INTERVISTA. Ilan Pappe: come Israele ha trasformato la Palestina nella più grande prigione al mondo

Mustafa Abu Sneineh

Venerdì 24 novembre 2017, Middle East Eye

Una storia dell’occupazione israeliana in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza analizza quali meccanismi militari vengono usati per controllare le vite dei palestinesi.

La guerra dei Sei Giorni del 1967 tra Israele e gli eserciti arabi ha portato all’occupazione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza.

Israele ha spacciato la storia di questa guerra come se fosse stata accidentale. Ma nuovi documenti storici e verbali d’archivio dimostrano che Israele l’aspettava da tempo.

Nel 1963 elementi dell’amministrazione militare, legale e civile israeliana frequentarono un corso presso l’università ebraica di Gerusalemme per stendere un piano complessivo per gestire i territori che Israele avrebbe occupato quattro anni dopo e per controllare un milione e mezzo di palestinesi che ci vivevano.

La ragione stava nella fallimentare gestione israeliana dei palestinesi a Gaza durante la breve occupazione nel periodo della crisi di Suez del 1956 [in cui l’esercito israeliano, affiancando inglesi e francesi, combatté contro l’Egitto di Nasser, che aveva nazionalizzato il canale, ndt.].

Nel maggio 1967, settimane prima della guerra, i governatori militari israeliani ricevettero istruzioni legali e militari su come controllare le città ed i villaggi palestinesi. Israele avrebbe proceduto a trasformare la Cisgiordania e la Striscia di Gaza in mega prigioni sotto governo e controllo militare.

Insediamenti, posti di blocco e punizioni collettive fecero parte di questo piano, come dimostra lo storico israeliano Ilan Pappe in “The biggest prison on earth: a history of the occupied territories(“La più grande prigione al mondo: una storia dei territori occupati”), una descrizione in profondità dell’occupazione israeliana.

Pubblicato nel cinquantesimo anniversario della guerra del 1967, il libro è stato selezionato per il “Palestine Book Award 2017”, organizzato da Middle East Monitor, in attesa di essere proclamato a Londra il 24 novembre. Pappe ha parlato con Middle East Eye del libro e di ciò che esso rivela.

Middle East Eye: Quanto questo libro si basa sul suo saggio precedente, “The ethnic cleansing of Palestine” (“La pulizia etnica in Palestina”) sulla guerra del 1948?

Ilan Pappe: È decisamente un proseguimento del mio precedente libro “The ethnic cleansing”, che descrive gli eventi del 1948. Io vedo l’intero progetto sionista come uno schema, non solo come un singolo evento. Una struttura di colonialismo di insediamento attraverso cui un movimento di coloni si insedia in una nazione. Fin quando la colonizzazione non è completa e la popolazione indigena resiste con un movimento di liberazione nazionale, ognuno dei periodi di cui mi occupo non è che una fase all’interno della stessa struttura.

Benché “La più grande prigione” sia un libro di storia, siamo tuttora all’interno dello stesso capitolo storico. Quindi a questo riguardo probabilmente ci sarà in seguito un terzo libro che tratterà degli eventi del XXI secolo, di come la stessa ideologia di pulizia etnica e di espropriazione viene attuata nella nuova era e di come i palestinesi vi resistono.

MEE: Lei parla della pulizia etnica che ebbe luogo nel giugno 1967. Che cosa accadde allora ai palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza? In che modo essa si differenziò dalla pulizia etnica della guerra del 1948?

I.P. Nel 1948 c’era un piano molto chiaro per cercare di espellere quanti più palestinesi possibile dalla maggior parte possibile della Palestina. Il progetto colonialista di insediamento credeva di avere la forza di creare uno spazio ebraico in Palestina che fosse totalmente privo di palestinesi. Non ha funzionato così bene, ma è stato quasi vincente, come tutti sapete. L’80% dei palestinesi che vivevano all’interno di quello che diventò lo Stato di Israele divennero rifugiati.

Come dimostro nel libro, vi erano alcuni politici israeliani che pensavano che fosse possibile fare nel 1967 ciò che era stato fatto nel 1948. Ma la grande maggioranza di loro comprese che la guerra del 1967 fu molto breve, durò sei giorni, e c’era già la televisione e parecchi di coloro che volevano espellere erano già dei rifugiati del 1948.

Quindi io penso che la strategia non fu di compiere una pulizia etnica nello stesso modo in cui fu condotta nel 1948. Fu ciò che chiamerei una pulizia etnica progressiva. In alcuni casi espulsero masse di persone da certe zone quali Gerico, la Città Vecchia di Gerusalemme e i dintorni di Qalqilya. Ma nella maggior parte dei casi decisero che un governo militare ed un blocco che rinchiudesse i palestinesi all’interno delle proprie aree sarebbe stato tanto vantaggioso quanto espellerli.

Dal 1967 fino ad oggi c’è stata una pulizia etnica molto lenta, che probabilmente copre un periodo di 50 anni ed è così lenta che a volte può colpire una sola persona in un giorno. Ma se si guarda l’intero panorama dal 1967 ad oggi, stiamo parlando di centinaia di migliaia di palestinesi che non hanno il permesso di tornare in Cisgiordania o nella Striscia di Gaza.

MEE: Lei distingue tra due modelli militari utilizzati da Israele: il modello di prigione aperta in Cisgiordania e il modello di prigione di massima sicurezza nella Striscia di Gaza. Come definisce questi due modelli? E si tratta di termini militari?

IP: Uso questi termini come metafora per spiegare i due modelli che Israele offre ai palestinesi nei territori occupati. Insisto ad usarli perché ritengo che la soluzione dei due Stati sia in realtà il modello di prigione aperta.

Gli israeliani controllano i territori occupati direttamente o indirettamente e cercano di non penetrare all’interno delle città e dei villaggi palestinesi con alta densità di popolazione. Hanno separato la Striscia di Gaza [dalla Cisgiordania, ndt.] nel 2005 e stanno ancora suddividendo la Cisgiordania in parti. Esistono una Cisgiordania ebrea ed una Cisgiordania palestinese, che non è più una zona dotata di contiguità territoriale.

A Gaza gli israeliani sono i guardiani che tengono chiusi i palestinesi dal mondo esterno, ma non interferiscono con ciò che essi fanno all’interno.

La Cisgiordania è come una prigione a cielo aperto in cui si mandano piccoli criminali a cui si consente più tempo per uscire e lavorare all’esterno. E non c’è un regime duro all’interno, ma è sempre una prigione. Persino il presidente Mahmoud Abbas, se si sposta dall’area B [sotto controllo amministrativo dell’ANP e controllo militare israeliano, ndt.] all’area C [sotto totale controllo israeliano, ndt.], ha bisogno che gli israeliani gli aprano il cancello. E secondo me è veramente emblematico il fatto che il presidente non possa spostarsi senza che il carceriere israeliano apra la gabbia.

Ovviamente c’è una continua reazione palestinese a tutto questo. I palestinesi non rimangono passivi e non lo accettano. Abbiamo assistito alla Prima e alla Seconda Intifada, e forse ne vedremo una terza. Gli israeliani dicono ai palestinesi, secondo una mentalità da gestione carceraria, ‘se voi resistete noi vi toglieremo tutti i vostri privilegi, come facciamo in carcere. Non potrete lavorare all’esterno. Non potrete muovervi liberamente e subirete punizioni collettive.’ E’ questo il genere di versione repressiva, la punizione collettiva come rappresaglia.

MEE: La comunità internazionale condanna timidamente la costruzione o l’espansione delle colonie israeliane nei territori occupati. Non considera questo come elemento centrale del sistema coloniale israeliano, come lei descrive nel suo libro. Come hanno avuto inizio le colonie israeliane e questo è avvenuto su basi razionali o religiose?

IP: Dopo il 1967 c’erano due mappe di insediamenti o colonizzazione. C’era una mappa strategica ideata dalla sinistra israeliana. Il padre di questa mappa fu il defunto Yigal Allon, il grande stratega, che lavorò con Moshe Dayan nel 1967 al piano per controllare la Cisgiordania e la Striscia di Gaza. Si basavano su un principio strategico, non troppo ideologico, benché ritenessero che la Cisgiordania appartenesse ad Israele.

Erano più interessati ad assicurare che gli ebrei non si insediassero in zone arabe densamente popolate. Dicevano che dovunque i palestinesi non vivessero in forti concentrazioni, là noi potevamo insediarci. Quindi iniziarono con la Valle del Giordano, poiché là vi erano piccoli villaggi, ma non c’era una densità di popolazione come in altre aree.

Il problema per loro fu che, nello stesso momento in cui elaboravano la loro mappa strategica, emerse un nuovo movimento religioso messianico, Gush Emunim, un movimento religioso nazionalista di ebrei che rifiutavano di insediarsi in base alla mappa strategica. Volevano insediarsi secondo la mappa biblica. La loro idea era che la Bibbia è un testo che dice esattamente dove si trovano le antiche città ebraiche. E si dà il caso che la mappa prevedesse che gli ebrei dovessero insediarsi nel centro di Nablus, Hebron e Betlemme, nel bel mezzo delle aree palestinesi.

Inizialmente il governo israeliano cercò di controllare questo movimento biblico in modo che gli insediamenti si facessero in modo più strategico. Ma parecchi giornalisti israeliani hanno rivelato che Shimon Peres, ministro della Difesa nei primi anni ’70, decise di consentire gli insediamenti biblici. I palestinesi della Cisgiordania furono sottoposti a due piani di colonizzazione, quello strategico e quello biblico.

La comunità internazionale sa che secondo il diritto internazionale non conta che le colonie siano strategiche o bibliche, sono tutte illegali.

Ma purtroppo dal 1967 la comunità internazionale ha accettato la formula israeliana, che recita: “Le colonie sono illegali, ma sono provvisorie, una volta che vi sia la pace noi garantiremo che tutto sia legale. Ma finché non vi è pace noi abbiamo bisogno delle colonie poiché siamo ancora in guerra con i palestinesi.”

MEE: Lei sostiene che ‘occupazione’ non è il termine adeguato per descrivere la realtà in Israele, Cisgiordania e Striscia di Gaza. E in un dialogo con Noam Chomsky, ‘On Palestine’, lei critica il termine ‘processo di pace’. Questo è discutibile. Perché questi termini non sono adeguati?

IP: Penso che il linguaggio sia molto importante. Il modo in cui si definisce una situazione incide sulla possibilità di cambiarla.

Abbiamo descritto la situazione in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza e all’interno di Israele con un vocabolario e dei termini errati. Occupazione significa sempre una situazione temporanea.

La soluzione per l’occupazione è la fine dell’occupazione, il ritiro dell’esercito invasore a casa sua, ma non è questa la situazione né in Cisgiordania né nella Striscia di Gaza. Questa è colonizzazione, ritengo, benché suoni come un termine anacronistico nel XXI secolo, penso che dovremmo comprendere che Israele sta colonizzando la Palestina. Ha iniziato a colonizzarla alla fine del XIX secolo e continua ancora oggi.

C’è un regime di insediamento coloniale che controlla l’intera Palestina in modi differenti. Nella Striscia di Gaza il controllo è dall’esterno. In Cisgiordania il controllo è differenziato nelle aree A, B e C. Esistono politiche differenti verso i palestinesi nei campi profughi, dove ai rifugiati non è permesso di ritornare a casa. Non permettere alle persone espulse di ritornare è un altro modo di mantenere la colonizzazione. È sempre parte della stessa ideologia.

Perciò penso che i termini ‘processo di pace’ e ‘occupazione’, quando vengono usati insieme, creino la falsa impressione che tutto ciò che serve è che l’esercito israeliano esca dalla Cisgiordania e dalla Striscia di Gaza e che vi sia una pace tra Israele e la futura Palestina.

Ora, l’esercito israeliano non è presente nella Striscia di Gaza né nell’area A. Lo è anche poco nell’area B, dove non ha bisogno di esserci. Ma non c’è pace. C’è una situazione che è molto peggiore di quella precedente agli accordi di Oslo del 1993.

Il cosiddetto processo di pace ha consentito ad Israele di aumentare le colonie, ma questa volta con il sostegno internazionale. Quindi suggerisco di parlare di decolonizzazione, non di pace. Suggerisco di parlare di cambiare il regime giuridico che governa la vita degli israeliani e dei palestinesi.

Penso che dovremmo parlare di uno Stato di apartheid. Dovremmo parlare di pulizia etnica. Dovremmo scoprire che cosa sostituisce l’apartheid. Ed abbiamo un buon esempio in Sudafrica. L’unico modo per sostituire l’apartheid è un sistema democratico. Una persona, un voto, o almeno uno Stato bi-nazionale. Penso che sia questo il tipo di terminologia che dovremmo incominciare ad usare, perché se continuiamo ad usare le vecchie parole continueremo a sprecare tempo e sforzi e non cambieremo la realtà sul terreno.

MEE: Cosa riserva il futuro al governo militare israeliano sui palestinesi? Assisteremo ad un movimento di disobbedienza civile come quello di luglio a Gerusalemme?

IP: Penso che vedremo disobbedienza civile non solo a Gerusalemme, ma in tutta la Palestina, compresi i palestinesi all’interno di Israele. La società non accetterà per sempre questa realtà. Non so quali mezzi utilizzerà. Possiamo vedere che cosa succede quando non c’è una chiara strategia dall’alto e gli individui decidono di fare la propria guerra di liberazione.

C’è stato qualcosa di veramente impressionante nel caso di Gerusalemme, quando nessuno credeva che una resistenza popolare potesse costringere gli israeliani a ritirare le misure di sicurezza imposte ad Haram al-Sharif [si riferisce all’imposizione di metal detector sulla Spianata delle Moschee, terzo luogo sacro dell’Islam, che comprende la moschea di Al Aqsa e la Cupola della Roccia, ndt.]. Penso che possa essere questo il modello. Una resistenza popolare per il futuro che non si limiti ad un solo luogo, ma avvenga in luoghi differenti.

La resistenza popolare continua senza sosta in Palestina. I media non ne danno notizia. Ma ogni giorno il popolo protesta contro il muro dell’apartheid, contro l’esproprio delle terre, le persone fanno lo sciopero della fame perché sono prigionieri politici. La resistenza palestinese dal basso continua. La resistenza palestinese dall’alto resta in sospeso.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




I palestinesi a Gaza soffrono già abbastanza senza dover essere anche diffamati come devianti sessuali e malati di mente.

Brian K. Barber e Yasser Abu Jamei

21 novembre, 2017,Haaretz,Palestine Square

L’intervista di Haaretz dell’11 novembre a uno psicologo che saltuariamente visita la Striscia di Gaza (I bambini di Gaza vivono all’inferno: Uno psicologo racconta di dilaganti abusi sessuali, droghe e disperazione.) ritrae la società di Gaza come una comunità che ha completamente perso le sue fondamenta morali – fino al punto che, afferma l’intervistato Mohammed Mansour, dilagano le violenze sessuali e l’abuso di droghe e, a tutti gli effetti, sono tutti malati di mente.

La nostra vasta e pluriennale esperienza come professionisti della salute mentale e ricercatori a Gaza è molto diversa.

In sostanza, tutte le asserzioni fatte nell’articolo sulla popolazione di Gaza nel suo complesso sono speculative, essendo basate o su nessuna prova o semplicemente su impressioni, aneddoti o esempi di casi dell’intervistato.

Questo è vero non solo per le asserzioni enormemente esagerate di abuso sessuale e di malattia mentale, ma anche per le seguenti affermazioni fatte da Mansour che, in base alla nostra esperienza, crediamo, fermamente, essere false:

– Che la comunità che si occupa di salute mentale a Gaza sia essa stessa complice dell’abuso sessuale;

– Che quell’abuso sia aumentato in modo misurabile dall’agosto di quest’anno;

– Che gli uomini sposati cerchino costantemente rapporti sessuali extraconiugali;

– Che i giovani uomini abusino sessualmente dei loro coetanei o dei bambini più piccoli per ottenerne il controllo;

– Che il noto abuso di tramadol aumenti la proporzione delle aggressioni sessuali;

– Che tutte le convenzioni sociali a Gaza siano andate in pezzi, che non ci si diverta, che Hamas sia l’unica barriera al collasso totale della società (senza cui non ci sarebbe altro che crimine), e che a Gaza ciascuno/a pensi soltanto a se stesso/a.

Nell’articolo viene ammesso che non esiste una ricerca sistematica sull’abuso sessuale a Gaza – il che rende ancora più curiosa la volontà di descrivere e pubblicare tale disinformazione.

Tuttavia, ignorata dall’articolo è l’attenta ricerca condotta da decenni su campioni ampi e rappresentativi dei quotidiani abitanti di Gaza – alcuni dei quali abbiamo noi stessi documentato – che ha dimostrato come, malgrado condizioni sempre più terribili per la salute e la vita, la stragrande maggioranza degli abitanti di Gaza non segnali alti livelli di malattia mentale e come le relazioni coniugali e genitore-figlio siano particolarmente solide.

Ignorati anche nell’articolo sono gli effetti perniciosi della continua occupazione, dell’assedio e delle limitazioni del movimento [da parte di Israele] come fonti fondamentali della sofferenza che gli abitanti di Gaza subiscono.

Sì, gli abitanti di Gaza parlano della stretta striscia di terra in cui vivono come di un “inferno”; sì, le condizioni economiche e di salute sono terribili; sì, c’è frustrazione e disperazione rapidamente crescente; e, sì, un numero crescente di giovani desidera ardentemente uscire da Gaza per cercare migliori opportunità altrove.

Ma descrivere Gaza come una società nel caos, disancorata dalla propria cultura storicamente forte di resilienza collettiva e fermezza, e in cui tutti cercano solo interessi personali, è semplicemente scorretto.

Almeno tre valori fondamentali hanno guidato e continuano a guidare gli abitanti di Gaza (e in generale i palestinesi): raggiungere il massimo livello di istruzione possibile, formare delle famiglie, e creare mezzi di sostentamento per sostenere quelle famiglie.

Non ci sono prove del fatto che l’impegno dei palestinesi nei confronti di questi valori sia diminuito, anche se le drastiche condizioni economiche rendono sempre più difficile la realizzazione di questi valori, cosa che causa profonda sofferenza soprattutto per i giovani di Gaza.

Tuttavia, essi continuano a lottare per soddisfare il maggior numero possibile, con i loro atteggiamenti caratteristici di “non c’è altra scelta che continuare” e “un giorno raggiungeremo la piena felicità”.

In effetti, gli abitanti di Gaza sono sopravvissuti a tutte le previsioni che sarebbero crollati dopo ogni successiva battuta d’arresto nel corso della loro vita. Così, dopo la guerra del 2008-9, si prevedeva che la società di Gaza si sarebbe sgretolata, e ancora di più dopo la guerra del 2014. Questo non è successo.

I bambini ridono, giocano e sciamano verso la scuola. Le scuole – dalle elementari alle università con laurea specialistica – traboccano di studenti. Giovani donne e uomini cercano ogni opportunità per promuovere la loro istruzione a Gaza e all’estero.

I giovani di Gaza hanno caro il matrimonio come un obiettivo e aspirano al giorno in cui potranno permettersi di costruire le loro famiglie. E si arrabattano in tutti i modi per guadagnare denaro – comprese innovative iniziative online – per sostenere le loro famiglie di origine e quelle a venire.

Agricoltori e pescatori lavorano ogni giorno sotto pesanti e minacciose restrizioni. Innumerevoli organizzazioni della società civile, ONG, strutture per la salute mentale e ospedali vanno avanti con il minimo di risorse.

Le famiglie si incontrano costantemente, osservano le feste, celebrano i successi dei bambini, accolgono nuovi figli e lamentano le perdite. Quando è possibile in un breve tempo libero, le famiglie vanno in spiaggia a rilassarsi.

Queste dinamiche sono evidenti a chiunque trascorra del tempo tra la popolazione in generale, come fa uno degli autori di questo pezzo, Yasser Abu Jamei, nel corso della sua vita quotidiana.

In una visita di un mese a Gaza nel maggio di quest’anno, un coautore di questo articolo, Brian Barber, per esempio, si è ripetutamente imbattuto in celebrazioni di ogni tipo: cerimonie di laurea, consegne di onorificenze accademiche a studenti meritevoli, riconoscimenti per vite spese nel servizio pubblico a Gaza, e così via. La visita ha compreso anche conversazioni interminabili nei salotti e nelle sale da pranzo delle famiglie, dentro e fuori i campi profughi, con genitori e loro figli delle scuole superiori, impazienti e ansiosi per i rigorosi imminenti esami tawjihi [di maturità] di ammissione al college. Ha compreso la convivenza con le famiglie e l’esperienza, sì, della frustrazione, ma anche dei modi creativi con cui le famiglie affrontano blackout di energia di più di 20 ore: con una gamma di dispositivi pronti per le poche ore di energia, quando arrivano, (torce elettriche, telefoni cellulari, carica-batterie di tutti i tipi), svegliandosi a qualsiasi ora per fare il bucato, stirare e fare il bagno, e tirare le corde di prolunga lungo i vicoli dei campi profughi per condividere l’elettricità con i vicini che non hanno quei dispositivi di backup. Ha compreso anche accompagnare per giorni il mukhtar (sindaco tribale) di uno dei più grandi clan di Gaza appena trovava il tempo, nel suo fitto programma di preside e studente di dottorato, per affrontare i bisogni della sua gente, a risolvere conflitti di ogni tipo facendo incontrare le parti e lavorando senza problemi con la polizia su questioni più serie. Questa è la Gaza che conosciamo come padre e psichiatra di Gaza e come psicologo sociale americano che ha trascorso molto tempo ogni anno a Gaza per 23 anni. Non stiamo cercando di nascondere le reali difficoltà incontrate dalla popolazione de facto incatenata di Gaza, ma non vogliamo neanche una rappresentazione della vita a Gaza priva di fondamento, del genere Hobbes-incontra-Il Signore della Mosche, per guadagnarsi una fama che non merita.

Questo articolo è stato pubblicato contemporaneamente su Haaretz e Palestine Square.

Informazioni su Yasser Abu Jamei, MD, MSc è il direttore generale del programma di salute mentale della comunità di Gaza, una ONG fondata nel 1993 dal compianto Eyad El-Sarraj. Con i suoi tre centri comunitari, è considerato uno dei principali fornitori di servizi sanitari nella Striscia di Gaza.

Brian K. Barber, PhD è Fellow di International Security Program presso New America e Senior Fellow presso l’Institute for Palestine Studies, entrambi a Washington, D.C., e Professore Emerito, Università del Tennessee. Twitter: @briankbarber

(Traduzione di Angelo Stefanini )




I bambini di Gaza vivono in un inferno: Uno psicologo racconta di dilaganti abusi sessuali, droghe e disperazione.

Ayelett Shani

11 novembre, 2017, Haaretz

Mohammed Mansour, che tratta le vittime di violenza sessuale a Gaza, descrive l’incubo distopico che vivono i palestinesi.

Conversazione con: Mohammed Mansour, 49 anni, vive a Mash’had, città della Galilea; psicologo, volontario a Gaza con Medici per i diritti umani-Israele.

Dove: un caffè a Jaffa.

Quando: domenica, 8 del mattino.

Per più di un decennio hai visitato spesso la Striscia di Gaza come volontario che fornisce assistenza psicologica.

Sono un esperto in trattamento di traumi e, più specificamente, di bambini che hanno subito violenza sessuale o che mostrano comportamenti sessuali violenti. Come parte dell’assistenza umanitaria fornita, tratto i bambini e formo i professionisti per fornire terapia del trauma. Entro ed esco da Gaza, sotto gli auspici della ONG nonprofit Medici per i Diritti Umani-Israele, ogni due o tre mesi. Negli anni ’90 ho anche vissuto lì per un anno e mezzo mentre stavo conducendo una ricerca.

Quindi conosci bene anche Gaza pre-embargo.

Ovviamente.

E mi sembra di capire che dalla tua ultima visita, circa un mese fa, hai la sensazione che qualcosa è cambiato. Intravedi una nuova tendenza.

Sì. In questa visita ho incontrato un gran numero di casi di abusi sessuali tra i bambini. Questo è un fenomeno che è sempre esistito, ma in questa visita, e anche nella visita precedente, in agosto, ha improvvisamente raggiunto dimensioni molto più grandi. È diventato assolutamente enorme. Più di un terzo dei bambini che ho visto nel campo [rifugiati] di Jabalya hanno riferito di essere stati vittime di abusi sessuali. Bambini da 5 a 13 anni.

Cosa intendi con “abuso sessuale”?

Tutto dall’essere toccato allo stupro.

Chi sono i responsabili?

Adulti e altri bambini della stessa età o più anziani, o qualcuno in famiglia. Genitori, fratelli, zii. In un caso che ho visto, la madre di una bambina di 12 anni con disabilità mentale mi ha detto che la ragazza stava avendo un comportamento molto irritabile. Ogni volta che avvicinavo la mia mano al suo viso lei sussultava bruscamente, sembrava davvero spaventata. Ho chiesto alla madre se fosse sempre stata così, e lei ha risposto di si. Le ho chiesto di lasciare la stanza e ho parlato con la ragazza. Mi ha detto che suo padre la stava abusando. Non ha detto “abusare”, naturalmente; ha riferito che dorme con lei. E’ stato davvero scioccante, anche per me, e sono abituato a simili storie. Ho provato un brivido lungo tutto il corpo quando ne ha parlato.

Cosa le hai detto?

Che a un padre è proibito toccare la propria figlia. Ho cercato di insegnarle a difendersi. So che probabilmente non servirà.

E non puoi dirlo alla madre.

No. Questo metterebbe soltanto la ragazza a rischio ancora maggiore, se la gente sapesse che lo ha raccontato. In generale, quando i bambini sono maltrattati all’interno della famiglia, la madre sa e tace. Credo che anche questa madre lo sapesse. A proposito, questo è il trauma più grave per il bambino: non l’abuso, ma il tradimento della madre.

Una cospirazione del silenzio. È ancora più complesso in una società così conservatrice, in cui tutto ciò che riguarda il sesso è un tabù.

Il conservatorismo si trova anche tra i professionisti della salute mentale. Non parlano di sessualità, di abusi sessuali. Se uno dei miei colleghi incontra dei bambini vittime di abusi sessuali, tace.

Spaventoso.

Quel silenzio, da parte dei membri della professione, è il secondo tradimento.

E la conclusione è che i bambini che hanno subito abusi sessuali non hanno un posto dove rivolgersi, nessuno con cui parlare.

Nessuno.

Conoscete il tasso di abuso sessuale di bambini a Gaza?

No. Non esiste una ricerca sistematica. Ma i bambini che vivono in condizioni di abbandono sono più vulnerabili agli abusi sessuali. Povertà e trauma vanno di pari passo.

Una volta ho incontrato un terapeuta che lavora con prostituite. Mi ha detto che gli aggressori sanno chi scegliere. Sanno quale ragazza non ha nessuno che la aspetta a casa.

Giusto. Gli aggressori sono abili nell’individuare chi possono abusare e da questo punto di vista i bambini di Gaza sono davvero vulnerabili. Quasi ogni famiglia ha 14 o 15 bambini e vivono in condizioni di estrema povertà. La maggior parte delle persone non lavora, e chi lo fa guadagna pochi soldi – lo stipendio medio è di 1.000 shekel al mese [$ 285]. Mentalmente e fisicamente, i genitori non sono davvero in grado di sostenere i propri figli. Sono immersi nella loro stessa depressione, il loro trauma. E la maggior parte degli abitanti di Gaza soffre di depressione e trauma, non possono soddisfare nemmeno i bisogni più elementari dei propri figli.

C’è fame.

Decisamente. Ho visto la fame. Visito case misere e deserte. Il frigorifero è spento anche durante le ore in cui hanno energia elettrica, perché non c’è niente dentro. I bambini mi dicono che mangiano una volta al giorno; alcuni mangiano una volta ogni due giorni. Un neurologo che lavora con noi, Rafik Masalha, ha fatto uno studio sulla nutrizione. Un bambino nella Striscia di Gaza consuma carne in media una volta al mese e pollo una volta alla settimana, e stiamo parlando di un pollo per una famiglia di 15 bambini.

La legge palestinese prevede la pena di morte per violenza sui minori. Ci sono stati dei precedenti: persone sono state giustiziate.

La pena di morte prevista dalla legge si applica agli abusi al di fuori della famiglia. In caso di abuso all’interno della famiglia, spetta alla vittima provarlo. Nessun bambino oserà parlare di abusi del genere. Un bambino di 6 anni che la madre abusa sessualmente, o una ragazza che viene abusata dal padre e dai suoi fratelli, non li denuncerà – soprattutto perché molti bambini che sono abusati sessualmente non sanno che stanno subendo un abuso. Non sanno che questo è ciò che sta accadendo a loro. Non lo sanno e nemmeno fanno il tentativo di capire di cosa si tratta.

Che dire degli attacchi di bambini contro altri bambini?

Per i bambini che subiscono abusi sessuali c’è un elemento nell’abuso che è piacevole. I bambini che subiscono abusi sessuali prolungati, senza che nessuno lavori con loro sul loro trauma, negano e reprimono il dolore, e si concentrano sulla parte piacevole. Un bambino del genere è incline a danni ancora maggiori, e portato a danneggiare altri bambini.

La vittima diventa il violentatore.

Un bambino abusato sessualmente è sotto il dominio totale del molestatore, il cui interesse principale è come dominare. Abusare di altri bambini è il modo migliore per ripristinare il controllo su se stesso.

Chi ti parla di queste violenze? Le vittime o gli aggressori?

Gli aggressori. Non la chiamano assolutamente aggressione. Mi dicono cosa fanno agli altri bambini. La prima cosa che faccio è spiegare loro che [loro stessi] hanno subito degli abusi e che ciò che stanno facendo agli altri bambini è abuso.

Stiamo parlando di abusi da parte di adolescenti maschi contro altri adolescenti maschi, o da ragazzi contro ragazzi?

Sì.

Sono omosessuali?

No.

Allora perché?

Perché è più semplice socialmente. Se un ragazzo assalta una ragazza e lei lo dice a qualcuno, egli sarà ucciso. Si sistemeranno i conti con lui nel vicinato.

Tutto quello che mi hai detto finora è spaventoso di per sé, ma il pensiero che essi forse trovano consolazione nel violentare altri è semplicemente insopportabile.

Sì. Alcuni di loro vi trovano consolazione, piacere, liberazione. Non lo percepiscono come uno stupro, ed è molto difficile trattarli e raggiungere la radice del loro trauma – sia perché hanno subito diversi traumi, sia perché il trauma è in corso. Il primo passo nel trattare le persone ferite dalla violenza e dall’abbandono è rimuoverle dalla situazione di violenza e abbandono. A Gaza è impossibile. Il trauma non finisce e non finirà. Adulti e bambini vivono in un dolore terribile, stanno solo cercando come evadere. Vediamo anche un numero crescente di tossicodipendenti.

A cosa sono dipendenti?

La dipendenza più diffusa oggi tra uomini e giovani a Gaza è il tramadol. In realtà è un farmaco da prescrizione per il dolore muscolare.

È un oppiaceo?

Sì. Uno degli effetti collaterali del tramadolo – è considerato un effetto apparentemente positivo – è che prolunga la durata di un’erezione e aumenta il desiderio sessuale sia negli uomini che nelle donne. Il tramadol che arriva a Gaza è fabbricato in Cina e attraversa l’Egitto. In Egitto subisce una sorta di manipolazione. Non so esattamente cosa fanno lì, cosa aggiungono, ma il tramadol nella Striscia di Gaza non è lo stesso tramadol che la gente prende in Israele. C’è qualcos’altro. Causa forte dipendenza e influenza il comportamento.

Probabilmente aggiungono un’anfetamina.

Sì, una delle anfetamine. Qualcosa con un effetto che assomiglia a quello della cocaina. Lo so perché ho preso il tramadol per alcuni mesi e non ho avuto questi effetti collaterali. E quando ho smesso di prenderlo non sentivo il bisogno di riprenderlo.

Ma tu affermi che la versione di Gaza crea dipendenza.

Molto. Non possono farcela senza di esso. Ed è molto popolare. Nel 2014 un pacchetto di tramadol costava 20 shekel [circa $ 5]. Oggi sono 20 shekel per una compressa.

Gli ospedali di Gaza non hanno medicine essenziali. Come fanno ad avere il tramadol? E come può la gente pagare per questo?

Non è considerato una medicina, ma una droga. Ci sono spacciatori a Gaza e se vengono catturati vanno in prigione. Una gran quantità di hashish è entrata a Gaza dall’Egitto fino alla chiusura dei tunnel; oggi, senza tunnel, non c’è hashish. Le persone stanno cercando qualcos’altro. Non so come faccia a entrare e come riescano a ottenere i soldi, ma i numeri parlano da soli: secondo uno studio condotto a Gaza, il 41% dei tossicodipendenti è dipendente dal tramadol.

E questo, di conseguenza, aumenta la percentuale di aggressioni sessuali.

Certamente. Giovani non sposati che non riescono a trovare nessun altro sfogo all’accresciuto desiderio, aggrediscono bambini e altri giovani. Gli uomini sposati cercano costantemente sesso e legami sessuali, ne parlano in continuazione. Anche davanti ai loro bambini. Parlano di quante volte fanno sesso, con quante donne, sui loro rapporti con le donne.

Relazioni extraconiugali? Tradimenti? A Gaza?

Sì, certo, sempre.

Stai descrivendo una società che è conservatrice in superficie e nel caos totale dentro.

“Caos”: questa è la parola.

Una vita di disperazione

Tutte le convenzioni sociali sono crollate. Anomia.

Non ci sono convenzioni sociali e oltre a ciò c’è una tremenda disperazione. Tutti quelli che incontro lì sono disperati. Salgo su un taxi e l’autista mi parla della sua sensazione di disperazione, di come sta usando il tramadol. Entro in un ristorante dove pranzo sempre, i camerieri siedono con me al tavolo e mi raccontano della loro disperazione. Visito un ospedale psichiatrico e arrivano subito gli psichiatri e gli psicologi e vogliono parlarmi dei loro problemi personali, prima di iniziare a parlare di questioni professionali. Tutti sono disperati. Non possono godersi nulla.

Non c’è da stupirsi se il sesso diventa un’ossessione. È forse l’unico godimento disponibile. L’unica vitalità che possono provare.

Penso che si impegnino nel sesso non per divertimento ma come valvola di sfogo. Per loro, la sessualità è connessa alla speranza. Con tutta la morte e i simboli di morte da cui sono circondati, questa è la vita. È impossibile capire veramente cosa stia succedendo a Gaza, impossibile capire cosa stia realmente succedendo nella psiche delle persone. Persino io, che ho a che fare con la salute mentale, non riesco davvero a capire cosa pensano e sentono.

È come la trama di un libro o di un film distopico, o come uno spaventoso esperimento sociale. Una società totalmente isolata che vive in condizioni orribili, senza energia elettrica, tra rovine, sotto un governo dittatoriale. Cosa tiene unita questa società?

Niente. Sono alle prese con una lotta interna. Un tempo ciò che li univa era la sensazione di essere tutti sulla stessa barca: tutti soffrivano del blocco [imposto da Israele], dagli attacchi israeliani. C’era un senso di destino condiviso. Quello non esiste più. Si incolpano l’un l’altro per la situazione, litigano, si arrabbiano; è davvero il caos. L’unica cosa che si può dire sia un fattore organizzativo è il regime.

Quindi il regime dispotico di Gaza è l’ultima barriera al collasso totale? Questo è il blocco?

Sfortunatamente sì. Se non esistesse, ci sarebbe il crimine, e solo il crimine, in continuazione.

Che tipo di persona è prodotta da una società come questa?

Un malato, nella mente.

Tutti?

Tutti a Gaza sono malati nella mente. Quando le persone sono malate nella mente il risultato può essere un serio disturbo psichico. Persone con disturbi che non sono trattati – e non sono trattati – sono capaci di tutto.

È una società in cui tutto è permesso?

Tutto è permesso e tutto è proibito. Posso fare tutto ciò che voglio, purché le persone non sappiano cosa sto facendo.

È come un pensiero criminale: tutto è permesso e l’unica cosa importante è non farsi prendere.

Sì. Sai, avere relazioni extraconiugali è proibito. È assolutamente proibito, per legge, che un uomo e una donna siano visti insieme la sera se non sono sposati. Potrebbero finire in prigione, persino essere uccisi per quello. Tuttavia sentono di essere autorizzati a intrattenere relazioni sessuali finché gli altri non lo sanno. Semplicemente non deve essere conosciuto. Questo è ciò che è più importante nella Striscia di Gaza oggi.

Quindi sono rapporti tra complici.

Sì.

Non ci sono amicizie? Tutte le relazioni sono governate da interessi particolari?

Ognuno per sé. Lo vedo anche tra i miei colleghi. C’era solidarietà a Gaza, era una società molto coesa, con legami interpersonali sani e forti. In questi giorni le persone sono indifferenti anche ai loro migliori amici. Sentono di dover badare a se stessi e solo a se stessi. Quando una persona non ha nulla da mangiare, non può collegarsi con qualcuno che non può aiutarlo, anche se l’altro si trova nella stessa situazione. È diverso, ad esempio, dai rifugiati siriani con cui lavoro in Grecia. I rifugiati stanno solo cercando ciò che hanno in comune, vogliono stare insieme. Dieci anni fa, era così anche a Gaza. Oggi tutto questo è scomparso. Anche all’interno della famiglia non c’è aiuto reciproco. Stiamo assistendo a un tremendo, rapido crollo della società a Gaza. Potrebbe persino finire in guerra civile. Ci sono faide tra hamulot [clan] a Gaza e quelle fratture non potranno che diventare più severe.

Qual è la conclusione filosofica? Che in condizioni come questa la moralità interna scompare, si perde la propria umanità?

Le persone perdono la loro umanità. Ovviamente. C’è uno psicanalista italiano, un mio amico, Franco Dimasio, che sostiene che la vita all’interno di una lotta per la sopravvivenza ci fa perdere la nostra umanità.

Che cosa intende con il termine “umanità”?

La capacità di vedere l’altro, il suo dolore. Sarà molto difficile ripristinare l’umanità a Gaza perché sono tutti presi dalla loro sopravvivenza, sono concentrati su loro stessi. Non vedono l’altro. Essi stessi hanno perso il controllo sui propri sentimenti, il loro intero comportamento è diventato una forma di recitazione.

In altre parole, esprimono i loro sentimenti e i loro impulsi minacciosi e repressi attraverso il loro comportamento. Ciò significa comportamento aggressivo, per la maggior parte.

L’aggressività è molto presente. Le persone inveiscono costantemente l’una con l’altra. Per strada, sulle vie. A Shujaiyeh [un quartiere della città di Gaza] ho visto un’enorme lite tra hamulot, perché qualcuno aveva messo un sacco di spazzatura accanto alla porta del vicino – l’intero quartiere era eccitato. Lo vedo anche nel mio lavoro con psicologi e psichiatri nei corsi di formazione che offro. Sono sbalordito da come si comportano l’uno con l’altro. Diciamo che se qualcuno interrompe un altro o è in ritardo, immediatamente esplode in un linguaggio volgare. Con i bambini prende la forma di lotta. Tutti i bambini a Gaza hanno ferite dai colpi che danno e ricevono.

Un ragazzo a Jabalya mi ha spiegato che è violento perché viene colpito continuamente, dai suoi fratelli, dai suoi amici, dai vicini. “Quando mi vedono debole, mi colpiscono”, ha detto. “Se mi vedessero essere forte non mi colpirebbero”. Se faccio del male agli altri, sono forte. Questa è la spettacolo che è in atto. Nel mercato di Gaza scoppia una lite ogni 10 minuti, urla e colpi, la polizia arriva in pochi secondi e inizia a colpire tutti. Il che, ovviamente, è più o meno lo stesso: stanno recitando anche loro.

Inferno.

Gaza è un inferno. Penso alle bellissime spiagge di Gaza negli anni ’90. Oggi, quando inizi ad avvicinarti, senti l’odore delle fogne e vedi i cumuli di spazzatura. Nella visita più recente, una sera andai a fare una passeggiata sulla spiaggia e vidi due bambini seduti accanto a un falò, in mezzo alle pile di spazzatura. Quando ho iniziato a parlare con loro, uno di loro si è spaventato e voleva scappare. Ho dato loro 50 shekel [$ 14]. Sono stati lì a guardare la banconota. Sbalorditi. Non potevano credere di avere 50 shekel nelle loro mani. All’improvviso entrambi hanno iniziato a correre. Pochi minuti dopo, li ho visti da lontano, circondato da dozzine di altri bambini, mostrando loro la banconota, e anche gli altri bambini erano sbigottiti. Hanno chiesto loro dove erano le persone che distribuiscono i soldi? Ho pianto quando l’ho visto. Piango molto a Gaza.

È comprensibile. Come fai a sopportare gli orrori che vedi? Come si fa a tornare alla routine in Israele dopo tutto questo?

Faccio fronte a una grande quantità di dolore. O, più precisamente, cerco di far fronte a una grande quantità di dolore. I miei pensieri sono costantemente sia qua che là. Ho due bambini. Quando passo il tempo con loro ho dei flashback di bambini della stessa età di Gaza. Immagini. Voci. Contatti. E anche i corpi che ho visto. Ho visto molti corpi di bambini nelle guerre. Queste visioni mi ritornano ogni volta che qualcosa fa scattare il ricordo di qualcuno o qualcosa a Gaza.

Quindi sei anche tu in post-trauma.

Chiunque lavori con persone del genere è gravato da un post-trauma. Io investo moltissimo sforzo emotivo nel far fronte a ciò, nell’elaborare quello cui sono sottoposto. Lavoro molto la mia terra – coltivo olive, mi occupo delle api.

Credi ancora nella bontà umana?

Credo che anche le persone che subiscono traumi gravi posseggano la forza interiore per continuare a vivere, e vivere una vita migliore di quella che avevano. Se perdessi questa speranza, non potrei continuare a lavorare. Se non nutrissi la speranza che i rifugiati in Grecia possano essere riabilitati, non lavorerei con loro. Se non nutrissi la speranza che la situazione a Gaza migliorerà e che le persone abbiano la forza di cambiarla, non sarei in grado di andare avanti. Ogni volta che entro a Gaza provo quel dolore, dico a me stesso: non torno più indietro, e dopo, quando sono all’uscita, al posto di controllo di Erez, sto già programmando di tornare indietro.

(Traduzione di Angelo Stefanini)




70 anni di promesse mancate: la storia non raccontata del piano di partizione

Ramzy Baroud

22 novembre 2017, Palestine Chronicle

In un recente discorso prima del gruppo di ricerca di Chatham House [Ong britannica che si occupa di ricerche di politica internazionale, tra i più influenti al mondo, ndt.] di Londra, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha affrontato la questione dello Stato palestinese da un punto di vista astratto.

Prima di pensare alla creazione di uno Stato palestinese, ha affermato, “è tempo che noi riconsideriamo se il nostro modello di sovranità, e di sovranità illimitata, sia applicabile ovunque nel mondo.”

Non è la prima volta che Netanyahu getta discredito sull’idea di uno Stato palestinese. Nonostante le chiare intenzioni di Israele di vanificare ogni possibilità di creare un tale Stato, l’amministrazione USA di Donald Trump, a quanto sembra, sta mettendo a punto piani per un “accordo di pace definitivo.” Il New York Times suggerisce che “il piano previsto dovrà essere costruito intorno alla cosiddetta soluzione dei due Stati”.

Ma perché sprecare sforzi, quando tutte le parti in causa, compresi gli americani, sanno che Israele non ha intenzione di consentire la creazione di uno Stato palestinese e gli USA non hanno né l’influenza politica, né il desiderio, per imporla?

La risposta forse non si trova nel presente, ma nel passato.

Inizialmente uno Stato arabo palestinese era stato proposto dagli inglesi come tattica politica, per fornire una copertura giuridica alla creazione di uno Stato ebraico. Questa tattica politica continua ad essere utilizzata, anche se mai con l’obbiettivo di trovare una “giusta soluzione” al conflitto, come spesso viene propagandato. Quando, nel novembre 1917, il ministro degli Esteri britannico Arthur James Balfour promise al movimento sionista di garantire uno Stato ebraico in Palestina, l’ipotesi, in precedenza remota e poco plausibile, iniziò a prendere forma. Si sarebbe realizzata senza sforzo, se i palestinesi non si fossero ribellati.

La rivolta palestinese del 1936-1939 dimostrò un impressionante livello di consapevolezza politica collettiva e di capacità di mobilitazione, nonostante la violenza britannica.

Allora il governo britannico inviò in Palestina la Commissione Peel per analizzare le radici della violenza, nella speranza di sedare la rivolta palestinese.

Nel luglio 1937 la Commissione pubblicò il suo rapporto, che scatenò immediatamente la rabbia della popolazione nativa, che era già consapevole della collusione tra inglesi e sionisti.

La Commissione Peel concluse che “le cause sottostanti ai disordini” erano il desiderio di indipendenza dei palestinesi e il loro “odio e timore per la creazione del focolare nazionale ebraico.” Sulla base di questa analisi, raccomandava la partizione della Palestina in uno Stato ebraico ed uno Stato palestinese, quest’ultimo destinato ad essere incorporato nella Transgiordania, che era sotto il controllo britannico.

La Palestina, come altri Paesi arabi, era teoricamente pronta per l’indipendenza, in base ai termini del mandato britannico, come garantito nel 1922 dalla Società delle Nazioni. Per di più, la Commissione Peel raccomandava un’indipendenza parziale per la Palestina, diversamente dalla piena sovranità assicurata allo Stato ebraico.

Ancora più allarmante era il carattere arbitrario di quella divisione. Allora il totale della terra posseduta dagli ebrei non superava il 5,6% dell’estensione dell’intero Paese. Lo Stato ebraico avrebbe incluso le regioni più strategiche e fertili della Palestina, compresa la Galilea Fertile [nota come Bassa Galilea, ndt.] e molta parte dell’accesso al mar Mediterraneo.

Durante la rivolta furono uccisi migliaia di palestinesi, che continuavano a rifiutare la svantaggiosa spartizione e lo stratagemma britannico teso ad onorare la Dichiarazione Balfour e privare i palestinesi di uno Stato.

Per rafforzare la propria posizione, la leadership sionista cambiò rotta. Nel maggio 1942 David Ben Gurion, allora rappresentante dell’Agenzia Ebraica, partecipò a New York ad una conferenza che riuniva i dirigenti sionisti americani. Nel suo intervento chiese che l’intera Palestina divenisse un “Commonwealth ebraico.”

Un nuovo potente alleato, il presidente [americano] Harry Truman, incominciò a colmare il vuoto lasciato aperto, in quanto gli inglesi erano propensi a terminare il loro mandato in Palestina. In “Prima della loro diaspora”, Walid Khalidi scrive:

(Il Presidente USA Harry Truman) fece un passo avanti nel suo appoggio al sionismo, sostenendo un piano dell’Agenzia Ebraica per la partizione della Palestina in uno Stato ebraico ed uno Stato palestinese. Il piano prevedeva l’annessione allo Stato ebraico di circa il 60%della Palestina, in un momento in cui la proprietà ebraica della terra del Paese non superava il 7%.”

Il 29 novembre 1947, l’Assemblea Generale dell’ONU, in seguito a forti pressioni dell’amministrazione USA di Truman, approvò, coi voti favorevoli di 33 Stati membri, la Risoluzione 181 (II), che auspicava la partizione della Palestina in tre entità: uno Stato ebraico, uno Stato palestinese ed un regime di governo internazionale per Gerusalemme.

Se la proposta britannica di partizione del 1937 era già abbastanza negativa, la risoluzione dell’ONU fu motivo di totale sgomento, in quanto assegnava 5.500 miglia quadrate [circa 14.000 Km2, ndt.] allo Stato ebraico e solo 4.500 [circa 11.000 Km2, ndr.] ai palestinesi – che possedevano il 94,2% della terra e rappresentavano oltre i due terzi della popolazione.

La pulizia etnica della Palestina iniziò immediatamente dopo l’adozione del Piano di Partizione. Nel dicembre 1947 attacchi sionisti organizzati contro le zone palestinesi provocarono l’esodo di 75.000 persone. Di fatto, la Nakba palestinese – la Catastrofe – non iniziò nel 1948, ma nel 1947.

Quell’esodo di palestinesi fu congegnato attraverso il Piano Dalet (Piano D), che fu attuato per fasi e modificato per adeguarsi alle esigenze politiche. La fase finale del piano, iniziata nell’aprile 1948, comprese sei importanti operazioni. Due di esse, operazioni “Nachshon” e “Harel” , avevano lo scopo di distruggere i villaggi palestinesi all’interno e nei dintorni del confine tra Jaffa e Gerusalemme. Separando i due principali conglomerati centrali che costituivano il proposto Stato arabo palestinese, la leadership sionista intese spezzare ogni possibilità di coesione geografica palestinese. Questo continua ad essere l’obiettivo fino ad oggi.

I risultati conseguiti da Israele dopo la guerra non si attennero molto al Piano di Partizione. I territori palestinesi separati di Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme est costituivano il 22% della dimensione storica della Palestina.

Il resto è una triste storia. La carota dello Stato palestinese viene esibita di tanto in tanto proprio dalle forze che spartirono la Palestina 70 anni fa e poi collaborarono diligentemente con Israele per garantire il fallimento delle aspirazioni politiche del popolo palestinese.

Infine il discorso della partizione è stato rimodellato in quello della “soluzione dei due Stati”, propugnato negli ultimi decenni da diverse amministrazioni USA, che hanno mostrato poca sincerità nel trasformare in realtà persino un simile Stato.

Ed ora, 70 anni dopo la partizione della Palestina, esiste un solo Stato, benché governato da due diversi sistemi giuridici, che privilegia gli ebrei e discrimina i palestinesi.

Esiste già da molto tempo un solo Stato”, ha scritto il giornalista israeliano Gideon Levy in un recente articolo su Haaretz. “È giunto il momento di lanciare una battaglia sulla natura del suo regime.”

Molti palestinesi lo hanno già fatto.

Ramzy Baroud è giornalista, scrittore e redattore di Palestine Chronicle. Il suo libro in uscita è “L’ultima terra: una storia palestinese” (Pluto Press, Londra). Baroud ha un dottorato in Studi sulla Palestina all’università di Exeter ed è ricercatore ospite presso il Centro Orfalea per gli Studi globali ed internazionali dell’università Santa Barbara della California. Il suo sito web è:

www.ramzybaroud.net

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 

 




L’organo internazionale di controllo della medicina complice degli abusi israeliani

Derek Summerfield

17 novembre 2017, Electronic Intifada

Sono passati ormai 20 anni da quando Amnesty International ha sostenuto che i medici israeliani che lavorano con i servizi di sicurezza di Israele “costituiscono una parte del sistema in cui i prigionieri sono torturati, maltrattati e umiliati in modi che rendono le pratiche mediche in prigione in contrasto con l’etica medica.”

Da allora ci sono stati ripetuti tentativi – a cui il sottoscritto ha partecipato – per far sì che il cane da guardia internazionale della deontologia medica, la World Medical Association (WMA), chieda conto alla Israeli Medical Association (IMA) di queste pratiche.

Tuttavia, con il fallimento dell’ultimo tentativo l’anno scorso, e nonostante i cambiamenti della leadership negli anni, oggi si deve trarre la conclusione che, quando si tratta di Israele, la WMA non è adatta a svolgere il ruolo per cui è stata creata dopo la Seconda Guerra Mondiale.

La WMA ha il mandato si assicurarsi che le associazioni che ne fanno parte rispettino i suoi codici, in particolare la sua fondamentale dichiarazione di Tokyo del 1975 contro la tortura. Quest’ultima obbliga i medici non solo a non partecipare direttamente alla tortura, ma anche a proteggere le vittime e a pronunciarsi (contro di essa) ogniqualvolta essi vi si imbattano.

Il precedente significativo per la nostra azione contro l’associazione israeliana era l’espulsione dalla WMA della Medical Association del Sud Africa durante l’epoca dell’apartheid, precisamente per il fatto che i medici erano diventati parte di un sistema in cui la tortura era diventata routine, proprio come Amnesty International ha sostenuto essere nel caso di Israele.

Da allora, Physicians for Human Rights-Israel ha spesso affermato che, se la IMA avesse rifiutato di permettere ai medici di prestare servizio nelle unità di sicurezza dove comunemente viene praticata la tortura, la pratica sarebbe stata interrotta. La presenza dei medici in queste unità offre legittimazione morale agli interrogatori di Israele.

Azione globale

Il primo tentativo di far emergere la responsabilità della IMA è avvenuto nel 2009, quando 725 medici da 43 Paesi fecero appello alla WMA, allegando la documentazione di diversi gruppi per i diritti umani inclusi “Amnesty”, il “Public Committee Against Torture in Israel” e la coalizione “United Against Torture”. Il tentativo terminò quando divenne chiaro che l’allora presidente della WMA, Yoram Blacher, che era anche il presidente della IMA, non avrebbe preso nessuna iniziativa, ed egli rifiutò persino di attestare che aveva ricevuto l’atto.

Piuttosto che indagare su quanto veniva sostenuto nell’appello, Blachar fece causa per diffamazione a Londra contro la persona che era stata a capo della campagna nel 2009 (e che è anche l’autore di questo articolo). Abbiamo confutato l’accusa, che sosteneva che avevamo ingannato i firmatari per far loro firmare la petizione.

I firmatari ci hanno aiutato nella nostra confutazione, che ha avuto successo, assicurando agli avvocati della denuncia per diffamazione che [i firmatari] non erano affatto stati ingannati. Noam Chomsky fu tra coloro che diedero pubblicamente supporto al nostro impegno.

Il più recente di questi tentativi di dimostrare la responsabilità dell’IMA è giunto l’anno scorso, quando 71 medici inglesi hanno presentato un nuovo ricorso alla WMA. Questa volta, l’appello poggiava anche sul rapporto del 2011 di “Physicians for Human Rights-Israel,” “ Doctoring the Evidence, Abandoning the Victim: The Involvement of Medical Professionals in Torture and Ill Treatment in Israel” [“Fare il medico delle prove, abbandonare la vittima: il coinvolgimento dei professionisti della medicina nella tortura e nei maltrattamenti in Israele”], che riguardava il lavoro dei medici israeliani nelle unità della sicurezza dove la tortura dei detenuti era una regola.

Perché, chiedeva l’appello del 2016, i medici assegnati a queste unità non stavano proteggendo i prigionieri e non si stavano opponendo al loro trattamento? E perché la “Israeli Medical Association” non era intervenuta in base a questi rapporti, come avrebbe dovuto fare secondo gli standard definiti dalla “World Medical Association”?

Una speranza infranta

Questa volta speravamo che la reputazione internazionale del noto medico e accademico inglese Sir Michael Marmot, che in quel momento era presidente della WMA, avrebbe potuto avere un peso in un caso che rappresentava una critica evidente all’idea che le norme internazionali sul comportamento etico dei medici fossero sempre eque ed efficaci.

Marmot ci ha inviato una ricevuta che attestava la ricezione del ricorso (a differenza del suo predecessore), ma nel giro di pochi giorni dalla ricezione, fummo sorpresi di vedere una lettera di Marmot al “Simon Wiesenthal Center” pubblicata sul sito di quest’ultimo.

Diretta al Dottor Shimon Samuels, direttore per le relazioni internazionali del “Centro Wiesenthal”, la lettera sosteneva incredibilmente che, riguardo alle denunce del passato, le indagini non avevano rivelato alcun comportamento illecito o cattiva gestione dei casi da parte della ‘Israeli Medical Association’.”

Questo è totalmente falso. Per molti anni“Physicians for Human Rights-Israel” ha provato a far sì che la IMA facesse una tale indagine, ma ha trovato l’associazione costantemente indisponibile. In “Doctoring the Evidence” il gruppo per i diritti umani ha sostenuto nel 2011 che “Ripetuti e continui tentativi di richiamare l’attenzione della IMA sui casi che sollevavano dubbi sul coinvolgimento dei medici nella tortura e in trattamenti crudeli o degradanti, non erano stati effettivamente presi in considerazione.”

Nel 2009 la IMA si era occupata delle testimonianze di vittime di tortura raccolte nel 2007 dal “Public Committee Against Torture in Israel”, ma aveva concluso, dopo qualche telefonata, che le accuse erano prive di fondamento e falsate perché non c’erano altre prove “se non la parola dei prigionieri.” La conclusione delegittimava nei fatti a priori le lamentele dei prigionieri.

Non adatto allo scopo

La lettera di Marmot a Samuels ha in effetti regalato all’IMA una significativa vittoria propagandistica. Non solo ha fatto delle affermazioni errate: ha di fatto offerto alla IMA un’assoluzione pubblica e immediata. Pronunciata dal presidente della WMA in persona, che si suppone parli per l’intera organizzazione, questa è stata un vero successo propagandistico, ripreso da fonti mediatiche come “The Jerusalem Post”[giornale israeliano di destra, ndt.], il cui articolo è stato debitamente intitolato “La World Medical Association esprime fiducia nei medici israeliani in risposta alla campagna del BDS.”

Dopo ripetuti tentativi di far sì che la WMA imponga alla IMA il compito di un definitivo insieme di prove che dimostrino che l’establishment medico israeliano consente – nel migliore dei casi – un sistema di tortura nei confronti dei prigionieri, l’attenzione deve ora spostarsi sulla stessa WMA.

Sfortunatamente, come il caso di Israele dimostra, la WMA non sembra disposta ad agire contro soggetti con amici potenti come gli Stati Uniti. È molto meno esitante nel denunciare Stati meno potenti come l’Iran e il Bahrein, per citarne solo due.

Dobbiamo perciò concludere che l’ente medico internazionale è complice delle violazioni israeliane e che la sua presunta missione di sostenere gli standard etici in giro per il mondo è una farsa.

Questa è una cattiva notizia per i medici israeliani inseriti in ruoli eticamente compromettenti. È una notizia ancora peggiore per i prigionieri palestinesi che hanno poco che possa proteggerli.

Derek Summerfield è un medico accademico che vive a Londra, impegnato da 25 anni nelle campagne per i diritti umani in Israele/Palestina.

(Traduzione di Tamara Taher)




Rapporto OCHA del periodo 7 – 20 novembre 2017 (due settimane)

Il 17 novembre, in due episodi distinti ma consecutivi, prima all’incrocio Efrata e poi al raccordo stradale di Gush Etzion (Betlemme), un 17enne palestinese ha guidato il suo veicolo contro coloni israeliani, ferendone due; successivamente è stato colpito e gravemente ferito dai soldati israeliani.

In quest’ultima circostanza, prima di essere colpito, il giovane era uscito dall’auto e aveva tentato di accoltellare un soldato. Da ottobre 2015, presso il raccordo di Gush Etzion, si sono verificati 20 aggressioni e presunte aggressioni palestinesi che hanno causato l’uccisione di 4 israeliani e 12 palestinesi (questi ultimi, eccetto uno, tutti aggressori o presunti aggressori).

In Cisgiordania, durante scontri, 21 palestinesi, dieci dei quali minori, sono stati feriti dalle forze israeliane; in sei casi si è trattato di ferite da arma da fuoco. Gli scontri più ampi sono scoppiati durante operazioni di ricerca-arresto svolte nei villaggi di Tuqu’ (Betlemme), Deir Nidham (Ramallah), Fahma (Jenin) e Azzun (Qalqiliya); durante scontri avvenuti per gli stessi motivi nel Campo Profughi di Al Jalazun (Ramallah); durante la dimostrazione settimanale a Kafr Qaddum (Qalqiliya) ed, infine, vicino ad uno degli ingressi all’area H2 (Bab az Zawiya) della città di Hebron, a controllo israeliano.

Nella zona H2 della città di Hebron, il 9 novembre, le forze israeliane hanno lanciato lacrimogeni nel cortile di un complesso scolastico, provocando lesioni a cinque minori. Secondo fonti israeliane, il lancio di lacrimogeni è stato conseguente al lancio di pietre, effettuato dall’interno del complesso, contro veicoli di coloni israeliani. Sono stati arrestati anche due insegnanti e, per il resto della giornata, le lezioni sono state sospese per oltre 1.200 studenti. Inoltre, un 13enne palestinese, mentre tornava a casa nella zona H2, è stato aggredito fisicamente e ferito da coloni israeliani. Infine, in tre casi, presso checkpoint della zona H2, tre palestinesi, tra cui un 17enne e una donna, sono stati arrestati perché in possesso di coltelli. Negli ultimi due anni, nella città di Hebron, migliaia di palestinesi che risiedono vicino agli insediamenti colonici israeliani sono stati soggetti ad intensificate restrizioni della mobilità e ad un contesto sempre più coercitivo che prefigura il rischio di trasferimenti forzati.

Per far osservare le restrizioni di accesso alle aree [interne della Striscia di Gaza] adiacenti la recinzione perimetrale ed alle zone di pesca della costa [della Striscia di Gaza], in almeno 27 occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco verso agricoltori e pescatori; un pescatore è rimasto ferito. In due occasioni, le forze israeliane sono entrate in Gaza, vicino a Beit Lahiya e Jabalia (nella parte nord di Gaza), ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e scavi nei pressi della recinzione perimetrale.

A scopo punitivo, le autorità israeliane hanno demolito un appartamento (danneggiandone altri due) in un edificio a Beit Surik (Ramallah) ed hanno sigillato l’ampliamento di una casa a Yatta (Hebron); 11 palestinesi, tra cui sette minori, sono stati sfollati. L’appartamento apparteneva al responsabile di un attentato (settembre 2017) nel quale furono uccisi tre membri delle forze di sicurezza israeliane e lo stesso aggressore. L’ampliamento sigillato apparteneva all’autore di un attacco in cui furono uccisi quattro israeliani (giugno 2016). Dall’inizio del 2017, otto abitazioni sono state demolite o sigillate a scopo “punitivo”, provocando lo sfollamento di 44 palestinesi.

Per mancanza di permessi di costruzione, altre 17 strutture sono state demolite o sequestrate nell’Area C e a Gerusalemme Est, sfollando 49 palestinesi, tra cui 25 minori, e colpendone altri 81. Undici delle strutture prese di mira (tutte non abitative, tranne una) erano in Gerusalemme Est. Tre di queste sono state demolite dai proprietari per evitare multe. Le restanti sei strutture si trovavano in tre comunità parzialmente o totalmente situate in Area C, tra cui i villaggi Ni’lin (Ramallah), Al Jiftlik ash Shuneh e Frush Beit Dajan: questi due ultimi si trovano nella Valle del Giordano.

L’esercito israeliano ha emesso ordinanze militari che circoscrivono le aree in cui vivono tre comunità pastorali palestinesi; su tali aree ha imposto la “rimozione di tutte le proprietà”. Le comunità colpite sono: Ein al Hilwe e Um al Jmal, nel nord della Valle del Giordano, e Jabal al Baba, nel governatorato di Gerusalemme. Quest’ultima si trova nella zona inclusa nel piano di insediamento E1, progettato per collegare [l’insediamento colonico di] Ma’ale Adumim a Gerusalemme. Come conseguenza degli ordini di cui sopra, un totale di 520 strutture, tra cui 130 precedentemente fornite come aiuto umanitario, sono a rischio di distruzione o di sequestro e 419 persone, metà circa delle quali minori, sono ad elevato rischio di trasferimento forzato.

Il 10 novembre, e fino alla fine del periodo di riferimento di questo Rapporto, l’esercito israeliano ha bloccato tre delle quattro strade sterrate che collegano 12 comunità della parte meridionale di Hebron (Massafer Yatta) al resto della Cisgiordania. Di conseguenza è stato sconvolto l’accesso ai servizi e ai mezzi di sostentamento di circa 1.400 palestinesi, costretti a lunghe deviazioni. Questa zona è stata destinata [da Israele] all’addestramento militare e designata come “zona per esercitazioni a fuoco”, mettendo i residenti a rischio di trasferimento forzato.

Nel contesto della raccolta delle olive (ancora in corso), sono stati registrati tre episodi che hanno avuto coloni come protagonisti. In uno di questi, un gruppo di coloni israeliani ha attaccato contadini del villaggio di Urif (Nablus), ferendone due, colpiti alla testa con pietre. Gli agricoltori, che avevano ricevuto dalle autorità israeliane un’autorizzazione speciale, stavano raccogliendo le loro olive vicino all’insediamento di Yitzhar; dopo questo episodio, altre 40 famiglie che lavoravano nella zona hanno ricevuto l’ordine di andarsene. Negli altri due episodi, è stato riferito che coloni hanno raccolto le olive di alberi appartenenti ad agricoltori di Burin, anch’essi vicino a Yitzhar, ed hanno rubato un asino appartenente a contadini del villaggio di Jit (Qalqiliya). Sono stati segnalati ulteriori episodi di lancio di pietre da parte di coloni contro agricoltori palestinesi.

Gruppi di coloni israeliani sono entrati, sotto la protezione delle forze israeliane, in siti religiosi che si trovano in aree palestinesi, scatenando scontri che si sono conclusi senza feriti. I siti interessati includevano il complesso Haram ash Sharif / Monte del Tempio a Gerusalemme Est ed altri due siti: nell’area H1 della città di Hebron e nel villaggio di Halhul (Hebron).

Secondo resoconti di media israeliani, nella Città Vecchia di Gerusalemme e su strade vicino a Sinjil e Deir Nidham (entrambi in Ramallah), Tuqu’ (Betlemme) e il Campo Profughi di Al ‘Arrub (Hebron) tre coloni israeliani, tra cui una donna, sono rimasti feriti e diversi veicoli sono stati danneggiati, a causa del lancio di pietre da parte di palestinesi.

Nella Striscia di Gaza, il valico di Rafah, sul lato controllato dall’Egitto, è stato eccezionalmente aperto per tre giorni (18-20 novembre) per casi umanitari urgenti, consentendo a 3.837 persone di attraversare in entrambe le direzioni. Questa è la prima volta, dal giugno 2007, che il lato del valico di pertinenza della Striscia di Gaza viene gestito da personale dell’Autorità Palestinese; il 1° novembre ne ha infatti assunto il controllo in base all’accordo di riconciliazione tra Fatah e Hamas. Il valico è stato ufficialmente chiuso dal 24 ottobre 2014; per specifiche categorie di persone sono state consentite aperture sporadiche. Dall’inizio del 2017 i giorni di apertura sono stati 31.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it

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Perché la Palestina è ancora il problema

John Pilger

18 settembre 2017,Defend Democracy Press

Quando andai per la prima volta in Palestina come giovane reporter negli anni ’60, soggiornai in un kibbutz. Le persone che incontrai erano grandi lavoratori, coraggiosi e si definivano socialisti. Mi piacevano.

Una sera a cena domandai chi fossero le figure che si vedevano in lontananza, al di là dell’area (del nostro kibbutz).

Arabi”, mi dissero, “nomadi”. Le parole vennero quasi sputate. Israele, dissero, intendendo la Palestina, era per la maggior parte una terra deserta e una delle grandi opere dell’impresa sionista è stata rendere verde il deserto.

Portarono ad esempio il loro raccolto di arance di Jaffa, che veniva esportato nel resto del mondo. Che grande vittoria sulle bizzarrie della natura e l’incuria degli uomini.

Fu la prima menzogna. La maggior parte degli aranceti e dei vigneti appartenevano a palestinesi che avevano coltivato la terra ed esportato arance ed uva in Europa fin dal diciottesimo secolo. L’ex città palestinese di Jaffa veniva chiamata dai precedenti abitanti come “il posto delle arance tristi”.

Nel kibbutz il termine “palestinese” non veniva mai pronunciato. Chiesi il perché. La risposta fu un silenzio imbarazzato.

In tutto il mondo colonialista, la vera sovranità del popolo autoctono fa paura a coloro che non possono mai nascondere del tutto il fatto, ed il crimine, che vivono su una terra rubata.

La negazione dell’umanità della popolazione è il passo successivo – come il popolo ebraico sa fin troppo bene. Infamare la dignità, la cultura e l’orgoglio del popolo viene di conseguenza, in modo altrettanto logico della violenza.

A Ramallah, dopo un’invasione della Cisgiordania da parte del defunto Ariel Sharon nel 2002, camminavo attraverso strade costellate da automobili sfasciate e case demolite, verso il “Centro Culturale Palestinese”. Fino a quel mattino i soldati erano accampati là.

Mi accolse la direttrice del Centro, la scrittrice Liana Badr, i cui manoscritti originali erano sparsi e a pezzi sul pavimento. Il disco rigido contenente il suo romanzo ed una raccolta di racconti e poesie erano stati portati via dai soldati israeliani. Quasi ogni cosa era in frantumi e insudiciata.

Neanche un libro era rimasto integro; neanche una bobina di una delle migliori collezioni del cinema palestinese.

I soldati avevano urinato e defecato sui pavimenti, sui tavoli, sui ricami e i manufatti artistici. Avevano imbrattato di escrementi i dipinti dei bambini e avevano scritto – con le feci – “Nato per uccidere”.

Liana Badr aveva gli occhi pieni di lacrime, ma la schiena dritta. “Lo rimetteremo a posto di nuovo”, disse.

Ciò che fa imbestialire quelli che colonizzano ed occupano, rubano ed opprimono, vandalizzano e violano, è il rifiuto delle vittime di piegarsi. E questo è il prezzo che tutti noi dobbiamo pagare ai palestinesi. Il rifiuto di sottomettersi. Loro tirano dritto. Aspettano – finché ricominceranno la lotta. E fanno così anche quando chi li governa collabora con i loro oppressori.

Nel mezzo dei bombardamenti israeliani su Gaza del 2014, il giornalista palestinese Mohammed Omer non ha mai smesso di scrivere. Lui e la sua famiglia erano stati danneggiati; lui faceva la coda per il cibo e l’acqua e li trasportava attraverso le macerie. Quando gli telefonavo potevo sentire le bombe fuori dalla sua porta. Si è rifiutato di arrendersi.

Gli articoli di Mohammed, accompagnati dalle sue fotografie, sono stati un esempio di giornalismo professionale che faceva vergognare il giornalismo corrivo e codardo del cosiddetto ‘mainstream’ britannico e statunitense. Il concetto di obbiettività della BBC – che diffonde le falsità e le menzogne dell’autorità, prassi di cui si fa vanto – viene quotidianamente confutato da gente come Mohammed Omer.

Per oltre 40 anni ho constatato il rifiuto del popolo palestinese di piegarsi ai suoi oppressori: Israele, Stati Uniti, Gran Bretagna, Unione Europea.

Dal 2008 la sola Gran Bretagna ha assicurato licenze di esportazione di armi e missili, droni e fucili di precisione verso Israele per un valore di 434 milioni di sterline.

Quelli che hanno resistito a questo, senza armi, quelli che hanno rifiutato di piegarsi, sono tra i palestinesi che ho avuto il privilegio di conoscere:

Il mio amico, il defunto Mohammed Jarella, che lavorava per l’agenzia delle Nazioni Unite UNRWA [per i rifugiati palestinesi, ndt.], nel 1967 mi ha mostrato per la prima volta un campo profughi palestinese. Era un gelido giorno d’inverno e gli scolari tremavano di freddo. “Un giorno….”, diceva. “Un giorno…”

Mustafa Barghouti, la cui eloquenza rimane intatta, ha descritto lo spirito di tolleranza che c’era in Palestina tra ebrei, musulmani e cristiani fino a quando, come mi disse, “I sionisti pretesero uno Stato a spese dei palestinesi.”

La dottoressa Mona El-Farra, medico a Gaza, la cui passione era raccogliere denaro per la chirurgia plastica per i bambini sfigurati dalle pallottole e dalle granate israeliane. Il suo ospedale è stato raso al suolo dalle bombe israeliane nel 2014.

Il dottor Khalid Dahlan, psichiatra, i cui ambulatori per bambini a Gaza – bambini resi quasi pazzi dalla violenza israeliana – erano oasi di civiltà.

Fatima e Nasser sono una coppia la cui casa si trovava in un villaggio vicino a Gerusalemme, designato come “Zona A e B”, che significava che la terra era destinata ai soli ebrei. I loro genitori avevano vissuto là; i loro nonni avevano vissuto là. Oggi i bulldozer spianano strade per soli ebrei, protetti da leggi per soli ebrei.

Era passata la mezzanotte quando Fatima iniziò il travaglio del suo secondo figlio. Il bimbo era prematuro; quando arrivarono ad un checkpoint in vista dell’ospedale, il giovane israeliano disse che c’era bisogno di un altro documento.

Fatima stava perdendo molto sangue. Il soldato rideva e imitava i suoi gemiti e disse loro: ”Andatevene a casa”. Il bambino nacque là in un camion. Era cianotico per il freddo e in breve, senza cure, morì assiderato. Il suo nome era Sultan.

Per i palestinesi, queste storie sono consuete. La domanda è: perché non lo sono a Londra e Washington, a Bruxelles e Sydney?

In Siria una recente campagna progressista– una campagna di George Clooney – viene lautamente finanziata in Gran Bretagna e Stati Uniti, anche se i beneficiari, i cosiddetti ribelli, sono capeggiati da jihadisti fanatici, il prodotto dell’invasione di Afghanistan e Iraq e della distruzione della moderna Libia.

E ancora, non viene riconosciuta la più lunga occupazione dell’epoca moderna. Quando le Nazioni Unite improvvisamente si risvegliano e definiscono Israele uno Stato di apartheid, come hanno fatto quest’anno, si grida allo scandalo – non contro uno Stato il cui “obiettivo fondamentale” è il razzismo, ma contro una commissione dell’ONU che ha osato rompere il silenzio.

La Palestina”, ha detto Nelson Mandela, “è la più grande questione morale dei nostri tempi.”

Perché questa verità è negata, giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno?

Su Israele – lo Stato di apartheid, colpevole di un crimine contro l’umanità e di violazioni del diritto internazionale più numerose di qualunque altro Stato – persiste il silenzio tra coloro che sanno ed il cui compito è di dire come stanno effettivamente le cose.

Riguardo a Israele, moltissimi giornalisti vengono intimiditi e controllati da un pensiero unico che chiede silenzio sulla Palestina, mentre il giornalismo onesto è diventato dissidenza: un metaforico movimento clandestino.

Una sola parola – “conflitto” – consente questo silenzio. “Il conflitto arabo-israeliano”, scandiscono i robot nelle loro suggestioni televisive. Quando un reporter della BBC di lunga esperienza, uno che conosce la verità, parla di “due narrazioni”, la distorsione morale è completa.

Non c’è un conflitto, non ci sono due narrazioni, con un proprio fulcro etico. C’è un’occupazione militare messa in atto da una potenza nucleare appoggiata dal potere militare più grande al mondo; e c’è un’enorme ingiustizia.

Il termine “occupazione” può essere bandito, cancellato dal vocabolario. Ma la memoria della verità storica non può essere cancellata: quella della sistematica espulsione dei palestinesi dalla loro patria. Gli israeliani nel 1948 l’hanno chiamata “Piano D”.

Lo storico israeliano Benny Morris racconta di quando uno dei suoi generali domandò a Ben-Gurion, il primo capo del governo israeliano: “Che cosa dobbiamo fare degli arabi?”

Il Primo Ministro, ha scritto Morris, “fece uno sprezzante e vigoroso gesto con la mano”. “Espelleteli!” disse.

Settant’anni dopo, questo crimine è sparito dalla cultura intellettuale e politica dell’Occidente. Oppure è opinabile, o semplicemente controverso. Giornalisti ben pagati accettano volentieri i viaggi, l’ospitalità e le lusinghe offerti dal governo israeliano, poi sono durissimi nel professare la propria indipendenza. Il termine “utili idioti” è stato coniato per loro.

Nel 2011 mi ha colpito la leggerezza con cui uno dei più famosi scrittori britannici, Ian McEwan, un uomo intriso dell’alone di illuminismo borghese, ha accettato il Jerusalem Prize per la letteratura nello Stato dell’apartheid.

McEwan sarebbe andato a Sun City nel Sudafrica dell’apartheid? Anche là attribuivano premi, con tutte le spese pagate. McEwan giustificò il suo comportamento con parole evasive circa l’indipendenza della “società civile”.

La propaganda – del tipo che McEwan ha espresso, con la sua simbolica tirata d’orecchi per i suoi deliziati ospiti – è un’arma in mano agli oppressori della Palestina. Come lo zucchero, oggi permea quasi ogni cosa.

Il nostro compito più importante è comprendere e decostruire la propaganda statale e culturale. Stiamo andando velocemente verso una seconda guerra fredda, il cui scopo finale è sottomettere e balcanizzare la Russia e intimidire la Cina.

Quando Donald Trump e Vladimir Putin hanno parlato in privato per oltre due ore al meeting del G20 di Amburgo, apparentemente della necessità di non entrare in guerra tra loro, gli oppositori più accesi sono stati quelli che si sono appropriati del liberismo, come il commentatore politico sionista del Guardian.

Non c’è da stupirsi che Putin sorridesse ad Amburgo”, ha scritto Jonathan Freedland. “Sa di aver raggiunto il suo principale obbiettivo: ha reso l’America di nuovo debole.”

Questi propagandisti non hanno mai conosciuto la guerra, ma amano il gioco imperialista della guerra. Ciò che McEwan chiama “società civile” è diventata una ricca fonte di propaganda ad esso connessa.

Prendete un termine spesso usato dai tutori della società civile – “diritti umani”. Come un altro nobile concetto, “democrazia”, “diritti umani” è stato semplicemente svuotato del suo significato e del suo scopo.

Così come il “processo di pace” e la “road map”, i diritti umani in Palestina sono stati sequestrati dai governi occidentali e dalle ONG da loro finanziate, che si arrogano un’utopica autorità morale.

Perciò quando Israele viene richiamata da governi ed ONG a “rispettare i diritti umani” in Palestina, non succede niente, perché tutti sanno che non c’è niente da temere; niente cambierà.

Notate il silenzio dell’Unione Europea, che accontenta Israele mentre rifiuta di mantenere gli impegni verso la popolazione di Gaza – come mantenere aperto il varco del confine di Rafah: una misura concordata come parte del suo ruolo nel cessate il fuoco del 2014. [Il progetto di] un porto marittimo per Gaza – concordato da Bruxelles nel 2014 – è stato abbandonato.

La commissione dell’ONU di cui ho parlato – il suo nome esatto è Commissione Economica e Sociale delle Nazioni Unite per l’Asia occidentale – ha descritto Israele come, e cito testualmente, “finalizzato all’obiettivo fondamentale” della discriminazione razziale.

Milioni di persone lo capiscono. Ciò che i governi a Londra, Washington, Bruxelles e Tel Aviv non possono controllare è che l’opinione pubblica sta cambiando, forse come mai prima d’ora.

La gente ovunque si sta risvegliando ed è più consapevole, secondo me, di quanto lo sia mai stata prima d’ora. Alcuni sono già apertamente in rivolta. L’atrocità della Grenfell Tower [grattacielo con appartamenti popolari bruciato il 14 giugno 2017, ndt.] di Londra ha unificato la collettività in una attiva resistenza praticamente in tutta la Nazione.

Grazie ad una campagna popolare, la magistratura sta ora esaminando le prove di una possibile imputazione contro Tony Blair per crimini di guerra. Anche se questo non avverrà, si tratta di un importante sviluppo, che elimina un’ ulteriore barriera tra l’opinione pubblica ed il riconoscimento della natura vorace dei crimini del potere statale – il sistematico disprezzo dell’umanità perpetrato in Iraq, alla Grenfell Tower, in Palestina. Questi sono i punti che attendono di essere uniti.

Per la maggior parte del XXI secolo, l’imbroglio del potere delle imprese camuffato da democrazia ha poggiato sulla propaganda del diversivo: soprattutto su un culto dell’individualismo finalizzato a disorientare la nostra capacità di guardare agli altri e di agire insieme, il nostro senso di giustizia sociale e di internazionalismo.

Classe, genere e razza sono stati separati. Il personale è diventato politico e i media sono diventati il messaggio. La promozione dei privilegi borghesi è stata presentata come politica “progressista”. Non lo era. Non lo è mai stata. E’ la valorizzazione del privilegio e del potere.

Tra i giovani l’internazionalismo ha trovato una nuova vasta platea. Guardate l’appoggio a Jeremy Corbin e l’attenzione che ha ricevuto il G20 ad Amburgo. Se comprendiamo la verità e gli imperativi dell’internazionalismo, e rifiutiamo il colonialismo, comprendiamo la lotta della Palestina.

Mandela lo ha espresso così: “Sappiamo fin troppo bene che la nostra libertà è incompleta senza la libertà dei palestinesi.”

Il cuore del Medio Oriente è la storica ingiustizia in Palestina. Finché questa non venga risolta e i palestinesi abbiano la loro libertà e la loro patria e ci sia eguaglianza di fronte alla legge tra israeliani e palestinesi, non vi sarà pace nella regione, o forse in nessun luogo.

Ciò che Mandela diceva è che la libertà stessa è precaria finché i governi potenti possono negare la giustizia ad altri, terrorizzarli, imprigionarli ed ucciderli, in nostro nome. Certamente Israele comprende il rischio che un giorno potrebbe dover essere normale.

Ecco perché il suo ambasciatore in Gran Bretagna è Mark Regev, ben noto ai giornalisti come propagandista di professione, e perché il “grande bluff” delle accuse di antisemitismo, come lo ha definito Ilan Pappe, ha potuto sconvolgere il partito laburista e indebolire Jeremy Corbin come leader. Il punto è che non ci è riuscito.

I fatti procedono in fretta adesso. La notevole campagna per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) sta funzionando, ogni giorno di più; città e comuni, sindacati e organismi studenteschi la stanno supportando. Il tentativo del governo britannico di impedire agli enti locali di sostenere il BDS è stato sconfitto nei tribunali.

Queste non sono parole al vento. Quando i palestinesi si solleveranno di nuovo, e lo faranno, potrebbero non vincere subito – ma alla fine vinceranno, se noi comprendiamo che loro sono noi, e noi siamo loro.

Questa è una versione ridotta dell’intervento di John Pilger al Palestinian Expo di Londra l’8 luglio 2017.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Le forze israeliane mandano avvisi di sgombero a 300 palestinesi in un villaggio beduino

Ma’an News

17 novembre 2017

BETLEMME (Ma’an) – Secondo l’agenzia di informazioni Wafa, di proprietà dell’ANP, venerdì le autorità israeliane avrebbero distribuito avvisi di sgombero a tutti i 300 palestinesi residenti nel villaggio beduino di Jabal al-Baba, nel distretto centrale di Gerusalemme della Cisgiordania occupata.

La Wafa ha riferito che il personale dell’amministrazione civile israeliana, spalleggiato dall’esercito israeliano, avrebbe preso d’assalto il villaggio ed ordinato ai suoi abitanti di lasciare le proprie case.

Secondo la Wafa, Jabal al-Baba comprende 100 edifici, 58 dei quali sono case, mentre i restanti sono strutture per uso agricolo. “Poiché la comunità non è riconosciuta, la popolazione di Jabal al-Baba vive senza elettricità e riceve acqua solo da camion cisterna”, ha detto Wafa.

Negli ultimi anni le forze israeliane hanno demolito decine di case nella zona di Jabal al-Baba, molte delle quali costruite con l’aiuto dell’UE e di organizzazioni umanitarie.

In agosto hanno demolito un asilo infantile del villaggio.

La collina è popolata da circa 55 famiglie di beduini che hanno vissuto nella zona per 65 anni e sono costantemente minacciate di espulsione dalle loro case.

Circa 90 beduini palestinesi, in maggioranza bambini, sono rimasti senza casa quando, nel maggio 2016, le forze israeliane hanno smantellato le case prefabbricate donate dall’UE a Jamal al-Baba.

Jamal al-Baba, come altre comunità beduine della regione, è minacciata da Israele di espulsione forzata per il fatto di essere situata nel conteso “corridoio E1”, creato dal governo israeliano per collegare Gerusalemme est annessa con la grande colonia di Maale Adumim.

Le autorità israeliane pianificano di costruire nell’area E1 migliaia di case per colonie di soli ebrei , il che dividerebbe di fatto la Cisgiordania e renderebbe quasi impossibile la creazione di uno Stato palestinese contiguo – come ipotizzato dalla soluzione di due Stati al conflitto israelo-palestinese.

Le associazioni per i diritti umani e membri della comunità beduina hanno aspramente criticato i piani israeliani di ricollocazione dei beduini residenti vicino alla colonia israeliana illegale di Maale Adumim, sostenendo che lo sgombero espellerebbe palestinesi autoctoni in favore dell’espansione delle colonie israeliane in tutta la Cisgiordania occupata, in violazione del diritto internazionale.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Israele sta per tagliare l’approvvigionamento idrico a un villaggio palestinese al fine di prendere possesso dei terreni agricoli

Nir Hasson 16 novembre, 2017, Haaretz

Dopo che un checkpoint verrà posto più in profondità nell’area palestinese, i residenti di Al Walaja non potranno più accedere alla locale sorgente o ai loro campi [posti] al di là del posto di controllo.

Israele ha comunicato ai residenti del villaggio palestinese al-Walaja, a sud di Gerusalemme, che saranno tagliati fuori dai loro terreni e dai terrazzamenti coltivati a causa del riposizionamento di un checkpoint, trasferendo un’ampia porzione di terreno dal lato palestinese a quello israeliano.

Nel piano regolatore del distretto di Gerusalemme si afferma che il checkpoint Ein Yael sulla strada tra Gerusalemme e Har Gilo venga spostato più in profondità all’interno dell’area palestinese, che diventerà parte del parco metropolitano di Gerusalemme.

Questo territorio comprende Ein Hanya, la seconda più grande sorgente delle colline della Giudea [come gli israeliani chiamano parte della Cisgiordania ndt]; ai residenti di al-Walaja il luogo offre anche svago, bagni e acqua per il bestiame. Le famiglie palestinesi regolarmente si recano anche da molto lontano in Cisgiordania, come da Beit Jala e da Betlemme, alla sorgente e alle due profonde piscine della zona per fare il bagno e picnic.

Parte di al-Walaja cade sotto la giurisdizione di Gerusalemme, ma la recente ultimazione della barriera di separazione ha tagliato fuori completamente il villaggio da Gerusalemme. La barriera separa anche il villaggio da vaste aree agricole possedute dai residenti.

L’Autorità israeliana per le Antichità e quella per lo sviluppo di Gerusalemme hanno già iniziato i lavori di ristrutturazione della sorgente e dell’area circostante. Ora hanno programmato di circondare la sorgente con una rete, di costruire un centro per i visitatori e un ristorante, trasformandolo in uno degli ingressi del parco metropolitano di Gerusalemme, che confina a sud e a ovest con la capitale [Gerusalemme, annessa illegalmente, non è riconosciuta da nessun Paese della comunità internazionale come capitale di Israele, ndt].

Due giorni fa i residenti di al-Walaja hanno ricevuto una lettera che li informava dello spostamento del checkpoint più vicino al loro villaggio, circa due chilometri e mezzo all’interno del territorio palestinese. Attualmente esso è posto nei pressi dell’uscita da Gerusalemme, ad appena un chilometro e mezzo dal centro commerciale Malha.

Una volta spostato il checkpoint, ai palestinesi senza i documenti di residenza a Gerusalemme non verrà permesso il passaggio. Non potranno accedere all’area della sorgente o ai loro terreni e ai terrazzamenti al di là del posto di controllo. Agli abitanti sono stati dati 15 giorni per presentare un ricorso contro la decisione.

Paradossalmente, i terrazzamenti ben curati attentamente sistemati che gli agricoltori di al-Walaja hanno coltivato per anni sono stati una delle ragioni date dalle autorità israeliane per istituire il parco in quella zona. Ciononostante, una volta spostato il checkpoint, ai contadini verrà negato l’accesso.

Le scale in pietra sono una delle caratteristiche rilevanti del parco. Questo paesaggio ha caratterizzato le colline per più di 5000 anni, fin da quando l’uomo ha cominciato a coltivare la terra. Le coltivazioni dei terrazzamenti sono state salvaguardate nei villaggi arabi fino alla guerra dell’indipendenza” [cioè la guerra tra sionisti e Paesi arabi del maggio 1948, che comportò l’espulsione dal territorio di quello che diventò lo Stato di Israele la cacciata di circa 750.000 palestinesi e la distruzione di 500 villaggi, ndt] è scritto nel depliant del parco.

Aviv Tatarsky, un ricercatore di “Ir Amim”, un’associazione no profit [israeliana]che propone una Gerusalemme sostenibile e più giusta, ha detto “lo spostamento del checkpoint è un altro passo del piano del ministro dell ‘ambiente Zeev Elkin per porre al-Walaja e i rimanenti quartieri al di là della barriera di separazione fuori dal confine di Gerusalemme. Nella Gerusalemme di Elkin gli israeliani passeggeranno tra i meravigliosi terrazzamenti, creati e accuditi dagli abitanti di al-Walaja, con i proprietari bloccati poche decine di metri dietro una barriera con il filo spinato, impossibilitati ad accedere ai terreni che gli sono stati rubati.

Questa è la visione del governo di destra: invece di pace e giustizia, barriere e una brutale oppressione in continuo aumento” ha detto .

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




L’esercito israeliano si prepara a demolire centinaia di case palestinesi nel nord della Valle del Giordano

Amira Hass, 12 novembre 2017,Haaretz

E’ la prima volta che l’esercito utilizza un’ordinanza di sgombero contro i palestinesi basata su un ordine militare diretto a consentire l’evacuazione di insediamenti [israeliani] non autorizzati.

L’esercito ha ordinato a circa 300 palestinesi, che per decenni hanno vissuto nel nord della Valle del Giordano, di portare via dalla zona ogni loro proprietà – il che viene interpretato come un ordine di evacuazione e demolizione delle case.

A giudicare dalla risposta dell’esercito ad Haaretz, esso ha cambiato la sua posizione in seguito ad un’obiezione avanzata dall’avvocato degli abitanti.

E’ la prima volta che l’esercito utilizza un’ordinanza di sgombero contro i palestinesi basata su un ordine militare diretto a permettere l’evacuazione di avamposti di insediamenti [israeliani] non autorizzati. L’ordine in questione è noto come “ordine relativo a costruzioni non autorizzate.”

L’ordine non è stato consegnato a nessuno dei palestinesi colpiti dal provvedimento. Invece, giovedì mattina i soldati lo hanno semplicemente lasciato in strada accanto alle loro case, situate vicino al villaggio di Al-Maleh.

L’avviso, in data primo novembre, è stato firmato dal comandante dell’esercito israeliano in Cisgiordania, general maggiore Roni Numa. Conosciuto ufficialmente come “dichiarazione di terreno delimitato”, fa divieto a chiunque di entrare nell’area specificata con lo scopo di costruirvi ed ordina la rimozione di ogni proprietà dall’area entro otto giorni dalla data in cui è stato reso noto l’avviso.

L’ordine non specifica quante persone verranno sgomberate né fornisce i loro nomi. Ma, considerando la mappa allegata, riguarda un’area di circa 550 dunams ( 55 ettari) in cui vivono circa 300 palestinesi in due comunità di pastori, Ein al-Hilweh e Umm Jamal. Entrambi i villaggi rientrano nella giurisdizione del consiglio rurale di Al-Maleh.

I pastori allevano circa 4.000 pecore, 200 cammelli e 600 mucche. Tutta la terra in questione è proprietà privata di palestinesi o appartiene alla chiesa cattolica.

L’ “ordine relativo alle costruzioni non autorizzate”, sul quale si basa l’avviso di sgombero, sancisce al paragrafo 6 (b) che non si applica a “chiunque sia registrato nell’anagrafe dell’area”, intendendo i residenti palestinesi della Cisgiordania.

Perciò l’avvocato Tawfique Jabareen di Umm al-Fahm, che rappresenta gli abitanti, sostiene che l’avviso di sgombero non ha valore legale e non è valido. Questa è la sostanza dell’obiezione che ha presentato sabato mattina al comandante militare tramite il consulente legale di quest’ultimo.

Jabareen ha anche affermato che l’ordine non era stato consegnato ai residenti interessati, ma è stato semplicemente lasciato nella zona otto giorni dopo essere stato firmato. “ Ad un primo esame, è stata un’azione in malafede, dietro alla quale si nasconde l’intenzione di negare ai residenti palestinesi il loro diritto ad un’udienza o a presentare opposizione sia contro l’ordine che contro la dichiarazione”, ha scritto.

Come ha detto Jabareen, “Questo è un ordine di espulsione di massa contro la popolazione palestinese, che viola il diritto internazionale.”

Da parte sua, il Coordinatore israeliano delle Attività Governative nei Territori [palestinesi occupati, ndt.] ha dichiarato: “Il 9 novembre 2017 sono stati inviati gli ordini come parte dei tentativi di applicazione di misure contro le costruzioni illegali nel luogo. Gli ordini sono stati notificati secondo il protocollo, inclusa la consegna fisica nel luogo a cui l’ordine si riferisce. Il nuovo ordine è rivolto alle strutture costruite illegalmente, non alla presenza nel luogo.”

Tuttavia il COGAT non ha stabilito dove potrebbe andare la gente che vive là se le strutture venissero demolite. E nemmeno ha risposto alla domanda di Haaretz su quante persone sarebbero interessate dall’ordine.

Venerdì i residenti di Ein al-Hilweh hanno detto che circa due settimane fa nelle loro capanne si sono presentati dei soldati chiedendo di vedere le loro carte di identità, senza dare spiegazioni.

I soldati hanno anche usato un drone per scattare fotografie aeree delle comunità. Compilare elenchi di carte di identità e fare fotografie sono iniziative che spesso precedono gli sgomberi e le demolizioni da parte dell’esercito israeliano e della sua Amministrazione Civile in Cisgiordania, anche se i residenti hanno detto di non aver visto questa volta nessun addetto dell’Amministrazione Civile.

Nabil Daragmeh ha detto a Haaretz di aver visto giovedì scorso dei soldati che mettevano qualcosa sotto un masso sulla strada di fronte alla collina dove lui vive. Li ha anche visti fotografare quello che avevano lasciato sulla strada. Dopo che se ne sono andati, è andato a vedere che cosa fosse.

Ha trovato un ordine in ebraico firmato e datato, un altro ordine in ebraico senza firma né data ed un terzo ordine in arabo anch’esso senza firma né data. Lo ha immediatamente comunicato agli altri abitanti, che erano spaventati e confusi.

Queste comunità di pastori hanno vissuto nella zona per decenni, ma Israele non permette loro di collegarsi alle infrastrutture o di aggiungere nuove case ed edifici pubblici in base alla crescita della popolazione ed alle mutate necessità.

Israele ha anche usato il proprio controllo sull’anagrafe palestinese per impedire all’Autorità Nazionale Palestinese di avere un elenco dei villaggi dei pastori in base alla riga relativa alla residenza delle loro carte di identità. Ribadisce invece che la loro città di residenza figura come Bardala, Ein al-Beida o qualche altro villaggio.

Ordini di sgombero, demolizione e sequestro di beni sono stati emessi contro i residenti per anni, ma mai contro tutti contemporaneamente né mai sulla base di un “ordine relativo a costruzioni non autorizzate.”

Nel 2008, nel tentativo di ovviare alla carenza di abitazioni per i residenti, la FAO ha costruito per loro strutture in metallo, finanziate dal Giappone. Nella sua lettera al comandante militare, Jabareen ha scritto che il Giappone e le Nazioni Unite non avrebbero costruito quelle strutture senza il permesso dell’Amministrazione Civile e che quel permesso era stato effettivamente concesso. Ma ha detto che in seguito l’amministrazione ha revocato il suo consenso.

“Negli ultimi anni molte famiglie hanno ripetutamente costruito illegalmente nell’area. Chiunque ritenga di essere ingiustamente colpito dall’ordinanza può rivolgersi alle autorità entro otto giorni”, ha aggiunto il COGAT.

“Relativamente ad alcune delle strutture, le autorità stanno esaminando i ricorsi (da parte dei proprietari). Riguardo ad esse, non verrà attuata nessuna misura finché l’esame non sarà completato.”

Su una collina ad est dell’area destinata allo sgombero c’è la colonia di Maskiot. Nel 2005 vi è arrivato un flusso di coloni [israeliani] che erano stati evacuati dalla Striscia di Gaza.

Negli ultimi due anni sono sorti anche due avamposti di insediamenti [israeliani], uno a nord e l’altro a sud di Ein al-Hilweh. L’Amministrazione Civile ha emesso ordini di interruzione lavori contro gli avamposti, ma essi continuano ad espandersi. Uno di questi è una propaggine di un altro avamposto illegale in corso di legalizzazione – Givat Salit. Il secondo si trova nella riserva naturale di Umm Zuka.

In entrambi gli avamposti si allevano pecore e mucche e, secondo palestinesi del luogo ed attivisti delle organizzazioni (israeliane) Ta’ayush e MachsomWatch, i pastori degli avamposti spesso impediscono ai palestinesi di pascolare i loro greggi. Nel 2011 un abitante di Ein al-Hilweh è stato costretto a togliere la propria tenda a causa delle ripetute aggressioni dei coloni.

Ein al-Hilweh e Umm Jamal non sono gli unici casi. Nei mesi scorsi l’esercito israeliano e l’Amministrazione Civile hanno anche fatto dei passi per sgomberare altre tre comunità palestinesi nel nord della Valle del Giordano – Khalat Makhoul, Al-Farisiya (che ospita circa 150 persone) e Khumsa.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)