Cosa attende Gaza, dopo il massacro israeliano del “Giorno della Terra?

Haidar Eid

5 Aprile 2018, Al Jazeera

L’unico spiraglio di speranza per Gaza, oltre alla nostra stessa mobilitazione di massa, sta nella crescente campagna BDS.

Dopo aver imposto un blocco mortale ai due milioni di abitanti della Striscia di Gaza per 11 anni ed aver lanciato tre attacchi massicci e genocidi negli ultimi sette anni – con l’aiuto e la complicità della cosiddetta comunità internazionale e del silenzio dei regimi arabi reazionari – Israele la scorsa settimana ha perpetrato un nuovo massacro contro dimostranti pacifici che commemoravano il “Giorno della Terra” e rivendicavano il proprio diritto al ritorno.

Venerdì 30 marzo i soldati israeliani hanno ucciso 17 civili e ne hanno feriti più di 1.400 – per la maggior parte con proiettili veri. Secondo l’esercito israeliano, il massacro si è svolto secondo i piani. Il suo portavoce ha twittato – e in seguito cancellato – : “Il 30 marzo non è stato fatto nulla che fosse fuori controllo; tutto è stato preciso e misurato. Sappiamo dove è arrivato ciascun proiettile.”

All’inizio della Seconda Intifada nel 2000 io scrissi quanto segue:

Gaza è diventata zona di guerra: il più grande campo di concentramento sulla faccia della terra è diventato un luogo di sepoltura – un rumoroso cimitero. Il corpo palestinese è diventato il bersaglio finale del proiettile israeliano – più è giovane, meglio è (anche Sara, una bimba di due anni di Nablus, è stata colpita alla testa). Il corpo palestinese, in altri termini, è diventato il luogo dell’ (in)giustizia: ‘eliminate il corpo ed esso lascerà un vuoto che può essere occupato – una terra senza popolo per un popolo senza terra. ’

Oggi abbiamo una sensazione di déjà vu; siamo già stati là e sappiamo che molti di noi saranno uccisi in ciò che la BBC chiama “scontri”! L’esercito israeliano, o quello che il coraggioso giornalista israeliano Gideon Levy chiama “le forze di massacro israeliane”, è una banda di delinquenti indottrinata da un’ideologia che disumanizza i bambini e giustifica l’uccisione di civili innocenti. Non è sicuramente il momento giusto per tali enormi questioni filosofiche, ma che cosa dovrebbe fare il/la palestinese quando vive una così crudele realtà politica?

La domanda che ha in mente ogni palestinese di Gaza è: “Perché è possibile che avvenga questo, 24 anni dopo il crollo del regime di apartheid del Sudafrica?” Sappiamo perché Israele lo sta facendo: noi siamo gli indesiderati “goyim” [gentili, non ebrei, ndtr.], i rifugiati la cui stessa esistenza continua a rammentare il peccato originale commesso nel 1948 – il crimine premeditato di pulizia etnica di due terzi del popolo palestinese. Siamo stati dannati per avere semplicemente la religione e l’etnia “sbagliate”, per essere nati da madri non ebree! Il problema è che non moriamo in silenzio, facciamo rumore, molto rumore; picchiamo sulle pareti della cella di Gaza – per usare una delle metafore del famoso intellettuale e scrittore palestinese Ghassan Kanafani.

Ho insegnato ai miei studenti dell’università Al-Aqsa di Gaza uno dei più bei racconti di Kanafani, intitolato ‘Tutto ciò che ti è rimasto’. In questo racconto l’eroe, che è un rifugiato che vive a Gaza, perde tutto tranne la sua volontà di resistere. Mantenere quella volontà e combattere l’orrore del colonialismo sionista richiede una visione. Una visione che potrebbe permettergli di ritornare a Jaffa, dove ha perduto suo padre per mano delle bande sioniste nel 1948. La maggior parte dei miei studenti è in sintonia con lui, alcuni addirittura si identificano con lui. Concordano che non possa essere raggiunta nessuna soluzione politica senza l’applicazione della risoluzione 194 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che sancisce il diritto dei rifugiati palestinesi a tornare ai villaggi e alle città da cui furono cacciati con la pulizia etnica nel 1948. Nessuna meraviglia quindi che la maggior parte dei miei studenti sia tra i manifestanti ai confini di Gaza!

A Gaza sappiamo che Israele la passerà liscia, semplicemente perché non è mai stato costretto a rendere conto di alcuno dei massacri che ha compiuto; sappiamo anche che sta per commettere altri e peggiori crimini.

Il rapporto ESCWA [Commissione Economica e Sociale dell’ONU per l’Asia occidentale, ndtr.] non ha forse provato oltre ogni dubbio che Israele sta commettendo il crimine di apartheid contro il popolo autoctono della Palestina? Sappiamo anche che non sarebbe stato in grado di compiere tutti questi crimini senza il sostegno degli Stati Uniti e della cosiddetta comunità internazionale. Pertanto noi abbiamo perso la speranza nelle istituzioni ufficiali come la Lega Araba e l’Organizzazione della Cooperazione Islamica. Invece facciamo affidamento sulla società civile internazionale per mettere fine a questo continuo bagno di sangue perpetrato alla luce del sole da Israele dell’apartheid.

Lo strumento? Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) finché Israele non rispetti il diritto internazionale. Lasciamo perdere gli inutili negoziati che si sono rivelati disastrosi, come il defunto Edward Said aveva correttamente previsto già nel 1994; lasciamo perdere la soluzione razzista dei due Stati, che è stata colpita alla testa dallo stesso Israele e che non si occupa del nodo fondamentale della questione palestinese, cioè dei 6-7 milioni di rifugiati che insistono nel pretendere il loro diritto al ritorno sancito dall’ONU. L’unico spiraglio di speranza, oltre alla nostra mobilitazione di massa, sta nella crescente campagna del BDS sostenuta dalle persone di coscienza in tutto il mondo. Loro capiscono che la nostra lotta non è settaria, è incardinata nei principi fondamentali della Dichiarazione Internazionale dei Diritti Umani, a dispetto dell’accanito tentativo degli ipocriti media occidentali di nascondere la verità.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Al Jazeera

Haidar Eid è professore associato presso l’università Al-Aqsa di Gaza.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)