Rapporto OCHA del periodo 21 novembre- 4 dicembre 2017 ( due settimane)

Il 30 novembre, un agricoltore palestinese 48enne è stato colpito con arma da fuoco ed ucciso da un colono israeliano che accompagnava un gruppo di giovani coloni in escursione in un’area agricola prossima al villaggio di Qusra (Nablus).

Mentre testimoni oculari palestinesi hanno riferito che lo sparo è stato preceduto da un alterco tra i coloni e l’agricoltore, i media israeliani hanno riferito che lo sparatore ha aperto il fuoco in risposta al lancio di pietre da parte del palestinese. Per due giorni il corpo dell’agricoltore è stato trattenuto dalle autorità israeliane per autopsia. Immediatamente dopo l’omicidio, abitanti di Qusra sono arrivati sul posto ed hanno lanciato pietre ai coloni, che si erano nascosti in una grotta; questi ultimi hanno risposto sparando e ferendo un palestinese; due coloni sono stati feriti da pietre. La polizia israeliana ha aperto un’indagine sul caso.

Più tardi, nello stesso giorno, in due episodi separati, nei villaggi di Qusra ed ‘Asira al Qibliya (Nablus), altri 34 palestinesi sono stati feriti durante scontri con coloni israeliani armati e soldati. Uno dei feriti è stato colpito con arma da fuoco, 15 da pallottole di gomma, 15 hanno subìto lesioni da inalazione di gas lacrimogeno, tutti da parte dei soldati israeliani, mentre tre palestinesi sono stati feriti da pietre lanciate da coloni. Altri tre palestinesi sono stati aggrediti e feriti da coloni in due distinti episodi in Gerusalemme Est e nel villaggio di Susiya (Hebron).

Inoltre, 36 palestinesi, sette dei quali minori, sono stati feriti da forze israeliane durante scontri avvenuti in Cisgiordania: 19 di questi ferimenti sono stati registrati nel villaggio di Qusra il 2 dicembre, in occasione del funerale dell’agricoltore di cui sopra, e due nella città di Nablus, in seguito all’entrata di coloni israeliani nel sito della Tomba di Giuseppe. La maggior parte degli altri ferimenti sono avvenuti in questi contesti: operazioni di ricerca-arresto che hanno innescato scontri, i più ampi dei quali nel governatorato di Hebron; durante la dimostrazione settimanale contro l’espansione dell’insediamento colonico israeliano e contro le restrizioni di accesso in Kafr Qaddum (Qalqiliya) e Nabi Saleh (Ramallah); e prima di una demolizione punitiva nel villaggio di Qabatiya (Jenin).

Il 30 novembre, tre civili palestinesi, tra cui una donna, sono stati feriti nel corso di attacchi israeliani a postazioni militari nella città di Gaza e nella parte nord della Striscia: i siti presi di mira hanno subìto danni. A quanto riferito, gli attacchi sono stati condotti in risposta al lancio di 12 granate di mortaio effettuato nello stesso giorno da un gruppo armato palestinese. Le granate erano cadute in Israele, senza causare feriti o danni.

Ancora in Gaza, durante scontri scoppiati nel corso di due proteste svolte vicino alla recinzione perimetrale, le forze israeliane hanno ferito con arma da fuoco due minori palestinesi. Inoltre, in almeno 35 occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco in direzione di civili presenti in Aree ad Accesso Riservato, in terra ed in mare, senza causare feriti, ma interrompendo il lavoro di agricoltori e pescatori. Nella zona settentrionale della Striscia di Gaza un minore palestinese è stato arrestato ed un altro è stato ferito e arrestato mentre tentavano di entrare in Israele attraverso la recinzione perimetrale.

Per punizione, le autorità israeliane hanno demolito una casa nel villaggio di Qabatiya (Jenin), sfollando cinque persone, tra cui tre minori. La casa demolita apparteneva ad uno dei due palestinesi, attualmente in carcere, che uccisero un colono israeliano il 4 ottobre 2017. Dall’inizio del 2017, nove case sono state demolite o sigillate per motivi punitivi, sfollando 49 palestinesi.

Citando la mancanza delle licenze edilizie israeliane, le autorità israeliane hanno demolito 13 strutture in Area C e Gerusalemme Est, sfollando 24 palestinesi, tra cui 12 minori; altre 78 persone sono state diversamente toccate dalle demolizioni. Otto delle strutture demolite erano in Area C, e tre di esse appartenevano a comunità di pastori: in Al Jiftlik-Abu al ‘Ajaj e in Al Jiftlik-ash-Shuneh (entrambe in Jericho) e nella comunità di Halaweh, situata nel sud di Hebron, nella “zona 918 per esercitazioni a fuoco”. Le restanti quattro strutture erano in Gerusalemme Est, nei quartieri di Shu’fat, Beit Hanina, Al ‘Isawiya ed Umm Tuba.

Il 4 dicembre, le autorità israeliane hanno informato la Corte Suprema Israeliana della loro intenzione di demolire 46 strutture nel villaggio di Susiya (Hebron). Come conseguenza quaranta persone, tra cui 14 minori, saranno sfollate, mentre tutti i suoi 160 residenti in Area C si troveranno ad alto rischio di trasferimento forzato. L’intera Comunità (327 abitanti) sarà colpita dalla demolizione delle 46 strutture, che includono otto abitazioni, due strutture sanitarie, 12 locali usati per la scuola, altre due strutture di sussistenza ed un impianto di pannelli solari. Secondo le autorità, queste strutture furono realizzate senza i permessi necessari, a partire dal 2014, in violazione di un’ingiunzione del tribunale.

I media israeliani hanno riportato cinque episodi di lancio di pietre da parte di palestinesi contro veicoli israeliani: vicino a Betlemme, Hebron e Ramallah; in almeno due di tali episodi sono stati danneggiati veicoli.

Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah, controllato dall’Egitto, è stato aperto in una direzione per un solo giorno, permettendo a 174 persone di entrare in Gaza. Secondo le autorità palestinesi in Gaza, più di 20.000 persone, tra cui casi umanitari, sono registrate ed in attesa per attraversare il valico. Nonostante la chiusura al transito di viaggiatori, il valico di Rafah è stato aperto per nove giorni per il transito di combustibile importato dall’Egitto e destinato alla Centrale Elettrica Gaza.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it

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Trump, Gerusalemme e l’indifferenza araba verso la Palestina

Mariam Barghouti,

7 dicembre 2017, Al Jazeera

I palestinesi hanno provato un senso collettivo di ansia e rabbia quando il presidente Donald Trump ha annunciato che gli Stati Uniti riconoscono formalmente Gerusalemme come capitale di Israele e inizieranno il processo di trasferimento della loro ambasciata da Tel Aviv alla città.

Il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele è un altro doloroso colpo al morale palestinese poiché dimostra ancora una volta come le potenze internazionali agiscano senza accettare o riconoscere l’esistenza dei palestinesi, nonostante sia la popolazione che subisce il peso delle conseguenze.

Il problema della dichiarazione USA, tuttavia, non si basa sul riconoscimento e sull’affermazione in se’, ma sulla serie di eventi che hanno portato alla sua concretizzazione. È il culmine del fallimento internazionale nell’affrontare le violazioni di Israele dei diritti umani, il continuo sostegno degli Stati Uniti a Israele, l’incompetenza della leadership palestinese nel raggiungere soluzioni attraverso gli sforzi diplomatici e, più recentemente, la nuova amicizia che l’amministrazione statunitense sta costruendo con alcuni Stati arabi.

La storia si ripete.

Quest’anno – anno in cui Gerusalemme è riconosciuta dagli Stati Uniti come la capitale di Israele – segna anche 100 anni da quando Lord Balfour concesse al movimento politico sionista il diritto a una patria ebraica in Palestina. L’ultima decisione americana, quindi, riecheggia la stessa posizione secondo cui le potenze internazionali possono ignorare la popolazione indigena palestinese e il loro diritto all’autodeterminazione.

La dichiarazione di Balfour non solo dimostrò i pericoli di tali affermazioni unilaterali, ma provò anche che Israele le impiegherà per far avanzare il proprio programma coloniale. La dichiarazione del 1917 spianò la strada alla milizia sionista per radere al suolo i villaggi palestinesi e conquistare la terra palestinese, e oggi la dichiarazione di Trump legittima questa storia di violenza fornendo a Israele un costante sostegno.

Trump aveva ragione affermando che “Gerusalemme è la sede del moderno governo israeliano. È la sede del Parlamento israeliano, della Knesset e della Corte suprema israeliana. È la sede della residenza ufficiale del primo ministro e del presidente. È il quartier generale di molti ministri del governo”.

Gerusalemme è stata infatti considerata la capitale di Israele per decenni, anche se non ufficialmente. È per questo che il riconoscimento di Trump è stato reso possibile. Il lavoro preliminare era già in atto e così tutto ciò che ha portato fino a questo momento è la prova della bancarotta morale della comunità internazionale quando si tratta della situazione palestinese.

Il governo israeliano ha imposto un controllo assoluto e completo sulla popolazione palestinese a Gerusalemme, proprio come ha fatto in altre città e paesi palestinesi. I palestinesi gerosolimitani possiedono solo documenti di residenza, che possono essere revocati in qualsiasi momento; Israele demolisce continuamente case nei quartieri palestinesi con il pretesto che mancano di permessi, e i giovani palestinesi sono bersagliati in modo discriminatorio dalle forze israeliane.

Sono queste politiche israeliane, le stesse politiche contro cui i palestinesi hanno protestato per anni, che hanno messo a tacere le voci palestinesi così che Gerusalemme possa essere presentata di fatto come israeliana.

I leader arabi ignorano le grida dei palestinesi.

Ciò che è ancora più angosciante è che ciò non sarebbe stato possibile senza i compromessi raggiunti dalla leadership palestinese. La politica palestinese è stata segnata da rivalità tra fazioni, collaborazione sulla sicurezza con l’intelligence israeliana a spese dei palestinesi e una serie di concessioni sotto forma di accordi e trattati che non hanno mai incapsulato i fondamenti delle richieste palestinesi; giustizia, liberazione e dignità.

E mentre i palestinesi hanno ripetuto per decenni le loro richieste di autodeterminazione e diritti umani fondamentali, la comunità internazionale e la leadership palestinese li hanno ignorati intenzionalmente per perseguire un’altra agenda che ruota attorno ai negoziati. Ciò ha generato solo maggiore repressione e un netto aumento del numero di insediamenti colonici.

Oggi vediamo sia la comunità internazionale sia i leader arabi ignorare ancora una volta le grida palestinesi per la giustizia. Ciò è evidente nel discorso dominante dei leader globali e arabi. Esso ruota attorno alla paura di un’altra insurrezione, instabilità e protesta. Nella maggior parte dei discorsi e dei proclami non c’è una vera presa di posizione sulle radici dell’aberrazione imposta al popolo palestinese sotto forma di un’occupazione violenta.

La fissazione sulla possibile reazione dei palestinesi e della comunità araba come la ragione principale per opporsi a questa decisione oscura il fatto che il riconoscimento di Gerusalemme come capitale israeliana si basa su violazioni e abusi dei diritti umani.

È l’amplificazione della “paura della reazione dei palestinesi / degli arabi” che può tragicamente rappresentare la cornice entro cui spingere verso ulteriori negoziati mentre gli stati arabi si affrettano a controllare il tumulto della protesta e gli Stati Uniti spingono la loro visione di una pace che è solo una facciata per dare a Israele ciò che vuole; uno stato senza il fastidio dell’esistenza palestinese.

Così mentre i leader di tutto il mondo proclamano che questa mossa porterà alla fine dei colloqui di pace, della soluzione dei due Stati e di qualsiasi stabilità nella regione, la verità è che non c’è mai stata né pace né stabilità nei territori dall’inizio dell’occupazione israeliana.

Il discorso degli Stati arabi indica anche l’insincerità nel volere raggiungere una vera soluzione nella regione, soluzione che dovrebbe ritenere Israele responsabile dei suoi crimini e fornire ai palestinesi i loro pieni diritti. Ciò è particolarmente vero mentre si diffonde l’ondata di condanne contro la decisione.

I palestinesi hanno memorizzato questo scenario e la realtà che nessuna azione farà seguito. La verità è che gli Stati Uniti hanno un programma che è allineato con gli interessi israeliani e gli Stati arabi hanno fatto amicizia con l’amministrazione Trump, limitando ogni azione.

Proprio questa estate, abbiamo assistito ai palestinesi che protestavano contro le misure israeliane nella moschea al-Aqsa. Anche allora ci furono condanne e proteste da parte degli Stati arabi e dei paesi internazionali. Tuttavia, questo approccio sintomatico e simbolico continuerà solo a rafforzare l’occupazione e l’espropriazione di Israele della terra palestinese.

Tra le righe del discorso di Trump di mercoledì si intravvede il messaggio di Israele alla comunità globale. Esso predice che se commetti abbastanza crimini mentre reciti una storia al mondo, otterrai ciò che vuoi e te la caverai.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Al Jazeera.

(Traduzione di Angelo Stefanini)




Per alcuni abitanti di Gaza che necessitano di cure mediche, l’attesa per un permesso di uscita porta alla morte

Amira Hass

4 dicembre 2017 Haaretz

Yara Bakheet, di 4 anni e Aya Abu Mutalq, di 5, sono tra i 20 pazienti morti quest’anno poiché i loro permessi di uscita non sono arrivati in tempo

A gennaio la bimba di 4 anni Yara Bakheet si ammalò. Vomitò spesso nel corso di un’intera settimana e si disidratò, e dopo una serie di esami all’ospedale europeo di Khan Yunis a Gaza, i medici dissero alla madre, la ventottenne Aisha Hassouna, che sua figlia soffriva di insufficienza cardiaca.

Le venne fissato un appuntamento all’ospedale Al-Makassed di Gerusalemme est dove, così dissero alla madre, vi erano i mezzi adeguati per curare sua figlia.

Gli esami medici, il foglio di appuntamento e l’impegno al pagamento, unitamente alla richiesta di un permesso per Yara e suo padre di uscire da Gaza, furono inoltrati all’Amministrazione israeliana di Coordinamento e Collegamento , che concede i permessi di uscita in base al parere del servizio di sicurezza Shin Bet.

La madre ha raccontato ad un ricercatore dell’associazione per i diritti umani B’Tselem che la prima richiesta venne respinta. Yara mancò l’appuntamento. Ne fu fissato uno nuovo per il 16 febbraio. La famiglia ripercorse l’intera trafila burocratica: documenti, copie, appuntamento, impegno di pagamento, modulo di richiesta ed un viaggio all’ufficio palestinese di collegamento, che inviò i documenti ai dirigenti e funzionari israeliani.

Questa volta, per assicurarsi che la domanda di permesso non fosse respinta a causa dell’identità dell’adulto accompagnatore, fu deciso che l’accompagnatore sarebbe stata la nonna della mamma, di 72 anni. La domanda venne accettata e le due persone partirono per Gerusalemme.

La bisnonna a sua volta soffriva di pressione alta e diabete. Peggio ancora, la piccola Yara non la conosceva bene e rifiutò il suo aiuto all’ospedale. La bambina pensò di essere stata abbandonata dai genitori e per tutto il tempo in cui rimase all’ospedale Al-Makassed, dove le era stato applicato un catetere, rifiutò di parlare con i genitori al telefono. “Mi sembrava che mi si chiudesse il cuore per il desiderio di sentire la sua voce”, disse Hassouna, la mamma.

Yara tornò a casa sciupata e rimase arrabbiata con sua madre che non le era stata accanto. La sua condizione diventava sempre più evidente quando Lara, la sua gemella, era nelle vicinanze. Dopo cure e degenze in ospedale nella Striscia di Gaza, si decise di mandare Yara di nuovo a Al-Makassed. Fu preso un appuntamento per il 2 giugno ed i documenti e certificati furono nuovamente inoltrati all’ufficio israeliano di collegamento.

Una settimana prima dell’appuntamento, la famiglia ricevette sul cellulare un messaggio che diceva che la richiesta era ancora sotto esame. L’appuntamento fu perso. Passarono i giorni, la condizione di Yara peggiorò e quando incominciò a sentire mancanza di fiato e soffocamento, fu portata un’altra volta all’ospedale europeo. Fu preso un altro appuntamento a Al-Makassed per il 20 luglio, per inserire un pacemaker, che a Gaza non era disponibile. Ma Yara morì all’ospedale europeo il 13 luglio.

Yara è una dei 20 pazienti gravemente ammalati che sono morti quest’anno a Gaza poiché la loro richiesta per un permesso israeliano di uscita per ricevere cure non è stato concesso in tempo. Un nuovo rapporto di B’Tselem, che sarà pubblicato questa settimana, si occupa di questo crescente fenomeno di ritardi ingiustificati nell’emissione di permessi di uscita per cure mediche.

I pazienti non hanno ricevuto dinieghi ufficiali, ma solo il messaggio “Stiamo valutando la vostra domanda.” I funzionari israeliani di collegamento inviano questo messaggio agli impiegati dell’ufficio palestinese di collegamento, che invia un messaggio alla famiglia, a volte la sera prima dell’appuntamento.

E’ difficile stabilire se e quando una morte sia causata direttamente da un ritardo nell’emissione di un permesso di uscita per cure mediche. Però è chiaro che l’indecisione, le aspettative e la delusione, la costante incertezza, la tensione e la necessità di affrontare l’intera logorante procedura burocratica nuovamente ogni volta, non sono cose salutari.

Peggioramento negli ultimi quattro anni.

A giugno, quando Yara avrebbe dovuto andare a Gerusalemme per farsi inserire un pacemaker, 1920 pazienti avevano inoltrato richieste per permessi di uscita da Gaza. L’Organizzazione Mondiale della Sanità riferisce che furono approvate 951 richieste, 20 furono respinte (meno dell’1%) e 949 (49,4%) rimasero senza risposta fino alla data prevista del ricovero in ospedale o della terapia. Di queste ultime, 222 erano richieste per minori di 18 anni e 113 per persone ultrasessantenni.

A settembre, il 42% delle 1858 richieste di permessi per cure mediche rimasero nel limbo. Di esse, 140 erano per minori di 18 anni e 99 per persone di oltre 60 anni.

E’ stata una chiara tendenza nel corso dello scorso anno, sulla quale il 9 novembre Haaretz ha riferito: le domande di permessi di uscita per qualunque scopo vengono rinviate senza risposta per settimane e mesi. Nel settembre di quest’anno il loro numero è arrivato a 16.000.

La percentuale di richieste inevase per permessi di uscita per cure mediche è quasi triplicata negli ultimi quattro anni. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, citata nel rapporto di B’Tselem, nel 2014 il 15,4% delle richieste rimasero inevase; nel 2015 la percentuale era del 17,6%. A settembre 2017, vi erano 8555 richieste rimaste inevase, che rappresentano il 43,7% di un totale di quasi 20.000 richieste.

“Ragioni di sicurezza” fu la spiegazione per il rigetto del 2,9% delle richieste, mentre circa il 53% fu approvato. Circa tre quarti delle richieste era per cure mediche in ospedali palestinesi in Cisgiordania e Gerusalemme est.

Lo Shin Bet ha affermato in risposta: “L’anno scorso abbiamo visto un aumento della pratica attraverso cui le organizzazioni terroriste, capeggiate da Hamas, sfruttano l’uscita degli abitanti di Gaza (anche per motivi medici) per promuovere attività terroristiche, incluso il trasferimento di esplosivi e di denaro per i terroristi e altri mezzi di favoreggiamento.

“Lo scorso aprile, due palestinesi a cui era stato consentito di entrare in Israele perché uno di loro potesse ricevere cure per il cancro, sono stati fermati al valico di Erez. Nel loro bagaglio sono state trovate provette per uso medico, all’interno delle quali era stato nascosto esplosivo che era evidentemente destinato ad un attacco di Hamas in Israele.

“Dato il grave pericolo costituito da queste attività, vengono effettuati rigidi controlli di sicurezza su chiunque faccia richiesta di uscire da Gaza. Ovviamente questi controlli prendono del tempo e si fanno costanti sforzi per ridurre questi tempi e dare priorità alle procedure per tutte le richieste, con particolare attenzione a quelle di carattere umanitario inoltrate da chi intende entrare in Israele per ricevere cure mediche salva-vita.”

Circa il 20% delle richieste rimaste inevase nel 2017 si riferivano a bambini e adolescenti minori di 18 anni e circa l’8% (725) a persone di oltre 60 anni.

Una di queste ultime è Fatma Biyoumi, di 67 anni, che soffre di una grave patologia al sangue. Dopo esami e terapie a Gaza, le hanno fissato appuntamenti per il 24 ottobre e il 4 novembre all’ospedale An-Najah di Nablus. Non avendo ricevuto risposte, ha mancato gli appuntamenti. E’ stato fissato un altro appuntamento, questa volta per un giorno di agosto all’ospedale Augusta Victoria di Gerusalemme, e la risposta è rimasta “in fase di valutazione”, benché l’associazione non profit israeliana “Medici per i diritti umani” l’avesse assistita nelle sue richieste per un permesso di uscita.

Un altro appuntamento è stato fissato per il 17 dicembre, e Biyoumi e la sua famiglia vivono in una situazione di continua attesa: la richiesta verrà accettata, oppure verrà approvata all’ultimo istante, in modo da aumentare l’incertezza, e ci sarà abbastanza tempo per organizzarsi?

Nella sua dichiarazione ad Haaretz di giovedì, lo Shin Bet ha detto che Biyoumi “è stata convocata per essere interrogata, dopodiché sarà possibile concludere la procedura per la sua valutazione di sicurezza.” Ci risulta che Biyouni sia stata interrogata dallo Shin Bet al valico di Erez mercoledì.

Huwaida, di 48 anni, malata di tumore al sangue, ha un appuntamento per il 6 dicembre, dopo aver ricevuto la risposta “in corso di valutazione” a tutte le sue precedenti richieste: per terapie il 13 agosto, l’11 settembre, il 24 settembre, il 9 ottobre, il 29 ottobre, l’8 novembre e il 22 novembre. Anche lei è stata aiutata da “Medici per i diritti umani” e anche lei sta vivendo in ansia per il timore di un’altra delusione.

Lo Shin Bet ha detto ad Haaretz che “dopo che è stata interrogata ed il suo caso esaminato, è stata inviata una risposta all’ufficio di collegamento che dice che non vi sono ostacoli legati alla sicurezza per l’approvazione della sua richiesta.”

Delusione il giorno prima

Aya Abu Mutlaq aveva 5 anni quando è morta. Soffriva dalla nascita di paralisi cerebrale ed era curata a Gaza. Nell’ottobre 2016 si decise di mandarla a farsi curare all’ospedale Al-Makassed. Fu inoltrata richiesta per un permesso per lei e suo padre, perché sua madre aveva partorito solo due mesi prima. L’appuntamento era per il 4 febbraio e il 3 febbraio la famiglia ricevette un messaggio che diceva che la richiesta era ancora in fase di valutazione. L’appuntamento fu rinviato al 16 marzo. Di nuovo, un giorno prima dell’appuntamento, arrivò un messaggio che diceva che gli israeliani stavano ancora valutando la richiesta.

La condizione della bambina peggiorò. Venne fissato un nuovo appuntamento per il 27 aprile, ma lei morì il 17 aprile. Suo padre era uscito tre volte da Gaza in passato, per Ramallah e Gerusalemme – per essere curato ad un problema al ginocchio. Non riusciva a capire perché all’improvviso, quando sua figlia aveva avuto bisogno che lui la accompagnasse, la richiesta sia stata rinviata finché lei morì.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, circa la metà delle persone che fanno richiesta di accompagnare pazienti non ottengono i permessi di uscita – cosa che spesso rimanda le cure al paziente. In base a nuove procedure presso il Coordinatore delle Attività Governative nei Territori [occupati], il tempo richiesto dall’ufficio di collegamento per occuparsi delle domande di permessi di uscita è aumentato significativamente – fino a 70 giorni, esclusi i weekend e le festività ebraiche. Per le situazioni sanitarie (ma non quelle di vita o morte) il tempo massimo previsto è di 23 giorni.

Un attento monitoraggio di “Medici per i diritti umani” dei casi di nove pazienti donne affette da tumore dimostra che l’ufficio di collegamento non rispetta i limiti di tempo stabiliti. Negli ultimi mesi, otto delle nove donne non si sono presentate agli appuntamenti per le terapie mediche perché le loro richieste di permesso erano “in fase di valutazione”.

Ma, secondo lo Shin Bet, “un esame dei casi citati nell’inchiesta di Haaretz” – che si è occupata di 11 pazienti morti e di parecchi altri che hanno atteso l’approvazione della richiesta per diversi mesi – “ ha rivelato che la maggior parte delle loro richieste di ingresso in Israele è stata approvata, ed alcuni hanno già usufruito dei loro permessi per entrare in Israele e ricevere cure mediche.”

Il 29 novembre Ghada Majadala e Mor Efrat, dell’organizzazione israeliana di medici, hanno inviato una lettera urgente al Generalmaggiore Yoav Mordechai, capo del Coordinamento delle Attività Governative nei Territori (occupati), ed a Moshe Bar Siman Tov, direttore generale del ministero della Sanità (israeliano). Nel documento, che si incentra sulle nove donne affette da tumore, Majadala ed Efrat hanno sottolineato che le cure oncologiche disponibili a Gaza non sono adeguate.

Negli ultimi mesi si è verificato un calo nello stock di farmaci utilizzati insieme alla chemioterapia, hanno scritto, ed è difficile operare per asportare i tumori per la carenza di carburante e di elettricità. Inoltre a Gaza non esistono trattamenti di radioterapia o con iodio radioattivo, né esiste l’attrezzatura per seguire l’andamento della malattia. In più, sia la lettera di Majadala ed Efrat, sia il rapporto di B’Tselem affermano che l’Autorità Nazionale Palestinese sta attualmente conducendo una politica di riduzione del numero di pazienti mandati a curarsi fuori Gaza.

Nella loro lettera, di cui è stata mandata copia all’Associazione Medici Israeliani e al Comitato etico degli infermieri, Majadala ed Efrat hanno scritto che le attese provocano non solo sofferenza, ma anche esaurimento per le battaglie burocratiche. “ Una mancata risposta impedisce ai pazienti di far valere il proprio diritto ad appellarsi contro il rifiuto, se esso venisse comunicato”, hanno scritto. “Non dare risposte per mesi dimostra una politica di disprezzo per la sofferenza dei pazienti.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Nella Striscia di Gaza vi sono timide speranze

  • 29 novembre 2017, The Independent

    Robert Piper

    La popolazione civile di Gaza sarà in ultima analisi quella che garantirà qualunque transizione reale e che la proteggerà da chi la vuole boicottare, ma ha bisogno di qualcosa che valga la pena di essere protetta e si dispera per qualche [piccolo] sostegno.

Nelle settimane passate i primi segnali che l’isolamento di Gaza finalmente sarebbe giunto al termine ha prodotto una debole speranza in una popolazione civile diffidente ed esausta. Il primo dicembre sarà una data storica per i negoziati iniziati a metà ottobre tra i due maggiori partiti politici palestinesi, Fatah e Hamas, con lo scopo del ritorno a Gaza dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), guidato da Mahmoud Abbas, dopo 10 anni di assenza.

L’accordo del 12 ottobre con la mediazione egiziana ha colto di sorpresa molti osservatori. Non tratta la questione di come Hamas verrà disarmata né molte altri difficili problemi. Ma il primo passo deve riguardare le pessime condizioni di vita di due milioni di civili gazawi che vivono con poca energia elettrica, acqua o scarse prospettive per il futuro.

È ora che gli interessi dei cittadini sfiniti di Gaza abbiano finalmente la priorità rispetto a molti altri programmi in gioco.

Solamente a poche centinaia di chilometri dai confini dell’Europa e a 50 km da Tel Aviv, nella Striscia di Gaza due milioni di palestinesi vivono una precaria esistenza. Dieci anni fa Gaza è stata condannata all’isolamento, dopo la violenta presa del potere della Striscia da parte di Hamas, l’espulsione dell’Autorità Nazionale Palestinese e l’imposizione da parte di Israele di severe restrizioni intorno a Gaza. Nel decennio successivo gli abitanti di Gaza sono stati più volte coinvolti in vari conflitti – tra i due maggiori partiti palestinesi, Hamas e Fatah, per il controllo della Striscia e tra Hamas e Israele, sfociati periodicamente in ostilità aperta. Sono anche stati coinvolti [dal conflitto] tra Hamas e l’Egitto, con le sue preoccupazioni per la sicurezza del Sinai e dalla grande cautela in merito ai 12 km di confine in comune, e tra Hamas e i donatori internazionali, la cui legislazione anti terrorismo pone dei limiti al genere di aiuti che possono essere inviati a Gaza.

Ciascuno di questi conflitti ha, in un modo o in un altro, prodotto un’ulteriore sofferenza ai civili e una graduale “decrescita” dell’economia gazawi. In questo periodo la disoccupazione è salita dal 30 al 42% .IL delicato bacino acquifero di acqua sorgiva è stato eccessivamente sfruttato ed è divenuto non potabile al 96%. L’offerta di energia elettrica si è aggirata intorno alle 8-12 ore al giorno ed è crollata alle 2-3 ore all’inizio di quest’anno dopo che le tensioni tra Hamas e Fatah sono arrivate al loro apice. I giovani hanno perso ogni speranza dal momento che la disoccupazione giovanile è arrivata al 65%. Un’ infrastruttura sanitaria precaria ha visto in meno di 10 anni il tasso di sopravvivenza del cancro al seno cadere dal 59 al 46%.

Ma queste cifre non colgono l’impatto meno tangibile di dieci anni di isolamento. Israele permette ogni giorno solo a pochi, principalmente malati, imprenditori e volontari l’ingresso e l’uscita da Gaza attraverso i suoi valichi. Il valico egiziano di Rafah raramente viene aperto, fino a ora solo per 30 giorni quest’anno. La marina israeliana pattuglia rigidamente le acque al di fuori della costa di Gaza. Il governo palestinese non si vede da nessuna parte.

Il sentimento prevalente tra i gazawi è quello di essere completamente in trappola. Con la continua presenza visibile di un ricco Paese dell’OCSE [Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, ndt.] pochi chilometri lungo la spiaggia, sotto forma di un impianto di desalinizzazione e di fornitura di energia nella città israeliana di Ashkelon che può produrre energia e acqua sufficienti da soddisfare ogni gazawi 24 ore al giorno per sette giorni alla settimana e anche di più. I gazawi sognano di poter uscire per cure sanitarie, studio, funerali e per prendere una boccata di libertà.

In base agli accordi di ottobre i ministri dell’ANP con sede a Ramallah hanno cominciato a visitare regolarmente Gaza. Ai primi di novembre l’amministrazione dei valichi, dove si raccolgono le tasse, è stata trasferita da Hamas all’ANP. Da allora nelle [successive] settimane gli impiegati pubblici assunti prima del 2007 hanno cominciato a riprendere le loro precedenti mansioni. Azioni potenzialmente destabilizzanti da parte di sabotatori, quali il tentativo di assassinare il capo della sicurezza di Hamas oppure la scoperta di un altro tunnel costruito da militanti da Gaza per entrare in Israele, non sono stati in grado di ostacolare il processo [di riconciliazione].

Ma per l’uomo della strada gazawi da questo storico accordo non non è scaturito nessun cambiamento concreto. L’offerta di energia elettrica oggi si aggira tra le quattro e le sei ore al giorno. Gli ascensori ancora non funzionano in questa paesaggio urbano di grattacieli, eccetto quando qualcuno mette in funzione i generatori. Il valico di Rafah rimane praticamente chiuso, anche se è rimasto aperto l’altra settimana per pochi giorni. Centinaia di pazienti che hanno urgente bisogno di cure mediche fuori da Gaza, molti per una cura anti cancro, aspettano sia l’approvazione della sicurezza israeliana sia quella per il pagamento delle spese di Ramallah [cioè del governo dell’ANP, ndt.]. Una spedizione di medicinali mandata dall’ANP nella prima metà di novembre è stato il primo segnale concreto che l’aiuto potrebbe essere in arrivo.

Nelle prossime settimane verranno alcune fondamentali verifiche. Il prossimo problema urgente sarà chi pagherà i circa 40.000 impiegati di Gaza assunti fin dalla presa del potere del 2007 – migliaia di dottori, insegnanti, infermieri, ma anche tra loro poliziotti. Presumibilmente questioni sempre più complesse, quali l’integrazione nel lungo periodo degli impiegati pubblici pre e post 2007, le armi, le risorse militari di Hamas, i controlli della sicurezza, le elezioni, qualche forma di governo unitario, procederanno con difficoltà nei loro programmi. Nel frattempo le aspettative e le frustrazioni aumenteranno, con un maggior rischio [di fallimento] per il precario processo.

La popolazione civile di Gaza sarà in ultima analisi quella che garantirà qualunque cambiamento reale e che lo proteggerà da chi vi si oppone, ma ha bisogno di qualcosa che valga la pena di proteggere e si dispera per qualche [piccolo] sostegno. Primo, hanno bisogno della libertà di movimento per potere lasciare Gaza e ritornarci quando vogliono. Secondo, hanno bisogno di energia elettrica almeno 12 ore al giorno. Terzo, occorre ristabilire le indennità dei dipendenti della pubblica amministrazione e rendere stabili i salari, almeno per quegli impiegati che prestano davvero servizi e da cui la gente dipende.

Tutti questi provvedimenti richiedono una dirigenza palestinese, ma non può essere gestita solo dall’ ANP -Israele, Egitto e la comunità internazionale devono fare la loro parte. Infatti un alleggerimento delle restrizioni israeliane sulla movimentazione delle merci dentro e fuori Gaza è il prerequisito per rivitalizzare un’economia morta e darebbero un importante segnale alla gente di Gaza. In parole povere i colloqui al Cairo devono urgentemente tradursi in un miglioramento delle condizioni di Gaza.

Robert Piper is the UN Coordinator for Humanitarian Aid and Development Activities in the Occupied Palestinian Territory

Robert Piper è il Coordinatore degli Aiuti Umanitari e delle Attività di Sviluppo nei Territori Occupati Palestinesi delle Nazioni Unite. (UN Coordinator for Humanitarian Aid and Development Activities in the Occupied Palestinian Territory)

(traduzione di Carlo Tagliacozzo)