Ho chiesto all’unica giornalista israeliana in Palestina di mostrarmi qualcosa di scioccante – e questo è ciò che ho visto

Robert Fisk

 a Bir Naballa, Cisgiordania

18 settembre, The Indipendent 

È la vecchia strada da Ramallah a Gerusalemme, lungo la quale si trovano ricchezze perdute, speranze dimenticate e case una volta amate. Tutto ciò ora finisce, ovviamente, al muro

Mostrami qualcosa che mi scioccherà, ho detto ad Amira Hass. Così l’unica giornalista israeliana nella Cisgiordania palestinese – o in Palestina, se si crede ancora a una parola così in disuso – mi ha portato lungo una strada fuori Ramallah che ricordavo come un’autostrada che portava a Gerusalemme. Ma ora, appena sopra una collina, si trasforma in una strada semi-asfaltata, una serie di porte arrugginite di negozi chiusi e spazzatura. Lo stesso vecchio odore estivo di scarichi fognari si insinua su per la strada. Giace, verde e tranquillo, in uno stagno alla base del muro.

O il “Muro”. O, per scribacchini più prudenti, il “Muro di Sicurezza”. O, per anime più delicate, la “Barriera di Sicurezza”. O per penne ancora più sciatte la “Barriera”. O, se ti preoccupi davvero delle implicazioni politiche, la “Recinzione”. La Recinzione – come i familiari pali e travi di legno che si possono trovare lungo il confine di un campo. O – se vuoi davvero spaventare i direttori di televisione e far arrabbiare gli israeliani – il “Muro della Segregazione”, o persino il “Muro dell’apartheid”. Perché presto parleremo dei “Bantustan” palestinesi che si ritrovano tagliati fuori dal Muro, da strade solo per israeliani e dal vasto impero delle colonie israeliane su terra araba.

Fidati di Amira perché ti dia degli spunti. Della frase “Bantustan palestinese” è disseminata la sua irata digressione mentre mi porta in giro nelle enclave palestinesi in Cisgiordania e, dopo un’ora o due, al Muro: torreggiante otto metri sopra di noi, severo, mostruoso nella sua determinazione, ritto e serpeggiante tra blocchi di abitazioni e che si insinua in uad [letti asciutti di torrenti, ndtr.] e si ritorce indietro su se stesso finché trovi due muri uno dietro all’altro, un muro doppio ma lo stesso muro, così sono i tornanti alpini di questa creatura. Scuoti la testa per un momento quando – improvvisamente, sicuramente per via di qualche errore di calcolo – non c’è assolutamente nessun muro ma una via commerciale o una semplice collina di boscaglia e pietre. E poi il massiccio progetto colonialista degli insediamenti israeliani, tutto alberi verdi e case con il tetto rosso e strade ordinate e, sì, più muri e recinzioni di filo spinato e muri ancora più grandi. E poi la bestia vera e propria. Il Muro.

Ma la parte di muro a cui Amira Hass mi porta – guida turistica e analista della società israeliana, ammette, non vanno insieme – è un posto veramente miserabile. Non epico come Dante. Forse un corrispondente di guerra potrebbe descriverlo meglio. È la vecchia strada tra Ramallah e Gerusalemme, lungo la quale si trovano ricchezze perdute, speranze dimenticate e case una volta amate, che ora finisce, ovviamente, al Muro.

“Ora, se questo non è scioccante, non so cosa lo possa essere,” dice Amira. “Questa è la distruzione della vita della gente – è la fine del mondo. Vedi qui? Andavamo dritti verso Gerusalemme. Ora non più. Questa era una via trafficata e qui puoi vedere come la gente ha investito in case con un po’ di grazia, la solidità delle case, la pietra. Guarda i cartelli in ebraico – perché questi palestinesi solevano avere molti clienti israeliani. Persino il nome ‘falegname’ è in ebraico.”

Ma quasi tutti i negozi sono chiusi, le case sprangate, erbacce e rami secchi lungo i marciapiedi rotti. I graffiti sono patetici, il sole senza pietà, il cielo così incrostato di calore che il grigio del muro a volte si fonde nel grigio pietra del cielo. “È penoso” dice Amira Hass, senza emozione. “Questo posto – ho sempre mostrato questo alla gente; sempre, sai, probabilmente un centinaio di volte ormai, e non smette mai di scioccarmi.”

Il liquame, una volta che ci fai l’abitudine, è in qualche modo adeguato. È come un posto in cui l’immaginazione si è esaurita, lasciando dietro solo uno squallido stagno, il verde sempre più luminoso perché il Muro sta acquisendo la patina del tempo.

Il silenzio non è opprimente – come potrebbe essere in un romanzo – ma richiede una risposta. Chiedo ad Amira cosa ci dice il Muro. “Penso a quello che dice a me…”, comincia. “Poiché si rende conto di non poter cacciare via i palestinesi, deve nasconderli. Deve occultarli ai nostri occhi. Qualcuno deve uscire per lavorare là per gli ebrei. E ciò è visto come se gli si facesse un favore. Gli israeliani non entrano, perché noi israeliani non abbiamo bisogno di queste zone – non ci servono – questa è spazzatura, questo è liquame. Il Muro dice quanto forte è la necessità di essere puri – e quante persone hanno preso parte a questo atto di violenza? Dicono che è a causa degli attacchi suicidi, ma l’infrastruttura giuridica e amministrativa per questa separazione esisteva da prima del Muro, per cui il Muro è una specie di manifestazione grafica o concreta o tangibile di leggi di separazione che c’erano già.”

Ed è un’israeliana che mi parla, la tenace e instancabile figlia di una madre partigiana bosniaca che dovette consegnarsi alla Gestapo e di un ebreo rumeno sopravvissuto all’Olocausto, e il cui socialismo, penso, le ha dato un coraggio forte, marxista.

Lei probabilmente non è d’accordo, ma penso a lei come a una figlia della Seconda Guerra Mondiale, anche se è nata 11 anni dopo la morte di Hitler. Suppone che le siano rimasti da 100 a 500 lettori israeliani; grazie a dio, dicono molti di noi, il suo giornale, “Haaretz”, esiste ancora.

La madre di Amira rimase colpita, lungo la strada dalla stazione del treno di Bergen Belsen nel 1944, dalle casalinghe tedesche che arrivavano per vedere la fila di prigionieri distrutti, da come le donne tedesche “stavano lì a guardare”. Amira Hass, sospetto, non starà mai lì a guardare. È cresciuta abituandosi all’odio e alla violenza del suo stesso popolo. Ma lei è realista.

“Guarda, non possiamo ignorare che per un certo periodo (il Muro) è servito alla funzione immediata della sicurezza,” dice. Ed ha ragione. La campagna palestinese di attentati suicidi è stata stroncata. Ma il Muro è stato anche una macchina per l’espansione [territoriale]; si è insinuato nelle terre arabe che non erano parte dello Stato di Israele più di quanto lo fossero le vaste colonie che ora ospitano circa 400.000 ebrei in Cisgiordania. Non ancora, in ogni caso.

Amira porta occhiali rotondi che la fanno sembrare un po’ come uno di quei dentisti che tutti abbiamo incontrato, che studiano con disappunto, cinismo e una certa demoralizzazione il terribile stato dei nostri denti. Scrive così. Ha appena finito un lungo articolo per Haaretz – sarà pubblicato tra due giorni, una feroce dissertazione sugli accordi di Oslo del 1993 che arriva quasi a provare che gli israeliani non hanno mai inteso l’accordo di “pace” come finalizzato a dare uno Stato ai palestinesi.

“La situazione dei Bantustan, riserve o enclave palestinesi,” scrive nel triste venticinquesimo anniversario degli accordi di Oslo, “è un fatto concreto… contrariamente a quello che avevano ritenuto i palestinesi, molte persone nel campo pacifista israeliano all’epoca e i Paesi europei, da nessuna parte [Oslo] stabiliva che l’obiettivo fosse la fondazione di uno Stato palestinese nei territori occupati nel 1967.” Amira dice che ad ‘Haaretz’ “il problema è che i correttori di bozze – li chiamo i ragazzi – cambiano ogni paio di anni e ogni volta mi chiedono: ‘Come sai che Oslo non riguardava la pace?’…Ora il giornale è orgoglioso perché ha qualcuno che aveva ragione. Vent’anni fa pensavano che fossi matta.”

Il giro di Hass continua attorno a quella che definisce come “la prigione a 5 stelle”. Ci soffermiamo sulla città di Ramallah, temporanea pseudo-capitale dell’inesistente Stato palestinese. Lei immagina – lo fa spesso – che un marziano arrivi in Cisgiordania dallo spazio. Il marziano, dice, noterebbe che le case palestinesi hanno cisterne nere sul tetto – perché la loro acqua arriva razionata dall’Autorità Nazionale Palestinese – mentre le colonie ebraiche hanno un acquedotto. “Non hanno di che preoccuparsi.” Le colonie sulle colline – “così lussureggianti, così attraenti, con un’aria molto buona” – hanno tetti rossi spioventi, in stile europeo. Ora le famiglie palestinesi più ricche stanno imitando i tetti rossi dei loro occupanti.

Il marziano di Amira Hass ricompare: “Vede una città tentacolare (Ramallah), edifici eleganti…ci sono cinema, negozi e commerci. Laggiù vede le auto. Il nostro extraterrestre dice: ‘Qual è il problema? Perché vi lamentate dell’occupazione?’ Per cui il problema è che c’è l’illusione di non essere sotto occupazione in questo spazio limitato, in un luogo in gabbia, in questa prigione a cinque stelle…I contorni, i confini sono molto chiari. Ma le persone all’interno dei confini si sono abituate a un certo tipo di normalità che adesso per loro è molto difficile lasciare.”

“Fondamentalmente sanno che se si impegnano in un’altra ondata di resistenza possono perdere persino questo – persino il poco che hanno, questa normalità… Per me una delle prove migliori che qui c’è un certo tipo di normalità sono i palestinesi con cittadinanza israeliana che ogni fine settimana vengono in questo bantustan palestinese per sfuggire al razzismo israeliano e all’arroganza che affrontano quotidianamente in Israele – e vengono qui per sfuggirvi, per trovarsi in un ambiente totalmente palestinese.”

L’analisi è severa e con una prospettiva storica. “I palestinesi sanno che questa non è l’indipendenza. Ma ora ritengono che non ne varrebbe la pena. Durante gli ultimi due o tre anni, quando qualche giovane era impegnato in attacchi all’arma bianca e c’era qualche studente che veniva qui ai posti di blocco per scontrarsi con l’esercito israeliano, si emozionavano per loro. Ma non vedevi le masse uscire per affrontare l’esercito. Ora non si tratta di paura, non è la polizia palestinese che li blocca. Adesso, con la divisione palestinese tra Hamas e Fatah, i palestinesi nel fondo della loro ‘saggezza’ politica, e con l’America – Trump – e tutto questo, [sanno che] non c’è ragione di sacrificarsi per niente.”

Lei guida, supera una base militare dove evidenzia le parole scritte – in inglese – con la bomboletta su un muro. “Gli ebrei hanno fatto l’11 settembre.” Con simili parole i palestinesi non potrebbero incolpare in modo più assoluto la loro società agli occhi dell’Occidente? Ma ci sono altre scritte. In un piccolo villaggio palestinese, forse a 200 metri dalla colonia ebraica di Beit El – telecamere puntate verso l’esterno lungo la sua recinzione – [Amira] sottolinea le parole scritte con lo spray sul muro di una casa palestinese dopo che i coloni hanno fatto un’incursione nel villaggio. “Giudea e Samaria”, dice in ebraico, riferendosi alla Cisgiordania. “Verrà versato sangue.” Aisha Fara ci mostra il tetto della sua casa, dove il pannello solare è stato rotto da piccole pietre – sparate con la fionda da studenti religiosi, dice, solo tre giorni prima – e nonostante i suoi 74 anni non usa mezzi termini. Intuisco in silenzio che è nata nel 1944 nella Palestina originaria del Mandato [britannico], lo stesso anno in cui la madre di Amira è stata mandata a Bergen-Belsen.

“I ladri sono arrivati prima del tramonto,” dice Fara dei lanciatori di pietre. “Hanno bruciato per tre volte i nostri alberi. Ma i ladri non restano per sempre. E la gente spaventata tornerà alle proprie case, se dio vuole…Mi chiedi chi sono (i coloni)? Voi li avete mandati. Voi li avete tutti nelle vostre telecamere…Voglio che i porci americani lo sappiano – non siamo pellerossa!” Amira ascolta con attenzione. “Per lei la storia è una lunghissima catena di espulsioni,” dice di Aisha Fara. “Ci sono cose su cui smetti di scrivere. La solita routine.”

Ciò, penso, ha ferito Amira Hass, il modo in cui una storia giornalistica viene lasciata perdere una volta che diventa un avvenimento quotidiano. Un lancio di pietre, un incendio, un’altra colonia. E i privilegi di essere cittadino israeliano sono sempre presenti. “In certo modo, quando siamo stati bombardati, era più facile perché ero con gli altri. È una cosa che posso percepire – la paura delle bombe, ovviamente, la condivido. Ma per esempio il fatto di essere rinchiusi, è una cosa che non posso capire. Non posso comprenderlo. Per me un muro è semplicemente una cosa brutta lungo la strada per Gerusalemme. Ma per i palestinesi è dove finisce il mondo. Quando vado a Gerusalemme non posso dire ai miei vicini che ci vado – mi vergogno. Mi sento in imbarazzo… perché per loro Gerusalemme è come la luna.”

Quindi vivrà tutto il resto della sua vita tra i palestinesi della Cisgiordania, l’unica inviata israeliana dalla parte dura della storia? “Non avrei mai pensato che avrei vissuto a El-Bireh, ma ora è la città dove ho vissuto più a lungo che in qualunque altro posto,” risponde. “Non l’ho mai pianificato – ma è quello che è successo. E so che se dovesse succedere qualcosa – se me ne dovessi andare, sia perché smetto di lavorare o gli israeliani mi dicono di andarmene o me lo dicono i palestinesi, fa lo stesso, non riuscirò mai a tornare in un quartiere esclusivamente ebraico. Andrò ad Acri o ad Haifa [città israeliane, ndtr.]…Ad Haifa ci sono palestinesi.”

Quando mi appresto a tornare a Gerusalemme, sulla “luna”, ringrazio Amira Hass per il suo tour istruttivo, accademico ed anche giornalistico e – agli occhi dei suoi non-lettori israeliani – per un commento altrettanto terribile delle mail di odio che le hanno mandato. “Ho la tendenza a dire alla gente quello che non vuole sentire,” dice. A me sembra una vera giornalista. E capisco allo stesso tempo che lei non sarà mai una spettatrice.

(traduzione di Amedeo Rossi)

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