Nel 2018 finalmente è caduta la maschera di Israele

Gideon Levy

1 gennaio 2018, Middle East Eye

Avendo consolidato dal punto di vista legislativo la sua natura di apartheid, Israele ha creato la copertura giuridica per l’annessione formale dei territori occupati al di là delle frontiere riconosciute dello Stato

Il 2018 non è stato un buon anno per Israele. Ovviamente per i palestinesi è stato persino peggiore.

In apparenza non è stato un anno particolarmente drammatico – solo un po’ più del solito, senza nuove guerre significative e senza molto spargimento di sangue, se confrontato con gli anni precedenti. Le cose sembrano bloccate. L’occupazione è continuata senza ostacoli, come l’impresa di colonizzazione. Gaza ha cercato di resistere energicamente da dentro la sua miserabile gabbia, facendo uso delle sue misere e limitate forze.

Il mondo ha distolto gli occhi dall’occupazione, come ha fatto solitamente negli ultimi anni, e si è concentrato totalmente su altre cose.

Gli israeliani, come il resto del mondo, non si sono interessati dell’occupazione, come ormai hanno fatto da decenni. Hanno silenziosamente continuato con la loro vita quotidiana ed è buona, prospera. L’obiettivo dell’attuale governo – il più di destra, religioso e nazionalista nella storia di Israele – di conservare lo status quo in ogni modo è stato totalmente raggiunto. Non è successo niente che interferisse con la cinquantennale dura occupazione.

Verso un’annessione formale

Tuttavia sarebbe un grave errore pensare che ogni cosa sia rimasta uguale. Non c’è nessuno status quo riguardo all’occupazione o all’apartheid, anche se a volte così sembra.

Il 2018 è stato l’anno in cui è stata predisposta l’infrastruttura giuridica per quello che sta per avvenire. Un passo alla volta, con una legge dopo l’altra, sono state poste le fondamenta della legislazione per una situazione che esiste già in pratica da molto tempo. Poche proposte di legge hanno provocato una discussione, a volte persino con un dissenso chiassoso – ma anche questo non ha lasciato traccia.

Sarebbe un errore occuparsi separatamente di ogni iniziativa legislativa, per quanto drastica e antidemocratica. Ognuna è parte di una sequenza calcolata, funesta e pericolosa. Il suo obiettivo: l’annessione formale dei territori, iniziando dall’Area C [più del 60% della Cisgiordania, in base agli accordi di Oslo sotto totale ma temporaneo controllo di Israele, ndtr.]

Finora le fondamenta pratiche sono state poste sul terreno. La Linea Verde è stata cancellata molto tempo fa, i territori sono stati annessi di fatto. Ma ciò non è sufficiente per la Destra, che ha deciso che dovessero essere prese iniziative giuridiche e legislative per rendere permanente l’occupazione.

Prima hanno costruito colonie, in cui ora risiedono più di 700.000 ebrei, compresa Gerusalemme est, per creare una situazione irreversibile nei territori. Questa impresa è stata completata, e la vittoria dei coloni e dei loro sostenitori è chiara ed inequivocabile. Lo scopo delle colonie – sventare ogni prospettiva di fondazione di uno Stato palestinese nei territori occupati nel 1967 ed eliminare dalle trattative una soluzione dei due Stati – è stato pienamente raggiunto: hanno vinto. Ora, vogliono che questa situazione irrevocabile debba essere anche inserita nella legge, per neutralizzare l’opposizione all’annessione.

Contrastare l’opposizione

Questo è il principale obiettivo di ogni legge discriminatoria e nazionalista approvata nel 2018 dalla ventesima Knesset [parlamento, ndtr.] israeliana. Ognuna di esse intende contrastare ciò che resta dell’opposizione all’annessione dei territori.

Ci si aspettava una resistenza da parte del sistema giuridico israeliano e anche dai piccoli e rinsecchiti resti della sinistra nella società civile. Contro entrambi è stata dichiarata una guerra per indebolirli e sconfiggerli una volta per tutte, mentre ci avviciniamo all’annessione. Fino a quel momento, e se questa tendenza continuerà nel prossimo governo, non ci sarà nessuna ulteriore resistenza significativa nella società civile, e Israele potrà continuare a mettere a punto il suo nuovo regime.

L’apartheid è stata istituita nei territori da molto tempo e ora sarà anche nelle leggi. Quelli che negano che ci sia un’apartheid israeliana – i propagandisti pro-sionisti che affermano che, a differenza del Sud Africa, in Israele non ci sono leggi razziste o una discriminazione istituzionalizzata dal punto di vista legislativo – non saranno più in grado di diffondere i loro argomenti privi di fondamento.

Alcune delle leggi approvate quest’anno e quelle in via di approvazione, minano l’affermazione che Israele sia una democrazia egualitaria. Eppure tali norme hanno anche un aspetto positivo: queste leggi e quelle che arriveranno strapperanno la maschera e una delle più lunghe finzioni nella storia finalmente avrà termine. Israele non sarà più in grado di continuare a definirsi una democrazia – “l’unica del Medio Oriente”.

Con leggi come queste non sarà in grado di smentire l’etichetta di apartheid. Il prediletto dell’Occidente svelerà il suo vero volto: non democratico, non egualitario, non l’unico in Medio Oriente. Non è più possibile fingere.

L’apparenza dell’uguaglianza

È vero che una delle prime leggi mai adottate in Israele – e forse la più importante e funesta di tutte, la Legge del Ritorno, approvata nel 1950 –ha segnato molto tempo fa la direzione nella maniera più chiara possibile: Israele sarebbe stato uno Stato che privilegia un gruppo etnico sugli altri. La Legge del Ritorno era rivolta solo agli ebrei.

Ma la parvenza di uguaglianza in qualche modo ha resistito. Neppure i lunghi anni di occupazione l’hanno alterata: Israele ha sostenuto che l’occupazione era temporanea, che la sua fine era imminente e non faceva quindi parte dello Stato egualitario e democratico che era stato così orgogliosamente fondato. Ma dopo i primi 50 anni di occupazione, e con la massa critica di cittadini ebrei che sono andati a vivere nei territori occupati su terre rubate ai palestinesi, l’affermazione riguardo alla sua provvisorietà non avrebbe più potuto essere presa sul serio.

Fino a poco tempo fa i tentativi di Israele erano soprattutto diretti a fondare ed allargare le colonie, reprimendo al contempo la resistenza dei palestinesi all’occupazione e rendendo il più possibile penose le loro vite, nella speranza che ne traessero le necessarie conclusioni: alzarsi e andarsene dal Paese che era stato il loro. Nel 2018 fulcro di questi sforzi è passato al contesto giuridico.

La più importante è la legge dello Stato-Nazione, approvata in luglio. Dopo la Legge del Ritorno, che automaticamente consente a qualunque ebreo di immigrare in Israele e una legislazione che consente al Fondo Nazionale Ebraico di vendere terra solo agli ebrei, la legge dello Stato-Nazione è diventata la prima della lista per lo Stato di apartheid che sta arrivando. Essa conferisce formalmente uno status privilegiato agli ebrei, anche alla loro lingua e ai loro insediamenti, rispetto ai diritti dei nativi arabi. Non contiene nessun riferimento all’uguaglianza, in uno Stato in cui in ogni caso non ce n’è affatto.

Contemporaneamente la Knesset ha approvato qualche altra legge ed ha iniziato alcune ulteriori misure nella stessa ottica.

Prendere di mira i sostenitori del BDS

In luglio è stato approvato un emendamento alla legge sull’educazione pubblica. In Israele è chiamata la legge di “Breaking the Silence” [“Rompere il silenzio”, associazione di militari ed ex militari che denuncia quanto avviene nei territori occupati, ndtr.], perché il suo vero proposito è impedire alle organizzazioni di sinistra di entrare nelle scuole israeliane per parlare agli studenti. Ha come scopo spezzare la resistenza all’annessione.

Allo stesso modo un emendamento alla legge sul boicottaggio, che consente di intraprendere un’azione legale contro israeliani che abbiano appoggiato pubblicamente il movimento Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS), renderà possibile intentare una causa per danni contro sostenitori del boicottaggio, anche senza dover dimostrare un danno economico.

Un altro governo di destra come questo e sarà vietato appoggiare il boicottaggio in Israele, punto. Quindi verrà vietato anche criticare i soldati israeliani o il loro ingiusto comportamento nei territori. Proposte di legge come queste stanno già circolando e il loro giorno arriverà piuttosto rapidamente.

Un’altra legge approvata quest’anno trasferisce i ricorsi da parte di palestinesi contro gli abusi dell’occupazione dalla Corte Suprema Israeliana, che comunque non gli è poi stata così d’aiuto, al tribunale distrettuale di Gerusalemme, dove ci si aspetta che riceveranno un sostegno legale ancora minore.

Una legge per espellere le famiglie di terroristi ha superato la prima lettura alla Kensset, contro il parere della procura generale; consentirà punizioni collettive nei territori, solo per gli arabi. Stanno anche discutendo della pena di morte per i terroristi.

Ed è stata approvata anche la legge sugli accordi, che legalizza decine di avamposti delle colonie che sono illegali persino secondo il governo israeliano. Solo la legge sulla lealtà culturale, il livello legislativo più basso, che intende imporre la fedeltà verso lo Stato come precondizione per ottenere finanziamenti governativi a istituzioni culturali e artistiche, per il momento è stata congelata – ma non per sempre.

Copertura legale

Le leggi approvate quest’anno non devono essere viste solo come norme antidemocratiche che compromettono la democrazia in Israele, come la situazione viene di solito descritta dai circoli progressisti in Israele. Sono pensate per fare qualcosa di molto più pericoloso. Non intendono solo minare la fittizia democrazia, per imporre ulteriori discriminazioni contro i cittadini palestinesi di Israele e trasformarli per legge in cittadini di seconda classe. Il loro vero scopo è fornire una copertura legale per l’atto di annessione formale dei territori oltre i confini riconosciuti dello Stato di Israele.

Nel 2018 Israele si è avvicinato alla realizzazione di questi obiettivi. La calma relativa che è prevalsa nel Paese è ingannevole. Sta iniziando lo Stato di apartheid di diritto, non solo di fatto.

– Gideon Levy è un editorialista di Haaretz e membro del comitato di redazione del giornale. Levy ha iniziato a collaborare con Haaretz nel 1982, ed è stato per quattro anni vice-direttore del giornale. Nel 2015 è stato insignito dell’Olof Palme human rights [premio Olof Palme per i diritti umani] e destinatario dell’Euro-Med Journalist Prize [Premio per il Giornalista Euro-mediterraneo] del 2008; del Leipzig Freedom Prize [Premio Leipzig per la Libertà] nel 2001; dell’ Israeli Journalists’ Union Prize [Premio dell’Unione dei Giornalisti Israeliani] nel 1997; dell’ Association of Human Rights in Israel Award [Premio dell’Associazione per i Diritti Umani in Israele] nel 1996. Il suo libro The Punishment of Gaza [La punizione di Gaza] è stato pubblicato da Verso nel 2010.

Le opinioni espresso in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)




L’IDF non indaga sulle morti di palestinesi ma le insabbia

Hagai El-Ad

1 gennaio 2019, + 972

L’esercito israeliano vorrebbe condurre indagini sui palestinesi che uccide o ferisce. L’unico problema? Non è in grado di farlo seriamente.

Poco più di un anno fa, l’ultimo giorno dell’ottobre 2017, Muhammad Musa e sua sorella Latifah stavano viaggiando verso Ramallah per fare delle commissioni. Poco dopo che si erano filmati in un corto video lungo il percorso, alcuni soldati aprivano il fuoco contro la loro auto nei pressi dell’incrocio di Halamish. Latifah rimaneva ferita, Muhammad ucciso. Lui aveva 26 anni.

L’inchiesta di B’Tselem sulla sua uccisione è stata resa pubblica circa 5 settimane dopo e includeva una serie di racconti di testimoni oculari come dichiarazioni di paramedici che erano arrivati sul posto. Uno di questi testimoni, Muhammad Nafe’a, è stato identificato con nome e cognome, foto, indirizzo e occupazione.

Eppure circa sei mesi dopo, nel maggio 2018, la “Military Police Investigations Unit” [Unità Investigativa della Polizia Militare] (MPIU) stranamente ha scritto a B’Tselem che sarebbe stata molto grata “di avere le informazioni personali complete di Muhammad Nafe’a per contattarlo e per fare in modo che rilasciasse la sua dichiarazione in materia.”

Benvenuti nell’universo parallelo noto come “inchieste della MPIU”. In questo universo le “inchieste” procedono alla velocità della luce e l’esercito – che controlla totalmente la Cisgiordania e non ha molti problemi ad avere nelle sue mani i palestinesi – agisce come se non potesse individuare un testimone senza l’assistenza di un’organizzazione per i diritti umani, persino quando i suoi dati sono a disposizione di chiunque, insieme al resto delle prove di un’inchiesta indipendente resa pubblica da molto tempo.

Se questa fosse una commedia, la goffaggine e l’assurdità di tutto ciò sarebbero veramente divertenti. Ma questa è realtà, non teatro. Fare indagini sulle uccisioni è estremamente importante, sia in termini di giustizia per le vittime che per evitare il ripetersi di altri incidenti.

La penosa esibizione nell’”inchiesta” sull’uccisione di Muhammad Musa non è un’eccezione – è parte di una politica di lunga data di un sistema di applicazione delle leggi militari che colpisce centinaia, se non più, di casi di uccisioni, ferimenti e violenze. La vasta esperienza acquisita da B’Tselem nel corso di decenni, mentre cercava di promuovere l’assunzione di responsabilità, ha dimostrato che il sistema non ha nessun interesse reale nel promuovere indagini e nel rendere giustizia alle vittime. Il suo principale obiettivo è creare l’apparenza di un sistema giudiziario funzionante, mentre in realtà insabbia i reati e protegge quelli che provocano danni senza giustificazione.

Ecco i dati: dall’inizio della Seconda Intifada, alla fine del 2000, fino al 2015 B’Tselem ha chiesto alla MPIU di aprire un’inchiesta su 739 casi in cui soldati hanno ucciso o in qualche modo danneggiato palestinesi. Il 97% di questi casi sono stati chiusi sia dopo che è stata condotta un’“inchiesta”, sia persino senza che fosse neppure iniziata. Solo in 25 casi sono stati presentati capi d’accusa. Il numero di sentenze è naturalmente persino molto più basso. Inutile dire che quasi nessuno è stato ritenuto colpevole.

Questi dati sono il risultato diretto del modo in cui funziona il sistema. In primo luogo, esso è inaccessibile ai palestinesi che presentano una denuncia – le vittime che si suppone protegga. In secondo luogo, le indagini si trascinano per mesi, persino per anni, e sono quasi esclusivamente basate su interrogatori con i sospetti e in qualche caso con le vittime, invece che su prove esterne. Senza prove la Procura Militare per le Questioni Operative, che riceve le pratiche delle inchieste, può chiuderle proprio per questa ragione.

La Procura Generale militare, che è incaricata sia di dare indicazioni all’esercito in merito alla legalità delle sue azioni e direttive, sia di decidere se iniziare un’indagine sugli incidenti scaturiti da quelle stesse azioni e direttive, si trova in un conflitto di interessi. Come se non bastasse, l’intero sistema si limita a verificare la condotta dei soldati sul terreno invece di quella degli alti ufficiali e dei decisori politici. In queste circostanze la sua idoneità a fare realmente giustizia è estremamente ridotta.

Circa due anni e mezzo fa B’Tselem ha deciso di smettere di chiedere all’esercito israeliano di aprire inchieste e di essere complice degli insabbiamenti della MPIU. Da allora l’organizzazione ha continuato a condurre indagini indipendenti sui casi in cui le forze di sicurezza colpiscono palestinesi ed ha fatto inchieste sulla maggior parte degli incidenti in cui civili palestinesi sono stati uccisi. B’Tselem non contatta più la MPIU, ma rende noti i propri risultati all’opinione pubblica, come per la morte di Muhammad Musa e di centinaia di persone come lui.

Benché la posizione di B’Tselem sia pubblica e ben nota, i funzionari della MPIU occasionalmente inviano ancora all’organizzazione ogni sorta di richieste riguardanti loro “indagini”. A volte chiedono informazioni che sono già state rese pubbliche, altre volte chiedono di aiutarli a trovare testimoni che l’esercito non ha nessuna difficoltà a trovare, e così via.

B’Tselem ha ricevuto simili richieste riguardanti l’uccisione di Ahmad Zidani, un palestinese diciassettenne che è stato ucciso dalle forze di sicurezza mentre stava scappando da loro; o di Ali Qinu, anche lui di 17 anni, che è stato colpito alla testa dai soldati; o di Ahmad Salim, 28 anni, colpito a morte in testa; o di Muhammad Musa.

Recentemente B’Tselem ha ricevuto un’altra lettera dalla MPIU relativa a quello che questa definisce “le circostanze della morte di Muhammad Habali,” un palestinese con problemi mentali che è stato colpito alla testa da soldati all’inizio di dicembre. I soldati hanno sparato da una distanza di circa 80 metri mentre Habali si stava allontanando di corsa da loro; non rappresentava un pericolo. Nella lettera l’investigatore della MPIU afferma che condurrà un’”inchiesta approfondita”, e chiede le riprese video e le informazioni per prendere contatto con un testimone. B’Tselem ha già messo in rete le riprese video inedite complete. La ripetuta richiesta della MPIU di informazioni per avere dati personali la dice lunga sulla vera natura delle sue inchieste.

Ed ecco la risposta che B’Tselem ha inviato al comandante della MPIU col. Gil Mamon:

Nella sua lettera lei ci ha contattato riguardo all’‘avvenimento riguardante la morte di Muahammad Habali’ a Tulkarem il 4 dicembre 2018.

A quanto pare la carta non arrossisce. Tuttavia, dato che lei si è superato, è necessario mettere le cose in chiaro e precisare che quello a cui lei si riferisce come la ‘circostanza della morte’ è stata l’uccisione da lontano di un passante da parte di un soldato.

Inoltre nella sua lettera lei sottolinea che ha intenzione di condurre un’‘inchiesta approfondita’ per ‘scoprire la verità’. Tuttavia, dati i nostri anni di esperienza con il meccanismo di insabbiamento denominato MPIU, la prima parte non è vera, e la seconda non avverrà.

Per inciso, notiamo che, contrariamente al modo in cui nella sua lettera ha scritto il nome dell’organizzazione, non si tratta di un acronimo. Il nostro nome è una parola biblica, B’Tselem, ‘nell’immagine di’. Vedi Genesi 1:27: ‘E dio creò l’uomo a sua immagine. Nell’immagine di dio lo creò.’”

B’Tselem è impegnata a continuare il suo lavoro indipendente documentando le violazioni dei diritti umani commesse dalle forze di sicurezza nei territori occupati e la mancanza dell’obbligo di rendere conto di questi atti da parte delle autorità dello Stato. L’organizzazione tuttavia continuerà il suo lavoro senza il sistema di applicazione delle leggi militari, che perpetua questa violenza sul terreno. Collaborare con questo inganno non è solo semplicemente inutile, ma è dannoso, in quanto conferisce credibilità a un sistema che dovrebbe essere condannato, consentendogli di continuare a legittimare violazioni dei diritti umani.

Non si tratta solo di una questione teorica. La totale mancanza di responsabilizzazione per l’uccisione e la violenza significa che esse verranno sicuramente ripetute. È per questo che B’Tselem continuerà a fare indagini, a renderle pubbliche e a svelare la verità riguardo all’insabbiamento della cosiddetta applicazione della legge – finché l’occupazione non avrà termine.

L’autore è il direttore esecutivo di B’Tselem, il Centro di Informazione Israeliano per i Diritti Umani nei Territori Occupati. Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta in ebraico su “Local Call” [Chiamata Locale, sito israeliano di notizie affiliato a +972, ndtr.].

(traduzione di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA del periodo 18 -31 dicembre 2018 (due settimane)

A Gaza, durante le manifestazioni del venerdì, tenute vicino alla recinzione perimetrale, cinque palestinesi sono stati colpiti e uccisi dalle forze israeliane ed altri 275 sono rimasti feriti.

Quattro dei morti, tra cui un ragazzo di 16 anni, sono stati colpiti con armi da fuoco il 21 dicembre, data in cui sono stati registrati scontri più violenti rispetto a quelli avvenuti nei venerdì delle precedenti settimane. Secondo quanto riferito, un pallone che trasportava un ordigno esplosivo è atterrato nel sud di Israele, vicino ad un asilo, ma non è esploso. La quinta vittima, un uomo con disabilità mentale, è stata colpita alla testa il 28 dicembre, durante una manifestazione. Dal 30 marzo 2018, data di inizio della “Grande Marcia di Ritorno”, sono 180 i palestinesi uccisi a Gaza durante le proteste. Secondo il Ministero della Salute di Gaza, tra le persone ferite durante il periodo di riferimento [275], 214 sono state ricoverate in ospedale: il 46% di esse presentava ferite da armi da fuoco; i rimanenti feriti [61] sono stati soccorsi sul posto.

A Gaza, nelle Aree ad Accesso Riservato (ARA) di terra e di mare, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento in almeno 34 occasioni non riferibili agli eventi della “Grande Marcia di Ritorno”; una persona è stata ferita. Nei pressi della costa di Rafah, due barche da pesca sono state affondate dal tiro degli israeliani; i pescatori sono stati salvati da un’altra barca da pesca [palestinese]. In sei occasioni le forze israeliane sono entrate nella Striscia di Gaza (nella zona settentrionale e centrale) ed hanno effettuato operazioni di scavo e di spianatura del terreno nelle vicinanze della recinzione perimetrale.

In Cisgiordania, presso un incrocio stradale, le forze israeliane hanno aperto il fuoco contro un veicolo in avvicinamento, uccidendo uno dei passeggeri, un ragazzo palestinese di 17 anni. L’episodio è avvenuto il 20 dicembre vicino all’ingresso dell’insediamento [colonico] di Beit El (Ramallah). Il conducente del veicolo e altri due passeggeri sono rimasti illesi e sono stati rilasciati poco dopo. Secondo fonti israeliane, l’autista non si sarebbe attenuto all’ordine di fermarsi impartito dai soldati; l’autista contesta questa versione. Le autorità israeliane hanno annunciato l’apertura di un’indagine. Il 26 dicembre, in un altro episodio accaduto al posto di blocco di Huwwara (Nablus), un palestinese è stato ferito con arma da fuoco; secondo quanto riferito, avrebbe tentato di guidare il suo veicolo contro soldati e coloni; non sono stati segnalati ferimenti di israeliani.

In Cisgiordania, durante diversi scontri, sono stati feriti dalle forze israeliane ventidue palestinesi, tra cui almeno due minori. Dodici di questi ferimenti sono stati registrati all’ingresso dei villaggi di Beita e Urif (entrambi a Nablus) e nella città di Qalqiliya, durante scontri occasionali; quattro in Kafr Qaddum (Qalqiliya), durante le manifestazioni settimanali contro le restrizioni all’accesso; e altri quattro durante le operazioni di ricerca-arresto nei Campi profughi di Ad Duhaisha (Betlemme) e Balata (Nablus). In totale, le forze israeliane hanno condotto 163 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 187 palestinesi, tra cui 17 minori.

In Area C e Gerusalemme Est, citando la mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, le autorità israeliane hanno demolito o costretto i proprietari palestinesi a demolire quattro strutture, sfollando una famiglia. Uno degli episodi si è verificato nella Comunità beduina palestinese di Mikhmas (Gerusalemme), dove sono stati presi di mira una casa ed una latrina finanziata da donatori. Le altre due strutture demolite, una delle quali ad opera dei proprietari, erano case in costruzione a Gerusalemme Est. Nel 2018, Israele ha demolito o sequestrato 459 strutture palestinesi (il 10% in più rispetto al 2017), provocando lo sfollamento di 472 persone, il numero più basso da quando, nel 2009, OCHA ha iniziato a registrare sistematicamente le demolizioni.

Nella città di Ramallah, alla fine del periodo di riferimento, erano ancora chiuse due strade principali e lunghe attese sono state segnalate per l’attraversamento di diversi checkpoint della Cisgiordania. I principali accessi a Ramallah da est (checkpoint DCO) e da ovest (porta Deir Ibzi) erano stati chiusi il 13 dicembre, dopo che palestinesi avevano sparato e ucciso due soldati israeliani. In almeno 63 circostanze, le forze israeliane hanno istituito “checkpoint temporanei” (non presidiati in modo permanente) per periodi di tempo variabili; tale numero [63] è tre volte superiore alla media dei casi analoghi registrati dall’inizio del 2018; fatto che ha sconvolto l’accesso delle persone ai servizi ed ai mezzi di sostentamento.

In quattordici episodi di violenza da parte di coloni sono stati feriti dodici palestinesi: dieci nel corso di aggressioni fisiche e due dal lancio di pietre; inoltre sono stati vandalizzati almeno 380 alberi e 69 veicoli [di seguito i dettagli]. In uno degli episodi (accaduto il 24 dicembre, nella zona H2 della città di Hebron), un gruppo di coloni ha fatto irruzione nel Centro Giovanile contro la Colonizzazione, si è scontrato con i palestinesi, ferendone sette e danneggiando una recinzione che circonda il Centro. Secondo fonti della comunità locale, in altri cinque episodi coloni hanno vandalizzato circa 380 ulivi nei villaggi di As Sawiya, Burqa (entrambi a Nablus), Turmus’ayya (Ramallah), Tarqumiya e Khirbet a Tawamin (entrambi a Hebron). Inoltre, in Deir Sharaf, As Sawiya (entrambi a Nablus), Yasuf (Salfit) e a Gerusalemme Est, coloni israeliani hanno forato le gomme di 69 veicoli e imbrattato i muri di case palestinesi con scritte “Questo è il prezzo”. Nel 2018, l’OCHA ha registrato 265 episodi in cui coloni israeliani hanno ucciso o ferito palestinesi, o hanno danneggiato proprietà palestinesi, segnando un incremento del 69% rispetto al 2017.

Secondo quanto riportato da media israeliani, a causa del lancio di pietre da parte di palestinesi, quattro coloni israeliani, tra cui una donna e un bambino, sono rimasti feriti e almeno 26 veicoli sono stati danneggiati. Gli episodi si sono verificati su strade vicine a Ramallah, Betlemme, Hebron e Gerusalemme.

Il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, tra Gaza e l’Egitto è stato aperto per dieci giorni in entrambe le direzioni e un giorno per il solo ingresso in Gaza. Un totale di 1.934 persone sono entrate a Gaza e 2.443 ne sono uscite. Dal 12 maggio 2018 il valico è stato aperto quasi continuativamente, cinque giorni a settimana.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




La Betlemme dell’immaginario cristiano occidentale contrasta fortemente con la realtà dell’occupazione

Ghada Karmi

26 dicembre 2018, Middle East Eye

Presunto luogo di nascita di Gesù Cristo, Betlemme occupa un posto centrale nella fede cristiana. Eppure sono molti i fedeli che ignorano che questa città si trova in Palestina e che è soggetta alla spietata occupazione di Israele

O little town of Bethlehem/How still we see thee lie/Above thy deep and dreamless sleep/The silent stars go by” (“Oh, piccola città di Betlemme/Dormi tranquillamente/Al di sopra del tuo sonno profondo e senza sogni/ passano le stelle silenziose”), intona il celebre canto natalizio anglosassone. La vigilia di Natale, la messa di mezzanotte ha risuonato nella chiesa della Natività a Betlemme, secondo la leggenda luogo di nascita di Gesù Cristo, che proclamò che avrebbe portato “la pace agli uomini sulla Terra”.

La vera Betlemme

Niente è più lontano dalla verità dell’immagine di una Betlemme calma e tranquilla trasmessa da questo canto di Natale scaturito dalla pia immaginazione di un cristiano occidentale dell’epoca vittoriana. Generazioni di bambini cristiani l’hanno imparata e il suo potere mitico è tale per cui pochi tra loro sanno dove si trovi Betlemme e quale sia la vera situazione.

Recentemente un’amica inglese molto colta che conosco da anni è rimasta sorpresa di sapere che Betlemme si trova in Palestina. Nella sua mente la città era più una leggenda che un luogo reale e, se avesse dovuto associarla a una comunità, sarebbe stato a quella ebraica.

Ora, la città che ho visto durante una visita in Palestina all’inizio dell’anno era un simulacro del luogo evocato da questo canto di Natale e una messa in discussione senza appello del cristianesimo occidentale per avere vilmente fallito nel sostenere uno dei suoi santuari più sacri. Nella Betlemme di oggi, il sonno “senza sogni” sembra piuttosto un incubo, e la città non potrà essere “calma” che quando finirà l’occupazione israeliana.

Il vandalismo brutale di Israele

Betlemme ed i villaggi che la circondano, Beit Jala e Beit Sahour, figurano tradizionalmente tra i luoghi più cristiani della Palestina, anche se oggi Betlemme è abitata da una maggioranza di musulmani.

Prima dell’occupazione israeliana del 1967 la città era un importante centro sociale, culturale ed economico, così come uno dei luoghi più antichi della Palestina. Il suo nome, Beit Lahem (Casa di Lahem) risale all’epoca cananea [dalla popolazione che visse in Palestina prima degli ebrei, ndtr.], quando ospitava il santuario del dio cananeo Lahem.

L’architettura di Betlemme testimonia della sua ricca storia. Al periodo romano e poi bizantino, al quale risale la costruzione nel 327 della chiesa della Natività da parte dell’imperatrice Elena sopra la grotta dove sarebbe nato Gesù, fecero seguito le conquiste musulmane nel 637, l’occupazione dei crociati nel 1099 fino alla riconquista della Palestina da parte del Saladino nel 1187, poi all’inizio del XVI secolo la dominazione degli ottomani, che costruirono i bastioni della città, fino al Mandato britannico dal 1922 al 1948.

Nel 1967 Israele occupò Betlemme e il resto della Cisgiordania durante la guerra dei Sei Giorni e nel 1995, in seguito agli accordi di Oslo, la città venne trasferita all’Autorità Nazionale Palestinese, anche se rimase sotto il complessivo controllo di Israele. Nessuno dei periodi storici che hanno preceduto l’occupazione israeliana ha avuto un livello di vandalismo e di distruzioni simile a quello che avviene attualmente.

Mentre percorrevo in auto i 9 km che separano Gerusalemme da Betlemme ho sbagliato strada e mi sono ritrovata su un’autostrada moderna dove non si vedeva nessun automobilista palestinese. Ero finita per caso su una circonvallazione riservata agli ebrei, una delle due che circondano Betlemme per servire le colonie dei dintorni.

Ho subito capito lo scopo dell’operazione: affermare che nella regione vivono solo gli ebrei.

Un luogo triste

Ventidue colonie israeliane circondano Betlemme, tagliando le sue uscite e confiscando le sue terre agricole. Dominando le colline attorno, queste colonie ospitano più abitanti di tutta Betlemme e dei suoi dintorni. A nord si trova Har Homa, una colonia costruita nel 2000 su una collina una volta densamente ricoperta di boschi, Jabal Abu Ghneim.

Israele ha sradicato gli alberi di Jabal Abu Ghneim e li ha sostituiti con delle case monotone, tutte identiche, minacciando inoltre di trasformare il luogo in una copia di Betlemme per turisti. Nokidim, a est, è l’attuale luogo di residenza dell’ex-ministro della Difesa israeliano, l’ultranazionalista Avigdor Lieberman.

Dal 2015 Israele ha chiuso l’accesso alla fertile valle di Betlemme, Cremisan, ai suoi proprietari palestinesi, e lo scorso giugno ha annunciato uno sviluppo massiccio delle colonie situate lungo la strada che unisce Gerusalemme a Betlemme.

La tomba di Rachele, monumento storico di Betlemme sulla strada principale che porta a Gerusalemme e zona tradizionalmente animata da negozi e ristoranti, ora è riservata esclusivamente agli ebrei e il suo acceso è impedito ai palestinesi dal muro di separazione.

I fedeli musulmani che venerano la tomba (e che l’hanno costruita) non possono più andarci. È un luogo triste, deserto, senza vita. All’ombra del muro la maggior parte dei negozi ha chiuso le porte e, man mano che il cerchio di stringe attorno a Betlemme, presto non ne resterà più nessuno.

L’implacabile penetrazione di Israele nel cuore di Betlemme è senza appello. La città è deliberatamente isolata dietro l’impressionante barriera di separazione, circondata da posti di controllo, e la sua economia è strangolata. Una volta la sua principale risorsa era il turismo, che richiamava due milioni di visitatori all’anno e vantava un prospero mercato di souvenir, soprattutto di sculture di legno d’ulivo e di madreperla fatte a mano.

Era anche una ricca regione agricola, dotata di una prospera industria vinicola. Oggi la maggior parte delle sue terre è stata confiscata da Israele e le restrizioni draconiane imposte dalle autorità israeliane agli spostamenti verso e da Betlemme hanno notevolmente ridotto il numero di turisti e di pellegrini.

Attualmente, con una popolazione di 220.000 abitanti, di cui 20.000 rifugiati, Betlemme ha il tasso di disoccupazione più alto dei territori palestinesi occupati, subito dopo Gaza.

Salvare Betlemme

Durante il mio ultimo soggiorno a Betlemme sono andata all’hotel Walled Off, all’entrata di Betlemme. Lì ho vissuto un’esperienza impressionante dell’occupazione israeliana. L’hotel in effetti è un’installazione creata dall’artista britannico Banksy per mettere in luce la tragica sorte di Betlemme.

L’unica vista che si possa contemplare dalle finestre dell’hotel è quella dell’orrendo muro costruito da Israele, le cui immense lastre grigie non sono che a qualche metro. Sporgendosi in avanti si possono quasi toccare. Mi ricordo di come le sue sinistre torri di guardia e le sue telecamere di sorveglianza mi abbiano oppressa. Era una scena uscita direttamente da un film dell’orrore.

Per ora, e nonostante le delegazioni della Chiesa, le visite papali e le pubbliche espressioni di preoccupazione, niente di quanto hanno fatto i cristiani ha frenato o arrestato la distruzione da parte di Israele di una città particolarmente sacra per la cristianità. E allora, se non possono fare niente per salvare Betlemme, smettano almeno di intonare un canto che si prende gioco della triste realtà della città.

– Ghada Karmi è medico, docente universitaria e scrittrice palestinese.

Le opinioni espresse in questo articolo impegnano solo l’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Una questione che ogni americano deve affrontare: apartheid israeliana o democrazia USA?

Ramzy Baroud

25 dicembre 2018, Middle East Monitor

Bahia Amawai è una cittadina statunitense e una logopedista texana che aiuta bambini autistici e non udenti a superare la loro disabilità.

Nonostante la fondamentale e nobile natura del suo lavoro, è stata licenziata dal distretto scolastico indipendente di Pflugerville, che fornisce servizi nella zona di Austin.

Ogni anno Amawai firma un contratto annuale che le consente di svolgere la propria attività senza interruzioni. Tuttavia quest’anno qualcosa è cambiato.

Incredibilmente il distretto scolastico ha deciso di aggiungere al contratto una clausola che chiede agli insegnanti e ad altri dipendenti di impegnarsi a non boicottare Israele “per tutta la durata del loro contratto.”

L’“impegno” ora è parte della sezione 2270.001 del codice del governo del Texas ed è stabilito nel contratto con una formulazione chiara, in modo che chi desidera lavorare o continuare a conservare un impiego con il governo del Texas non trovi alcuna scappatoia per evitare di essere penalizzato:

“‘Boicottare Israele’ significa rifiutarsi di aver a che fare con, interrompere attività economiche con o comunque prendere qualunque iniziativa che intenda penalizzare, infliggere un danno economico o limitare i rapporti commerciali espressamente con Israele o con una persona o un ente che faccia affari in Israele o nel territorio controllato da Israele…”

Il fatto che il Texas consideri inaccettabile persino il boicottaggio di attività economiche che avvengono nelle colonie ebraiche illegali nella Cisgiordania occupata lo mette in contrasto con le leggi internazionali e di conseguenza con la grande maggioranza della comunità internazionale.

Ma non esprimiamo subito un giudizio affrettato, condannando il Texas per essere l’infame e stereotipato “selvaggio West”, come dipinto persino negli stessi mezzi di comunicazione degli Stati Uniti. Infatti il Texas non è che una piccola parte di una massiccia campagna governativa americana intesa a soffocare la libertà di parola come sancita dalla stessa costituzione del Paese.

Venticinque Stati degli USA hanno già approvato leggi contro il boicottaggio di Israele o hanno emesso decreti che prendono di mira le reti di appoggio al boicottaggio, mentre altri Stati stanno per seguirne l’esempio.

A livello del governo federale, la legge contro il boicottaggio di Israele del Congresso, accolta con entusiasmo dai parlamentari USA, intende sanzionare e incarcerare chi boicotta Israele.

Mentre c’è una forte opposizione della società civile contro così evidenti violazioni dei principi basilari della libertà di parola, quelli che fanno campagna a favore di Israele sono impazziti.

Il Texas – che ha approvato e messo in pratica leggi che criminalizzano l’appoggio al boicottaggio di Israele, come sostenuto dal movimento della società civile palestinese per il Boicottaggio il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) – continua a indicare la strada ad altri Stati.

Nella città texana di Dickinson, che lo scorso anno è stata devastata dall’uragano Harvey, alle vittime dell’uragano è stato chiesto di firmare un impegno a non boicottare Israele in cambio di aiuti umanitari di primo soccorso.

Per gli abitanti sfollati della città dev’essere stato assolutamente sconcertante apprendere che le misere provviste che stavano per ricevere dipendevano dal loro appoggio al governo di estrema destra del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu.

Ma al momento questo è il triste stato della democrazia negli USA, in cui gli interessi di un Paese relativamente piccolo e lontano sono diventati il centro delle politiche del governo USA, in patria e all’estero.

I facoltosi sostenitori di Israele stanno lavorando mano nella mano con gli influenti gruppi della lobby israeliana a Washington, ma anche a livello statale e persino cittadino per fare in modo che il boicottaggio di Israele sia punibile per legge.

Molti politici USA stanno rispondendo all’insensata richiesta della lobby di criminalizzare in tutto il Paese il dissenso politico. Benché in realtà a molti di loro non interessi affatto o non comprendano neppure realmente la natura del dibattito relativo al BDS, essi sono disposti a fare uno sforzo in più (fino a violare la sacralità del loro stesso sistema democratico) per guadagnarsi il favore della lobby, o almeno per evitarne la collera.

Negli USA la campagna contro il BDS è iniziata seriamente pochi anni fa e, a differenza della strategia del BDS, ha evitato tentativi dal basso, concentrandosi invece sulla rapida creazione di un organismo ufficiale per il lavoro legale che metta sul banco degli imputati chi boicotta Israele.

Benché il linguaggio giuridico messo insieme in fretta e furia sia stato coraggiosamente sfidato e, a volte, completamente ribaltato dagli avvocati e dalle organizzazioni della società civile, la strategia israeliana è riuscita a mettere sulla difensiva i sostenitori del BDS.

Questo limitato successo può essere attribuito ai potenti amici di Israele che hanno risposto generosamente ed energicamente ai tamburi di guerra di Tel Aviv.

Il magnate del gioco d’azzardo di Las Vegas Sheldon Adelson ha impugnato le redini del comando. Ha preso l’iniziativa formando l’“Unità Operativa Maccabea”, che ha raccolto milioni di dollari per lottare contro quello che fonti ufficiali israeliane definiscono come una minaccia letale per Israele e la delegittimazione del Paese come “Stato ebraico”.

Una delle principali strategie che il campo israeliano ha proposto nella discussione è l’ingannevole nozione che il BDS chieda di boicottare gli ebrei, invece del boicottaggio di Israele in quanto Stato che viola le leggi internazionali e numerose risoluzioni delle Nazioni Unite.

Un Paese che pratica il razzismo come se nulla fosse, difende la segregazione razziale e costruisce muri dell’apartheid non merita altro che il boicottaggio totale. Questo è il livello minimo di responsabilità morale, politica e giuridica, considerando che gli USA, come altri Paesi, hanno l’obbligo di onorare e rispettare le legge internazionali a questo proposito.

Tuttavia gli USA, incoraggiati dalla mancanza dell’obbligo di pagarne le conseguenze, continuano a comportarsi allo stesso modo di Paesi che Washington attacca in continuazione per il loro comportamento antidemocratico e per la violazione dei diritti umani.

Se eventi così bizzarri – il licenziamento di insegnanti e il fatto di subordinare l’aiuto in base a prese di posizione politiche – avvenissero per esempio in Cina, Washington avrebbe guidato una campagna internazionale di condanna dell’intransigenza e della violazione dei diritti umani da parte di Pechino.

Molti americani devono ancora comprendere come la sudditanza degli Stati Uniti ai voleri politici di Israele stia pregiudicando la loro vita quotidiana. Ma con sempre maggiori restrizioni legali di questo tipo, persino l’americano medio si ritroverà presto a lottare per diritti politici basilari che, come Bahia Amawai, ha sempre dato per scontati.

Sicuramente Israele può aver avuto successo nell’obbligare alcune persone a non impegnarsi apertamente nell’appoggiare il BDS, ma alla fine perderà anche questa battaglia.

Soffocare le voci della società civile raramente funziona per molto tempo, e la campagna anti-BDS, che ora è arrivata al cuore del governo USA, è destinata prima o poi a suscitare un dibattito a livello nazionale.

Difendere l’apartheid israeliana è più importante per gli americani che conservare la natura fondamentale della loro democrazia?

Questa è una domanda a cui ogni americano, indipendentemente da quello che pensa dell’apparentemente lontano conflitto mediorientale, deve rispondere, e con urgenza.

Le opinioni esposte in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Amira Hass: perchè “La fabbrica del consenso” di Chomsky è ancora importante

Al-Jazeera – 22 dicembre 2018

La giornalista israeliana che informa su Gaza e sulla Cisgiordania condivide le sue idee su “La fabbrica del consenso” di Chomsky

Listening Post [“Postazione d’ascolto”, programma della rete televisiva Al-Jazeera] ha intervistato la giornalista israeliana Amira Hass sulla sua opinione riguardo al libro di Noam Chomsky “La fabbrica del consenso”. Hass ha passato buona parte della sua carriera professionale vivendo ed informando da Gaza e dalla Cisgiordania –una dei pochissimi giornalisti israeliani ad averlo fatto. Qui di seguito la trascrizione completa della nostra intervista con lei.

The Listening Post: “La popolazione in generale non sa cosa stia avvenendo e non sa neppure cosa non sa.” Questa è la sintesi concisa di Noam Chomsky sulla comprensione dell’opinione pubblica in generale riguardo a quali decisioni vengano prese in suo nome. Quanto le sembra vero questo oggi?

Amira Hass: È un’affermazione molto umanistica e ottimistica, la convinzione che la gente voglia avere accesso alle informazioni e con l’accesso alle informazioni possa agire, possa cambiare. Posso dire che questo tipo di approccio ha guidato molte persone come me.

In ebraico le parole comprensione, informazione e consapevolezza hanno tutte la stessa radice. È così che ho iniziato a lavorare a Gaza all’inizio degli anni ’90 ed ho scritto di Gaza, pensando che l’opinione pubblica israeliana non sapesse niente dell’occupazione e di cosa ciò significasse, della vita dei gazawi.

Mi aspettavo che i miei reportage raggiungessero altri e cambiassero la consapevolezza. Ho scoperto molto presto che non era così.

Lo stesso Noam Chomsky ha detto che quando scrive delle politiche di Israele si basa in buona misura su informazioni pubblicate dalla stampa israeliana, che non ha mai effettivamente informato sulla gravità delle politiche israeliane e della repressione.

Fino agli accordi di Oslo in Israele c’era una certa visibilità persino nei media più importanti. Ma ciò non ha cambiato la consapevolezza della gente. Ed è molto peggio oggi, quando nell’era di internet abbiamo una grande quantità di mezzi di comunicazione. Queste informazioni sono in circolazione – da parte di attivisti, organizzazioni per i diritti umani -, è tutto alla luce del sole. Ma la gente non le va a leggere. Vi hanno accesso ma scelgono di non andarle a vedere.

The Listening Post: “Chomsky ha sostenuto che normalmente i giornalisti non sono tenuti sotto controllo attraverso interventi dall’alto, ma dalla “selezione di personale che pensa quello che deve e dall’interiorizzazione, da parte dei redattori e dei giornalisti sul campo, delle priorità e delle definizioni di quello su cui vale la pena informare che sia conforme alla politica istituzionale.” Nella sua esperienza, come succede questo quando si informa sull’occupazione israeliana?

Hass: Ciò è quanto percepisce chi scrive. Ogni giornalista capisce molto rapidamente che c’è una serie di filtri mentre scrivi il tuo articolo. Possono essere problemi molto innocui come la lunghezza, il tempo, le scadenze. Hai a disposizione 300 parole. No, 400.

Ma qualcuno decide quante parole avrai per ogni argomento. Qualcuno deciderà se sarà in prima pagina o da qualche parte in fondo al giornale. O alla fine delle notizie lette alla radio o alla televisione.

Quindi, chi decide sulla gerarchia delle notizie? Cos’è importante? Cosa non lo è? Chi decide cosa sia giornalismo investigativo e cosa non lo sia?

Molto spesso mi rendo conto che se hai un’informazione ufficiale, quello viene chiamato giornalismo investigativo. Ma se tu in realtà hai informazioni direttamente dalla gente – diciamo sui pericoli di inquinamento dell’acqua a Gaza – ciò non è visto come qualcosa di serio come quando [la notizia] arriva da una fonte ufficiale.

The Listening Post: “La censura è in buona misura auto-censura” – gli inviati accettano e interiorizzano i limiti imposti dal mercato e dal potere esercitato su di loro. Ci parli di quando si è resa conto che ciò era vero e come questa consapevolezza ha influito su di lei, l’ha ispirata, l’ha frustrata.

Hass: In Israele i giornalisti non vivono ancora soggetti a una censura di Stato. C’è una censura militare ma quella non ha mai seriamente influito sul mio lavoro. Ma c’è la socializzazione. Lo si vede nei principali mezzi di comunicazione israeliani che dedicano sempre meno spazio e attenzione alla situazione dell’occupazione.

Ciò è andato peggiorando dagli accordi di Oslo. Hanno consentito alla gente di pensare che l’occupazione non esistesse. ‘Oh, ora hanno gli accordi. C’è un governo palestinese. Non c’è occupazione. Di fatto, c’è solo il terrorismo palestinese contro di noi.’ Perciò le persone hanno ancor meno interesse ad accedere a informazioni disponibili e la maggior parte dei mass media israeliani ascolta il pubblico, dà ascolto al loro desiderio di non sapere.

The Listening Post: Nel suo libro Chomsky afferma che “la ragione dell’esistenza dei mezzi di informazione è inculcare e difendere l’agenda economica, sociale e politica di gruppi privilegiati che dominano la società nazionale e lo Stato,” e lo fanno attraverso la selezione degli argomenti, la definizione dei problemi, il filtro delle informazioni e mantenendo la discussione all’interno “dei confini del consentito” nei media. Ci può parlare dello scontro con i “confini del consentito” nel contesto in cui lavora?

Hass: Sono fortunata per aver lavorato in un giornale israeliano il cui editore e proprietario è liberale nel vero senso della parola ed è anche decisamente contrario all’occupazione israeliana. Perciò ho la libertà che penso che non hanno i miei colleghi che informano su questo in altri giornali e in altri mezzi di comunicazione, che potrebbero anche essere contrari alle politiche israeliane.

Credo che, venendo dalla sinistra, dalla mia famiglia, dal mio contesto, mi sono abituata ad essere respinta. Ma ho insistito e sono anche fortunata perché c’è una comunità molto importante, non molto grande ma molto decisa, di attivisti anche israeliani contro l’occupazione e contro le politiche israeliane in generale, politiche israeliane colonialiste – forse questo è un termine migliore di occupazione.

The Listening Post: Sono passati trent’anni dalla pubblicazione di “La fabbrica del consenso”. Perché oggi è ancora importante?

Hass: Sono importanti, il libro ed il concetto sono importanti perché offrono ad ogni giornalista una sorta di faro. Sono importanti perché vediamo come nel corso degli anni i magnati hanno preso sempre più il controllo di sempre più mezzi di comunicazione, di imprese e piattaforme mediatiche.

Notizie che sono considerate degne di essere stampate non sono necessariamente quelle che sono positive per la gente e per l’opinione pubblica. Perciò il libro fa appello allo scetticismo delle persone e ciò è sempre importante. Tuttavia, come ho detto prima, oggi il problema è che la gente non è interessata a quello che non serve immediatamente ai suoi interessi. E questa è una constatazione molto triste.

(traduzione di Amedeo Rossi)