Collusione per garantire che l’autorità dell’ONU ostacoli il diritto al ritorno dei palestinesi

Ramona Wadi

28 agosto 2018 Middle East Monitor

È possibile che gli argomenti a favore della tutela del diritto palestinese al ritorno cadano nelle trappole semantiche che Israele ha esplicitamente perfezionato per molti decenni. Mentre l’amministrazione Trump si dice stia preparando la propria definizione di coloro che debbano essere catalogati come rifugiati palestinesi, la loro storia e memoria vengono nuovamente frammentate ed isolate, al punto che il popolo è separato dal processo politico.

Il ministro israeliano dell’Educazione, Naftali Bennett, ha dichiarato che “una cancellazione da parte americana del riconoscimento del fittizio ‘diritto’ al ritorno e del fittizio status di rifugiato per discendenza sarebbe un passo coraggioso e giusto che smaschera montagne di bugie.” Definendo il diritto al ritorno un’“invenzione”, ha poi aggiunto: “Lo status di rifugiato non si trasmette per eredità.” A meno che, avrebbe dovuto aggiungere, tu non sia un ebreo, e quindi abbia il “diritto” di andare nella “Terra Promessa”, a prescindere da quante generazioni in esilio siano passate.

Pur con diverse intenzioni e prospettive, anche i palestinesi hanno costruito la loro retorica intorno al concetto di discendenza. L’Agenzia dell’ONU di soccorso e occupazione per i rifugiati palestinesi (UNRWA) è chiara sul fatto che i suoi servizi sono a disposizione dei rifugiati palestinesi e dei loro discendenti.

La comunità internazionale ha incoraggiato Israele a promuovere la narrazione dell’“ereditarietà” della condizione di rifugiato. Con la creazione di un’agenzia dipendente [dall’ONU] ed il sostegno ad un ente politico che attenua il diritto al ritorno dei palestinesi – l’Autorità Nazionale Palestinese – il concetto di rifugiato palestinese è ora imbalsamato in imposizioni umanitarie, mentre i diritti politici sono stati da tempo manipolati. Le radici di ciò si possono trovare nella Risoluzione 194 dell’Assemblea Generale dell’ONU, una risoluzione non vincolante che dà priorità al processo coloniale israeliano rispetto al diritto al ritorno dei palestinesi.

È facile scorgere come l’affermazione di Bennett si inserisca nel retroterra stabilito dall’ONU. Proprio come l’organizzazione internazionale ha eliminato il contesto coloniale, lo stesso fa l’affermazione di Bennett. Il nocciolo della questione non è il problema dell’ereditare lo status di rifugiato: è la complicità tra Israele e la comunità internazionale che ha creato una popolazione di palestinesi rifugiati permanenti.

Inoltre i parametri restrittivi imposti ai palestinesi dall’ONU hanno facilitato l’assimilazione del concetto di “ereditarietà” dello status di rifugiato anche tra gli stessi palestinesi. Deve essere posto in chiaro che, ben lungi dall’ereditare tale status, i palestinesi sono vittime di una aggressione coloniale che continua, che li ha resi rifugiati a causa della connivenza tra Israele e la comunità internazionale, che impedisce che il diritto dei palestinesi al ritorno sia messo in pratica. Se si aggiungono gli espedienti escogitati dall’ANP quando si tratta dei diritti dei rifugiati, appare chiaro che sono stati fatti sforzi considerevoli per avallare la narrazione internazionale nonostante il fatto che sia del tutto discordante rispetto ai legittimi diritti dei palestinesi.

Perché quindi la questione dello status di rifugiato è predominante? Una delle principali ragioni è la costante definizione del diritto dei palestinesi al ritorno tramite la Risoluzione 194. Dal 1948 in poi, inchinarsi davanti all’ONU ha avuto la precedenza sulla memoria palestinese. L’ONU ha incoraggiato questo atteggiamento disfattista, ben sapendo che il passaggio della causa palestinese da questione di diritti politici a questione umanitaria alla fine avrebbe plasmato il proprio corso. Nel frattempo il diritto al ritorno dei palestinesi ha seguito molteplici traiettorie a partire da un’ottica presumibilmente solidale, diventando oggetto di ricerche, istanze e riflessioni, il tutto con la garanzia che non ci si allontani dalla Risoluzione 194.

Intanto Israele ha manipolato a proprio vantaggio le divergenze. L’affermazione di Naftali Bennett è errata in quanto elimina il contesto coloniale, tuttavia rivela una sottile collusione che insidia i diritti dei rifugiati palestinesi, poiché l’adesione all’ONU, attraverso uno spettro politico che dichiara di sostenere la Palestina, è stato privilegiato rispetto ai diritti legittimi di una popolazione palestinese colonizzata e costantemente deportata con la forza.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Un ballerino palestinese proveniente dal Belgio incarcerato da Israele

Ali Abunimah

22 agosto 2018, The Electronic Intifada

C’è crescente preoccupazione in Belgio per un ballerino rifugiato palestinese che è stato arrestato dalle autorità israeliane quando un mese fa ha cercato di entrare nella Cisgiordania occupata dalla Giordania.

Mustapha Awad, nato nel campo profughi di Ein al-Hilweh in Libano, ha ottenuto lo status di rifugiato e la cittadinanza in Belgio.

Secondo il gruppo di solidarietà con i prigionieri “Samidoun”, per due settimane dopo il suo arresto ad Awad non è stato consentito di vedere un avvocato. Ha potuto solamente incontrare qualcuno del consolato belga l’8 agosto, dopo 20 giorni di interrogatorio.

Secondo “Samidoun”, Awad è comparso in tribunale il 16 agosto ed è stato poi riportato in un centro israeliano di interrogatori.

“Il mio cliente è stato arrestato ad un posto di frontiera con l’accusa di appartenere ad una organizzazione terroristica, cosa che lui nega assolutamente”, ha detto ai media l’avvocato belga di Awad venerdì scorso.

Awad, di 36 anni, è il cofondatore di “Raj’een”, un gruppo di danza popolare palestinese.

“Era la prima volta che andava in Palestina per visitare la terra dei suoi genitori. Non ha mai vissuto là”, ha aggiunto l’avvocato.

L’emittente pubblica belga RTBF ha citato rapporti dei media israeliani che sostengono che Awad è affiliato al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP) [storico gruppo armato palestinese di tendenza marxista, ndtr.].

Israele considera quella fazione politica, insieme a quasi tutti gli altri partiti politici palestinesi, come organizzazione “terroristica”.

Secondo la RTBF, Awad deve comparire nuovamente davanti ad un giudice israeliano il 3 settembre.

Il ministero degli Esteri belga ha confermato l’arresto di Awad e ha detto che sta “seguendo la situazione”, ma non ha fornito altri dettagli.

Il caso di Awad ricorda quello di Salah Hamouri, un difensore dei diritti umani franco-palestinese, che è stato detenuto in Israele per un anno senza accuse né processo.

Il governo francese ha fatto poco per ottenere la libertà per Hamouri.

Gli attivisti in Belgio stanno promuovendo una campagna per la liberazione di Awad.

Una delegazione del Comitato per la liberazione di Mustapha Awad mercoledì è stata ricevuta dal ministero degli Esteri a Bruxelles.

Hanno anche lanciato una pagina Facebook e una petizione che chiede al governo belga di “assumersi le proprie responsabilità per tutelare i suoi cittadini contro arresti arbitrari ed ogni forma di tortura o trattamento inumano.”

Waed Tamimi condannato

Un tribunale militare israeliano ha condannato Waed Tamimi a 14 mesi di reclusione per aver tirato pietre contro un poliziotto di frontiera israeliano lo scorso anno, e per un fatto simile un anno prima.

Waed, di 21 anni, è il fratello di Ahed Tamimi, la ragazza recentemente rilasciata dopo otto mesi di prigione per aver spinto e schiaffeggiato un soldato israeliano all’interno della proprietà della famiglia nel villaggio di Nabi Saleh, nella Cisgiordania occupata.

Anche la madre dei due fratelli, Nariman, ha passato otto mesi in prigione per aver filmato l’incidente che ha coinvolto Ahed.

Come nel caso di Ahed, la condanna di Waed è stata l’esito di un patteggiamento in cui lui ha ammesso le accuse rivoltegli dalle forze di occupazione israeliane.

Il tribunale militare israeliano nega ai palestinesi le fondamentali garanzie di un giusto processo e di certezza del diritto e presenta un tasso di condanne quasi del 100%.

Il quotidiano israeliano “Haaretz” [giornale israeliano di centro sinistra, ndtr.] ha riferito che “il tribunale ha rilevato che le pietre scagliate da Waed Tamimi ed altri hanno colpito un poliziotto di frontiera, che indossava un elmetto, alla testa e a un braccio, ferendolo”.

Mentre i palestinesi vengono sistematicamente accusati dalle autorità militari israeliane di rispondere agli attacchi delle forze di occupazione lanciando pietre, i soldati israeliani che feriscono, rendono disabili ed uccidono i palestinesi godono di una quasi totale impunità.

Waed vedrà riconosciuto il periodo passato in prigione da quando è stato prelevato in maggio al mattino presto durante un’incursione delle forze di occupazione.

Suo padre Bassem all’epoca ha scritto in un post su Facebook che, dopo che i soldati israeliani lo hanno picchiato e ferito durante l’arresto, Waed è stato portato in ospedale.

Giornalisti arrestati

Il 15 agosto anche nella Cisgiordania occupata le forze israeliane hanno arrestato Ali Dar Ali, un giornalista di “Palestine TV”, [la televisione] dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Le forze israeliane hanno arrestato Dar Ali durante un’incursione all’alba nella sua casa nel villaggio di Burham in Cisgiordania ed hanno confiscato il suo cellulare e il suo computer.

Un portavoce dell’esercito israeliano ha detto a ‘The Times of Israel’ che Dar Ali è stato arrestato per “istigazione”, in quanto ha filmato e trasmesso in streaming le forze israeliane mentre si accingevano a demolire una casa nel campo profughi di Amari, vicino a Ramallah.

Sherif Mansour, del Comitato di Protezione dei Giornalisti, ha affermato: “Israele utilizza ogni mezzo legale a sua disposizione, comprese accuse di istigazione, per eliminare le informazioni critiche sulle sue politiche ed attività in Cisgiordania e incarcera giornalisti come Ali Dar Ali.

Facciamo appello alle autorità israeliane perché rilascino immediatamente Ali Dar Ali e lo lascino lavorare liberamente.”

Il tribunale militare della prigione di Ofer, dove è incarcerato Dar Ali, ha prorogato varie volte la sua detenzione. Adesso è prevista fino al 4 settembre.

A giugno il parlamento israeliano ha iniziato a prendere in esame una legge che punirebbe con fino a 10 anni di prigione chi filma o registra soldati israeliani e ne pubblica il contenuto.

“Reporters senza Frontiere ha chiesto di respingere la legge, definendola parte dell’inasprimento della repressione su giornalisti e difensori dei diritti umani che documentano gli abusi contro i palestinesi.

L’incarcerazione di Dar Ali è l’ultimo di una serie di arresti israeliani di giornalisti palestinesi.

Le forze di occupazione israeliane il 30 giugno hanno arrestato quattro giornalisti in Cisgiordania, tre dei quali sono stati rilasciati su cauzione.

Ma domenica un tribunale militare israeliano ha bloccato il rilascio del quarto, Ala al-Rimawi, su richiesta del procuratore militare.

In una dichiarazione rilasciata attraverso il suo avvocato, al-Rimawi ha detto che la campagna israeliana di arresti ha lo scopo di spaventare ed intimidire i giornalisti palestinesi perché non facciano il loro lavoro e non raccontino la realtà.

Al-Rimawi ha detto che dal suo interrogatorio era evidente che le autorità israeliane ritengono che termini usati dai giornalisti, come “martire”, “occupazione”, “scontro” e “tenacia”, costituiscano istigazione [alla violenza].

Secondo l’Associazione dei Prigionieri Palestinesi, attualmente sono detenuti da Israele 18 giornalisti palestinesi.

Solidarietà con lo sciopero delle prigioni

I prigionieri e gli ex prigionieri palestinesi affiliati al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina hanno inviato un messaggio di solidarietà ai lavoratori incarcerati negli Stati Uniti, che hanno indetto uno sciopero nazionale il 21 agosto.

Lo sciopero delle prigioni del 2018 è la risposta ad un incidente avvenuto in aprile in cui numerosi prigionieri sono morti nella Carolina del sud.

“Sette compagni hanno perso la vita quando gli agenti penitenziari li hanno respinti durante una rivolta che avevano provocato”, hanno affermato gli organizzatori dello sciopero. “Chiediamo condizioni di vita umane, l’accesso alla riabilitazione, la riforma del sistema di condanne e la fine della schiavitù dei nostri giorni.”

Ci sono più di due milioni di persone nelle carceri americane, un aumento del 500% negli ultimi 40 anni, che non è collegato all’andamento della criminalità.

Le politiche di incarcerazione di massa che arricchiscono le imprese carcerarie private prendono di mira in modo sproporzionato i poveri e le persone di colore, in particolare i neri.

“Oggi i lavoratori delle carceri sono tra i lavoratori più sfruttati negli Stati Uniti e la stessa classe dominante che trae profitti dalla confisca della terra e dalle risorse palestinesi e dai bombardamenti sui bambini in Yemen, trae profitti anche dal lavoro forzato dei prigionieri”, affermano i prigionieri palestinesi.

“La vostra lotta è una lotta di lavoratori che fa parte del nostro conflitto mondiale contro il brutale sfruttamento che i nostri popoli oggi subiscono.”

Alì Abunimah

Cofondatore di The Electronic Intifada ed autore di ‘The battle for justice in Palestine’ [La lotta per la giustizia in Palestina], in uscita da Haymarket Books.

Ha scritto anche ‘One country: A bold-proposal to end the Israeli-Palestinian impasse’ [Un Paese: un’audace proposta per porre fine all’empasse tra israeliani e palestinesi] .

Le opinioni sono esclusivamente mie.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Rapporto OCHA del periodo 14 – 27 agosto (due settimane)

Nei pressi della recinzione israeliana che circonda Gaza, sono continuate, per la ventiduesima settimana consecutiva, le dimostrazioni e gli scontri del venerdì, provocando la morte di due palestinesi e il ferimento di altri 733.

Nelle aree di Rafah e Deir al Balah, durante le manifestazioni che si sono svolte il 17 agosto, le forze israeliane hanno sparato ed hanno ucciso due uomini di 27 e 28 anni. 325 dei [733] feriti sono stati ricoverati in ospedale; 141 di loro erano stati colpiti con armi da fuoco; i rimanenti feriti sono stati curati sul posto. Non sono state segnalate vittime fra gli israeliani. Il 21 agosto, per la prima volta dall’inizio delle manifestazioni, l’Avvocatura Militare Generale israeliana ha annunciato l’apertura di indagini penali sull’uccisione, avvenuta nei mesi precedenti, di due manifestanti palestinesi.

Secondo fonti israeliane, il 20 agosto un palestinese ha forzato la recinzione perimetrale di Gaza ed è entrato in Israele, ha aperto il fuoco contro una pattuglia israeliana e, successivamente, è stato colpito e ucciso dalle forze israeliane. L’uomo era un dipendente di una ONG internazionale che forniva assistenza medica a Gaza, ma, al momento dell’accaduto, non era in servizio. Nessuna informazione utile a chiarire le circostanze della sua morte è stata condivisa con la ONG.

Sono stati registrati almeno 15 casi in cui forze israeliane, per far rispettare le restrizioni di accesso alle Aree Riservate [stabilite da Israele] su zone [di Gaza] di terra e di mare, hanno aperto il fuoco in direzione dei palestinesi ivi presenti, ferendo due di essi, tra cui un minore, e costringendo agricoltori e pescatori ad allontanarsi. Secondo fonti palestinesi, in due diversi episodi, sei pescatori sono stati costretti a togliersi i vestiti e a nuotare verso le imbarcazioni militari israeliane, dove sono stati arrestati; le loro tre barche e le reti da pesca sono state sequestrate. Il 15 agosto, Israele ha esteso l’accessibilità alle zone di pesca, a seconda dell’area, a 6 e 9 miglia nautiche dalla costa (il 16 luglio erano state ridotte a 3 miglia). Le restrizioni all’accesso al mare continuano a influenzare il sostentamento di oltre 50.000 palestinesi, per i quali l’attività della pesca costituisce la principale fonte di reddito. Inoltre, in due occasioni, vicino al recinto perimetrale, ad est di Gaza e di Khan-Younis, le forze israeliane sono entrate in Gaza ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo.

Il 15 agosto, Israele ha revocato le severe restrizioni, imposte il 9 luglio, di ingresso e uscita delle merci attraverso il valico di Kerem Shalom, al confine con Gaza; inoltre ha portato da 3 a 6-9 miglia nautiche dalla costa la zona di pesca consentita [vedi paragrafo precedente]. Le restrizioni erano state adottate in risposta al lancio di aquiloni e palloncini incendiari che da Gaza avevano provocato estesi danni alle proprietà israeliane.

Il 27 agosto, l’Alta Corte di Giustizia israeliana ha stabilito che le Autorità israeliane non potranno più negare ai parenti dei membri di Hamas i permessi di uscita dalla Striscia di Gaza per ricevere cure mediche in Cisgiordania. La sentenza ha fatto seguito ad una petizione congiunta presentata da organizzazioni per i diritti umani, sia palestinesi che israeliane.

Il 27 agosto, le autorità israeliane hanno revocato le restrizioni (emanate il 19 agosto) che limitavano l’uscita dei palestinesi attraverso il valico di Erez solo ai casi di urgenza medica. Al momento, il valico è transitabile solo da un numero limitato di persone che possono beneficiare del permesso di uscita: ammalati, uomini d’affari, dipendenti di organizzazioni internazionali; mentre alla maggior parte della popolazione non è consentita l’uscita.

In Cisgiordania, nel corso di numerosi scontri, 29 palestinesi, tra cui cinque minori, sono stati feriti dalle forze israeliane. Gli scontri avvenuti a Kafr Qaddum (Qalqiliya), durante la dimostrazione settimanale contro le restrizioni di accesso, hanno registrato Il maggior numero di feriti, seguiti dagli scontri presso l’area di Bab az Zawiyah nella città di Hebron. Complessivamente, le forze israeliane hanno condotto 114 operazioni di ricerca-arresto, tre delle quali hanno provocato scontri ed il ferimento di sette palestinesi. La maggior parte dei ferimenti (22) sono stati causati da proiettili gommati, seguiti da quelli dovuti ad inalazione di gas lacrimogeno necessitanti cure mediche (5) e da aggressioni fisiche (3).

Il 17 agosto, a Gerusalemme Est, le forze israeliane hanno sparato ad un cittadino israeliano palestinese di 30 anni, uccidendolo: a quanto riferito, aveva tentato di accoltellare un poliziotto israeliano. L’episodio è avvenuto nella Città Vecchia, presso uno degli ingressi del Complesso Haram ash Sharif / Monte del Tempio; non sono stati segnalati ferimenti di israeliani. Il corpo dell’uomo è trattenuto dalle autorità israeliane, insieme ai corpi di almeno altri quindici palestinesi uccisi in circostanze simili nei mesi precedenti.

Il 28 agosto, nel villaggio di Kobar (Ramallah) in zona B, le autorità israeliane hanno demolito una casa per motivi “punitivi”, sfollando una famiglia di sei persone. La casa apparteneva alla famiglia del 17enne palestinese che, il 26 luglio 2018, nell’insediamento di Adam (governatorato di Gerusalemme), uccise un colono israeliano e venne, a sua volta, ucciso da un altro colono. Il 26 agosto, le Autorità israeliane hanno emesso un ordine di demolizione punitiva contro due piani di un edificio situato nel Campo profughi di Al Amaari (Ramallah). Si tratta dell’abitazione della famiglia di un palestinese accusato di aver ucciso un soldato israeliano durante un’operazione di ricerca-arresto svolta nel maggio 2018. Dall’inizio del 2018, sono state demolite, per ragioni “punitive”, quattro abitazioni; erano state nove in tutto il 2017 e 29 nel 2016.

In Area C e Gerusalemme Est, per mancanza di permessi di costruzione israeliani, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato tre strutture di proprietà palestinese, colpendo i mezzi di sostentamento di 34 persone. Una delle strutture sequestrate ad Al Khader (Betlemme) è una unità di stoccaggio agricolo fornita come assistenza umanitaria in risposta a una precedente demolizione. Nella Comunità di Zanuta (Hebron) è stato emesso [dalle autorità israeliane] un ordine di demolizione contro una scuola in costruzione; era destinata a sostituirne un’altra, utilizzata da 40 bambini, sequestrata in aprile 2018.

Inoltre, in Zona B, vicino alla città di Ya’bad (Jenin), citando norme ambientali israeliane, le Autorità israeliane hanno demolito due strutture in una fabbrica di carbone, ed hanno distrutto oltre dieci tonnellate di legna, colpendo i mezzi di sostentamento di due famiglie. Dal 2016, questo è il terzo episodio di questo genere nella zona.

Il 13 agosto, nella zona di Massafer Yatta, nel sud di Hebron, le Autorità israeliane hanno sequestrato un veicolo 4×4 utilizzato per una clinica mobile, costringendo i residenti a percorrere distanze maggiori per accedere ai servizi di assistenza sanitaria di base. I motivi del sequestro rimangono poco chiari. Il veicolo, utilizzato per il trasporto del personale e delle attrezzature della clinica, era stato fornito da una ONG internazionale. L’area di Massafer Yatta è destinata [da Israele] all’addestramento militare e designata come “zona per esercitazioni a fuoco”: i 1.300 residenti rischiano il trasferimento forzato.

Dodici aggressioni da parte di coloni israeliani hanno provocato il ferimento di sei palestinesi ed estesi danni a proprietà palestinesi. In due distinti episodi, verificatisi il 19 e il 23 agosto, agli incroci di Za’tara e Yitzhar (Nablus), coloni israeliani hanno lanciato pietre contro veicoli palestinesi: feriti cinque palestinesi, tra cui un ragazzo di 16 anni, e danneggiate oltre 50 auto. Le aggressioni sono avvenute all’indomani di un incidente stradale, avvenuto nella stessa zona, tra veicoli palestinesi e israeliani, durante il quale era morto un israeliano. Nella città di Hebron, nella zona controllata dagli israeliani, coloni israeliani hanno aggredito fisicamente e ferito una donna palestinese sorda di 50 anni. In quattro diversi episodi accaduti a Ras Karkar (Ramallah), Al Lubban ash Sharqiya e As Sawiya (entrambi a Nablus) e Sheikh Jarrah (Gerusalemme Est), circa 160 olivi di proprietà palestinese sono stati vandalizzati, secondo quanto riferito, da coloni israeliani. In altri quattro episodi, ad Aqraba e “Asira al Qibliya (entrambi a Nablus), Sinjil (Ramallah) e Al ‘Isawiya (Gerusalemme Est), coloni israeliani hanno forato le gomme di 44 veicoli palestinesi, hanno spruzzato sui muri di una casa palestinese scritte tipo “questo è il prezzo” ed hanno danneggiato un pozzo d’acqua. Inoltre, nell’area Massafer Yatta, quattro attivisti israeliani che, con la loro presenza, garantivano protezione ai palestinesi, sono stati aggrediti fisicamente e feriti da coloni israeliani. Dall’inizio del 2018, la violenza dei coloni è in aumento, con una media settimanale di 5 attacchi che causano feriti o danni. La media era di tre nel 2017 e di due nel 2016.

Secondo resoconti di media israeliani, sono stati segnalati almeno cinque episodi di lancio di pietre da parte di palestinesi contro veicoli israeliani, con conseguenti danni a cinque veicoli privati, vicino a Betlemme, Gerusalemme e Ramallah.

Il valico di Rafah tra Gaza e l’Egitto, sotto controllo egiziano, ha aperto in entrambe le direzioni per sei giorni, e in una sola direzione per altri due giorni. Un totale di 2.896 persone (inclusi 112 pellegrini di ritorno dalla Mecca) hanno potuto entrare a Gaza; 1.832 ne sono uscite (inclusi 438 pellegrini). Dal 12 maggio 2018, il valico è stato aperto quasi continuativamente.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

þ

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Gli aiuti per indebolire i palestinesi,riprendiamo il controllo

Alaa Tartir

29 agosto 2018, Nena News da Middle East Eye

Ramallah, 29 agosto 2018, Nena News – Nel 2006, dopo la vittoria di Hamas alle giuste e democratiche elezioni parlamentari palestinesi, i principali donatori dell’industria internazionale degli aiuti hanno interrotto i finanziamenti ai Territori Occupati di Cisgiordania e Gaza per protesta verso i risultati del voto.

In quel periodo, mentre lavoravo in una nota università palestinese, abbiamo ricevuto lettere su lettere dei donatori che ci informavano che i nostri progetti comuni sarebbero terminati, che la cooperazione era sospesa e che i fondi venivano tagliati.

La brutta faccia degli aiuti

Siamo andati nel panico e ci siamo preoccupati per i progetti che stavamo realizzando; ci siamo sentiti umiliati dal ricevere via fax – nemmeno in un incontro o con una telefonata – una notizia che decideva il nostro futuro. Quell’esperienza ci ha mostrato la brutta faccia dell’industria degli aiuti e ci ha fatto capire quanto cattiva fosse l’idea di lasciare a qualcun altro decidere il nostro destino.

Ci ha anche mostrato che gli aiuti sono un “regalo” due volte dannato: maledice il donatore e il ricevente. Ma ci ha anche insegnato un’importante lezione: se noi palestinesi non diamo dignità al nostro sviluppo, nessuno lo farà.

Questa lezione non è stata compresa bene dalla leadership politica palestinese e da allora gli aiuti internazionali hanno continuato a essere sprecati invece di essere utilizzati efficacemente per trasformare la vita della gente. L’ultimo episodio risale all’inizio dell’anno quando il presidente statunitense Donald Trump ha minacciato di ritirare gli aiuti all’Autorità Nazionale Palestinese.

Non solo taglia i fondi, ma ha anche trasferito l’ambasciata americana a Gerusalemme, riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele e attaccato l’Unrwa (agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, ndt) e l’inalienabile diritto al ritorno palestinese.

A parte qualche focosa dichiarazione e una brillante retorica, la leadership politica palestinese non ha compiuto alcuna azione di senso per controbattere agli Stati Uniti e al loro trumpismo. La scorsa settimana l’amministrazione Usa ha deciso di tagliare oltre 200 milioni di dollari degli aiuti palestinesi, eppure la risposta dei leader palestinesi continua a essere solo a parole, inefficace, dichiarazioni di condanna ma nessuna azione.

A seguire quattro azioni di buon senso che la leaderhip politica palestinese potrebbe considerare per rispondere ai recenti tagli degli aiuti Usa.

Stop al coordinamento alla sicurezza con Israele

Primo, interrompere tutte le relazioni e la cooperazione con l’Uss, il Coordinatore alla Sicurezza Usa. Sarebbe una mossa in armonia con la decisione dell’Olp, le richieste di tutti i partiti politici palestinesi e quelle del popolo palestinese, interrompere il coordinamento alla sicurezza con Israele e modificare le dinamiche del dominio securitario.

Il coordinamento alla sicurezza è stata la principale ragione della creazione dell’Ussc, più di dieci anni fa. L’Ussc non solo viola i principi chiave internazionali sulla consegna degli aiuti perché il suo intervento continua a danneggiare la popolazione ricevente, ma agisce anche come braccio complementare dell’occupazione coloniale israeliana.

Gli aiuti consegnati dagli Usa attraverso l’intervento dell’Ussc non sono aiuti per la Palestina o i palestinesi. Sono aiuti che sostengono le azioni brutali del loro oppressore (l’occupazione israeliana) e aiuti ai contractor amerciani e al loro personale alla sicurezza.

In aggiunta, l’intervento Ussc non è solo diretto a proteggere la sicurezza dell’oppressore, ma ha anche portato a un ulteriore repressione del popolo oppresso (i palestinesi) rendendo le forze di sicurezza dell’Anp più autoritarie del normale, dietro il pretesto di garantire stabilità e ordine pubblico.

I danni causati dalla missione di sicurezza Usa sono evidenti e palesi ed è tempo di riconoscerli responsabili e rifiutarne l’intervento.

Un intervento dannoso

Secondo, chiudere i progetti Usaid. La penetrazione di Usaid nella società palestinese è stata profonda e dannosa fin dall’inizio. Le condizioni imposte sui palestinesi e il tipo di intervento che persegue non solo hanno condotto a una dipendenza nociva dagli aiuti e al sostegno del deleterio status quo, ma ha anche distorto la struttura della società civile palestinese, i suoi valori, le fondamenta e i sostegni del contratto sociale tra governanti e governati.

Per invertire queste tendenze, è tempo di impedire a Usaid di causare ulteriori danni. Il suo intervento futuro rischia di essere ancora più pericoloso perché implementerà la visione politica dell’amministrazione Usa che non fa presagire nulla di buono per ogni tipo di sviluppo positivo, prosperità o pace.

È tempo di femare il solito business di Usaid e riconoscerli responsabili se è la dignità del popolo palestinese che interessa. Se non sarà possibile contrastare lo storico danno causato, sarà un’occasione d’oro per impedirne altri in futuro e la via maestra per farlo è chiudere i progetti di Usaid.

Obiettivi di buon senso

Terzo, tagliare i rapporti con l’ambasciata Usa a Gerusalemme e con il suo staff, il suo supporto, i suoi progetti, il suo personale. Non è intelligente mantenere stretti rapporti e accogliere a braccia aperte un’entità che chiaramente e palesemente dichiara guerra a te, al tuo popolo e ai tuoi diritti fondamentali.

Neppure i principi basilari di diplomaziona scusano un simile atteggiamento. Controbattere e resistere è la reazione naturale. Mentre l’ambasciata Usa a Gerusalemme continua a celebrare le borse di studio che offre a giovani e brillanti palestinesi, agisce senza dubbio come ombra e braccio del governo statunitense nei Territori Palestinesi Occupati per implementare le sue politiche, strategie e visioni politiche.

La mera indifferenza per le azioni dell’ambasciata Usa a Gerusalemme, come ha deciso di fare la leadership politica palestinese, non è né sufficiente né efficace nel modificare le dinamiche di potere.

Quarto e ultimo, tagliare i costi (200 milioni di dollari) dal gonfio budget del settore della sicurezza dell’Autorità Palestinese. Visto che il principale costo nel budget è la sicurezza, che mangia circa il 30% del bilancio ma dà molto poco in termini di sicurezza e protezione al popolo palestinese, questa recente decisione dell’amministrazione Trump offre alla leadership politica palestinese l’opportunità di rivedere le sue priorità e di abbandonare il paradigma che l’ha costretta ad essere solo il subappaltatore all’occupazione israeliana.

Tagliare quei 200 milioni e condividere con il popolo palestinese le prove di quel taglio manderà un messaggio chiaro all’amministrazione Usa e agli attori dell’industria degli aiuti: è tempo di cambiare marcia per assicurare dignità, auto-determinazione e proprietà locale della consegna degli aiuti ai palestinesi.

Ovviamente questi quattro obiettivi proposti sono politici di per sé e avranno conseguenze sul presente e il futuro della leadership palestinese creando sofferenza nel breve termine. Ma, dall’altra parte, sono azioni di buon senso che la maggior parte dei palestinesi aspettano.

(Traduzione a cura della redazione di Nena News)




Ahed Tamimi e la forza delle donne palestinesi

Ramzy Baroud

23 agosto 2018, Al Jazeera

Lamia, Reem, Shaima e Dwlat sono donne palestinesi forti proprio come Ahed, ma le loro storie sono state ignorate.

Ahed Tamimi, la diciassettenne militante palestinese del villaggio di Nabi Saleh in Cisgiordania, è un’icona di una giovane generazione ribelle di palestinesi che ha dimostrato di non tollerare le continue violazioni israeliane dei loro diritti e della loro libertà. Dopo aver passato otto mesi in prigione per aver affrontato i soldati dell’occupazione israeliana nel cortile di casa sua, Ahed è uscita ancor più forte e più determinata a trasmettere al mondo le sofferenze e le lotte del suo popolo.

“Il potere è del popolo ed il popolo saprà decidere il proprio destino e il proprio futuro e lo può fare”, ha detto, rivolgendosi alla folla di sostenitori e giornalisti dopo il suo rilascio.

La storia di Ahed ha ricevuto una sproporzionata attenzione da parte delle agenzie di comunicazione internazionali, che invece hanno spesso ignorato il coraggio e la sofferenza di tante ragazze e donne palestinesi che da molti anni vivono sotto l’occupazione e l’assedio militare di Israele.

Cosciente di questo, la madre di Ahed, Nariman, ha detto: “Sinceramente, è stato probabilmente l’aspetto di Ahed che ha provocato questa solidarietà internazionale, e questo è un fatto razzista, perché molti minori palestinesi sono nella situazione di Ahed, ma non sono stati trattati allo stesso modo.”

C’è molto di vero in questa affermazione. Quando le donne palestinesi non sono invisibili nell’informazione dei media occidentali, vengono dipinte come sventurate vittime di circostanze al di là del loro controllo – l’occupazione militare della loro terra e l’“arretratezza” della loro stessa società patriarcale. Difficilmente vengono viste come promotrici di cambiamento; al massimo, sono presentate come intrappolate in un “conflitto” in cui non giocano alcun ruolo attivo.

L’invisibilità delle donne arabe e musulmane nei media occidentali ha radici in una lunga storia di colonialismo, pieno di errate convinzioni e rappresentazioni razziste. Nel caso palestinese, queste errate rappresentazioni pregiudicano l’urgenza politica ed umanitaria della drammatica condizione delle donne palestinesi e del popolo palestinese nel suo complesso.

In realtà le donne palestinesi sono difficilmente mere spettatrici nella persecuzione e nella resistenza dei palestinesi e, a prescindere dal loro orientamento politico, dalla loro religione o residenza, meritano di essere rese visibili e comprese nel più ampio contesto dell’occupazione israeliana della Palestina.

Ciò che segue sono le brevi storie di quattro forti donne di Gaza che, nonostante la loro lotta ed il loro coraggio, rimangono invisibili nei media. Allevano bambini, insegnano musica, partecipano alle proteste alla barriera tra Gaza e Israele, subiscono la perdita dei loro cari e ferite e resistono di fronte ad una dura vita sotto l’assedio.

Tornerò ad unirmi alla Grande Marcia del Ritorno’ – Lamia Ahmed Hussein, 37 anni, Khan Younis

Quando il marito di Lamia, Ghazi Abu Mustafa, il 27 luglio è stato ucciso da un cecchino israeliano alla barriera di separazione tra Gaza e Israele, lei stava lavorando sul campo come volontaria paramedica.

Lamia è la maggiore di nove sorelle e fratelli. La sua famiglia, che ora risiede nella città di Khan Younis, nel sud della Striscia di Gaza, è originaria della cittadina di B’ir Al-Saba’a nella Palestina storica e, come milioni di palestinesi a Gaza e altrove, è ora in esilio permanente.

La fede di Lamia nel suo diritto a tornare nella casa della sua famiglia in Palestina è ciò che l’ ha motivata ad unirsi alla ‘Grande Marcia del Ritorno’ il 30 marzo, in cui ricorreva anche “il Giorno della Terra”.

La sua decisione è stata appoggiata con forza da suo marito Ghazi, di 43 anni, che si è unito alla Marcia proprio il primo giorno. Lamia si è offerta come volontaria paramedica, aiutando centinaia di feriti palestinesi ogni venerdì. Conosceva molto bene quanto importante potesse essere il suo ruolo per quei coraggiosi dimostranti e per le loro famiglie. In passato, suo marito è stato ferito diverse volte negli scontri coi soldati israeliani.

Il suo primo ferimento, che gli tolse la vista all’occhio sinistro, avvenne durante la mobilitazione ampiamente non-violenta contro l’occupazione israeliana (1987-1993), nota come la prima Intifada. Nella Marcia del Ritorno è stato colpito più volte e, con Lamia al suo fianco, è ritornato alla barriera zoppicando, per essere accanto al suo popolo.

Lamia e Ghazi hanno affrontato insieme le loro sfide, hanno cresciuto una famiglia nella impoverita Gaza ed hanno protestato uno accanto all’altra quando la marcia di Gaza ha coinvolto l’intera comunità, sia uomini che donne, come non era mai avvenuto prima.

A luglio Ghazi è stato colpito a morte. È morto mentre Lamia stava salvando la vita di un altro dimostrante gravemente ferito, Nahid Qadeh.

Lamia era distrutta, ma non spezzata. Una vita di difficoltà e sofferenze le ha insegnato la forza e la resilienza. “Una barca impegnata ad aiutare gli altri non affonderà mai”, le ha detto Ghazi un giorno mentre si univano ad una grande folla di manifestanti alla barriera.

Madre di sei figli, rimasta vedova, ha tutte le intenzioni di riprendere il suo lavoro alla barriera.

“Niente farà vacillare la mia fede nel mio diritto al ritorno”, dice, una lezione che insegna continuamente ai suoi figli.

Benché il futuro di Gaza rimanga fosco, la determinazione di Lamia ad ottenere giustizia – per la sua famiglia, per il suo popolo e per sé stessa – rimane indistruttibile.

Non smetterò di cantare’ – Reem Anbar, 28 anni, Gaza City

Reem ha trovato la sua vocazione durante la guerra di Israele contro Gaza nell’estate del 2014. Avrebbe portato il suo ‘oud’ [il liuto arabo, ndtr.] ogni giorno dalla sua casa al Centro culturale Sa’id Al-Mashal, dove avrebbe trascorso ore a suonare per gli impauriti bambini e le loro famiglie, che vi avevano trovato rifugio dagli incessanti bombardamenti.

Per anni Reem ha tentato di lasciare Gaza in cerca di un posto dove sviluppare la sua passione per la musica presso un autorevole istituto artistico. Ma la sua richiesta di uscire è stata ripetutamente respinta da Israele. Ci sono migliaia di studenti come Reem che non hanno potuto usufruire di opportunità educative al di fuori di Gaza per la stessa ragione.

Reem suona l’‘oud’ da quando era piccola. Era il suo compagno, soprattutto nelle lunghe notti dei bombardamenti israeliani. Ogni volta che le bombe cominciavano a cadere, Reem prendeva il suo strumento ed entrava in un magico mondo in cui le note ed i ritmi avrebbero sconfitto il caos assoluto fuori dalla sua finestra.

Quando Israele ha scatenato l’attacco del 2014 contro Gaza, Reem ha invitato altre persone nel suo mondo musicale. Ha suonato per i bambini traumatizzati nel centro culturale, che cantavano mentre le bombe israeliane cadevano sulle loro case. Quando la guerra è finita Reem ha continuato il suo lavoro, aiutando i bambini feriti e resi disabili durante la guerra, nel centro stesso ed altrove. Insieme ad altri giovani artisti ha composto pezzi musicali per loro e ha allestito spettacoli per aiutare questi bambini a superare il trauma e favorire la loro integrazione nella società.

Alla fine del 2017 Reem è finalmente riuscita a lasciare Gaza per intraprendere l’istruzione superiore in Europa. Il 9 agosto 2018 ha appreso col cuore a pezzi che Israele aveva bombardato il Centro Culturale Sa’id Al-Mashal, che è andato completamente distrutto.

Reem intende tornare a Gaza quando avrà completato il suo percorso educativo. Vuole ottenere una laurea magistrale in terapia della musica, per poter contribuire a risanare una generazione di bambini segnata dalla guerra e dall’assedio.

“Vogliono farci smettere di cantare”, dice. “Ma accadrà il contrario. La Palestina sarà sempre un luogo di arte, storia e ‘sumud’ – tenacia. Lo giuro, terremo i nostri concerti nelle strade, se necessario.”

Sconfiggerò il cancro’ – Shaima Tayseer Ibrahim al-Shamali, 19 anni, Rafah

Shaima può a stento parlare. Il suo tumore al cervello ha colpito la sua mobilità e la sua capacità di esprimersi. Eppure è decisa a conseguire la laurea in Educazione di base all’università aperta Al-Quds di Rafah, nel sud della Striscia di Gaza.

La sofferenza che affronta questa diciannovenne è straordinaria, anche per gli standard della povera e isolata Gaza. È la maggiore di cinque figli in una famiglia che è caduta in povertà in seguito all’assedio israeliano. Suo padre è pensionato e la famiglia ha dovuto lottare, ma ciononostante Shaima è determinata a poter studiare.

Doveva sposarsi dopo la laurea all’università. La speranza ha ancora modo di insediarsi nei cuori dei palestinesi di Gaza e Shaima sperava in un futuro migliore per sé e per la sua famiglia.

Ma il 12 marzo è cambiato tutto.

Quel giorno a Shaima è stato diagnosticato un tumore aggressivo al cervello. Appena prima della sua prima operazione all’ospedale Al-Makassed di Gerusalemme il 4 aprile, il suo ragazzo ha rotto il fidanzamento.

L’operazione ha lasciato a Shaima una paralisi parziale. Parla e si muove con grande difficoltà. Ma vi erano notizie peggiori; ulteriori analisi in un ospedale di Gaza hanno rilevato che il tumore non era stato del tutto rimosso e doveva essere asportato velocemente, prima che si espandesse di più.

A peggiorare la situazione, il 12 agosto il ministero della Sanità di Gaza ha annunciato che non sarebbe più stato in grado di curare i malati di cancro nell’enclave assediata da Israele.

Shaima sta ora lottando per la sua vita mentre aspetta il permesso israeliano di passare il checkpoint di Beit Hanoun (chiamato da Israele valico di Erez) verso la Cisgiordania, attraverso Israele, per un’operazione urgente.

Molti abitanti di Gaza sono morti in quel modo, nell’attesa di un pezzo di carta, un permesso, che non è mai arrivato. Shaima comunque continua a sperare, mentre tutta la sua famiglia prega costantemente che la loro figlia maggiore vinca la sua battaglia contro il cancro e riprenda i suoi studi universitari.

Difenderò la mia famiglia e il mio popolo’ – Dwlat Fawzi Younis, 33 anni, Beit Hanoun

Dwlat si occupa di una famiglia di 11 persone, compresi i suoi nipoti e suo padre gravemente malato. Ha dovuto diventare capofamiglia quando suo padre, a 55 anni, è stato colpito da insufficienza renale ed è stato impossibilitato a lavorare.

Deve provvedere a tutta la famiglia con il denaro che guadagna come parrucchiera. I suoi fratelli e sorelle sono tutti disoccupati. Aiuta anche loro, tutte le volte che può.

Dwlat è una combattente; è sempre stata così. Forse è stata la sua esperienza del 3 novembre del 2006 a rafforzare la sua determinazione. Un soldato israeliano le ha sparato mentre stava manifestando con un gruppo di donne contro l’attacco israeliano e la distruzione della storica moschea Umm Al-Nasr a Beit Hanoun. Quel giorno sono state uccise due donne. Dwlat è stata colpita da una pallottola al bacino, ma è sopravvissuta.

Dopo mesi di cure è guarita ed ha ripreso la sua lotta quotidiana. Inoltre non ha mai perso occasione per alzare la voce in solidarietà con il suo popolo durante le proteste.

Il 14 maggio 2018, quando gli Stati Uniti hanno ufficialmente trasferito la loro ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, 60 dimostranti palestinesi sono stati uccisi e circa 3000 feriti presso la barriera tra Israele e Gaza. Dwlat è stata colpita alla coscia destra, il proiettile ha trapassato l’osso ed ha tagliato un’arteria.

Da allora la sua salute è peggiorata velocemente ed ora non è in grado di lavorare. Ma Israele non ha ancora approvato la sua richiesta di essere trasferita all’ospedale Al-Makassed di Gerusalemme per esservi curata.

Eppure Dwlat sostiene che continuerà ad essere un membro attivo ed efficiente della comunità di Gaza – per amore della sua famiglia e del suo popolo, anche se questo significa andare alle proteste alla barriera di Gaza con le stampelle.

In realtà, Ahed, Lamia, Reem, Shaima e Dwlat incarnano lo straordinario spirito e coraggio di ogni donna palestinese che vive sotto l’occupazione e l’assedio di Israele in Cisgiordania e a Gaza. Resistono e persistono, nonostante l’enorme prezzo che pagano, e continuano la lotta delle generazioni di coraggiose donne palestinesi che le hanno precedute.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Al Jazeera.

Ramzy Baroud è un giornalista accreditato internazionalmente, consulente in materia di mezzi di comunicazione e scrittore.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Ira contro i tagli di Trump agli aiuti a Gaza

Hamza Abu Eltarabesh

21 agosto 2018,The Electronic Intifada

Ho riconosciuto l’uomo steso a terra durante la recente protesta a Gaza City. Il suo nome è Nidal al-Shanti. Un tempo è stato mio insegnante ed è stato gentile con me.

Quando mi sono ferito ad una mano in classe 14 anni fa, al-Shanti mi ha portato all’ospedale. Mi ha comprato un succo d’arancia e – dopo che mi hanno curato – mi ha riportato a casa.

Con mio sollievo, al-Shanti ha presto ripreso conoscenza dopo essere svenuto durante la protesta. Ha bevuto un po’ d’acqua e immediatamente si è lanciato in un’invettiva contro il suo datore di lavoro, l’UNRWA, l’agenzia dell’ONU per i rifugiati palestinesi.

Era appena venuto a sapere di aver perso il lavoro.

L’UNRWA ha ucciso noi e le nostre famiglie,” ha detto al-Shanti, insegnante di educazione tecnica.

Al-Shanti, di 42 anni, ha recentemente preso in prestito dalla banca 70.000 dollari per poter comprare una nuova casa. Aveva previsto di traslocarvi alla fine dell’anno.

Ora ciò sembra improbabile perché è stato privato del suo stipendio.

Anche l’incertezza su come rispetterà altri impegni finanziari gli provoca tensione. Suo figlio Walid di 9 anni ha la leucemia e necessita di cure che costano 300 dollari al mese.

L’UNRWA, fornitore indispensabile di istruzione e cure mediche per i rifugiati palestinesi, sta attraversando una crisi. Il taglio di 300 milioni di dollari dell’aiuto USA all’agenzia quest’anno ha messo a repentaglio molte delle sue attività.

Lo scorso mese l’agenzia ha annunciato misure che potrebbero colpire 1.000 posti di lavoro, ed anche determinare riduzioni di stipendio per quanti rimarranno sul suo libro paga.

Più di cento dei suoi dipendenti di Gaza sono stati informati in luglio che non avranno il rinnovo del contratto. Circa 580 addetti sono stati messi al lavoro a tempo ridotto.

Benché i tagli ai finanziamenti siano stati imposti dal presidente Donald Trump e dalla sua amministrazione a Washington, molte persone a Gaza dirigono la propria rabbia contro la stessa agenzia.

Collera

Invece di aiutarci in quanto rifugiati, l’UNRWA sta giocando con le nostre condizioni di vita,” dice Fathi Shehada. Come lavoratore sociale, è stato impiegato nei programmi di buoni acquisto alimentari prima dei recenti tagli.

Dalla morte di suo padre nel 2008, la famiglia di Shehada ha contato moltissimo sul suo lavoro per sbarcare il lunario.

Non sono ancora sposato,” dice il trentaduenne. “Ho rimandato il matrimonio per poter aiutare la mia famiglia. Ora pare che dovrò prolungare questo ritardo per altri anni – finché non troverò un altro lavoro.”

Nedaa Ismail, di 31 anni e madre di 4 figli, ha lavorato come psicologa per una scuola dell’UNRWA. Perdere il suo lavoro avrà pesanti conseguenze sulla sua famiglia.

Il salario di suo marito come ufficiale di polizia dell’amministrazione locale di Gaza non è sufficiente per la sopravvivenza della famiglia. Oltretutto negli ultimi tempi egli ha ricevuto solo parte del suo stipendio.

La mia famiglia ha bisogno che io lavori, “dice. “Non ho idea di cosa fare ora. L’UNRWA sta punendo i nostri figli rifugiati.”

La collera del personale dell’UNRWA è stata palpabile durante le recenti proteste. L’agenzia si è lamentata di alcune delle forme di lotta adottate dai manifestanti, come impedire ai dirigenti di raggiungere i propri uffici.

Durante una manifestazione un uomo si è cosparso di gasolio. Altri sono intervenuti per impedire che si desse fuoco.

L’uomo in questione era Jihad Wishah, un trentacinquenne che aveva anche lui lavorato come psicologo in una scuola dell’UNRWA.

Wishah è sposato da 10 anni, ma lui e sua moglie non sono riusciti ad avere bambini. La coppia aveva previsto di andare in Egitto per un trattamento di fertilità alla fine dell’anno. Wishah teme che non potrà pagarsi il viaggio.

Quando ha sentito parlare dei tagli dell’UNRWA, “il mio sogno di avere figli è svanito,” dice Wishah.

Decisione politica”

Gli organizzatori delle proteste hanno giurato di continuarle.

Amir El-Mishal, che rappresenta un sindacato dei dipendenti dell’UNRWA, ha chiesto che la decisione dell’agenzia di tagliare i posti di lavoro sia ritirata.

Un portavoce dei manifestanti, Ismael al-Talaa, ha osservato che la gente che perde il proprio lavoro fornisce servizi indispensabili. Porre fine ai contratti dei lavoratori dell’UNRWA avrà effetti negativi su molte delle persone più vulnerabili di Gaza.

Questa è una decisione politica,” dice al-Talaa, che ha perso il suo lavoro nel programma di buoni alimentari dell’agenzia.

Da quando sono stati annunciati i tagli ai posti di lavoro, sono emerse nuove prove su come importanti figure di Washington intendano danneggiare l’UNRWA.

All’inizio di quest’anno Jared Kushner, consigliere di alto livello e genero di Trump, ha espresso il desiderio di “distruggere” l’UNRWA. In uno scambio di mail Kushner ha sostenuto che l’agenzia è “corrotta” ed “inefficiente”.

L’accusa di Kushner è in contrasto con considerazioni dell’UNRWA secondo cui il governo USA aveva espresso soddisfazione per quanto l’agenzia fosse trasparente ed affidabile.

Datato a gennaio, il messaggio mail di Kushner è stato pubblicato questo mese dalla rivista Foreign Policy [bimestrale USA di politica internazionale e di tendenza conservatrice, ndtr.].

La distruzione favorita da Kushner incrementerà le sofferenze dei palestinesi.

Circa metà dei due milioni di abitanti di Gaza riceve aiuti alimentari dall’UNRWA, che a Gaza gestisce anche più di 250 scuole e 22 strutture sanitarie.

Alla fine della scorsa settimana l’UNRWA ha annunciato che le lezioni per 526.000 bambini rifugiati palestinesi che frequentano le sue 711 scuole in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza, in Giordania, in Libano e in Siria inizieranno regolarmente in settembre.

Ma il commissario generale dell’UNRWA ha avvertito che “attualmente abbiamo fondi per gestire i servizi dell’agenzia fino alla fine di settembre,” e che sono necessari altri 217 milioni di dollari per garantire che le scuole rimangano aperte per il resto dell’anno.

Molti palestinesi temono che gli attacchi contro l’UNRWA siano parte di una più pesante aggressione ai diritti dei rifugiati.

Akram Atallah, un analista politico che scrive una rubrica sul giornale al-Ayyam [pubblicato a Ramallah, ndtr.], sospetta che l’amministrazione Trump intenda impedire ai palestinesi di tornare alle case che hanno perso durante la Nakba, la pulizia etnica della Palestina durante il 1948.

Benché questo diritto sia stato confermato da risoluzioni ONU, Israele ed i suoi alleati a Washington hanno lavorato a lungo per sabotarlo. Atallah crede che gli USA vogliano escludere i diritti dei rifugiati da ogni negoziato tra Israele e i dirigenti politici palestinesi.

Dopo che Trump ha annunciato che avrebbe riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele, gli USA ed Israele ora stanno lavorando per porre fine alla discussione sui rifugiati,” ha affermato Atallah. “Mi aspetto che la leadership americana presto chiederà che il diritto al ritorno sia eliminato dai negoziati.”

Hamza Abu Eltarabesh è un giornalista di Gaza.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




I Democratici stanno abbandonando Israele?

Rod Such

7 agosto 2018, The Electronic Intifada

Cracks in the Wall: Beyond Apartheid in Palestine/Israel di Ben White, Pluto Press (2018)

Recentemente la deputata del Minnesota Betty McCollum ha preso la parola alla Camera dei Rappresentanti degli USA invitando i suoi colleghi a firmare una legge senza precedenti che vieterebbe ad Israele l’uso degli aiuti militari USA per incarcerare minori palestinesi.

Questo sviluppo evidenzia quello che il giornalista e scrittore Ben White descrive nel suo ultimo libro, Cracks in the Wall [“Crepe nel Muro, ndtr.] come l’inizio della fine dell’appoggio bipartisan allo Stato di Israele [negli USA].

White identifica tre fratture che hanno importanti conseguenze per il futuro della Palestina: Democratici USA che parlano a favore dei diritti dei palestinesi, ebrei americani che si oppongono all’occupazione e in qualche caso appoggiano il movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni [contro Israele] e il crescente numero di autorità locali che in Europa stanno aderendo al BDS.

White esamina in modo sintetico e senza esagerazioni la strada percorsa finora dal partito Democratico. Peraltro dimostra in modo convincente che le crepe esistono davvero, notando solo come esempio l’inequivocabile opposizione dei Democratici alla nomina di David Friedman come ambasciatore USA in Israele da parte del presidente Donald Trump.

Laddove in precedenza una tale nomina è passata senza alcuna complicazione nel congresso USA, questa volta 46 senatori democratici hanno votato contro la nomina di Friedman, un esplicito sostenitore della colonizzazione illegale da parte di Israele.

La cosa ancora più importante, forse, sono i passi avanti evidenti nella base progressista del partito Democratico. White cita un sondaggio del 2015 che ha rilevato che il 47% della “élite d’opinione” democratica – una categoria descritta come molto colta e politicamente attiva – vede Israele come un “Paese razzista”. Ora che una percentuale molto maggiore di repubblicani rispetto ai democratici appoggia Israele, White nota che l’impopolarità di Trump tra i democratici e gli indipendenti non farà che accelerare la tendenza. Gli elettori repubblicani, per esempio, hanno approvato l’iniziativa di Trump di spostare l’ambasciata USA a Gerusalemme con il 76% contro l’11%, rispetto al solo 12% di approvazione tra i democratici – con il 65% di contrari.

Allo stesso modo le crescenti divisioni all’interno della comunità ebraica USA promettono di stravolgere il concetto secondo cui le critiche alle politiche del governo israeliano sono indice di antisemitismo. L’autore cita in particolare la crescente solidarietà con i palestinesi ed il loro diritto all’autodeterminazione tra gli ebrei USA, come esemplificato dalla rapida crescita di “Jewish Voice for Peace” [gruppo di ebrei USA contrari all’occupazione, ndtr.] con le sue oltre 70 sezioni, più di 250.000 sostenitori on line e 15.000 iscritti paganti.

Potere in diminuzione” della lobby

Ma non esclude da questa tendenza il gruppo progressista sionista “J Street” [ebrei USA moderatamente critici nei confronti del governo israeliano, ndtr.], notando che, nonostante il suo programma conservatore, “ha giocato un ruolo fondamentale nella crescente divisione tra gli ebrei americani riguardo ad Israele.”

Inoltre, sia “J Street” che “Jewish Voice for Peace” si sono uniti a sostegno dell’accordo sul nucleare iraniano, che ha rappresentato una sfida significativa per la tradizionale lobby israeliana e per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Netanyahu si è inimicato molti nella la comunità ebraica e nel partito Democratico quando si è sfrontatamente allineato ai repubblicani scavalcando la Casa Bianca di Barak Obama, cosa mai avvenuta prima, per rivolgersi ad una sessione congiunta del Congresso nel 2015.

Questo discorso non è riuscito ad evitare la successiva approvazione dell’accordo [con l’Iran] da parte del Senato USA, con solo quattro senatori democratici che hanno votato contro insieme ai Repubblicani. Al Congresso, 25 Democratici hanno votato con i Repubblicani, ma quel voto è servito solo come rifiuto dell’accordo del presidente Obama e non è riuscito a far fallire il patto, nonostante gli intensi tentativi da parte del gigante della lobby israeliana, l’AIPAC [American Israel Public Affairs Committee, principale gruppo di pressione filoisraeliano negli USA, ndtr.].

Il “New York Times” ha affermato che il voto “ha messo in rilievo il ridotto potere della forza lobbystica israeliana,” un’affermazione che rimane vera nonostante la decisione di Trump di revocare l’accordo.

La terza crepa nel muro che White mette in evidenza è la crescente adesione al BDS in Europa, un mercato fondamentale delle esportazioni di Israele. L’adesione al BDS da parte di consigli comunali in Spagna e in parte di Italia, Francia, Irlanda e Gran Bretagna minaccia di ridurre le esportazioni di Israele e lo isola ulteriormente sul piano internazionale.

Ristabilire l’umanità

Nonostante le crescenti divisioni, White comprende che nessuna crepa sembra essersi aperta tra gli ebrei israeliani. Analizzando i risultati delle elezioni israeliane nel corso dei decenni, conclude che gli ebrei israeliani continuano ad essere uniti attorno alle politiche governative.

Non c’è un blocco di sinistra visibile in Israele, scrive, e l’unica divisione è tra quelli che vogliono mantenere lo status quo e quelli che vogliono annettere esplicitamente la Cisgiordania. Attribuisce questa situazione all’ideologia sionista, che gli ebrei israeliani continuano ad accettare come il loro sguardo sul mondo.

Ciò rende il superamento dell’apartheid più difficile, ma non impossibile.

Indagando sul suo sottotitolo – “Oltre l’apartheid in Palestina/Israele” – White suggerisce che garantire agli ebrei israeliani la loro sicurezza e la loro possibilità di vivere in una società democratica basata su uguali diritti rimane un compito importante. Citando figure quali Edward Said, Virginia Tilley e Omar Barghouti, White enfatizza l’importanza di catturare l’immaginazione degli oppressori dei palestinesi e di convincerli che decolonizzare Israele significa porre fine alla dominazione, non ai diritti o alla sicurezza.

La creazione di un unico Stato democratico prospetta il ritorno dell’umanità per gli stessi colonizzatori, che altrimenti, egli suppone, continueranno a disumanizzare tutto.

Cracks in the Wall” apre una discussione attesa da tempo all’interno del movimento di solidarietà con la Palestina sul significato di queste crescenti fratture e su come approfondirle. Anche altre crepe nella società civile, tuttavia, meritano attenzione, ma purtroppo White le ignora – soprattutto quelle tra le denominazioni cristiane progressiste e gli evangelici di destra, e tra gli stessi movimenti della sinistra progressista, che sempre più appoggiano i diritti dei palestinesi come cogenti nelle alleanze tra vari settori.

Solo questo tipo di sostegno di base sempre più ampio a favore dei palestinesi può mettere alla prova l’establishment del partito Democratico, che continua a vedere Israele come un alleato egemone in Medio Oriente, piuttosto che come il peso che esso rappresenta.

Il lettore che intraprende con White questa esplorazione di fratture e possibili risultati illuminati riceverà in cambio la sua lucida e sintetica prosa che di tanto in tanto raggiunge vette di eloquenza.

White lo è in particolare quando fornisce il più convincente risultato che vede per la regione, citando anche il libro “I saw Ramallah” [“Ho visto Ramallah”] di Mourid Barghouti:

Quindi un unico Stato democratico offre qualcosa di straordinariamente ordinario: la prospettiva di ebrei israeliani e palestinesi che sfuggono al ‘cerchio infernale della disumanità’ creato dalla ‘radicale distinzione sionista tra ebrei privilegiati in Palestina e non ebrei senza privilegi,’ andando oltre l’apartheid, e quindi, cooperando e discutendo, amando e odiando, pregando e protestando, lavorando e riposando – in altre parole, vivendo– come cittadini uguali di una patria comune.”

Rod Such è un ex curatore delle enciclopedie “World Book” ed “Encarta” [una cartacea e l’altra digitale, entrambe pubblicate negli USA, ndt.]. Vive a Portland, Oregon, ed è attivo nella campagna di Portland “liberi dall’occupazione”.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Israele escogita l’ “assicurazione BDS” per proteggere ‘Eurovisione’

Asa Winstanley

17 agosto 2018 , Middle East Monitor

Non c’è forse miglior barometro per misurare fin dove Israele può arrivare nel diffamare, attaccare e sabotare il movimento internazionale per i diritti dei palestinesi del suo atteggiamento verso il BDS.

Ricordiamoci che il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni non è altro che un tentativo di rendere Israele responsabile in base ai principi del diritto internazionale e ai fondamentali diritti umani, laddove i governi nazionali per decenni hanno rifiutato di farlo.

Il BDS invita ad un boicottaggio totale di Israele fino a quando non concederà i tre principali diritti umani dei palestinesi, che sta attualmente violando: libertà, eguaglianza e [diritto al] ritorno.

I palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza (insieme ai siriani delle Alture del Golan) vivono sotto un’occupazione militare illegale, che entra ora nel 52mo anno. Perciò i palestinesi chiedono libertà.

I palestinesi cittadini di Israele – mentre godono di alcuni simbolici diritti civili – non hanno eguaglianza, essendoci più di 65 leggi (e continuano ad aumentare) che li discriminano per la colpa di non essere ebrei. Perciò i palestinesi chiedono eguaglianza.

E i rifugiati palestinesi in tutto il mondo vivono in campi profughi dispersi e ormai consolidati, privati della loro patria dopo che i loro avi sono stati espulsi con i fucili puntati dalle milizie sioniste che hanno costituito l’esercito israeliano. A differenza che in ogni altro conflitto nel mondo, sono privati del loro diritto fondamentale (sia in base al diritto internazionale che ai principi etici basilari) di tornare nella loro patria. Perciò i palestinesi chiedono il diritto al ritorno.

Queste tre richieste sono riportate nell’appello del BDS del 2005, il documento fondativo del movimento, che è promosso dalla totalità della società civile palestinese.

I diritti umani basati sul diritto internazionale non sono merce di scambio da barattare con la pretesa di essere “ragionevoli” o “realisti”. I diritti dei palestinesi, come i diritti di tutti gli esseri umani, sono inalienabili e non possono essere ceduti da nessun traditore o leader politico di alcuna fazione.

Il movimento BDS ha messo Israele sulla difensiva.

C’è tutto un “ministero” del governo ora dedicato solamente a combattere il BDS – in ciò che definisce una “guerra”. Utilizzando il comune eufemismo israeliano per assassinio, il ministro spia di Israele Yisrael Katz nel 2016 ha minacciato “l’eliminazione civile” del cofondatore del movimento BDS Omar Barghouti. L’anno seguente Barghouti ha ricevuto il divieto di viaggiare ed è stato vittima di una causa legale per un’“evasione fiscale” inventata ad arte.

Questo cosiddetto ministero – il ministero degli Affari Strategici – è diventato in effetti un nuovo ramo delle agenzie di spionaggio israeliane. È guidato dall’ex ufficiale di alto rango dell’intelligence militare Sima Vaknin-Gil, e la maggior parte del suo staff proviene da diverse agenzie di spionaggio israeliane.

È impegnato non solo nel “monitoraggio” del movimento globale BDS, ma in attività di sabotaggio. Il giornalista veterano dell’intelligence israeliana Yossi Melman le ha definite “operazioni segrete”.

La natura globale di questa minaccia significa che Israele è impegnato in attività sovversive in territorio straniero, incluso il Regno Unito, molto probabilmente in violazione delle leggi locali.

Israele interferisce apertamente nei sistemi elettorali degli Stati Uniti e del Regno Unito ad un livello che supera di gran lunga qualunque cosa di cui la Russia sia mai stata accusata, per non parlare dell’ attendibilità dimostrata.

La campagna segreta di sabotaggio ha diversi fronti, compreso il partito Laburista di Jeremy Corbyn, ma l’obiettivo principale nel mondo è il movimento BDS. A differenza di precedenti “minacce strategiche” al sistema israeliano di razzismo e occupazione, il ministero degli Affari Strategici comprende che il BDS non ha un’unica leadership che possa essere “decapitata”, come è stato con i molti leader palestinesi – sia della lotta armata che di quella senza armi – che ha assassinato in passato.

Perciò si impegna invece in una campagna di sabotaggio ad ampio raggio, che prende di mira questo movimento globale guidato dai palestinesi.

Il fatto che il governo sembra aver escogitato una sorta di “assicurazione BDS” per proteggere il programmato festival musicale “Eurovisione”, che dovrebbe svolgersi in Israele il prossimo anno è un sintomo piuttosto divertente di quanto gli strateghi israeliani temano il movimento BDS.

A giugno gli attivisti BDS contro l’ “Eurovisione” [gara canora internazionale, che si svolge nel Paese vincitore dell’edizione precedente, nel 2018 Israele, ndtr.] israeliana hanno rivendicato la loro prima vittoria. Avendo clamorosamente politicizzato la competizione, la ministra della Cultura di Israele (ed ultra razzista) Miri Regev è stata costretta ad un’umiliante marcia indietro.

Regev aveva sostenuto che “Eurovisione” dovesse svolgersi a Gerusalemme, o non tenersi affatto. Ha preso questa posizione nel tentativo di accrescere la legittimità dell’illegittima pretesa di Israele che Gerusalemme sia la sua capitale.

Il problema ovviamente è che, nonostante il molto controverso spostamento da parte di Trump dell’ambasciata USA nella città all’inizio di quest’anno, nessun Paese europeo riconosce la pretesa di Israele e per tal motivo tutti mantengono le proprie ambasciate a Tel Aviv.

La stampa israeliana ha riferito che lei ha dovuto fare marcia indietro a causa della reazione negativa e che Tel Aviv viene ora considerata come la sede del pacchiano festival pop. Gli attivisti BDS hanno invitato a mantenere alta la pressione finché esso non venga definitivamente annullato.

Anche se nel passato gli artefici della propaganda israeliana hanno cercato di mostrare pubblicamente di ignorare il BDS e ridurlo ad un elemento irrilevante, quel tempo è molto lontano.

Questa “assicurazione BDS” è un segnale di quanto grave sia considerata la minaccia del BDS all’occupazione israeliana. Questa settimana il quotidiano di Tel Aviv Haaretz ha riferito che l’emittente pubblica è in trattativa con il ministero israeliano delle Finanze sui termini di un massiccio prestito di 13,5 milioni di dollari per coprire i costi dello svolgimento del festival.

Secondo il quotidiano, “il ministero delle Finanze si impegnerebbe a coprire l’ammontare del prestito se il festival alla fine non si tenesse in Israele, a causa di circostanze attenuanti come un terremoto, una guerra o un boicottaggio organizzato dal BDS, Movimento per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni.”

A quanto pare le condizioni finali non sono state ancora concordate, ma questo genere di “assicurazione BDS” è probabilmente un segnale di come andranno le cose.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Un ‘tradimento nazionale’ da parte di Fatah…o di Hamas?

Ramona Wadi

16 agosto 2018, Middle East Monitor


Ieri, quando è entrato in vigore il cessate il fuoco tra Hamas e Israele, mediato dall’ONU e dall’Egitto, Ramallah è sbottata in una litania di furibondi commenti. L’ importante dirigente di Fatah Azzam Al-Ahmad è stato così citato dall’agenzia di informazioni Wafa: “La tregua tra Hamas e Israele di alcuni giorni fa è un tradimento del popolo palestinese e della sua causa nazionale.” La dirigenza palestinese, ha dichiarato, “non ha tempo per simili inutili pagliacciate.”

Il cessate il fuoco è soltanto un cessate il fuoco. La retorica ostile di Israele prosegue, in particolare da parte del ministro della Difesa Avigdor Lieberman, che ha ribadito che è imminente una nuova ripresa di violenze contro Gaza. Se si eliminano le sottigliezze diplomatiche, come occorrerebbe fare per ridurre la confusione riguardo alle intenzioni, è chiaro che né Hamas né Israele hanno concordato nulla che sia fuori dall’ordinario. Hamas ha solo chiesto l’adempimento delle condizioni che hanno portato alla conclusione dell’operazione “Margine Protettivo” nel 2014. Questo non è un tradimento nazionale, e neppure una pagliacciata, come sostenuto da Al-Ahmad. È una dimostrazione di quanto Hamas continui ad incontrare vincoli sia nella resistenza che nella diplomazia. Parte della colpa ricade sull’Autorità Nazionale Palestinese e sulla sua disponibilità ad appoggiare la pregiudizievole posizione internazionale che mira alla completa colonizzazione della Palestina.

Il tradimento nazionale di cui i dirigenti di Fatah dovrebbero parlare è, senza dubbio, l’accettazione degli Accordi di Oslo, che si sono dimostrati una grottesca pagliacciata per i palestinesi – per dirla in sintesi, un bagno di sangue che ha lacerato la terra e il popolo attraverso i compromessi su Gerusalemme, l’espansione delle colonie, il coordinamento sulla sicurezza con Israele, il mercanteggiamento sui prigionieri palestinesi, lo sfruttamento della resilienza e resistenza palestinese, il trascurare l’importanza del diritto al ritorno dei palestinesi e la collaborazione con la comunità internazionale nel mantenere la retorica compromissoria dei due Stati e spogliare i palestinesi del loro diritto alla Palestina storica.

Nel momento in cui Hamas si opponeva strenuamente agli Accordi di Oslo, Fatah era impegnata a celebrare il suo status compromissorio. Durante i periodi in cui Israele ha usato Gaza come terreno di sperimentazione per i suoi armamenti, l’ANP invitava i palestinesi ad abbandonare la resistenza. Quando Gaza cercava i mezzi per alleviare le proprie sofferenze dopo l’operazione “Margine Protettivo”, ed anche negli anni seguenti, l’ANP applicava la linea statunitense di costringere Hamas a rinunciare al suo governo dell’enclave. L’ANP ha anche accettato e contribuito alla frammentazione dell’identità palestinese tra Gaza e la Cisgiordania occupata, contrapponendo la resistenza armata a quella nonviolenta come prerogative di differenti entità, piuttosto che come strumenti complementari attraverso cui i palestinesi possono costruire la propria lotta anticoloniale.

Se Fatah può criticare Hamas riguardo ad un frettoloso accordo, non è forse tempo che l’ANP si guardi allo specchio e si faccia un’autocritica per aver accettato le condizioni che hanno lasciato i palestinesi senza opzioni politiche? I palestinesi non si fanno illusioni sulla sostanza dell’accordo. L’impegno del popolo palestinese alla resistenza rimane intatto. Perché Hamas sia accusato di tradimento nazionale, deve abbassarsi alle tattiche utilizzate dall’ANP. Se questo accadesse, sarà il popolo palestinese a parlare di tradimento nazionale. Non dimentichiamo che i palestinesi già sanno che cosa sia un tradimento nazionale – gli Accordi di Oslo e le loro conseguenze coloniali.

Suona ironico che Fatah dica di non avere tempo per “inutili pagliacciate”, quando la sua struttura non è altro che una gerarchia di patetici intrattenitori.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Due morti durante le proteste palestinesi a Gaza, mentre continuano i colloqui tra Hamas e Israele

Redazione di MEE

17 agosto 2018, Middle East Eye

Le proteste del venerdì avvengono insieme a notizie di ‘significativi progressi’ dei negoziati promossi dall’Egitto tra Hamas e Israele.

Per il ventunesimo venerdì consecutive migliaia di palestinesi di Gaza stanno manifestando, mentre il mistero circonda i dettagli della prosecuzione dei negoziati tra Israele ed Hamas sull’enclave assediata

Pare che le forze israeliane abbiano sparato ed ucciso due palestinesi – uno, a est del campo di rifugiati di al-Bureij, identificato come il trentenne Karim Abu Fatayir, e l’altro, a est di Rafah, identificato come il ventiseienne Saadi Akram Muammar, secondo il ministero della Salute di Gaza.

Un inviato di Middle East Eye a Gaza ha informato che le forze israeliane hanno sparato proiettili veri e gas lacrimogeni contro i manifestanti riuniti nella “zona di sicurezza” nei pressi della barriera che separa Gaza da Israele.

Il ministero della Salute di Gaza ha dato notizia che alle 19 ora locale almeno 241 palestinesi sono stati feriti, tra cui almeno 40 da proiettili veri e 18 minorenni. L’inviato di MEE ha visto parecchi palestinesi, tra cui minori, curati da medici sul campo.

I dimostranti ancora una volta hanno bruciato copertoni nel tentativo di impedire la visuale ai cecchini israeliani.

Nel contempo i media israeliani hanno informato che nel sud di Israele è scoppiato un incendio, provocato da un pallone aerostatico incendiario lanciato dai manifestanti di Gaza.

Il portavoce di Hamas Abd al-Latif al-Qanuaa venerdì ha detto: “La ‘Grande Marcia del Ritorno’ ha smentito i calcoli dell’occupante e l’ha obbligato a prendere in considerazione le richieste (della marcia).”

(Le proteste) continueranno finché raggiungeremo tutti i nostri obiettivi. I sacrifici del nostro popolo non saranno inutili, e si tradurranno in conquiste nazionali.”

Dal 30 marzo la Marcia ha portato migliaia di palestinesi a protestare nei pressi della barriera di separazione tra Gaza e Israele, in una mobilitazione pubblica con un sostegno senza precedenti per denunciare il blocco di undici anni del piccolo territorio palestinese e chiedere l’applicazione del diritto al ritorno per i rifugiati palestinesi.

Durante gli ultimi quattro mesi e mezzo le forze israeliane hanno ucciso a Gaza almeno 169 palestinesi – la maggior parte dei quali manifestanti. Nello stesso periodo un soldato israeliano è stato ucciso da un cecchino palestinese.

Mentre inizialmente, nei primi mesi della marcia, le proteste hanno avuto luogo giornalmente, durante l’estate i dimostranti hanno manifestato soprattutto i venerdì.

Nelle scorse settimane attacchi aerei israeliani e [il lancio di] razzi palestinesi hanno fatto temere che la situazione potesse degenerare in una guerra totale.

Per settimane ci sono state crescenti congetture su un possibile accordo tra Israele ed Hamas propiziate dall’Egitto.

Venerdì una fonte ufficiale di Hamas ha detto a Middle East Eye che l’accordo includerebbe l’apertura di tutti i valichi tra Israele e la Striscia di Gaza, così come la garanzia di un corridoio marittimo con Cipro – in cambio della fine di ogni tipo di attacco dal territorio palestinese. Tuttavia il contenuto dell’accordo non è stato confermato ufficialmente e il processo rimane avvolto nel mistero. Si prevede che la tregua e le sue condizioni vengano resi noti la prossima settimana.

Venerdì il giornale [israeliano] “Israel Today” ha insinuato che quanto avvenuto durante le proteste più tardi durante il giorno sarebbe stato un test della tregua.

Se ci sarà calma nei prossimi giorni, i colloqui continueranno e si riuscirà a discutere di qualcosa di più serio, che risolverà i principali problemi a Gaza, che sono l’elettricità, l’acqua e anche gli stipendi,” ha scritto il giornale.

Mentre si prevede che un accordo con la mediazione dell’Egitto dovrebbe ridurre le tensioni immediate tra Israele ed Hamas, esso ha anche provocato rabbia da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) in Cisgiordania, che crede di essere stata deliberatamente esclusa come parte di un più complessivo piano di dividere i palestinesi.

(traduzione di Amedeo Rossi)