La sorveglianza sui palestinesi e la lotta per i diritti digitali

Nadim Nashif

23 ottobre 2017, Al-Shabaka

Sintesi

La sorveglianza sui palestinesi è sempre stata parte integrante del progetto coloniale israeliano. Prima della creazione dello Stato di Israele, squadre del gruppo paramilitare sionista Haganah percorrevano i villaggi e le città palestinesi, raccogliendo informazioni sui residenti. Questo controllo sulle vite dei palestinesi è continuato dopo l’occupazione israeliana delle Alture del Golan, della Striscia di Gaza e della Cisgiordania, inclusa Gerusalemme est, nel 1967. Gli strumenti utilizzati comprendevano registri della popolazione, carte di identificazione, rilevamenti catastali, torri di controllo, incarcerazione e tortura.

Benché queste tecniche di controllo poco sofisticate siano ancora oggi in uso, una vasta gamma di nuove tecnologie, come il monitoraggio e l’intercettazione per telefono e via internet, la CCTV [televisione a circuito chiuso, ndt.] e la banca dati biometrici, ha messo in grado Israele di sorvegliare la popolazione sotto occupazione su scala massiccia e pervasiva. Israele utilizza in particolare i social media per monitorare ciò che i singoli palestinesi dicono e fanno e per raccogliere ed analizzare informazioni sui comportamenti della popolazione palestinese in generale.

In questo documento Nadim Nashif discute l’uso da parte di Israele dei social media come strumento di controllo dei palestinesi. (1) Prende in esame le tattiche israeliane e gli altri ostacoli digitali ai diritti dei palestinesi, inclusa la parzialità di Facebook a favore di Israele attraverso la censura e la mancanza di trasparenza, nonché la nuova legge sui crimini informatici dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP). Nashif conclude fornendo suggerimenti su come i palestinesi possono contrapporsi all’uso dei social media per la sorveglianza e proteggere i propri diritti informatici.

I social media come ambito di sorveglianza

L’esplosione di rabbia palestinese iniziata nell’ ottobre 2015 in risposta alle incursioni israeliane alla Moschea di Al-Aqsa ha rappresentato una nuova sfida per l’apparato di sicurezza israeliano. Storicamente, gli individui affiliati ai bracci militari delle fazioni palestinesi, come Fatah, Hamas e il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, hanno condotto attacchi ai quali Israele ha risposto con la violenza, la distruzione e le punizioni collettive. Per esempio, Israele ha scatenato le sue ultime tre guerre nella Striscia di Gaza, nel 2009, 2012 e 2014, con il pretesto di fermare i lanci di razzi da parte di Hamas.

Questa volta, tuttavia, sono stati adolescenti palestinesi, molti dei quali non appartengono ad alcuna fazione politica o ala militare palestinese, a sferrare gli attacchi. Il governo israeliano ha accusato i social media per questa nuova tendenza e l’intelligence militare israeliana ha rafforzato il monitoraggio degli account dei social media palestinesi. In seguito a ciò, Israele ha arrestato 800 palestinesi a causa dei loro post sui social media, soprattutto su Facebook, la piattaforma più seguita dai palestinesi.

All’inizio di quest’anno Haaretz ha rivelato che questi arresti sono il risultato di un metodo poliziesco basato su algoritmi che creano profili di quelli che Israele vede come probabili attentatori palestinesi. Il programma monitora decine di migliaia di account Facebook di giovani palestinesi, cercando termini come shaheed (martire), Stato sionista, Al Quds (Gerusalemme) o Al Aqsa. Ricerca anche account che postano foto di palestinesi recentemente uccisi o imprigionati da Israele. Il sistema identifica quindi i “sospetti” basandosi su un possibile atto di violenza, piuttosto che su un attacco reale – o almeno su un piano per realizzare un attacco.[vedi zeitun.info]

Ogni profilo Facebook segnalato come sospetto dal sistema è un potenziale bersaglio di un arresto e la principale accusa di Israele alle persone arrestate è “incitamento alla violenza”. Poiché l’incitamento è definito in modo vago, il termine include tutte le forme di resistenza alle politiche ed alle pratiche israeliane. La “popolarità”, o il livello di influenza che una persona esercita sui social media, è un fattore che conta nella decisione di Israele di sporgere denuncia contro i palestinesi accusati di incitamento. Per esempio, più alto è il numero di ‘like’, di commenti e di condivisioni che ha un’utenza, maggiore è la possibilità che le persone vengano denunciate – e più lunga e pesante sarà la condanna.

L’intelligence israeliana inoltre crea falsi account Facebook per tracciare e ottenere accesso a profili Facebook per poter comunicare con palestinesi e ricavare informazioni private che altrimenti essi non condividerebbero. Nell’ottobre 2015, per esempio, parecchi attivisti palestinesi hanno riferito di aver ricevuto messaggi da account Facebook con nomi arabi e fotografie di bandiere palestinesi, che chiedevano i nomi dei palestinesi che partecipano alle proteste.

Inoltre Israele si introduce negli account Facebook per accedere ad informazioni private, come l’orientamento sessuale, le condizioni di salute e mentali e lo status coniugale e finanziario. Un veterano dell’Unità 8200, un corpo d’elite dell’intelligence dell’esercito israeliano, spesso paragonato all’Agenzia per la Sicurezza Nazionale USA, ha testimoniato che questo materiale viene raccolto come mezzo di pressione. “Ogni informazione che possa consentire di ricattare una persona è considerata un’informazione rilevante”, ha detto. “ Sia che tale individuo abbia un certo orientamento sessuale, tradisca sua moglie o necessiti di cure in Israele o in Cisgiordania – è un bersaglio per essere ricattato.” L’intelligence israeliana ha preso di mira soprattutto palestinesi omosessuali, minacciando di pubblicare le loro foto intime per costringerli a collaborare con Israele.

Una simile intrusione nella vita privata dei palestinesi è resa possibile dal fatto che Israele occupa e controlla l’intera infrastruttura delle telecomunicazioni usata dalle compagnie e dai gestori del servizio di internet palestinesi. La mancanza di qualunque limitazione legale o etica sul punto fino al quale Israele può spingersi nella sorveglianza sui palestinesi nel 2014 ha addirittura portato 43 veterani dell’Unità 8200 ad inviare una lettera al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu per contestare “il continuo controllo di milioni di persone ed un’intrusione profondamente invasiva in quasi tutti gli ambiti della vita.”

Il complesso militare industriale del Paese è uno strumento ancor più pervasivo per il controllo digitale sui palestinesi. Israele produce ed esporta un’enorme quantità di tecnologie di sicurezza militare e cibernetica. Secondo un rapporto del 2016 di ‘Privacy International’, una Ong che indaga sui controlli da parte del governo e sulle imprese che lo consentono, Israele è la sede di 27 imprese di sorveglianza – il più alto numero pro capite di tutti i Paesi del mondo. Nel 2014 le esportazioni israeliane di tecnologie di sicurezza informatica e di sorveglianza all’estero, come il monitoraggio di telefoni e internet, hanno superato le esportazioni di armamenti. Queste tecnologie sono state vendute a regimi autoritari e repressivi in Colombia, Kazakhstan, Messico, Sud Sudan, Emirati Arabi Uniti e Uzbekistan, tra gli altri.             

Ambigui legami tra l’esercito israeliano ed il settore tecnologico rafforzano l’importanza del Paese nell’industria della sorveglianza. I veterani dell’Unità 8200 hanno fondato alcune delle principali compagnie israeliane di sicurezza informatica, come le imprese Mer e NSO. I veterani trasferiscono le loro competenze militari e di intelligence sviluppate nell’unità di elite al settore privato, dove non ci sono ostacoli legali relativamente alla sovrapposizione tra industria militare e di sorveglianza.

Facebook: neutrale o di parte?

Facebook si pubblicizza come una piattaforma aperta, al servizio di tutti. Il fondatore e amministratore delegato di Facebook, Mark Zuckerberg, ha detto recentemente: “Lavoro ogni giorno per unire le persone e creare una comunità per tutti. Speriamo di dare voce a tutto il popolo e di creare una piattaforma per tutte le idee.”

Gli affari del gigante dei social media con Israele mettono in discussione tale affermazione. Mentre Facebook ha dei chiari protocolli e meccanismi per le richieste da parte di governi di rimuovere contenuti, e addirittura pubblica un rapporto biennale delle richieste dei governi, l’azienda viene spesso criticata per la sua mancanza di trasparenza e le sue decisioni arbitrarie. Un’inchiesta del Guardian ha rivelato le norme riservate di Facebook per limitare argomenti relativi a violenze, discorsi di odio, terrorismo e razzismo – norme che dimostrano la sua parzialità a favore di Israele.

Per esempio, Facebook segnala i sionisti come “gruppo globalmente protetto”, il che significa che i contenuti che li attaccano devono essere rimossi. Un’altra regola spiega che “le persone non devono elogiare, sostenere o raffigurare un membro…di un’organizzazione terrorista, o di qualunque organizzazione che abbia lo scopo principale di intimidire una popolazione, un governo, o di usare violenza per resistere all’occupazione di uno Stato riconosciuto a livello internazionale.” Di conseguenza, Facebook ha censurato attivisti e giornalisti in territori oggetto di disputa, come Palestina, Kashmir, Crimea e Sahara occidentale. Secondo rapporti dei media, Facebook ha rivisto la definizione di terrorismo per includervi l’uso di violenza premeditata da parte di organizzazioni non governative “allo scopo di raggiungere un obiettivo politico, religioso o ideologico.” In ogni caso, la definizione permette di punire coloro che resistono all’occupazione e all’oppressione, mentre non include il terrorismo di Stato e la violenza inflitti ai palestinesi da parte di Israele.

Inoltre nel 2016 la ministra della Giustizia Ayelet Shaked ed il ministro della Pubblica Sicurezza Gilad Erdan hanno annunciato un accordo tra Israele e Facebook per creare delle squadre di monitoraggio e rimozione dei contenuti “che favoriscono l’incitamento [alla violenza]”.

Il direttore politico di Facebook, Simon Milner, nega l’esistenza di qualunque accordo speciale tra il suo datore di lavoro e Israele. Ha anche ribadito che tutti gli utenti di Facebook sono soggetti alle stesse politiche per la comunità di utilizzatori. Tuttavia un recente rapporto di Adalah [organizzazione per i diritti umani e centro legale per i diritti degli arabi in Israele, ndtr.] rivela che fin dalla seconda metà del 2015 l’ufficio del procuratore generale di Israele ha gestito un’unità informatica in collaborazione con Facebook e Twitter, per rimuovere contenuti online. Il resoconto finale annuale del 2016 dell’unità si fa vanto di aver trattato 2.241 casi e rimosso il contenuto in 1.554 di essi.

La collaborazione tra Israele e Facebook è dovuta probabilmente a molteplici ragioni. Anzitutto Israele ha una fiorente industria di alta tecnologia e rappresenta un lucroso mercato per Facebook. In secondo luogo, l’ufficio di Facebook a Tel Aviv rende la compagnia più soggetta all’influenza dei decisori israeliani. La nomina di Jordana Cutler, da lungo tempo principale consigliera di Netanyahu, a capo della politica e comunicazione di Facebook nell’ufficio israeliano è un caso emblematico.

Terzo, forse Facebook teme azioni legali. Nel 2015 un’organizzazione filoisraeliana, ‘Shurat HaDin-Israel Law Center’, ha intentato una causa contro Facebook negli Stati Uniti a nome di 20.000 querelanti israeliani, che accusavano la compagnia di “incitamento ed incoraggiamento alla violenza contro gli israeliani.” Il timore di Facebook di un’azione legale è espresso in un documento interno, che è trapelato, relativo ad un contenuto negazionista dell’Olocausto. Il documento spiega che Facebook semplicemente nasconderà o rimuoverà tale contenuto in quattro Paesi – Austria, Francia, Germania e Israele – per evitare cause legali.

Infine, benché Facebook neghi ogni discriminazione tra palestinesi ed israeliani, gli utenti palestinesi raccontano una storia diversa. Per esempio, poco dopo che una delegazione di Facebook aveva incontrato rappresentanti del governo israeliano nel settembre 2016, gli attivisti palestinesi hanno documentato interruzioni degli account personali su Facebook di giornalisti e di organizzazioni di informazione. Gli account di quattro giornalisti dell’agenzia di notizie palestinese Shehab e di tre giornalisti della rete Al Quds News sono stati chiusi. In seguito a proteste online e campagne con gli hashtag #FBCensorsPalestine e #FacebookCensorsPalestine, Facebook si è scusata per l’interruzione, spiegando che si era trattato di un errore.

La nuova legge sui crimini informatici dell’Autorità Nazionale Palestinese

Non è soltanto Israele a reprimere gli utenti palestinesi dei social media: lo fa anche l’ANP, per cassare opinioni politiche sfavorevoli o critiche verso la leadership palestinese. Tuttavia c’è una differenza fondamentale tra la portata del controllo digitale israeliano e le violazioni della libertà di espressione online da parte dell’ANP. Mentre il controllo digitale globale di Israele fa di ogni palestinese un sospetto ed un bersaglio, l’ANP utilizza le informazioni condivise pubblicamente per prendere di mira il dissenso politico.

L’ANP ha recentemente approvato una legge che limita ancor di più la libertà dei palestinesi di esprimersi online. La controversa legge sui crimini informatici è stata firmata dal Presidente palestinese Mahmoud Abbas il 24 giugno 2017, senza alcuna consultazione pubblica con le organizzazioni della società civile palestinese o con i gestori dei servizi internet. E’ stata pubblicata con decreto presidenziale due settimane dopo la firma ed è entrata immediatamente in vigore.

Il pretesto della nuova legge è quello di combattere i reati informatici come l’estorsione per motivi sessuali, la frode fiscale e il furto di identità. Però l’utilizzo di termini vaghi come “armonia sociale”, “modalità pubbliche”, “sicurezza dello Stato” e “ordine pubblico” indica che la legge ha scopi differenti, in particolare eliminare la libertà di espressione online e reprimere ogni critica politica. Essa rende gli utenti palestinesi di internet, specialmente gli attivisti e i giornalisti, passibili di incriminazione da parte dell’ANP, che può interpretare le disposizioni della legge come vuole.

I primi due casi intentati in base alla legge rivelano il suo scopo. In entrambi è stato utilizzato l’art. 20, che stabilisce che ogni utente di internet che possiede o gestisce un sito web che pubblica “notizie che mettono a rischio la sicurezza dello Stato, il suo ordine pubblico, o la sicurezza interna o esterna” può essere arrestato per un anno o multato fino a circa 1.400 dollari. Nel primo caso sono stati arrestati sei giornalisti palestinesi che lavorano per organi di stampa legati ad Hamas in Cisgiordania. Nel secondo caso, i servizi di sicurezza preventiva dell’ANP hanno arrestato Issa Amro, importante difensore dei diritti umani ed attivista politico nonviolento palestinese di Hebron, che aveva protestato con un post su Facebook per l’arresto da parte dell’ANP di un giornalista.

La legge è in netto contrasto con la legge fondamentale di tutela della privacy e della libertà di espressione. Conferisce alle istituzioni dello Stato un ampio potere di monitoraggio, raccolta e conservazione di dati relativi alle attività online di palestinesi nei Territori Palestinesi Occupati (TPO), e di fornire, su loro richiesta, tali informazioni alle autorità preposte all’applicazione della legge. Anche i gestori privati del servizio internet sono obbligati a cooperare con le agenzie di sicurezza raccogliendo, conservando e condividendo i dati informativi sugli utenti per almeno 3 anni, oltre che bloccando qualunque sito web su ordine della magistratura.

L’applicabilità della legge si estende oltre i confini legali dei territori controllati dall’ANP e consente di perseguire palestinesi che vivono all’estero. Ciò costituisce una reale minaccia per gli attivisti politici palestinesi che vivono all’estero, ma che hanno una notevole influenza sui social media in patria. Comunque la legge non specifica se le autorità possano tentare di ottenere l’estradizione di palestinesi che risiedono all’estero per aver commesso un crimine informatico.

Contrastare il controllo digitale

Mentre la violazione dei diritti digitali dei palestinesi è un caso unico, data l’occupazione militare israeliana, la lotta per questi diritti è globale. I governi, le organizzazioni della società civile, le agenzie di social media e gli utenti di internet hanno tutti un ruolo importante nella protezione della libertà di espressione online e della privacy dal controllo e dalla censura dello Stato.

In Palestina l’ANP deve revocare immediatamente la legge sui crimini informatici. Per adempiere meglio allo scopo che esplicitamente si propone – combattere il crimine informatico – l’ANP dovrebbe consultare le organizzazioni della società civile ed altri importanti attori coinvolti per assicurarsi che ogni legge collegata all’informatica riduca effettivamente i crimini informatici senza violare i diritti politici dei palestinesi e le libertà pubbliche. Invece di reprimere i palestinesi per aver espresso le proprie opinioni politiche, l’ANP dovrebbe cercare di proteggere il suo popolo dagli arresti e dalle incriminazioni da parte di Israele con accuse senza fondamento di incitamento e terrorismo.

I diritti digitali, che sono parte del complesso dei diritti umani, sono un concetto relativamente nuovo nei Territori Palestinesi Occupati. Le organizzazioni palestinesi della società civile hanno la responsabilità di creare consapevolezza circa questi diritti, soprattutto riguardo alla sicurezza digitale. Proteggere gli account di un individuo e mantenere tali le informazioni private dovrebbe essere una priorità, soprattutto per giornalisti ed attivisti. Questo è particolarmente vero nel contesto di un’occupazione in cui l’occupante dispone di potenti capacità di controllo e controlla tutta l’infrastruttura delle telecomunicazioni.

La società civile palestinese ed i media devono anche smascherare e mobilitarsi contro le immorali pratiche di sorveglianza israeliane, la censura e la repressione della libertà di espressione dei palestinesi. Campagne online cresciute dal basso, come #FBCensorsPalestine e #FacebookCensorsPalestine, si sono dimostrate efficaci nell’attaccare le violazioni dei diritti digitali delle aziende di social media, dovute a prese di posizione faziose, nonostante le dichiarazioni di neutralità. I palestinesi hanno anche bisogno di coalizzarsi con organizzazioni internazionali per i diritti digitali, che possono aiutare a fare pressione sulle aziende di social media e sul governo israeliano perché interrompano le violazioni.

Note:

  1. Questo scritto si basa su una tavola rotonda organizzata nel maggio 2017 da Al-Shabaka e dalla Fondazione Heinrich Boell a Ramallah, in collaborazione con “7amleh: Centro arabo per lo sviluppo dei social media”. Le opinioni espresse in questo scritto sono dell’autore e non riflettono necessariamente l’opinione della Fondazione Heinrich Boell

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Cara Europa, prendi nota: se lo vuoi, si può fare pressione su Israele

Amira Hass

23 ottobre 2017, Haaretz

 

Un recente caso riguardante pannelli solari olandesi dimostra che Paesi amici possono far retrocedere Israele quando viola il diritto umanitario internazionale.

I giudici dell’Alta Corte hanno di nuovo trovato una scappatoia; ancora una volta, non dovranno discutere il fondamentale, vergognoso fatto che Israele non sta collegando migliaia di palestinesi (da entrambi i lati della Linea Verde [il confine tra Israele e i Territori Palestinesi Occupati, ndt.]) al sistema nazionale elettrico e idrico. Questa volta la via d’uscita è stata trovata nel villaggio di Jubbet ad-Dhib, ai piedi della collina di Herodion, a sudest di Betlemme. Esso necessitava di un sistema elettrico ibrido (solare e diesel), che è stato installato dall’organizzazione umanitaria israelo-palestinese Comet-ME, poiché Israele non aveva adempiuto al suo obbligo internazionale di connetterlo alla rete elettrica.

Tutti coloro che accusano l’Alta Corte di essere di sinistra possono stare sereni. Ha perso centinaia di occasioni per sentenziare che non fornire acqua ed elettricità è illegale in base al diritto internazionale, illegale in base alle leggi israeliane ed inaccettabile in base alla legge ebraica. Centinaia di volte – stando al numero di petizioni che sono state presentate – la corte ha avuto la possibilità di imporre allo Stato di collegare le comunità palestinesi al sistema elettrico e idrico, ma ha evitato di farlo, spesso adducendo motivi tecnici. Già quando l’attuale ministra della Giustizia Ayelet Shaked [di estrema destra, ndt.] era ancora una bambina, la corte sistematicamente ha continuato a perdere le occasioni di impedire alla reputazione della moralità ebraica di cadere nel fango del nazionalismo e nella passione per l’espulsione.

L’escamotage di Jubbet ad-Dhib è stato mostrato ai giudici dal generale di brigata Ahvat Ben Hur, ma è stato niente di meno che il primo ministro Benjamin Netanyahu a creare quella opportunità. Il governo olandese, che aveva finanziato il sistema elettrico ibrido, era furibondo per la confisca dei pannelli solari e Netanyahu ha fatto una promessa scritta agli olandesi che i pannelli confiscati al villaggio da Israele in giugno sarebbero stati restituiti. E allora che cosa fa Ben Hur, il responsabile diretto della confisca da parte dell’Amministrazione Civile [il governo militare israeliano sui territori occupati, ndt.]? Informa il procuratore di Stato, che ha informato l’Alta Corte, di aver deciso la restituzione dei pannelli.

Ben Hur non lo ha fatto per onorare l’obbligo dello Stato verso una popolazione protetta. Piuttosto, ha fatto ricorso ad un tecnicismo. Ha spiegato che i pannelli sono stati confiscati otto mesi dopo che erano stati installati e messi in funzione. Quindi la petizione scritta dagli avvocati Michal Sfard e Michal Pasovsky è diventata inutile. E’ una vergogna. Sarebbe stato interessante capire quali acrobazie avrebbero trovato i giudici per rispondere alle argomentazioni (accettate anche dal governo olandese) secondo cui negare l’accesso all’elettricità e distruggere gli impianti elettrici sono atti che violano il diritto umanitario internazionale.

L’affermazione di Ben Hur ha permesso al procuratore ed ai giudici di evitare anche di affrontare il fatto che l’Amministrazione Civile aveva fatto un uso improprio di un ordine militare. Gli ordini di sequestro consegnati ai residenti di Jubbet ad-Dhib il giorno della confisca citavano l’articolo 60 dell’ordinanza relativa alle norme di sicurezza. Questo articolo definisce possibile il sequestro cautelativo per un reato penale che sia stato commesso utilizzando l’impianto che si prevede di sequestrare. L’ordine di confisca non specificava quale crimine fosse stato presumibilmente commesso con i pannelli solari. Le indagini degli avvocati su questo punto presso l’Amministrazione Civile sono rimaste senza risposta. Quindi probabilmente (stando alla risposta del portavoce del COGAT [Coordinamento delle Attività Governative nei territori, ndtr.] ai giornalisti) il presunto crimine è relativo alla normativa urbanistica ed edilizia. Ma questo è un reato amministrativo che non ricade sotto l’ordinanza militare relativa alle misure di sicurezza. Le procedure per occuparsi di questo sono differenti – ordini di interruzione lavori ed ordini di demolizione, audizioni, argomentazioni contro l’ordine, appelli, trattative, una petizione all’Alta Corte.

Sfard e Pasovsky affermano che, per quanto a loro conoscenza, questa è stata la prima volta che l’Amministrazione Civile ha fatto uso dell’articolo 60 per confiscare un impianto. Non è successo per caso, hanno scritto nella petizione: “ O i pannelli solari non sono materiali ‘da costruzione’ e quindi la loro installazione senza permessi non è una violazione della legge in base alla quale può essere adottato un provvedimento esecutivo (come noi riteniamo), oppure l’ambito giuridico che afferisce alla costruzione di queste strutture è la normativa urbanistica ed edilizia, e le procedure esecutive devono essere avviate solamente in virtù ed in accordo con essa.”

Evidentemente qualcuno ha fatto forti pressioni sull’Amministrazione Civile ed i suoi giuristi e squadre di demolizione per scollegare dall’elettricità il villaggio – che è circondato da avamposti non autorizzati e ben trattati di coloni. Le leggi urbanistiche ed edilizie non permettevano la confisca e perciò al loro posto è stato citato un irrilevante articolo della legislazione militare.

Qualcosa di ancora più potente stava dietro a questo qualcuno: una decisa assistenza legale e la posizione dell’Olanda. I dettagli sono già stati descritti, ma, lo ammetto, mi fa particolarmente piacere riscriverli un’altra volta. La restituzione dei pannelli solari è stata preceduta da: la protesta e condanna da parte del ministro degli esteri olandese; la protesta del primo ministro olandese Mark Rutte in un incontro bilaterale con il primo ministro israeliano pochi giorni dopo il sequestro; due audizioni al parlamento olandese riguardo al sequestro; interrogazioni presentate da tre partiti del parlamento olandese; le chiare e dettagliate risposte da parte del ministro degli esteri olandese e del ministro della Cooperazione Internazionale e dello Sviluppo. All’interno di queste attività parlamentari, è stata data informazione dell’incontro di Netanyahu con la sua controparte olandese ed in seguito della promessa scritta di restituzione dei pannelli solari.

L’ufficio del primo ministro [israeliano] non ha rilasciato commenti ad Haaretz.

Olanda e tutta Europa, prendete nota: quando lo volete, si può fare pressione su Israele. Sapete che la violazione da parte di Israele del diritto internazionale a Jubbet ad-Dhib non è un evento eccezionale. Quindi, per favore, continuate, per il bene dei palestinesi e degli ebrei che vivono in questo Paese.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Riflessioni pessottimistiche* da Gaza assediata.

Haidar Eid

20 Ottobre 2017, Mondoweiss

Non si può capire il mortale, medievale blocco imposto a Gaza avulso dal colonialismo di insediamento israeliano in Palestina. L’orrore inflitto a Gaza infatti è radicato nella frammentazione politica causata dall’apartheid israeliano, consolidato dagli accordi di Oslo e innescato dalle lotte delle fazioni per la conquista del potere di un bantustan trasformato in un campo di concentramento.

La ragione che sta dietro a questo blocco genocida, imposto dall’apartheid israeliano e sostenuto da un Quartetto del Medio Oriente [composto da Russia, Stati Uniti, Ue e Onu, ndt.] complice, è che ci si aspetta che noi, 2 milioni di gazawi, riconosciamo il diritto di Israele a esistere sui nostri villaggi, che hanno subito la pulizia etnica e da cui siamo stati espulsi nel 1948, e che rinunciamo alla nostra resistenza in quanto sarebbe una forma di violenza. E’ così che questo “crimine di punizione collettiva” viene giustificato. La comunità internazionale ci sta praticamente dicendo che dobbiamo collaborare con gli occupanti per essere accettati, che dobbiamo considerare normale l’apartheid e il colonialismo di insediamento. Se non lo facciamo allora siamo condannati e dobbiamo pagare un pesante prezzo riguardo alla vita dei nostri bambini.

Allora la domanda è se si sia chiesto alla popolazione nativa del Sud Africa di riconoscere il diritto all’esistenza dell’apartheid? O, per dirla più brutalmente, se ci si aspettava che le vittime ebree del nazismo collaborassero con il mostro nazista perché venissero accettate come esseri umani?!

Quanto i sionisti odiano la popolazione di Gaza si concretizza nel tentativo di Israele di affogare letteralmente Gaza nella merda! I bianchi suprematisti del Sud Africa, o i nazisti del Terzo Reich, o il Ku Klux Klan nel sud degli USA hanno mai pensato di costruire per quello scopo un cavolo di fogna che si è rotta ed ha versato il suo contenuto sulle loro vittime?

Ultimamente ci siamo ridotti a una vita vegetativa dentro a un campo di concentramento, la più grande prigione all’aria aperta del mondo.

Ma, a differenza delle vittime del nazismo, continuiamo a ricordare a noi stessi di stare abbastanza attenti da non cadere nella trappola di credere che la nostra causa sia un’eccezione, per quanto estrema.

Io appartengo alla generazione che non ha vissuto la Nakba, una generazione di cui si pensava che si sarebbe rassegnata a 50 anni di occupazione militare e a 69 anni di espropriazione e apartheid. Ma abbiamo deciso di sollevarci e resistere. Da qui il nostro appello per il BDS, in riferimento al movimento antiapartheid e ad altre lotte contro il colonialismo di insediamento.

Come lo vedo io, è che, permettendo a Israele di imporre un blocco senza precedenti su 2 milioni di civili e di intraprendere tre guerre di grandi proporzioni contro di loro nel 2008, 2012 e nel 2014, con il risultato di 4000 morti e il ferimento di decine di migliaia, oltre alla distruzione delle infrastrutture, la comunità post seconda guerra mondiale ha fallito nel salvaguardare i principi di giustizia e di pace. Tocca pertanto alla società civile prendere l’iniziativa. Da qui la speranza che è stata creata tra i palestinesi dall’enorme successo del movimento del BDS. Come continuo a ripetere, è l’unico barlume di speranza che noi, vittime dell’occupazione, dell’apartheid e del colonialismo d’insediamento, abbiamo nell’era di Donald Trump e di Benjamin Netanyahu.

*Il termine “pessottimista” è tratto dal capolavoro di Emile Habibi “La vita segreta di Saeed, il pessottimista”. È il risultato della fusione delle parole arabe pessimista (al-mutasha’em) e ottimista (al-mutafa’el)

( Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




Con una mossa senza precedenti, otto Paesi europei stanno per chiedere risarcimenti a Israele a causa delle demolizioni [perpetrate] in Cisgiordania

Barak Ravid |

19 Ottobre, 2017 | Haaretz

In una lettera, i Paesi chiedono 35.000 dollari [30.000 euro ndt.] come risarcimento per la confisca e la demolizione di strutture che hanno costruito nell’area C, sotto il pieno controllo israeliano.

Otto Paesi europei hanno scritto una lettera di protesta ufficiale a Israele, chiedendo oltre 30.000 euro ($35.400) come risarcimento per la confisca e la demolizione di strutture e infrastrutture che i Paesi hanno costruito nell’area C della Cisgiordania, che è sotto il pieno controllo israeliano.

Un alto diplomatico europeo ha riferito a Haaretz che la lettera, che è la prima di questo tipo, dovrebbe essere spedita fra pochi giorni agli alti funzionari del ministero degli esteri.

Secondo il diplomatico europeo, il Belgio è a capo dell’l’iniziativa. Gli altri Paesi coinvolti nella stesura della lettera sono Francia, Spagna, Svezia, Lussemburgo, Italia, Irlanda e Danimarca. Tutti gli otto Paesi sono membri del Consorzio di Protezione della Cisgiordania, un organismo grazie al quale coordinano l’aiuto umanitario all’area C.

I Paesi protestano contro la confisca dei pannelli solari che hanno installato nei villaggi beduini e contro la demolizione di strutture mobili che sono state finanziate in diversi villaggi beduini per essere adibite ad aule scolastiche.

L’esistenza della lettera di protesta è stata rivelata per la prima volta dal giornale francese Le Monde. Nella lettera gli otto Paesi hanno affermato che se Israele non restituirà senza condizioni il materiale confiscato, chiederanno il risarcimento. La demolizione e la confisca di materiale umanitario, comprese le infrastrutture scolastiche e l’intromissione nella consegna di aiuto umanitario, contravvengono agli obblighi di Israele verso il diritto internazionale e producono sofferenze ai residenti palestinesi, dice la lettera.

La lettera è il secondo passo che questi paesi stanno facendo sulla questione. Un mese e mezzo fa, i diplomatici degli otto Paesi sono venuti ad incontrare il capo del’ufficio responsabile dell’Europa del ministero degli Esteri, Rodica Radian-Gordon, per protestare contro le azioni di Israele nei confronti delle comunità beduine dell’area C.

Secondo un alto funzionario del ministero degli Esteri, l’ambasciatore belga in Israele Olivier Belle ha detto durante la riunione che se Israele non avesse restituito il materiale confiscato, il suo Paese avrebbe formalmente chiesto il risarcimento. Belle è stato l’unico in quella riunione a sollevare la questione del risarcimento, ma nelle successive settimane egli chiaramente si è dato da fare per persuadere i suoi colleghi a trasformare la richiesta in una comune posizione condivisa da presentare ufficialmente a Israele.

Israele respinge categoricamente la richiesta di risarcimenti. La posizione di Israele è che l’attività europea nell’area C non è da considerare aiuto umanitario, bensì un’attività illegale di sviluppo che viene fatta senza un coordinamento con Israele e con l’obiettivo di rafforzare la presenza palestinese nell’area C. La posizione europea, [invece,] è che, in base alla Convenzione di Ginevra, Israele deve occuparsi delle necessità quotidiane della popolazione palestinese dell’area C e dal momento che non lo fa, gli Stati europei subentrano mediante l’aiuto umanitario.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




Il blocco della Cisgiordania e di Gaza dura da 26 anni

 

Amira Hass,

16 ottobre 2017 Haaretz

 

Quando Israele annuncia una chiusura dei territori occupati, crea la falsa impressione che i palestinesi normalmente abbiano libertà di movimento – cosa che non avviene dal gennaio 1991.

Alcuni articoli pubblicati su Haaretz prima della festa di Sukkot (festa del pellegrinaggio, una delle più importanti festività ebraiche, che dura 8 giorni tra settembre e ottobre, ndtr.) mi hanno ricordato la grande distanza tra il 21 di Schocken Street (gli uffici di Haaretz) e Qalandya, Nablus o Jayyous. Mi hanno ricordato (ancora e ancora) quanto malamente io abbia fallito nei miei tentativi di descrivere, spiegare ed illustrare la politica israeliana di restrizione della libertà di movimento. Poiché ho scritto migliaia di pagine sulla politica di chiusura nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania fin da quando è stata istituita nel gennaio 1991, riconosco la mia personale responsabilità sulla questione.

Parecchi miei colleghi di Haaretz (anche in un editoriale) hanno giustamente criticato l’ordine della leadership politica e militare israeliana di vietare l’uscita dei palestinesi dalla Cisgiordania durante l’intera festa di Sukkot. I giornalisti hanno sottolineato la crudeltà di recare danno alla vita di decine di migliaia di lavoratori con una punizione collettiva, con un blocco.

Ma questi articoli hanno creato la falsa impressione che i checkpoint siano normalmente aperti per tutti e, di conseguenza, giustificano in qualche modo il termine usato dall’apparato militare – “attraversamenti”, come se fossero valichi di frontiera tra due Stati uguali e sovrani.

Dalle critiche contenute negli articoli sembra che, proprio come l’israeliano medio può salire su un autobus o su una macchina e viaggiare verso est in qualunque giorno della settimana ed a qualunque ora, un comune palestinese possa analogamente imboccare le stesse superstrade di lusso e dirigersi ad ovest. Verso il mare. O a Gerusalemme. Dalla sua famiglia in Galilea; a sua scelta, per quasi tutti i giorni e a qualunque ora, tranne durante lo Shabbat [festa ebraica del riposo che avviene di sabato ndt] e i giorni di festività.

Ripetiamolo ancora una volta: il blocco non è mai stato tolto da quando venne imposto alla popolazione nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania (esclusa Gerusalemme est) il 15 gennaio 1991. Come potremmo definirlo oggi, più di 26 anni dopo? Il blocco è il ripristino della Linea Verde (confine de facto dello stato di Israele fino al 1967, ndtr.) – ma solo in una direzione e per un solo popolo. E’ inesistente per gli ebrei, ma esiste sicuramente per i palestinesi (insieme al suo nuovo rafforzamento, la barriera di separazione in Cisgiordania).

A volte il blocco è meno rigido; a volte di più. In altri termini, a volte parecchi palestinesi ottengono permessi di ingresso in Israele, a volte pochi, o nessuno del tutto, o quasi nessuno (a Gaza). Ma è sempre una minoranza di palestinesi a cui Israele concede i permessi – soprattutto perché alcuni settori dell’economia israeliana (in particolare quello dell’agricoltura e dell’edilizia, e anche il servizio di sicurezza dello Shin Bet) hanno bisogno di loro.

Per quasi due decenni, e per propri calcoli politici interni, Israele ha rispettato il diritto dei palestinesi alla libertà di movimento – con poche eccezioni – e loro entravano in Israele e viaggiavano tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania senza dover chiedere un permesso a tempo limitato.

Ma dal 1991 Israele ha negato il diritto alla libertà di movimento a tutti i palestinesi in queste aree, con poche eccezioni, in base a criteri e quote che stabilisce e modifica come gli conviene.

Il gennaio 1991 è storia antica per molti lettori e soggetti interessati, alcuni dei quali sono addirittura nati dopo quella data. Ma per tutti i palestinesi che hanno più di 42 anni, il gennaio 1991 è una delle tante date che segnano un altro arretramento e un altro cambiamento in negativo nelle loro vite.

Nella storiografia della nostra dominazione sui palestinesi, il 15 gennaio 1991 dovrebbe essere studiato come una pietra miliare (non la prima né l’unica) dell’apartheid israeliano. Un Paese che va dal mare (Mediterraneo) al fiume (Giordano), due popoli, un governo la cui politica determina le vite di entrambi i popoli; il diritto democratico di eleggere un governo è garantito ad un solo popolo e a parte del secondo. Questo è risaputo. Due sistemi giuridici separati; due sistemi di infrastrutture separati e ineguali – uno potenziato per un popolo, uno sgangherato e deteriorato per l’altro.

E non meno importante: libertà di movimento per un popolo; diversi gradi di restrizione del movimento, fino alla totale assenza di libertà di muoversi, per l’altro. Il mare? Gerusalemme? Gli amici che vivono in Galilea? Sono tutti lontani da Qalqilyah (cittadina palestinese in Cisgiordania, ndtr.) come la luna – e non solo durante la festa di Sukkot.

E’ importante anche la tecnica di come è stato in realtà attuato il blocco. Un cambiamento drastico non accade mai all’improvviso, non è mai dichiarato pubblicamente. Viene sempre presentato come una reazione – non come un’iniziativa. (Gli israeliani vedono il blocco come un mezzo per impedire gli attacchi suicidi , ignorando appositamente che è iniziato molto prima che quelli cominciassero.

Dal 1991 la negazione della libertà di movimento è solo diventata più tecnologicamente sofisticata: strade separate, checkpoint e metodi di perquisizione più umilianti e dispendiosi di tempo; costanti identificazioni biometriche; un sistema infrastrutturale che consente il ripristino dei checkpoint intorno alle enclave della Cisgiordania e le mantiene separate tra di loro. La gradualità calcolata e la mancata comunicazione preventiva di questa politica e dei suoi obbiettivi, la chiusura interna delle enclave palestinesi circondate dall’area C (sotto il controllo israeliano, ndtr.) – tutto questo normalizza la situazione.

Il blocco (come elemento fondamentale dell’apartheid) è percepito come lo stato naturale e permanente, la situazione standard di cui la popolazione non si accorge più. Ecco perché un peggioramento temporaneo della situazione, annunciato anticipatamente, desta attenzione o rilevanza.

Comunque, io non sono un tipo megalomane, quindi non assumo tutta la responsabilità sulle mie spalle. L’incapacità delle parole di descrivere e spiegare a fondo i tanti aspetti della dominazione israeliana sui palestinesi è un fenomeno sociologico e psicologico, che non è attribuibile all’impotenza di uno o due scrittori. Le parole non pervengono – anche per coloro che si oppongono al blocco – in tutto il loro significato, perché è dura vivere costantemente con la consapevolezza e la comprensione che abbiamo creato un regime di oscurità per i non ebrei; che il nostro demone che pianifica di peggiorare le cose è abilissimo e che noi viviamo benissimo accanto agli orrori che abbiamo creato.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Israele trasforma un autobus in camera di tortura

Shahrazad Odeh 

10 Ottobre 2017, The Electronic Intifada

La moschea di Al-Aqsa a Gerusalemme – uno dei luoghi più sacri per l’Islam – ha ottenuto molta attenzione durante l’estate, quando Israele ha impedito ai fedeli palestinesi di entrarvi.

Tuttavia alcuni episodi della brutalità israeliana durante quel periodo non sono stati riportati dai media internazionali.

Grazie al mio lavoro come avvocatessa con il “Comitato Pubblico contro la Tortura in Israele” ho raccolto la testimonianza di vittime di uno di questi episodi.

Il 27 luglio verso le 22 la polizia israeliana ha fatto irruzione nel complesso di Al-Aqsa. Ciò è avvenuto poco dopo che le autorità israeliane avevano tolto i metal detector e le videocamere che avevano sistemato all’entrata del complesso.

L’incursione, non la prima ad Al-Aqsa quel giorno, è stata interpretata come la vendetta della polizia sui palestinesi che avevano resistito con successo contro le restrizioni nell’accesso alla moschea con due settimane di disobbedienza civile.

Poco dopo aver detto a tutti di andarsene dalla moschea, funzionari di polizia hanno sparato proiettili di gomma contro i fedeli disarmati, ferendone parecchi. Circa 120 palestinesi, nessuno dei quali ha opposto resistenza all’arresto, sono stati catturati.

Una squadra medica palestinese aveva fornito aiuto a un fedele nella moschea prima che ci fosse l’incursione. Membri dell’equipe si sono ritrovati a soccorrere le vittime dell’attacco, compreso un uomo ferito da una pallottola di plastica.

Uno dei membri della squadra medica ha testimoniato che un importante ufficiale di polizia, noto come Shlomi, “si è diretto verso di noi e ha detto alle sue truppe: ‘Non sono paramedici, sono tutti degli imbroglioni, prendete i loro giubbotti e fategliela pagare.”

La polizia ha strappato via le uniformi dell’equipe medica, li ha radunati insieme ai fedeli e li ha costretti in un angolo con le mani in alto.

Poi la polizia li ha obbligati a stendersi a terra. Molti sono stati picchiati da poliziotti che portavano guanti imbottiti e che brandivano manganelli.

In manette

Agli arrestati sono state legate le mani dietro alla schiena con cavetti di plastica. Ammanettati e inermi, i detenuti sono stati obbligati a stare inginocchiati, e a qualcuno è stato ordinato di piegare la testa in mezzo alle gambe.

Mi hanno indicato con il dito, ho camminato verso di loro, una poliziotta mi ha afferrato per le mani mentre un altro poliziotto mi ha colpito da dietro e sono caduto a terra,” racconta uno degli arrestati.

Mi hanno tenuto le mani dietro la schiena e uno di loro mi è saltato sopra, mi ha pestato su un fianco, mi ha tirato le mani ancora più indietro e mi ha ammanettato. Gli ho detto: ‘E’ molto stretto, sono solo un essere umano.’ Il poliziotto ha detto: ‘Così è stretto?’ e ha stretto le manette di plastica finché ho sanguinato.”

I detenuti sono stati divisi in due gruppi e obbligati a camminare a piedi nudi fuori dalla moschea fino alla Porta Marocchina – uno degli ingressi alla Città Vecchia di Gerusalemme.

Alcuni sono stati obbligati a camminare con la testa bassa, altri a stare piegati a 90 gradi mentre camminavano. Alla porta alcuni sono stati obbligati ad inginocchiarsi di nuovo mentre altri hanno subito una perquisizione corporale integrale.

Tutto questo è avvenuto mentre curiosi israeliani deridevano, filmavano e fotografavano gli arrestati.

Il primo gruppo di detenuti è stato trasferito su veicoli della polizia. Il secondo, circa 100 arrestati, è stato messo a forza nel pianale basso di un autobus dell’impresa israeliana di trasporto pubblico “Egged”. Una volta caricati sull’autobus, i detenuti sono stati obbligati a stare seduti con le mani dietro la schiena. Un giovane ha detto di aver avuto una iniziale sensazione di sollievo: “Stavo finalmente seduto su un sedile, i miei piedi mi ammazzavano di dolore per le botte, perché erano stati calpestati dai poliziotti e perché ho camminato scalzo durante l’arresto. Non riuscivo a muovermi, avevo i piedi gonfi.”

Il giovane ha subito aggiunto che “mi sbagliavo a sentirmi comodo”. Gli hanno subito detto di mettere la testa tra le gambe.

La mia schiena si stava spezzando”

Mentre era in quella posizione, i poliziotti hanno trascinato un altro detenuto sulla sua schiena e su quelle dei tre arrestati che erano accanto a lui. Altri tre detenuti sono poi stati messi uno sull’altro sopra di loro, formando una specie di piramide umana.

Hanno messo una persona pesante su quattro di noi,” ha detto l’uomo. “Ho sentito che la mia schiena si stava spezzando.” Ad altri detenuti sono state fatte aprire le gambe in modo che due arrestati potessero essere messi su ogni gamba. In qualche caso, un altro detenuto è stato steso sul pavimento tra le gambe di altri detenuti e davanti ai loro genitali.

Il resto dei detenuti è stato obbligato a sedere sul pavimento del corridoio dell’autobus.

Il livello dell’aggressione della polizia è stato tale per cui i detenuti hanno temuto per la loro vita.

Ho visto la morte negli occhi (dei poliziotti),” ha detto uno dei giovani.

Io non mi spavento facilmente,” ha affermato un altro, di 22 anni. “Ma quella notte ero sicuro che ci avrebbero uccisi, tutti. Ero così spaventato che mi sono quasi urinato nei pantaloni.”

Le testimonianze di questi giovani e di alcuni altri sono state alla base di una denuncia fatta dal “Comitato Pubblico contro la Tortura in Israele” a nome di 10 palestinesi messi su quell’autobus.

La denuncia è stata depositata presso l’unità di investigazione della polizia israeliana alla fine di agosto.

L’autobus che trasportava i detenuti è stato portato al “Russian Compound” [Complesso Russo], un centro di interrogatori sinonimo di tortura.

Assalto

Alcuni detenuti hanno denunciato ulteriori violenze della polizia contro di loro nel centro. Un adolescente, che stava visibilmente male, è stato tra quelli che sono stati aggrediti lì.

La maggior parte dei detenuti è stato rilasciato dal “Russian Compound” dopo circa un’ora. Altri, invece, non sono stati rilasciati fino al giorno seguente.

Ognuno dei membri del gruppo trattenuto fino al giorno dopo è rimasto ammanettato ad un altro durante la detenzione. Dovevano andare insieme persino quando usavano il gabinetto.

Gli uomini ammanettati insieme hanno dovuto dormire sul pavimento.

Uno dei detenuti era stato colpito alla testa durante l’incursione. Benché stesse visibilmente sanguinando, non gli è stata fornita nessuna assistenza medica fin dopo la detenzione – quando è stato portato via in ambulanza.

Tutti i detenuti con cui ho parlato raccontano di gonfiore ai polsi e di sanguinamento in conseguenza delle manette strette che gli erano state messe.

Questo episodio non rappresenta la prima volta che Israele ha requisito un mezzo di trasporto pubblico per operazioni militari o di polizia.

Nel 1992 Israele ha utilizzato autobus “Egged” per deportare più di 400 palestinesi – con gli occhi bendati – dalla Cisgiordania e da Gaza occupate al sud del Libano.

L’uso improprio di autobus da parte delle forze di occupazione israeliane è sintomatico di un problema più grave. Fin dalla sua nascita, Israele ha deliberatamente requisito proprietà pubbliche o civili e le ha trasformate in zone militari chiuse. Definire in quel modo grandi zone della Cisgiordania ha consentito ad Israele di espandere le colonie.

Israele si è rifiutato di separare la vita civile da quella militare. L’esercito israeliano gestisce basi ed uffici nelle università; soldati portano armi sui mezzi di trasporto pubblici.

Penetrando in quasi tutti gli aspetti della vita dei palestinesi, Israele è stato in grado di fare impunemente incursioni in luoghi di culto. Gli autobus sono stati trasformati in celle carcerarie.

Sharazad Odeh è un’avvocatessa palestinese per i diritti umani e una ricercatrice su diritto e genere. Lavora come legale con l’organizzazione femminista “Kayan” e ricopre vari ruoli come ricercatrice all’Università Ebraica di Gerusalemme. Le opinioni espresse in questo articolo sono sue.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Marginalizzare economicamente le donne palestinesi in Israele

Suheir Abu Oksa Daoud –

28 Settembre 2017,Al-Shabaka

Sintesi

Le donne palestinesi cittadine di Israele hanno una delle percentuali più basse di partecipazione al mercato del lavoro, mentre le loro omologhe ebree hanno una delle più alte. Benché i dirigenti del governo israeliano abbiano pubblicamente affermato che il Paese deve incentivare l’economia dei palestinesi di Israele, promuovendo soprattutto il lavoro delle donne palestinesi, le loro affermazioni non sono state seguite da fatti concreti. 1 2

Non sorprende che lo sviluppo palestinese non sia una priorità nell’elaborazione delle politiche israeliane. La minoranza, che costituisce circa il 21% della popolazione totale israeliana di 8,7 milioni, ha sofferto povertà, emarginazione e discriminazione da parte del governo israeliano fin dalla Nakba [l’espulsione di centinaia di migliaia di palestinesi nel ’47-’48 che ha permesso la nascita dello Stato di Israele, ndt.]. Inoltre durante lo scorso decennio le azioni israeliane hanno portato ad un più profondo peggioramento dei rapporti tra i palestinesi e le istituzioni statali e la comunità ebraica. La guerra contro il Libano del 2006 e gli attacchi contro Gaza del 2008 e del 2014, per esempio, hanno ulteriormente allontanato i palestinesi cittadini di Israele.

La lotta delle donne palestinesi per un lavoro in Israele è emblematica dell’oppressione sistematica di questa minoranza da parte di Israele. La bassa percentuale di donne nel mercato del lavoro non è, come in genere si pensa, semplicemente dovuta alla cultura “tradizionale” palestinese o musulmana. Mentre nel passato ostacoli sociali bloccavano il lavoro fuori casa delle donne palestinesi, profondi cambiamenti politici ed economici nella società palestinese hanno contribuito ad una maggiore accettazione e promozione di questo lavoro. Invece le politiche statali israeliane nei confronti delle lavoratrici palestinesi sono state centrali nella loro emarginazione dalla produzione e dal lavoro.

In questo articolo Suheir Daoud tratta dell’emarginazione delle donne palestinesi nel mercato del lavoro israeliano. Esamina il mancato appoggio di Israele alle donne palestinesi che lavorano nell’impiego pubblico come parte di una politica sia storica che attuale che intende isolare e controllare il potenziale della minoranza palestinese al servizio degli interessi della maggioranza ebraica. Conclude con raccomandazioni su quello che i palestinesi possono fare per favorire il lavoro delle donne palestinesi in Israele.

Emarginazione economica fin dalla Nakba

L’emarginazione delle donne palestinesi nel mercato del lavoro israeliano e più in generale l’ostruzionismo allo sviluppo economico dei palestinesi in Israele sono stati obiettivi fondamentali di Israele fin dalla Nakba.

Dopo il 1948 [anno della fondazione dello Stato di Israele, ndt.] Israele ha adottato una politica economica capitalistica intesa ad integrarsi nell’economia mondiale. Uno dei principali obiettivi era di assorbire e fornire un impiego agli immigrati ebrei, e questo scopo venne realizzato attraverso l’espropriazione dei palestinesi. In migliaia persero la propria terra e la propria casa.

In conseguenza di ciò, nei due decenni di legge marziale [in vigore nelle zone palestinesi in Israele dal 1948 al 1966, ndt.] che seguirono la fondazione di Israele, le donne palestinesi lavorarono principalmente in attività come addette alle pulizie e sarte nei villaggi arabi, soprattutto nel Nord [di Israele]. Altri fattori che contribuirono alla loro emarginazione professionale furono una mancanza di opportunità di lavoro nei villaggi e nelle città arabi e il ridotto tasso di alfabetizzazione.

La guerra del 1967 provocò cambiamenti fondamentali nell’economia israeliana, con un afflusso di capitali, di investimenti e di aiuti che creò molto lavoro. Ciò contribuì a un miglioramento delle condizioni di vita e spinse le donne palestinesi in Israele ad entrare nel mercato del lavoro retribuito per garantire risorse supplementari per aiutare le proprie famiglie e cercare di usufruire del miglioramento delle condizioni.

Eppure durante gli anni continuò ad essere difficile per le donne palestinesi garantirsi un lavoro. Negli anni ’90, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, circa un milione di ebrei russi immigrarono in Israele. La maggioranza di questi immigrati era in possesso di titoli di studio superiori ed ottenne lavori come medico e infermiere. Arabi istruiti con professionalità simili vennero sostituiti. Nel contempo russi non qualificati, soprattutto donne, vennero impiegati nelle pulizie, negli alberghi e come operai, portando a licenziamenti generalizzati delle donne palestinesi che avevano occupato quei posti per decenni.

Anche il trattato di pace tra Israele e la Giordania del 1994 contribuì all’emarginazione economica delle donne palestinesi. L’accordo aprì le porte agli investimenti israeliani in Giordania, spingendo Israele ad aprire molte fabbriche là, così come in Egitto. Molte donne palestinesi persero il loro lavoro in fabbrica in Israele, soprattutto nel ramo tessile e dell’abbigliamento, e le possibilità di lavoro in questo settore diminuirono. Alla metà degli anni ’90 il numero di donne palestinesi che lavoravano nelle fabbriche tessili israeliane scese da 10.700 a 1.700. Inoltre Israele accolse migliaia di lavoratori stranieri a lavorare nei settori agricoli e delle costruzioni, portando a una riduzione nella percentuale di lavoratori palestinesi in questi settori, soprattutto donne che svolgevano lavori agricoli stagionali.

Più istruite, ma ancora disoccupate

Dopo la guerra del 1967 l’immigrazione di migliaia di contadini palestinesi nelle città israeliane per lavorare ebbe un significativo impatto sulla struttura dei villaggi e delle famiglie arabi. L’esproprio delle terre da parte di Israele e la trasformazione dei palestinesi in forza lavoro a buon mercato fece sì che le famiglie estese perdessero il proprio sostentamento nell’agricoltura. Le grandi famiglie palestinesi si urbanizzarono e si frammentarono, e le famiglie nucleari divennero più frequenti.

Questi cambiamenti influirono sui rapporti economici e sociali dei palestinesi, compresi i loro atteggiamenti nei confronti dell’educazione delle donne. L’educazione delle ragazze e delle donne diventò più frequente in quanto la nuova generazione divenne più aperta ai concetti di libertà, uguaglianza sociale e ai diritti delle donne3 . E poiché i palestinesi di Israele compresero che l’istruzione era la strategia più importante per avere successo nella società, dopo la fine della legge marziale l’iscrizione di giovani arabi, comprese le donne, nelle università israeliane aumentò.

Allora donne palestinesi istruite fecero carriera, soprattutto nei campi dell’educazione e infermieristico, e contribuirono a fonti aggiuntive, e spesso primarie, di reddito per le loro famiglie. Di frequente lavoravano in scuole arabe come insegnanti, e col tempo dominarono la professione. E nel corso degli ultimi due decenni, le donne palestinesi in Israele si sono impiegate in molti ambiti lavorativi non tradizionali, tra cui il settore legale e giuridico, quello medico, le arti, la produzione cinematografica e l’ingegneria. L’indipendenza economica delle donne lavoratrici ha incentivato la consapevolezza da parte di altre di maggiori opportunità.

Tuttavia le lavoratrici palestinesi sono state l’eccezione piuttosto che la regola. Benché il tasso di impiego sia aumentato per le donne istruite, la partecipazione femminile palestinese nel mercato del lavoro israeliano non è stata commisurata al loro livello di istruzione. La loro percentuale di partecipazione è una delle più basse al mondo, di circa il 21%. Questo dato è rimasto pressoché costante per più di 20 anni, mentre nello stesso periodo quello delle donne ebree è aumentato – dal 47% nel 1990 al 59% nel 2016. L’attuale tasso per le donne ebree è uno dei più alti al mondo, superiore persino a quello degli Stati uniti, al 56%. Mentre i dati dell’ONU mostrano negli ultimi decenni un costante aumento della partecipazione femminile al lavoro salariato a livello globale, il modesto tasso di lavoro per le donne palestinesi in Israele racconta anche una storia diversa.

Ostacoli al lavoro delle donne palestinesi da parte dello Stato

L’incremento nelle assunzioni in ogni ordine di scuola tra le donne palestinesi in Israele dimostra che non sono solo la “cultura palestinese” o “l’Islam” che impediscono alle donne di ottenere un impiego, ma lo Stato israeliano.

Israele sottopone la propria minoranza palestinese a politiche discriminatorie che le negano, benché [si tratti di] cittadini israeliani, molte posizioni di alto livello, in molti casi per ragioni di “sicurezza”. Per esempio, istituzioni governative come la Banca Centrale di Israele, aeroporti e mezzi di comunicazione statali raramente assumono palestinesi. Inoltre, benché la legge israeliana per le pari opportunità vieti ai datori di lavoro discriminazioni sulla base del sesso, della razza o della religione contro chi si offre per un lavoro, le donne palestinesi che fanno domanda [di lavoro] si trovano di fronte a pregiudizi. Un velo da donna o un ebraico con un accento [arabo] sono spesso invocati come giustificazione per negare loro l’assunzione.

Israele continua anche a privare i palestinesi del loro ruolo nell’agricoltura, espropriando la loro terra e negando i sussidi governativi per i coltivatori. E i successivi governi israeliani hanno rifiutato lo sviluppo di città e villaggi arabi e continuano a perseguire politiche discriminatorie in termini di finanziamenti, pianificazione urbana, progetti di edilizia, trasporti pubblici e zone industriali che potrebbero fornire opportunità di lavoro.

Di conseguenza piccole città e villaggi arabi, i cui dirigenti sono anche noti per il malgoverno e la corruzione, soffrono a causa dello scarso sviluppo e pianificazione e per una limitata rete di trasporti, soprattutto nei nuovi quartieri, che spesso mancano di strade asfaltate e di servizi. Questa mancanza di mezzi di trasporto impedisce alle donne palestinesi di garantirsi un lavoro. Uno studio dell’organizzazione femminista “Kayan” ha mostrato che, mentre il numero di donne palestinesi in Israele che ottengono la patente di guida è in aumento, il 37% di chi ha risposto ha affermato di non poter comprare un’automobile per la mancanza di mezzi finanziari, e il 23% ha detto di non possedere una macchina a causa delle tradizioni e delle barriere sociali. Per esempio, le donne druse hanno il divieto di guidare per ragioni religiose, benché alcune di loro abbiano sfidato questo divieto e guidino automobili.

Anche la grave carenza di asili-nido nelle zone palestinesi impedisce alle donne di entrare nel mercato del lavoro. In effetti solo 25 asili finanziati dal governo operano nelle zone arabe di Israele, mentre in quelle ebraiche ce ne sono 16.000.

Persino quando lavorano, le donne palestinesi patiscono di una differenza di stipendio e di una doppia discriminazione, in quanto vivono in una società maschilista che inoltre discrimina gli arabi a favore degli ebrei. Benché la legge israeliana preveda salari uguali sul lavoro, tutte le donne in Israele guadagnano il 15% in meno rispetto agli uomini, e i cittadini palestinesi maschi di Israele guadagnano stipendi dimezzati rispetto ai loro colleghi ebrei per lo stesso lavoro.

Queste varie difficoltà obbligano molte donne palestinesi a rimanere a casa e ad occuparsi dei loro figli piuttosto che cercare un lavoro nella sfera pubblica.

Il ruolo del patriarcato

Come altre società industrializzate, Israele è patriarcale, basato sull’idea della superiorità maschile. Questo si può vedere nella separazione tra il privato ed il pubblico e nella differenza di stipendio tra uomini e donne.

Sia nella società ebraica che in quella palestinese atteggiamenti patriarcali riguardo al ruolo della donna e al lavoro fuori casa stanno cambiando. Tuttavia un cambiamento formale è stato evidente solo tra le donne ebree israeliane. Il patriarcato israeliano non ha impedito alle donne ebree di raggiungere uno dei più alti indici del mondo nella partecipazione al lavoro, mentre quella delle donne palestinesi rimane bassa.

La grande maggioranza della società araba appoggia una maggiore istruzione e il diritto al lavoro delle donne, benché questo appoggio si riduca in qualche misura tra quelle che si identificano con la religione, indipendentemente da quale essa sia. Eppure persino il “Movimento Islamico” in Israele, tradizionalmente accusato di conservatorismo riguardo alle donne, ha sottolineato l’importanza dell’educazione femminile. La sezione settentrionale del movimento, messa fuori legge da Israele, appoggia l’educazione delle donne anche se continua a isolare ragazzi e ragazze e a costruire scuole separate per le ragazze.

Cambiamenti nella cultura patriarcale palestinese sono stati più rapidi e più complessivi tra la gente della Galilea [nel nord di Israele, ndt.], tra i cristiani e tra le donne che si definiscono laiche. Le donne cristiane partecipano al mercato del lavoro con una percentuale del 45%, contro il 23,9% delle donne musulmane. Questa differenza può essere attribuita al fatto che la maggioranza delle donne cristiane vive nelle città, dove le donne trovano maggiori opportunità di lavoro rispetto a quelle che vivono in periferia o nei villaggi. I membri della comunità cristiana iscrivono inoltre i propri figli nei corsi scolastici superiori più dei loro omologhi musulmani ed ebrei, tendono a sposarsi più tardi e hanno il più basso livello di natalità dello Stato4 . Questi fattori, così come il fatto che le donne cristiane non sono sottoposte alle stesse restrizioni di quelle di altre religioni o che vivono in certe zone, come nel Naqab [Negev in arabo, ndt.], hanno contribuito a incrementare la loro partecipazione al mondo del lavoro.

Le donne beduine del sud del Naqab hanno il livello più basso di partecipazione tra le donne palestinesi, con solo il 6% della forza lavoro. La repressione israeliana dei beduini del Naqab, che sono circa 130.000, ossia l’11% della popolazione palestinese all’interno dello Stato, contribuisce a questa bassa percentuale.

La comunità beduina deve far fronte alla costante minaccia di deportazione e demolizione delle proprie case. Numerose leggi che potrebbero migliorare la condizione delle donne beduine, come il codice penale del 1977 che stabilisce una condanna a cinque anni per poligamia, non vengono applicate, e la poligamia tra gli uomini beduini è salita al 20-30%. Tuttavia l’istruzione delle donne sta aumentando nel Naqab, ed un crescente numero di donne beduine studentesse universitarie ed attiviste sta lavorando per aiutare le donne dal punto di vista sociale e a sfidare le politiche razziste dello Stato.

Sfide palestinesi al sistema israeliano

La società civile palestinese in Israele gioca un importante ruolo nell’appoggiare l’autonomia delle donne, anche organizzando campagne di sensibilizzazione, seminari e corsi di formazione per promuovere l’emancipazione femminile, così come pubblicando rapporti e ricerche sulle donne. Molte organizzazioni locali femminili, compresa l’organizzazione femminista “Kayan” di Haifa e “Donne contro la violenza” di Nazareth, si concentrano soprattutto sulla violenza contro le donne. Alcune organizzazioni israeliane operano all’interno della comunità palestinese sotto amministrazione palestinese, come “Shatil”, che appoggia le organizzazioni palestinesi che si concentrano sull’emancipazione delle donne, e organizzazioni dei diritti umani come il “Centro Mossawa” e “Adalah”.

Eppure i politici e le organizzazioni palestinesi in Israele concentrano le proprie azioni soprattutto su seminari, incontri e dichiarazioni. Raramente vengono proposti una politica pragmatica, un piano di azione specifico o un quadro inclusivo per coordinarsi tra i partiti. Ed anche quando è proposta una politica, tali iniziative in genere mancano di verifica. Questo è stato il caso della “Prospettiva futura degli arabo-palestinesi in Israele”, che è stata progettata da Ong e docenti universitari palestinesi in Israele. Il documento intende confermare i diritti storici della minoranza palestinese e chiede uno Stato inclusivo invece di uno “Stato democratico ebraico”.

Tuttavia alcuni parlamentari palestinesi alla Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] stanno lavorando per migliorare la condizione delle donne palestinesi nel mercato del lavoro e per garantire loro l’applicazione delle leggi sul lavoro. Tra questi c’è la deputata Aida Toma-Suleiman [deputata palestinese cristiana eletta nella “Lista unitaria”, ndt.], del “Fronte Democratico per la Pace e l’Uguaglianza” [coalizione di sinistra marxista, ndt.], che spinge per l’applicazione delle leggi che garantiscono l’inclusione delle donne. Anche la “Lobby delle Donne in Israele” sta lavorando con un numero verde per ricevere lamentele di donne sottoposte a pratiche di lavoro illegale e per assisterle nei processi.

Alcuni deputati palestinesi maschi, compreso Massoud Ghanayem, della sezione meridionale del “Movimento Islamico”, condannano fermamente lo sfruttamento delle donne sul posto di lavoro. Chiedono protezione ed appoggio per le lavoratrici e un controllo più rigido sul lavoro. Sostengono anche diritti come lo stipendio minimo. L’ex-deputato Issam Makhoul [del “Fronte Democratico”, ndt.] ha affermato che il fatto che Toma-Suleiman sia a capo della commissione delle donne alla Knesset è un indicatore positivo ed importante dell’appoggio ai diritti delle donne palestinesi.

Gli ostacoli che si trovano di fronte le donne palestinesi in Israele necessitano di azione, soprattutto da parte di intellettuali, partiti e leader religiosi palestinesi per cambiare i preconcetti ed ampliare il ruolo e la partecipazione delle donne. Mentre si devono concentrare sull’appoggio all’emancipazione delle donne dalle strutture patriarcali che determinano il loro ruolo all’interno della famiglia, devono soprattutto lottare contro le politiche repressive e discriminatorie di Israele.

Cosa possono fare i palestinesi

Poiché l’ideologia e la prassi israeliane sono volte principalmente all’esclusione dei palestinesi, soprattutto delle donne, dal lavoro e dallo sviluppo in Israele, i palestinesi in Israele devono assumere un ruolo guida nella progettazione e messa in opera di strategie per migliorare la partecipazione delle donne nella sfera pubblica. Qui di seguito vengono fatte alcune raccomandazioni per l’azione.

  • I cittadini palestinesi devono organizzare campagne internazionali di pressione per spingere il governo israeliano a ottemperare ai suoi obblighi verso l’OECD [Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, organismo intergovernativo composto da 35 Paesi membri, ndt.] ed altre organizzazioni internazionali che prescrivono l’uguaglianza riguardo al sesso, alla razza o ad altri fattori.

  • L’”Alto Comitato di Controllo per i Cittadini Arabi di Israele” deve assumere un ruolo centrale come ente politico nazionale che rappresenta tutti i palestinesi in Israele e sviluppare meccanismi chiari ed integrati per affrontare l’emarginazione delle donne palestinesi nel mercato del lavoro. Deve anche condurre uno studio annuale dell’iniziativa “Prospettiva futura degli arabo-palestinesi di Israele” del 2006 per analizzare le dimensioni di questa messa in pratica e, se necessario, avanzare proposte ulteriori o alternative.

  • Le autorità locali palestinesi devono coordinarsi e collaborare per costruire reti di trasporti alternative ed aprire asili-nido nei villaggi e nelle città palestinesi.

  • La società civile e le organizzazioni dei diritti umani devono educare le donne sui loro diritti e su come affrontare le difficoltà e lo sfruttamento sul lavoro. Queste organizzazioni dovrebbero fornire aiuto legale alle donne presentando reclami e azioni legali nei casi di discriminazione e sfruttamento.

Altri passi possono essere intrapresi dai mezzi di comunicazione, da comunità e dai dirigenti palestinesi. Solo con simili azioni coordinate e integrate le donne palestinesi di Israele inizieranno a mettere in pratica il proprio potenziale e ad esercitare i propri diritti.

Notes:

  1. Al-Shabaka è grato per lo sforzo dei sostenitori dei diritti umani per la traduzione di questi testi, ma non è responsabile per eventuali modifiche del significato.

  2. Questo articolo è ricavato dalla tesi magistrale dell’autrice “Donne lavoratrici palestinesi in Israele,” Clark University, 2003, e da “Donne lavoratrici palestinesi in Israele: oppressione nazionale e restrizioni sociali”, Journal of Middle East Women’s Studies 8, 2 (Spring 2012): 78- 101.

  3. Anche la “Legge per l’obbligo scolastico di Israele” del 1949, che rende obbligatoria l’educazione per i bambini dai 5 ai 13 anni, ha aiutato a stimolare questo cambiamento.

  4. Le donne cristiane in Israele hanno una natalità di 2,2 rispetto al 3,5 delle musulmane e al 3 delle ebree.

Suheir Abu Oksa Daoud

Suheir Abu Oksa Daoud, membro di Al-Shabaka, ha un dottorato in scienze politiche dell’Università Ebraica di Gerusalemme ed è professore associato nel dipartimento di politiche alla “Coastal Carolina University”, Conway, South Carolina. E’ stata assistente ospite all’ “Harvey Mudd College”, borsista post dottorato al “Pomona College” e ricercatore in visita al “Center for Contemporary Arab Studies” alla “Georgetown University”. In precedenza ha lavorato come consulente di un parlamentare della Knesset. Daoud ha pubblicato quattro volumi di poesie e di letteratura arabe e il suo libro universitario “Palestinian Women and Politics in Israel” [Donne palestinesi e politica in Israele] è stato pubblicato nel 2009 dalla University of Florida Press. 

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Che cosa c’è dietro la riconciliazione tra Hamas e Fatah?

Ramzy Baroud

12 ottobre 2017, Palestine Chronicle

L’entusiasmo dell’Egitto nel mediare tra le contendenti fazioni palestinesi Hamas e Fatah non è il risultato di un improvviso risveglio di coscienza. Il Cairo ha di fatto svolto un ruolo distruttivo nel manipolare le divisioni palestinesi a proprio vantaggio, mantenendo rigidamente chiuso il valico di confine di Rafah.

Comunque la leadership egiziana agisce chiaramente in coordinamento con Israele e gli Stati Uniti. Mentre il linguaggio usato da Tel Aviv e Washington è assolutamente prudente riguardo ai colloqui condotti tra le due fazioni palestinesi, se letto attentamente il loro discorso politico non è del tutto negativo rispetto alla possibilità che Hamas si unisca ad un governo di unità sotto la direzione di Mahmoud Abbas.

Le affermazioni del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu all’inizio di ottobre confermano questa ipotesi. Non ha respinto categoricamente un governo Fatah-Hamas, ma, secondo il ‘Times of Israel’, ha richiesto che “qualunque futuro governo palestinese smantelli il braccio armato dell’organizzazione terroristica (Hamas), recida ogni legame con l’Iran e riconosca lo Stato di Israele.”

Anche il Presidente egiziano Abdel-Fattah al-Sisi vedrebbe con favore un Hamas indebolito, un Iran emarginato ed un accordo che rimetta l’Egitto al centro della diplomazia mediorientale.

Sotto l’egida del dittatore egiziano, il ruolo dell’Egitto, un tempo centrale nelle questioni della regione, è diventato marginale.

Ma la riconciliazione tra Hamas e Fatah fornisce ad al-Sisi un’opportunità di ridare lustro all’immagine del suo Paese, che negli ultimi anni è stata appannata dalla brutale repressione dell’opposizione interna e dai suoi improvvidi interventi militari in Libia, Yemen ed altrove.

A settembre, a margine della Conferenza dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York, al-Sisi ha pubblicamente incontrato Netanyahu per la prima volta. L’esatta natura dei loro colloqui non è mai stata completamente rivelata, anche se le notizie riportate dai media hanno sottolineato che il leader egiziano ha cercato di convincere Netanyahu ad accettare l’accordo di riunificazione tra Hamas e Fatah.

Nel suo discorso all’Assemblea Generale Onu al-Sisi ha anche fatto un improvvisato appello appassionato per la pace. Ha parlato di un’“opportunità” che deve essere colta per raggiungere l’agognato accordo sulla pace in Medio Oriente ed ha invitato il presidente USA Donald Trump a “scrivere una nuova pagina della storia dell’umanità” sfruttando tale presunta opportunità.

E’ difficile immaginare che al-Sisi, che ha un’influenza ed una forza di persuasione limitate su Israele e gli USA, sia in grado con le proprie forze di creare il clima politico necessario alla riconciliazione tra le fazioni palestinesi.

In passato sono stati fatti simili tentativi, ma sono falliti, in particolare nel 2011 e nel 2014. Addirittura già nel 2006 l’Amministrazione di George W. Bush impedì qualunque riconciliazione, usando minacce e cancellando finanziamenti per assicurarsi che i palestinesi restassero divisi. L’amministrazione Obama ha fatto altrettanto, garantendo l’isolamento di Gaza e la divisione palestinese, mentre sosteneva anche le politiche israeliane in proposito.

A differenza delle precedenti amministrazioni, Donald Trump ha destato aspettative riguardo a una mediazione per un accordo di pace di basso profilo. Tuttavia, fin dall’inizio ha preso le parti di Israele, ha promesso di trasferire l’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme ed ha nominato un fautore della linea dura, David Friedman, un sionista per eccellenza, come ambasciatore USA in Israele.

Indubbiamente nel giugno scorso Trump ha firmato un ordine provvisorio per mantenere l’ambasciata a Tel Aviv, deludendo molti dei suoi sostenitori filoisraeliani, ma la mossa non è indice di un serio cambiamento di politica.

“Voglio dare una chance ad un piano per la pace prima di poter anche solo pensare di trasferire l’ambasciata a Gerusalemme”, ha recentemente detto Trump in un’intervista televisiva. “Se possiamo fare la pace tra i palestinesi ed Israele, penso che questo porterà ad una pace definitiva in Medio Oriente, che deve essere fatta.”

Giudicando sulla base dei precedenti storici, è più che ovvio che Israele e USA hanno dato luce verde alla riconciliazione palestinese con un chiaro obbiettivo in mente. Da parte sua, Israele vuole vedere una rottura di Hamas con l’Iran e il suo abbandono della resistenza armata, mentre gli USA vogliono dare “una chance” alle politiche in corso nella regione, dando la priorità agli interessi di Israele rispetto a qualunque risultato.

L’Egitto, essendo beneficiario di un generoso aiuto militare statunitense, è il tramite naturale per condurre la riconciliazione tra Hamas e Fatah come parte della nuova strategia.

Ciò che suggerisce chiaramente che dietro gli sforzi di riconciliazione vi siano potenti attori, è come sia filato liscio finora l’intero processo, in totale contrasto con anni di tentativi fallimentari e ripetuti accordi con risultati deludenti.

Ciò che inizialmente sembrava un altro inutile ciclo di colloqui ospitato dall’Egitto, è stato presto seguito da molto di più: anzitutto un iniziale compromesso, seguito da un accordo di Hamas a sciogliere il suo comitato amministrativo, creato per gestire gli affari di Gaza; poi, una positiva visita del Governo di Consenso Nazionale a Gaza ed infine l’appoggio ai termini di riconciliazione nazionale da parte delle due più potenti componenti di Fatah: il Consiglio Rivoluzionario e il Comitato Centrale.

Dato che Fatah controlla l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), quest’ultimo appoggio propugnato da Mahmoud Abbas è stato un’importante pietra miliare necessaria a far progredire il processo, poiché sia Hamas che Fatah si sono detti pronti ad ulteriori successivi colloqui al Cairo.

Diversamente dagli accordi precedenti, quello attuale consentirà ad Hamas di prendere parte attiva nel nuovo governo di unità. Un alto dirigente di Hamas, Salah Bardawil, lo ha confermato in una dichiarazione. Tuttavia Bardawil ha anche ribadito che Hamas non deporrà le armi e che la resistenza contro Israele non è negoziabile.

A parte il ruolo di potere giocato da USA, Israele ed Egitto, questo è certamente il nodo cruciale. Comprensibilmente, i palestinesi desiderano raggiungere l’unità nazionale, ma tale unità deve essere fondata su principi che sono assai più importanti degli interessi egoistici dei partiti politici.

Inoltre, parlare di – o anche raggiungere – unità, senza fare i conti con le farse del passato e senza concordare una strategia di liberazione nazionale per il futuro in cui il fondamento sia la resistenza, il governo di unità tra Hamas e Fatah risulterà insignificante come tutti gli altri governi che non hanno avuto una reale sovranità e, al massimo, discutibili mandati popolari.

Ancor peggio, se l’unità è guidata dal tacito sostegno USA, da un assenso di Israele e da un programma autoreferenziale dell’Egitto, ci si può aspettare che il risultato sarà il più lontano possibile dalle reali aspirazioni del popolo palestinese, che resta indifferente all’imprudenza dei suoi leader.

Mentre Israele ha investito per anni nella spaccatura tra palestinesi, le fazioni palestinesi continuano ad essere accecate da miseri interessi personali e da un “controllo” senza alcun valore su una terra occupata militarmente.

Si dovrebbe chiarire che qualunque accordo di unità che tenga conto dell’interesse delle fazioni a spese del bene collettivo del popolo palestinese è un imbroglio; anche se inizialmente “ha successo”, sul lungo termine fallirà, poiché la Palestina è più grande di qualunque individuo, fazione o potere regionale che cerchi il consenso di Israele e l’elemosina degli Stati Uniti.

Ramzy Baroud è giornalista, scrittore e redattore di Palestine Chronicle. Sta per uscire il suo libro ‘The last Earth: a Palestinian story’ (L’ultima terra: una storia palestinese) (Pluto Press, London). Baroud ha un dottorato in studi sulla Palestina dell’università di Exeter ed è ricercatore non residente presso il Centro Orfalea per gli studi globali e internazionali dell’università Santa Barbara in California. Il suo sito web è: www.ramzybaroud.net.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Dagli yemeniti ai palestinesi

Amira Hass

16 agosto 2017,Haaretz

Nella lotta contro la sottomissione ed il potere c’è la speranza che il confronto aiuterà più persone ad uscire allo scoperto – e non dopo 66 anni – per rompere il silenzio, resistere all’oppressione e formare una coalizione.

Lo scandalo del rapimento di bambini yemeniti (ed altri) per fortuna non si spegne, e più se ne parla e si ricorda, meglio è. Anche se i diretti responsabili non sono qui per rispondere delle loro azioni, è stato provato più volte quanto fossero giuste le denunce delle famiglie.

Questa volta è stato un articolo di venerdì su Yedioth Ahronoth che ci ha riportato la storia dei bambini yemeniti rapiti. Tamar Kaplansky ha intervistato Shulamit Malik, che all’inizio degli anni ’50 è stata un’educatrice in un asilo nido di Hapoel Hamizrahi [partito politico sionista religioso degli anni ’50, ndt.] nel campo di transito per immigrati di Yatziv. Malik ha preso l’inziativa dell’intervista; aveva letto un editoriale di Kaplansky e ha deciso di rompere il suo silenzio.

Risulta che Malik ha rotto il suo silenzio per la prima volta 20 anni fa. Contattò Rami Tzuberi, un avvocato che stava rappresentando alcune delle famiglie di bambini che erano scomparsi. Tzuberi disse di aver dato il nome di Malik alla commissione di inchiesta, ma non venne mai chiamata a testimoniare. Come educatrice si rese conto del rapporto tra le eleganti delegazioni che arrivavano a visitare la struttura ed i bambini sani che sparivano pochi giorni dopo. E dopo essere diventata nonna, si ricordò disperata dei genitori che arrivavano per prendere i loro figli – dopo una lunga giornata di lavoro – e scoprivano il letto vuoto.

La sua testimonianza non dice niente di nuovo sul fenomeno in sé. Conferma quanto fossero nel giusto le famiglie, per decenni, quando raccontavano della metodica sparizione dei bambini.

Le famiglie e gli attivisti, che non hanno lasciato cadere la questione, possono servire da modello per ogni gruppo dominato e ridotto al silenzio nella società. La vicenda è un’importante lezione per ogni giornalista e direttore di giornale: per favore, date ascolto alla gente. Soprattutto quando non sono persone importanti, ricche, famose, melliflue e dell’alta società. Ascoltatela anche se una cinepresa non documenta tutto quello che è successo e la gente non ha documenti ufficiali per confermarne i racconti. Mostrate un fondamentale scetticismo nei confronti di chiunque sia al potere. Hanno sempre qualcosa da nascondere, sotto un sacco di scherno e di arroganza.

La tentazione di tracciare un parallelo con i nostri palestinesi sottomessi – e non è solo un accenno – è grande. Perché non siamo qui solo per descrivere la realtà, ma soprattutto per cambiarla. Nella lotta contro la sottomissione ed il potere c’è la speranza che il confronto aiuterà più persone ad uscire allo scoperto – e non dopo 66 anni – per rompere il silenzio, resistere all’oppressione e coalizzarsi.

Ma la tentazione di non tracciare un parallelo è ancora più grande. Oggi la nostra cultura politica, con i crudeli amplificatori delle reti sociali, non consente che si senta la logica di un simile parallelo. Nel nostro tempo, il sistema di potere di quell’epoca iniziale che ha rapito soprattutto bambini ebrei arabi [provenienti dai Paesi arabi, ndt.] da un lato è immediatamente identificata istantaneamente con gli ashkenaziti [ebrei provenienti dall’Europa centro-orientale, ndt.], da una parte, e dall’altro con gli infidi sinistrorsi amanti degli arabi. E così per molti è apparentemente un semplice dettaglio insignificante il fatto che l’asilo nido in cui Malik lavorava fosse diretto da Hapoel Hamizrahi, che non era esattamente di sinistra, e da esso siano nati il partito Nazional Religioso e più tardi Habayit Hayehudi [“La casa ebraica”, partito di estrema destra dei coloni, ndt.], proprio come dice Kaplansky.

Né la nostra opinione pubblica ha recepito il fatto che l’establishment del Mapai-Mapam abbia utilizzato prassi socialiste (di sinistra) come uno strumento per raggiungere obiettivi ultranazionalisti, etnici (conquista del suolo, espulsione dei palestinesi). L’establishment intenzionato all’espulsione è rimasto quello che era: anche se oggi non include solo ashkenaziti, anche se i successori del Mapai ripudiano, e a buon diritto, il titolo di “sinistrorsi”, anche se bambini non sono rapiti ma lasciati con percorsi educativi a un livello più basso. La terminologia è così comunemente oscurata che la destra utilizza i bambini rapiti contro la sinistra anti-nazionalista; cioè, contro chi si oppone all’occupazione.

Non dobbiamo essere come loro. Il riconoscimento dell’ingiustizia metodica e calcolata che i dirigenti ashkenaziti (sì!) hanno perpetrato contro i bambini rapiti e le loro famiglie non è subordinato all’opposizione contro la metodica politica israeliana di sconfiggere i palestinesi.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Il Kansas non mi permette di formare insegnanti di matematica perché boicotto Israele

Esther Koontz

12 Ottobre 2017,

ACLU [American Civil Liberties Union, organizzazione USA che difende i diritti civili e le libertà individuali negli USA]

Faccio parte della Chiesa mennonita [confessione cristiana che discende dagli anabattisti olandesi, ndt.]. Sono anche stata un’insegnante di matematica per quasi un decennio. A causa delle mie opinioni politiche lo Stato del Kansas ha deciso che non posso contribuire alla formazione di altri insegnanti di matematica.

La scorsa primavera sono stata scelta per partecipare ad un progetto che forma insegnanti di matematica nelle scuole pubbliche in tutto il Kansas. In maggio, dopo aver terminato un corso di formazione di due giorni, ero pronta ad assumere l’incarico.

Ma in giugno il Kansas ha approvato una legge che chiede ad ogni singola persona o impresa che intendano concludere un contratto di appalto con lo Stato di non essere impegnate nel boicottaggio di Israele. Questa legge mi colpisce personalmente. Come membro della Chiesa mennonita degli USA e come persona preoccupata dei diritti umani di qualunque popolo – e soprattutto della continua violazione dei diritti umani dei palestinesi in Israele e in Palestina – ho scelto di boicottare beni di consumo prodotti da imprese israeliane e internazionali che traggono profitto dalla violazione dei diritti dei palestinesi.

Mi sono occupata per la prima volta della situazione in Israele e Palestina quando ho visitato la regione all’inizio degli anni 2000, mentre svolgevo un incarico di tre anni con la Comissione Centrale mennonita in Egitto. Questo interesse si è accresciuto lo scorso autunno, quando la nostra Chiesa ha ospitato una serie di seminari settimanali tenuti da un membro della nostra congregazione. Ci ha parlato del suo viaggio in Israele e Palestina su invito di un gruppo di cristiani palestinesi. E ci ha mostrato conferenze in video di organizzazioni non governative, sostenitori dei diritti dei bambini ed ex-soldati israeliani sul trattamento dei palestinesi da parte del governo israeliano.

Alla fine degli otto incontri abbiamo parlato di come il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni possano contribuire a mettere fine all’occupazione del governo israeliano, nello stesso modo in cui queste tattiche hanno aiutato a smantellare l’apartheid in Sudafrica. Ho lasciato l’incontro con la convinzione di dover fare la mia parte per appoggiare la lotta palestinese per l’uguaglianza, anche se questo dovesse solo significare non comprare l’hummus “Sabra” [crema di ceci tipica del Medio oriente, prodotto da questa ditta israeliana, che prende il nome dai primi sionisti insediatisi in Palestina, ndt.] o un apparecchio della SodaStream [impresa israeliana specializzata nella produzione di sistemi di filtraggio e potabilizzazione dell’acqua, ndt.].

Poi il 6 luglio 2017 la Chiesa mennonita USA ha approvato a stragrande maggioranza una risoluzione che invoca la pace in Israele e in Palestina. Ha chiesto ai mennoniti “di fare passi concreti e specifici per risolvere” l’”ingiustizia e la violenza” che sia i palestinesi che gli ebrei hanno subito. E ci invita “a evitare l’acquisto di beni associati ad azioni violente o politiche di occupazione militare, compresi quelli prodotti nelle colonie.” Questa risoluzione ha rafforzato la mia decisione di partecipare al boicottaggio.

Pochi giorni dopo ho ricevuto una mail da una funzionaria del Dipartimento dell’educazione dello Stato del Kansas. Diceva che, per partecipare al progetto di formazione in matematica dello Stato, avrei dovuto firmare un attestato in cui affermavo di non boicottare Israele. In particolare avrei dovuto sottoscrivere la seguente dichiarazione:

In quanto individuo o fornitore che inizia un contratto con lo Stato del Kansas, con la presente si certifica che l’individuo o l’impresa citata di seguito non sono attualmente impegnati in un boicottaggio di Israele.”

Ero sbalordita. Pare assurdo che la mia decisione di partecipare ad un boicottaggio politico possa avere un qualche effetto sulla mia possibilità di lavorare per lo Stato del Kansas.

Dopo aver aspettato per alcune settimane ed aver preso in considerazione le alternative a mia disposizione, ho risposto con una mail ed ho detto al funzionario che non potevo firmare il certificato per una questione di coscienza. Avrei potuto ancora partecipare al programma di formazione dello Stato? Mi ha risposto che, sfortunatamente, non avrei potuto. Avrei dovuto firmare la dichiarazione per essere pagata.

Sto sfidando questa legge perché credo che il Primo Emendamento [della Costituzione USA, ndt.] protegga il mio diritto, ed il diritto di ogni americano, a prendere delle decisioni come consumatore in base alle mie convinzioni politiche. Non c’è bisogno di condividere le mie opinioni o essere d’accordo con le mie decisioni per comprendere che questa legge viola la mia libertà di parola. Lo Stato non dovrebbe dire alle persone quali cause possano o non possano appoggiare.

Sono anche dispiaciuta di non poter essere una formatrice in matematica per lo Stato del Kansas a causa delle mie opinioni politiche sui diritti umani nel mondo. Le due cose sembrano assolutamente slegate e non in rapporto tra loro. Il mio attivismo a favore della libertà per tutti, israeliani e palestinesi, non dovrebbe incidere sulla mia capacità di formare insegnanti di matematica. Spero che questa legge sia riconosciuta come una violazione della Costituzione.

Esther Koontz è una formatrice alla scuola “Horace Mann Dual Language Magnet” di Wichita, Kansas, è membro della Chiesa mennonita degli USA. Le opinioni espresse in questo messaggio sono dell’autrice: l’ACLU non prende posizione sul boicottaggio di Israele.

(traduzione di Amedeo Rossi)