione difficilmente funziona.

La Marcia (per il Ritorno) è rapidamente cresciuta di dimensione rispetto agli anni scorsi, nonostante le misure sempre più repressive delle autorità israeliane”, ha scritto Jonathan Cook su Al-Jazeera.

Sembra che 70 anni dopo la fondazione di Israele il passato ancora incomba pesantemente.

Fortunatamente alle voci palestinesi che si sono levate contro la narrazione ufficiale israeliana si sono ora unite in numero crescente voci israeliane.

E’ mediante una nuova narrazione comune che si può ottenere una reale comprensione del passato, insieme alla speranza che la visione di pace per il futuro possa sostituire quella attuale – che può essere sostenuta soltanto con l’oppressione militare, le disuguaglianze e la pura e semplice propaganda.

Ramzy Baroud è un giornalista accreditato a livello internazionale, scrittore e fondatore di PalestineChronicle.com. Il suo ultimo libro è ‘Mio padre era un combattente per la libertà: storia non raccontata di Gaza.’

Le opinioni espresso in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’Agenzia Ma’an News.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Rapporto OCHA 18 aprile – 1 Maggio 2017 (due settimane)

Alla data di chiusura del presente rapporto [1° maggio], la Centrale elettrica di Gaza non era ancora operativa; era ferma dal 17 aprile per esaurimento delle scorte di carburante.

Inoltre, dal 24 aprile, è stato sospeso l’approvvigionamento elettrico dall’Egitto, a causa di un guasto (ancora da riparare) alle linee. Con l’energia elettrica che arriva solo da Israele, i tagli di elettricità continuano ad essere di 20-22 ore al giorno; tali da sconvolgere gravemente le già precarie condizioni di vita della popolazione. Il 27 aprile, per evitare ulteriori peggioramenti, il Fondo Umanitario per i territori palestinesi occupati ha stanziato 500.000 dollari per l’acquisto di combustibile d’emergenza, in modo da garantire l’erogazione dei servizi essenziali negli ospedali ed in altri presìdi medici di emergenza.

Un aggressore palestinese è stato ucciso, mentre sei israeliani e tre sospetti aggressori palestinesi sono stati feriti durante uno speronamento con auto e quattro aggressioni e presunte aggressioni con coltello. Il 19 aprile, al raccordo stradale di Gush Etzion (Hebron), un palestinese di 21 anni ha guidato il suo veicolo contro un colono israeliano, ferendolo; è stato poi colpito ed ucciso dalle forze israeliane. Il 23 aprile, un giovane palestinese di Nablus, che aveva raggiunto la città di Tel Aviv con un regolare permesso di visita, ha pugnalato e ferito quattro israeliani; successivamente anch’egli è stato colpito e ferito con armi da fuoco. Secondo quanto riportato dai media israeliani, dopo l’episodio le autorità israeliane hanno bloccato un certo numero di permessi dello stesso tipo. Il 24 aprile, al checkpoint di Qalandia (Gerusalemme), una donna palestinese ha pugnalato e ferito una soldatessa israeliana ed è stata successivamente arrestata. In due episodi distinti, verificatisi il 25 e il 26 aprile nei pressi del checkpoint di Huwwara (Nablus), due cugini palestinesi, uno dei quali 17enne, hanno tentato di accoltellare soldati israeliani e sono stati colpiti e feriti; non sono stati segnalati feriti israeliani.

In Cisgiordania 191 palestinesi, di cui 45 minori, sono stati feriti dalle forze israeliane; la stragrande maggioranza degli scontri si sono avuti durante le manifestazioni in solidarietà con i prigionieri palestinesi in sciopero della fame (vedi più avanti). Dall’inizio del 2017, questo è il numero più elevato di feriti registrati nell’arco di due settimane. Almeno il dieci per cento di questi feriti sono stati causati da armi da fuoco, mentre la maggior parte dei rimanenti sono da attribuire a proiettili di gomma o ad inalazione di gas lacrimogeno. Il maggior numero di feriti palestinesi è stato segnalato durante le manifestazioni a Sabastiya, Beita (entrambi a Nablus) e presso il checkpoint di Beit El / DCO (Ramallah). Nel corso di nove operazioni di ricerca-arresto sono stati registrati venticinque feriti.

Il 17 aprile, più di 1.000 prigionieri palestinesi, detenuti nelle carceri israeliane, hanno iniziato uno sciopero della fame per protestare contro le loro condizioni di detenzione. Alla data di chiusura di questo rapporto lo sciopero era ancora in corso. Le loro richieste includono la fine delle pratiche di isolamento e di detenzione amministrativa (detenzione senza imputazione o processo), l’incremento della frequenza e della durata delle visite dei familiari, un miglioramento delle cure mediche.

Nella Striscia di Gaza, nelle Aree ad Accesso Riservato (ARA) di terra e di mare, in almeno 23 occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento; non sono stati segnalati feriti, ma, secondo quanto riferito, il lavoro di agricoltori e pescatori è stato interrotto. Nel contesto dell’applicazione delle restrizioni di accesso al mare imposte da Israele, due pescatori sono stati arrestati dalle forze navali israeliane e la loro barca è stata sequestrata.

È stato riferito che il 27 aprile, ad est di Deir al Balah, un gruppo armato palestinese ha aperto il fuoco contro forze israeliane in pattugliamento lungo la recinzione; non sono stati segnalati feriti. Dopo di ciò, le forze israeliane hanno lanciato una serie di granate verso un sito militare di Hamas; sono stati riferiti danni al sito, ma non feriti.

Nove palestinesi, tra cui una donna, sono stati feriti e oltre 100 alberi sono stati dati alle fiamme in separati episodi che coinvolgono coloni israeliani. Otto dei suddetti palestinesi sono stati feriti in quattro diversi episodi di lancio di pietre vicino ai villaggi di Huwwara e Urif (Nablus). Sempre a Nablus, un contadino palestinese è stato fisicamente aggredito e ferito da coloni israeliani nei pressi del villaggio di Deir Sharaf. Coloni israeliani hanno inoltre incendiato più di 100 alberi in Al Fureidis (Betlemme) e un ricovero per animali a Deir Dibwan (Ramallah).

Secondo i resoconti di media israeliani, nei pressi di Ramallah, Betlemme e Gerusalemme, tre coloni israeliani sono stati feriti e almeno otto veicoli sono stati danneggiati in diversi episodi di lancio di pietre e bottiglie incendiarie ad opera di palestinesi.

In Cisgiordania, per la mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito nove strutture palestinesi. Otto di queste strutture, tra cui una abitazione, erano a Gerusalemme Est (Al Isawiya e Jabal al Mukabbir), la rimanente struttura si trovava presso la Comunità di Jabal al Baba, nell’Area C del governatorato di Gerusalemme; si trattava di un rifugio fornito come aiuto umanitario conseguente ad una precedente demolizione. Nel complesso, 14 palestinesi sono stati sfollati ed altri 19 hanno subito danni.

In due occasioni, per consentire esercitazioni militari, le forze israeliane hanno sfollato, per diverse ore ciascuna volta, 12 famiglie della Comunità pastorale di Khirbet ar Ras al Ahmar, nella Valle del Giordano settentrionale. Tuttavia, secondo i rappresentanti della Comunità, in realtà non si è tenuta alcuna esercitazione. Le autorità israeliane hanno inoltre sequestrato un trattore, con la motivazione che lo stesso era stato utilizzato per una costruzione non autorizzata. Negli ultimi anni, la Comunità ha dovuto far fronte a periodiche demolizioni e restrizioni negli spostamenti; fatti che hanno dato origine a preoccupazioni legate al rischio di trasferimento forzato.

Le autorità israeliane, contestando la violazione di norme ambientali, hanno sequestrato 45 tonnellate di legname presso due laboratori che producono carbone, localizzati in una zona dell’Area B di pertinenza del villaggio di Ya’bad (Jenin) [Area B è la parte della Cisgiordania (circa il 23%) nella quale, in base agli Accordi di Oslo (1993), la gestione degli affari civili spetta all’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), mentre la gestione della sicurezza spetta ad Israele]. Di conseguenza, è stata colpita la fonte di sostentamento di tre famiglie e di sei lavoratori. Inoltre, accanto al villaggio di Bardala, nella valle del Giordano settentrionale, le autorità israeliane hanno chiuso e danneggiato otto distinti allacciamenti alla rete idrica, motivando il provvedimento con il fatto che gli stessi non erano stati autorizzati. Di conseguenza, è stata impedita l’irrigazione di oltre 250 ettari di terreno agricolo.

Dal 30 aprile al 2 maggio, durante le festività israeliane, le autorità israeliane hanno rafforzato la chiusura della Cisgiordania e di Gaza, impedendo anche ai possessori di permessi l’entrata in Israele ed in Gerusalemme Est; fanno eccezione i lavoratori umanitari, gli organismi internazionali e i titolari di permessi di ricongiungimenti familiari. È stato chiuso anche il valico per le merci di Kerem Shalom tra Israele e Gaza.

Il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, durante le due settimane di riferimento è rimasto chiuso in entrambe le direzioni. Secondo le autorità palestinesi di Gaza, oltre 20.000 persone, tra cui casi umanitari, sono registrate e in attesa di uscire da Gaza attraverso Rafah. Nel 2017 il valico di Rafah è stato aperto eccezionalmente solo per 12 giorni; l’ultima volta il 9 marzo.

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Ultimi sviluppi

Il 3 maggio Israele ha ampliato, da sei a nove miglia marine, la zona di pesca lungo la costa meridionale di Gaza; provvedimento valido fino al 7 giugno.

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Perché il nuovo statuto di Hamas è rivolto ai palestinesi e non agli israeliani

Amira Hass – 3 maggio 2017 Haaretz

Il documento radicale è basato su una nozione fondamentale: le concessioni fatte dall’OLP e da “Fatah”, la fazione predominante di Abbas, non hanno fatto cambiare Israele.

Il nuovo “Documento dei principi generali e delle politiche” di Hamas non è stato stilato per piacere ad Israele o agli israeliani. La sua negazione del fatto che gli ebrei abbiano una qualche affinità religiosa, emotiva o storica con questa terra è inequivocabile. Afferma che il progetto sionista non prende di mira solo i palestinesi, ma è anche un nemico del popolo arabo e musulmano e mette in pericolo la pace e la sicurezza di tutto il mondo. E pertanto, secondo il documento, mette in pericolo tutta l’umanità. Alla fine, l’unica frase su uno Stato nei confini del 1967 è molto meno clamorosa di come è stata dipinta.

La novità si trova in altri aspetti del documento, che è rivolto in primo luogo e soprattutto al popolo palestinese, e contiene articoli ed affermazioni formulati durante anni di negoziati con l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina sulla riconciliazione nazionale. Il documento è rivolto anche al mondo esterno, ma non ai governi occidentali. Piuttosto si rivolge agli Stati arabi e musulmani e ai movimenti popolari nei Paesi occidentali che appoggiano la lotta dei palestinesi contro l’occupazione.

Questo documento molto radicale è stato scritto con la coscienza del fatto che la conclusione che ne segue è molto diffusa tra i palestinesi: le concessioni su principi fondamentali fatte dall’OLP e dalla sua fazione predominante, Fatah, non hanno fatto cambiare Israele; al contrario, gli hanno permesso di intensificare il processo di appropriazione di terre e la sua dominazione sul popolo palestinese.

In tutto ciò che non riguarda Israele, il documento dimostra che Hamas è un’organizzazione sensibile alle critiche. O, come l’ha definita lunedì il capo politico Khaled Meshal, sa come cambiare e rinnovarsi, e riconosce il pericolo della fossilizzazione. La principale critica interna palestinese (a parte la politicizzazione della religione) è stata che Hamas non è un movimento nazionale palestinese, ma piuttosto è al servizio di un progetto straniero.

Questa critica si fonda sullo statuto di Hamas del 1988, in cui si definisce in primo luogo come un movimento di resistenza religioso islamico (piuttosto che come palestinese) e come una branca della Fratellanza Musulmana. Il sito web “Il Nuovo Arabo” [media arabo progressista in lingua inglese con sede a Londra, ndt.] ha scoperto che nelle circa 12.000 parole dello statuto la parola “Allah” compare 73 volte, “Islamico” 64 volte “jihad” 36 volte e “Palestina” solo 27 volte. Quindi lo statuto originale ha creato l’impressione che la Palestina ed il suo popolo fossero semplici strumenti nella lotta per diffondere la religione islamica.

Il nuovo documento è stato adeguato all’auto definizione di Hamas: “un movimento palestinese islamico nazionale di liberazione e di resistenza” (in quest’ordine), il cui obiettivo è di liberare tutta la Palestina e di combattere “il progetto sionista” (piuttosto che gli ebrei). Il punto di partenza dello statuto – che la radice del conflitto è religiosa – è scomparso dal nuovo documento. Ma anche nel nuovo documento l’Islam rimane una fonte di autorità; la Palestina è una terra araba e musulmana, e l’Islam è ciò che attribuisce a questa terra il suo particolare ruolo.

I cristiani, le donne e l’OLP

Ci sono altri tre punti salienti su cui il documento è attento alle critiche interne. Primo, si rivolge ai cristiani palestinesi facendo riferimento alla Palestina come al luogo in cui è nato Gesù. Secondo, l’affermazione dello statuto del 1988 sul ruolo delle donne in casa e in famiglia e come “le generatrici di uomini” che lottano per la liberazione è stato sostituito da un’affermazione generica sul ruolo fondamentale delle donne nella società. Terzo, il nuovo documento accetta l’OLP come “la cornice nazionale per il popolo palestinese,” in contrasto con lo sprezzante atteggiamento verso l’OLP dello statuto [precedente].

Il nuovo documento non contiene nessuno degli articoli e delle affermazioni anti-semiti che caratterizzavano lo statuto. Sostenitori del movimento, soprattutto in Occidente, avevano consigliato da molto tempo di cambiare quelle disposizioni.

Un membro di Hamas ha detto ad Haaretz che quasi subito dopo che lo statuto è stato pubblicato nel 1988, persone del movimento invitarono a cambiare queste parti. Lo statuto non era stato scritto in modo collettivo, ha spiegato, e non è “né scientificamente né giuridicamente” accurato.

Ha affermato che i membri di Hamas deportati nel 1992-93 a Marj El Zhour [dopo l’uccisione di 6 soldati in Cisgiordania, Israele deportò 415 membri di Hamas e della Jihad islamica su una collina sul confine con il Libano, dove rimasero per 4 mesi, finché vennero riportati a Gaza e in Cisgiordania, ndt.], in Libano, furono i primi a discutere seriamente la necessità di modifiche. Ma queste non sono mai state fatte perché ciò richiedeva un lungo e complesso processo di riflessione e dibattito durante i difficili periodi di escalation militare.

Lo statuto in sé non è stato abrogato. E’ un documento storico che si riferisce ad un particolare momento nella storia dell’organizzazione, e Hamas non vi sta rinunciando; né il nuovo documento è chiamato “statuto”. Cancellarlo vorrebbe dire ripetere l’umiliazione subita dall’OLP, quando dovette annunciare l’abolizione di alcuni articoli del suo statuto del 1968 perché contraddicevano gli accordi di Oslo. Ma lo statuto di Hamas non è più la piattaforma ideologica ufficiale dell’organizzazione.

Non come il Comintern

Hamas ha reciso ogni rapporto con la Fratellanza Musulmana solo perché il movimento non è citato nel nuovo documento? Contrariamente alle affermazioni di Fatah, ha detto il membro di Hamas, il rapporto di Hamas con la Fratellanza Musulmana è sempre stato puramente emotivo, non istituzionalizzato, organizzato, gerarchico, in cui ogni organizzazione gregaria dovesse obbedire a ordini dall’alto, una specie di Comintern sovietico. Il fatto è che, in Paesi differenti, i partiti affiliati alla Fratellanza Musulmana hanno adottato politiche differenti.

Il membro di Hamas ha anche notato che il lavoro sul documento è iniziato nel 2013, quando Mohammed Morsi, della Fratellanza Musulmana, era ancora presidente dell’Egitto. In altre parole, non era guidato dalla necessità di realpolitik per ingraziarsi l’Egitto dopo che il governo dei Fratelli Musulmani è stato rovesciato.

Ma è chiaro che nel nuovo documento Hamas cerca di liberarsi da ogni rapporto con l’estremismo religioso islamico. Il documento sottolinea che “si oppone all’intervento nelle questioni interne di ogni Paese.” E Meshal ha detto esplicitamente che il contesto adeguato per la lotta armata è solo l’opposizione all’occupazione in Palestina, e non all’estero.

Si potrebbe vedere questo come realismo politico, data la dipendenza dell’organizzazione dall’Egitto, che è l’unica porta d’uscita di Gaza, governata da Hamas, verso il mondo. Ma ciò riflette anche una reale preoccupazione per l’immagine dell’Islam e la consapevolezza del fatto che Hamas ed i suoi sostenitori devono prendere le distanze dall’essere identificati con lo Stato Islamico.

La versione finale del documento contiene un’affermazione contraria alla cooperazione (che definisce come “collaborazionismo”) con Israele in materia di sicurezza, che non era presente nelle bozze diffuse in precedenza. Il documento inoltre non riconosce la legalità degli accordi di Oslo, ma si riferisce al suo prodotto, l’Autorità Nazionale Palestinese, affermando che l’obiettivo dell’ANP è di essere utile a tutto il popolo palestinese. O, come ha spiegato Meshal, la coerenza con i principi non nega il riconoscimento dei fatti determinati dalla realtà.

Lo stesso vale per l’affermazione in merito alla creazione di uno Stato “lungo i confini del 4 giugno 1967.” Per anni i principali dirigenti di Hamas hanno detto, esplicitamente o implicitamente, che il movimento vuole accettare un compromesso a condizione che non includa un riconoscimento di Israele. Ma il documento afferma semplicemente che Hamas riconosce che un simile Stato – compreso il “ritorno dei rifugiati”- è “una formula di consenso nazionale”. Bisogna ancora vedere se i rigidi principi del documento intendano effettivamente rendere più facile ad Hamas dimostrare flessibilità politica nel “gestire il conflitto”, per usare le parole del documento.

Il documento non fa riferimento ad Hamas come un partito di governo, ma solo come un movimento di resistenza. Ciò è un utile compromesso caratteristico delle doti acrobatiche di Hamas. Ciò permette all’organizzazione di crogiolarsi nella gloria di un movimento di resistenza, che a sua volta contribuisce a conservare la Striscia di Gaza come un bastione del governo nazionale.

(traduzione di Amedeo Rossi)