Rapporto OCHA del periodo 26 febbraio – 11 marzo (due settimane)

A Gaza, durante il periodo di riferimento, le dimostrazioni e gli scontri del venerdì lungo la recinzione perimetrale, hanno provocato l’uccisione di due palestinesi, entrambi 23enni, ed il ferimento di altri 556; inoltre un palestinese di 22 anni è morto per le ferite riportate il venerdì precedente (22 febbraio).

I due palestinesi di cui sopra, sono stati uccisi con armi da fuoco l’1 e l’8 marzo, durante le proteste svolte nelle zone di Deir al Balah e di Rafah. Dal 30 marzo 2018, data di inizio delle proteste collegate alla “Grande Marcia di Ritorno”, 193 palestinesi sono stati uccisi e 26.625 sono stati feriti. Secondo il Ministero della Sanità palestinese, dei [556] feriti registrati nel periodo di riferimento, 269 sono stati ricoverati in ospedale; 79 di questi hanno riportato ferite da armi da fuoco. Al lancio da parte di palestinesi di proiettili, palloncini incendiari e ordigni esplosivi verso Israele, hanno fatto seguito diversi attacchi aerei israeliani e bombardamenti contro siti militari appartenenti, secondo quanto riferito, a gruppi armati palestinesi e contro porti: risultano danneggiati due siti e tre barche da pesca.

Il 6 marzo, nel corso di ulteriori proteste e azioni correlate con la “Grande Marcia di Ritorno”, è stato ucciso un 15enne e altri 66 palestinesi sono rimasti feriti. Queste ulteriori proteste includono le dimostrazioni tenute sulla spiaggia, vicino alla recinzione perimetrale, nella parte nord della Striscia, e il tentativo, da parte di una flottiglia di barche, di rompere il blocco navale, nonché le attività notturne presso la recinzione; nel corso di queste ultime si è fatto uso di ordigni esplosivi contro le forze israeliane.

Nelle Aree ad Accesso Riservato, imposte da Israele sia sulla terraferma che al largo della costa di Gaza, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento in almeno 32 occasioni estranee alle dimostrazioni sopraccitate. In tre casi, quattro pescatori palestinesi sono stati feriti, altri sette pescatori sono stati arrestati e due imbarcazioni sono state confiscate dalle forze navali israeliane. In un altro caso, le forze israeliane hanno arrestato due palestinesi che, secondo quanto riferito, tentavano di infiltrarsi in Israele attraverso la recinzione perimetrale. In tre casi, le forze israeliane sono entrate nella Striscia, nelle aree di Beit Lahiya e Beit Hanoun, ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e scavi in prossimità della recinzione perimetrale.

In Cisgiordania, in due occasioni, tre palestinesi sono stati uccisi e due membri delle forze israeliane sono rimasti feriti [di seguito il dettaglio]. Nelle prime ore del 4 marzo, le forze israeliane hanno sparato e ucciso due palestinesi che percorrevano in auto la strada principale vicino al villaggio di Kafr Ni’ma (Ramallah). Le autorità israeliane sostengono che si sarebbe trattato di un tentativo deliberato di speronamento. Fonti locali palestinesi hanno segnalato che i due palestinesi, insieme ad un altro che è stato arrestato, hanno investito una jeep militare accidentalmente, provocando il ferimento di due membri delle forze israeliane. I corpi dei due palestinesi sono ancora trattenuti dalle autorità israeliane. Il 10 marzo, nella zona di Jericho, a un posto di blocco volante sulla strada 90, un altro automobilista palestinese di 22 anni è stato colpito ed ucciso dalla polizia israeliana; a quanto riferito, il giovane avrebbe ignorato l’alt della polizia. Altri due passeggeri sono fuggiti. Le autorità israeliane hanno aperto un’indagine, nella convinzione che l’autista non si sia fermato perché i passeggeri erano implicati in attività criminali. Queste ultime morti portano a dieci il numero di palestinesi uccisi in Cisgiordania dalle forze israeliane dall’inizio del 2019 ad oggi.

Il 5 marzo, nel quartiere di As Salaymeh nella zona H2 di Hebron controllata da Israele, tre minori, di età compresa tra uno e quattro anni, sono morti nell’incendio della loro casa. Secondo fonti palestinesi, i servizi di soccorso sono stati ritardati dal fatto che, per le ambulanze e i vigili del fuoco, l’accesso all’area richiede un coordinamento preventivo con le autorità israeliane.

In Cisgiordania, durante il periodo di riferimento, in numerosi scontri con le forze israeliane sono complessivamente rimasti feriti 26 palestinesi: un calo significativo di circa l’82%, rispetto alla media di ferimenti (146 ogni due settimane) registrata finora nel 2019. Dei 26 citati, 13 sono rimasti feriti negli scontri scoppiati nel villaggio di Kafr Qaddum (Tulkarm) durante le proteste settimanali contro l’espansione degli insediamenti israeliani; otto hanno subìto lesioni nel corso di un’altra protesta svolta a Beit Sira (Ramallah) per chiedere il rilascio dei corpi dei due palestinesi uccisi vicino a Kafr Ni’ma [vedi sopra]. Infine, altri cinque sono rimasti feriti negli scontri avvenuti durante due operazioni di ricerca-arresto condotte dalle forze israeliane nella città di Nablus. Complessivamente, le forze israeliane hanno condotto 173 operazioni di questo tipo, il 45% delle quali è culminato in scontri. La metà delle lesioni è stata causata da inalazione di gas lacrimogeno richiedente cure mediche, circa il 38% da proiettili di gomma, l’8% da aggressioni fisiche e il 4% da proiettili di arma da fuoco. Inoltre, le forze israeliane, sostenendo che erano stati piantati su “terra di stato” [dichiarata tale da Israele], hanno sradicato 135 ulivi appartenenti a [palestinesi del] Campo profughi di Arub e della zona di Khallet ad Dab’a.

Sette attacchi attribuiti a coloni israeliani hanno provocato il ferimento di tre palestinesi e danni a proprietà palestinesi [di seguito il dettaglio]. Nel villaggio di Jaba (Gerusalemme), coloni israeliani hanno lanciato pietre contro un veicolo che viaggiava sulla Strada 60, ferendo due palestinesi, mentre nella zona H2 della città di Hebron hanno causato lesioni ad un altro palestinese spruzzandogli liquido al peperoncino. In altri tre episodi, i residenti di Burin e di Urif (entrambi a Nablus) e Far’ata (Qalqiliya) hanno riferito che i coloni hanno danneggiato circa 50 ulivi di proprietà palestinese. Nell’episodio avvenuto in ‘Urif, dopo che coloni avevano lanciato pietre contro la scuola e case circostanti, si sono innescati scontri tra palestinesi e coloni sostenuti dalle forze israeliane che li accompagnavano. In un altro caso nel villaggio di Far’ata, palestinesi hanno riferito che coloni provenienti dall’avamposto di Gilad hanno gettato diversi animali morti in un pozzo; sul caso i palestinesi hanno presentato una denuncia alle autorità israeliane. In un altro episodio, avvenuto in Khirbet nella zona di Tawamin, coloni israeliani dell’insediamento di Susiya (Hebron) hanno distrutto un tratto di una recinzione di 200 metri che delimitava terreni agricoli, un cancello e dieci serbatoi d’acqua; anche in questo caso il proprietario ha presentato una denuncia alla polizia israeliana. Nell’area della Valle del Giordano, un cane di proprietà di coloni ha attaccato e ferito un vitello di proprietà di una famiglia palestinese della comunità di Ein al Hilweh. Sono stati segnalati altri due episodi avvenuti il 10 ed 11 marzo nella zona H2 di Hebron: coloni israeliani hanno molestato attivisti internazionali che accompagnavano dei bambini alla scuola di Qurdoba. La polizia israeliana presente sul luogo ha disperso sia i coloni che gli attivisti.

Sono state demolite 18 strutture di proprietà palestinese, sfollando 42 persone e creando danno ad altre 67: tutte le strutture, tranne una, sono state demolite per la mancanza di permessi rilasciati da Israele. 12 di queste strutture, erano nell’Area C e 5 a Gerusalemme Est. La struttura rimanente, una abitazione situata nel villaggio di Kobar (Ramallah) in zona B, è stata demolita il 7 marzo; apparteneva alla famiglia di un palestinese arrestato e accusato di aver compiuto un attacco che, nel dicembre 2018, provocò la morte di due soldati israeliani: si è trattato quindi di una demolizione “punitiva”. Dall’inizio del 2019 questa è la seconda demolizione punitiva; nel 2018, con la stessa motivazione furono demolite sei abitazioni. Il 7 marzo, nella comunità beduina di Arab ar Rashaydiya (Betlemme) le forze israeliane hanno confiscato sette latrine ricevute in donazione.

Secondo quanto riportato da media israeliani, in tre diverse circostanze, il 26 febbraio e 6 il marzo, tre veicoli di coloni israeliani in transito nei pressi di Tur e Hizma (entrambi a Gerusalemme) e Deir Qaddis (Ramallah) hanno subìto danni per il lancio di pietre da parte di palestinesi. A seguito di tali episodi le forze israeliane hanno condotto operazioni di ricerca-arresto.

Per la prima volta in cinque anni, pellegrini diretti alla Mecca sono stati autorizzati ad attraversare il valico di Rafah (tra Gaza e l’Egitto) sotto controllo egiziano; durante il periodo di riferimento, il valico è stato aperto per nove giorni in entrambe le direzioni. Sono entrate a Gaza 1.413 persone e ne sono uscite 3.948, di cui 1.559 pellegrini.

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Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

12 marzo: in due episodi, accaduti nella zona (H2) della città di Hebron e a Salfit, le forze israeliane hanno sparato, uccidendo due palestinesi di 41 e 23 anni.

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nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




L’antisionismo è una forma di antisemitismo?

Azmi Bishara

15 marzo 2019, il lavoro culturale

Durante la visita del 27 febbraio scorso al cimitero ebraico di Quatzenheim, nel dipartimento francese del Basso Reno, il presidente Francese Emmanuel Macron ha promesso di prendere «misure legali» per combattere l’antisemitismo, dichiarando: «agiremo, approveremo delle leggi e puniremo». Successivamente Macron ha visitato il Memoriale dell’Olocausto a Parigi assieme ai Presidenti del Senato e dell’Assemblea Nazionale.

Il giorno seguente, in un discorso alla 34° cena annuale del CRIF (Conseil Représentatif des Institutions Juives de France, n.d.r.), Macron ha promesso che la Francia adotterà una definizione di antisemitismo nella sua legislazione in conformità con quella utilizzata dall’International Holocaust Remembrance Alliance. Questa include l’antisionismo, che Macron ha definito «una delle forme moderne di antisemitismo».[1] Non c’è alcun dubbio che i ripugnanti graffiti che hanno dissacrato quelle tombe costituiscano un crimine d’odio antisemita. Ma in che modo questo ha a che fare con l’antisionismo e certe posizioni verso Israele?

A prescindere dal fatto che Macron voglia veramente, o addirittura possa far approvare una legge del genere, sembra che il presidente francese abbia ben poche conoscenze sia sull’antisionismo sia sull’antisemitismo. Macron sarà sorpreso di apprendere che, non solo alcuni dei più importanti pensatori antisionisti sono degli intellettuali ebrei di varie sensibilità politiche, ma che lo stesso antisionismo, come il sionismo, è un fenomeno ebraico, sviluppatosi originariamente come risposta ebraica al sionismo. Sarà difficile per Macron classificare l’antisionismo come forma di antisemitismo dato che non esiste alcuna connessione tra le due idee.

È vero che prima e dopo la creazione di Israele, e in un contesto di intensa attività sionista in Palestina, ci sono state alcune intersezioni tra il rifiuto indigeno del sionismo in quanto progetto coloniale (non ebraico) e alcuni tratti della propaganda antisemita europea. Questa propaganda ha fornito terminologie e teorie del complotto pronte per l’importazione in Palestina, ma non c’era alcuna relazione storica o teorica tra i due fenomeni. Il rifiuto arabo e palestinese del sionismo non era una questione di ostilità etnica, religiosa o sociale verso gli ebrei ma di rifiuto della conquista coloniale del loro Paese, proprio come gli algerini rifiutavano di accettare l’insediamento di coloni nel loro Paese e altri popoli hanno fatto e farebbero a prescindere dalla loro religione o dalla religione dei coloni.

Tutte le risoluzioni approvate dalle conferenze palestinesi e siriane degli anni Venti rappresentano i primi esempi di distinzione tra ebrei “nazionali” (ovvero indigeni) e coloni ebrei. Il ripugnate (per quanto raro) utilizzo da parte di una certa retorica del nazionalismo arabo di elementi tratti dal linguaggio dell’estrema destra europea, specialmente dopo la sconfitta del 1967, rappresenta la generalizzazione di una propaganda ostile nel contesto di un conflitto militare. La propaganda interna israeliana invece è stata tutt’altro che timida nell’utilizzare un linguaggio e un immaginario razzista per colpire arabi e musulmani. Il razzismo antiarabo ha infatti penetrato il sistema educativo israeliano, la retorica militare e mediatica e molti lavori di letteratura.[2]

Gli ebrei antisionisti hanno giustificato la loro posizione sulla base di argomentazioni religiose, morali e intellettuali, sia da sinistra sia da posizioni liberali. Proprio come esistono degli ebrei antisionisti, in Europa e negli Stati Uniti ci sono anche molti antisemiti che ammirano sia Israele sia il sionismo. Il motivo di questa ammirazione può essere il poderoso stato coloniale che il sionismo ha costruito, il militarismo israeliano, o il modello che Israele ha offerto nella lotta al terrorismo e ai musulmani. In alcuni casi dietro l’ammirazione si nasconde un doppio fine, dato che il sionismo agisce per svuotare l’Europa della sua popolazione ebraica. Questo è quello che gli antisemiti vogliono. I movimenti antisemiti hanno osservato con soddisfazione gli ebrei concentrarsi in un Paese del Medio Oriente, così da non essere più una seccatura per l’Europa.

Non sussiste alcuna sovrapposizione sostanziale tra antisemitismo e antisionismo. Quindi perché sostenere che l’antisionismo sia un fenomeno ebraico?

Il sionismo emerse in seguito alla creazione di una nuova definizione di giudaismo che storicamente ha trasformato il significato dell’ebraicità. È logico che la prima reazione a questo avvenimento sarebbe apparsa in seno alla comunità ebraica. Per i credenti, il sionismo ha riformulato l’essere ebreo dall’essere “il popolo eletto di Dio”, “il popolo del libro” o “un popolo come nessun altro” all’essere parte di una nazione etnica che, come altre nazioni europee del diciannovesimo secolo, cerca di acquisire la sovranità nazionale nella forma di uno Stato-nazione (fuori dall’Europa nel caso di Israele). Anche per i laici il sionismo ha riformulato il giudaismo e lo ha trasformato dall’essere una religione – che non avrebbe dovuto rappresentare un ostacolo all’integrazione nelle nazioni degli Stati laici di cui erano cittadini – in un’identità etnica.

Le prime posizioni antisioniste apparvero all’interno delle principali correnti religiose ebraiche, non solo perché il sionismo è un movimento secolare, ma anche perché il sionismo ha commesso il peccato imperdonabile di secolarizzare il giudaismo stesso, trasformando la religione in una nazionalità etnica.

Le correnti religiose ebraiche hanno modificato la loro idea di popolo eletto di Dio. Alcuni gruppi credono che Dio abbia posto gli ebrei al di sopra degli altri popoli, mentre altri traggono il significato di “eletto” dai tempi della profezia, facendone derivare dei doveri religiosi ed etici e maggiori obblighi piuttosto che privilegi. Esistono molte altre idee. Tuttavia, c’è un consenso generale nel rifiutare l’idea che l’ebraismo sia una nazione che lotta per l’edificazione di uno Stato in questo mondo. Alcuni di questi movimenti aspettano l’arrivo del Messia per costruire uno Stato paradisiaco e salvare il popolo ebraico. Il sionismo è quindi considerata una falsa profezia, incarnata dal progetto statuale, che si proclama (falso) Messia e interferisce nel lavoro di Dio. La maggioranza delle correnti religiose ebraiche, siano esse chassidiche, pseudomistiche o ultraortodosse modaliste, si sono opposte a questa secolarizzazione della comunità ebraica.[3]

Ci fu una ristretta corrente del pensiero religioso ebraico che si intersecò col sionismo, dando vita al movimento Mizrahi. Questo movimento, secondo l’opinione mia e di molti altri, ha formato il nucleo della successiva sovrapposizione tra nazionalismo e religione nei movimenti dei coloni e nelle organizzazioni di estremisti nazionalisti religiosi in Israele. Prima della crescita di questo movimento, religiosità ebraica e “sionistizzazione” erano completamente separate. L’espansione dei movimenti nazional-religiosi in Israele può essere fatta risalire alla crescita in influenza della Yeshiva Mercaz HaRav a Gerusalemme e all’euforia israeliana in seguito al “miracolo divino” del 1967, che portò all’occupazione di “Giudea e Samaria” (la Cisgiordania) e “alla riunificazione” dell’Israele biblica sotto lo Stato di Israele.

Fino ad allora, il sionismo secolare ha fatto uso della religione per necessità, perché era altrimenti impossibile giustificare la scelta della Palestina come luogo in cui edificare lo Stato senza un collegamento biblico ed anche perché la risposta data dal sionismo e dallo Stato di Israele alla domanda “chi è un ebreo?” – una domanda necessaria per definire la cittadinanza – era la definizione di ebrei come formulata dal giudaismo. Da tempo ho previsto che questi movimenti sarebbero cresciuti e che la loro retorica sarebbe divenuta egemonica come risultato delle pratiche di occupazione e della convergenza tra retorica sionista e retorica religiosa nella giustificazione dell’occupazione di Gerusalemme e della Cisgiordania.[4]

La seconda corrente in contrasto col sionismo è la sinistra ebraica. Alcuni all’interno dei partiti comunisti (in particolare i Bolscevichi russi), consideravano il sionismo un movimento borghese che avrebbe condotto alla separazione dei lavoratori ebrei dalla lotta del proletariato per una società più giusta; per essi, la questione ebraica e l’oppressione di tutte le minoranze poteva risolversi con la fine dello sfruttamento e con la lotta di classe. I bundisti ebrei concepivano l’ebraicità sia in una dimensione religiosa che culturale/nazionale. Essi credevano che la questione ebraica si sarebbe risolta grazie al socialismo, ma che i problemi degli ebrei erano simili a quelli del resto della popolazione russa, e che questi problemi si sarebbero risolti attraverso l’ottenimento dello status legale di minoranza. Essi vedevano il sionismo come un movimento isolazionista che cercava di contribuire alle attività coloniali nel Levante Arabo a non a una soluzione della questione ebraica in Europa.[5]

Nelle province russe, in Polonia e nei Paesi baltici, la sinistra ebraica inquadrata in movimenti e sindacati lasciò crescere alcune correnti sioniste che aspiravano a combinare la liberazione nazionale e di classe attraverso la creazione di colonie socialiste in Palestina. Essi non furono però in grado di risolvere la contraddizione tra ciò che vedevano come liberazione nazionale e di classe e le pratiche di colonizzazione della terra di un altro popolo, rimanendo così prigionieri di questa contraddizione. Il movimento antisionista di sinistra rimase forte per tutto il Ventesimo secolo, poiché il numero degli ebrei nei movimenti di sinistra, comunisti e socialisti d’Europa, inclusa la Francia, era alto rispetto alla proporzione degli ebrei nella popolazione generale. Essi credevano che la soluzione alla questione ebraica risiedesse nel risolvere il problema delle classi sociali in Europa.

Una terza corrente è rappresentata dagli ebrei assimilazionisti composta di liberali, democratici e altre forze non-ideologiche di cui facevano parte il filosofo Hermann Cohen, lo scrittore Karl Kraus e molti altri. Anche lo stesso padre del sionismo, Herzl, era in favore dell’assimilazione prima di assistere al processo Dreyfus in Francia. Molti di essi credevano che la transizione degli europei verso la democrazia liberale avrebbe garantito agli ebrei cittadinanza e integrazione nelle loro società.[6] Era questo il caso della maggioranza degli ebrei tedeschi, francesi e britannici che furono sopresi dal Nazismo rendendoli nuovamente coscienti della loro ebraicità. Le tragiche vicende di persone come Stefan Zweig, forse anche lo stesso Walter Benjamin, ne furono espressioni particolarmente rappresentative. Ma più importanti sono i milioni di ebrei cui nessun scrittore o pensatore dà voce.

Nei lavori in cui Zygmunt Bauman trae alcune lezioni dall’Olocausto, specialmente nel suo Modernità e Olocausto, egli tenta di tenere assieme una posizione generale contro il razzismo, l’estremismo nazionalista e la xenofobia a un’opposizione al trattamento del popolo palestinese da parte di Israele. Nel suo libro Bauman rifiuta la pretesa israeliana di parlare a nome delle vittime e la strumentalizzazione sionista dell’olocausto.[7] Hannah Arendt e altri pensatori lo hanno preceduto con critiche simili che derivavano da una morale universale e dal rifiuto di ogni forma di razzismo, compreso il razzismo ebraico.

Il sionismo ha da allora criticato gli ebrei per essersi fatti ingannare dalle idee socialiste e liberali e dal fallimento delle loro politiche. Gli scrittori sionisti rivendicano il successo del sionismo nell’aver colto l’ideologia dominante dell’epoca, il nazionalismo; i sionisti, una volta una minoranza tra gli ebrei, sono riusciti dove le idee più popolari tra gli ebrei hanno fallito. Secondo la loro visione, il sionismo ha riconosciuto che la soluzione alle questioni etniche non risiedeva nella democrazia liberale o nel socialismo, ma nell’edificazione di uno Stato. Secondo questa visione, il nazismo e l’antisemitismo sono le migliori conferme del fatto che il sionismo sia stata la scelta migliore e che gli assimilazionisti in Germania, Francia e nel resto d’Europa si sbagliavano.

Il dibattito ha fino a ora ignorato la natura di questa “soluzione nazionale” della questione ebraica e la sua natura di progetto coloniale portato avanti a danno di altri, i palestinesi. Al contrario, si continua a riflettere sul sionismo come se fosse una questione europea, interna e soprattutto ebraica.

Come affronterà questi fatti il signor Macron? L’ignoranza non è una scusa per i capi di Stato, soprattutto di uno Stato importante come il suo. Questi dibattiti sono parte della storia della Francia, non solo della Germania. Come dimostra l’esperienza di Herzl, l’antisemitismo francese ha contribuito alla nascita del sionismo. La Francia ha fornito il prototipo di integrazione civile, ma l’antisemitismo ha ciononostante rialzato orrendamente la sua testa durante il caso Dreyfus, “risvegliando” Herzl e facendogli aprire gli occhi su una “realtà” che non aveva mai visto prima: ovvero, che la discriminazione degli ebrei nei Paesi europei era una malattia cronica e incurabile e che gli ebrei sarebbero rimasti degli stranieri in Europa nonostante tutti gli sforzi fatti per essere assimilati.[8]

L’involontario e oggettivo alleato ideologico del sionismo è l’antisemitismo. Il pensatore ebreo Claude Montefiore lo osservò agli inizi del Ventesimo secolo nella sua critica della creazione di una doppia lealtà per gli ebrei.[9] Inoltre, il sionismo sin dalla sua nascita, non solo ha considerato l’antisemitismo una malattia eterna che appesta i popoli dei Paesi dove vivono gli ebrei, ma ha anche plasmato una visione negativa (quasi razzista) dell’ebreo debole, umiliato e reietto che non possiede un carattere e un sentimento nazionale.

antisionismo e antisemitismoIl libro di Herzl descrive lo Stato ebraico dipingendo con tratti dispregiativi gli immigrati ebrei russi in Europa centrale, utilizzando una terminologia che non sarebbe apparsa fuori luogo in un dizionario antisemita.[10] In seguito il sionismo sviluppò il “profilo” dell’ebreo israeliano così sicuro di sé al punto di diventare aggressivo, che lavora la terra e che imbraccia le armi, che riesce a salvarsi dal vittimismo diventando un occupante (un persecutore).

Storicamente, sono stati l’antisemitismo e le ondate persecutorie sofferte dagli ebrei che hanno dato vita al loro progetto. I gruppi ebraici sono stati persuasi a emigrare dai loro Paesi sotto il peso delle diverse ondate di antisemitismo in Europa, che si trattasse delle Centurie Nere in Russia, dei nazisti in Germania o dei razzisti francesi. Ma dopo ogni ondata, erano gli Stati Uniti e non Israele la destinazione preferenziale della maggior parte degli emigranti. Anche quando perseguitati, la maggior parte degli ebrei non divenne sionista. Per essi, il progetto sionista era qualcosa di distinto che cercava di raggiungere degli obiettivi che non avevano niente a che fare con la fine delle loro sofferenze.

È naturale per i non-ebrei non essere sionisti. Il sionismo è un movimento ebraico. Non preoccupa i non-ebrei a meno che non rappresenti una minaccia o comporti idee e pratiche che contraddicano i loro principi. E non ogni intellettuale in disaccordo col sionismo diventa necessariamente ostile o essenzialmente antisionista. Né, certamente, questo comporta posizioni negative nei confronti degli ebrei.

Coloro che odiavano gli ebrei per motivi religiosi, etnici o sociali (le tre fonti dell’antisemitismo), lo facevano ben prima dell’emergere del sionismo. La maggioranza di coloro che erano contrari al sionismo erano ebrei. L’antisemitismo, religioso o sociale, è un fenomeno razzista che esisteva prima del sionismo. Tuttavia, non si tratta più del fenomeno centrale nella vita sociale dell’occidente, e non divenne mai un fenomeno globale, diversamente da quanto Israele ha cercato di sostenere per ragioni politiche.[11]

Non si può affermare che arabi e musulmani del diciannovesimo secolo fossero antisionisti. Non sapevano nemmeno che cosa fosse e il sionismo non significava nulla per loro. Quando l’ostilità nei confronti del sionismo cominciò a crescere in Palestina, questa non era di carattere intellettuale, ma piuttosto si trattava di un’attitudine collettiva di contadini, intellettuali e borghesia nazionale di una popolazione che aveva vissuto in Palestina per secoli e si opponeva alla colonizzazione della propria terra, in particolare dopo aver compreso che si trattava di un progetto politico teso alla creazione di uno Stato risultante dalla Dichiarazione Balfour nel Mandato Britannico.

Allo stesso tempo, la fondazione di uno Stato ebraico in un Paese dove vivevano una maggioranza araba e una piccola minoranza ebraica, poteva solo significare l’espulsione della prima dalla propria terra. La tolleranza era il sentimento prevalente a quel tempo, con ebrei praticanti che vivevano in Palestina da prima del sionismo. Questo è chiaro dati i numerosi quartieri ebraici a Gerusalemme, Hebron, Tiberiade e Safed. Gli arabi non avevano familiarità con l’antisemitismo.

L’impero ottomano e i Paesi arabi hanno vissuto occasionalmente ondate di istigazione e pratiche brutali contro le minoranze religiose, specialmente in tempo di crisi. Tuttavia, si trattava di eccezioni e non della regola.  Non c’erano particolari fenomeni di ostilità antiebraica da potersi definire antisemiti. Bisogna anche ricordare che una delle prime condanne contro gli insediamenti sionisti in Palestina venne dalla comunità ebrea ortodossa di Gerusalemme. Furono i primi a denunciare ideologicamente gli insediamenti sionisti in Palestina in una petizione diretta al Sultano ottomano.[12]

Le posizioni all’interno della comunità ebraica sono cambiate da quando il sionismo è riuscito a fondare uno Stato. Il sionismo rimase un movimento minoritario all’interno dell’ebraismo internazionale fino alla vittoria israeliana nella guerra del 1967, la quale attrasse ampio sostegno per Israele e convinse gli ebrei in tutto il mondo che il progetto era realistico e che non si trattava solo di avventurismo. Ma il più importante cambiamento è avvenuto proprio in Israele. Molti partiti religiosi si sono legati ai servizi forniti dallo Stato, “sionistizzandosi” nella loro partecipazione al nazionalismo israeliano durante la lotta contro gli arabi. La destra e la sinistra israeliana, che avevano solo affinità trascurabili con la sinistra e la destra ebraica prima della fondazione dello Stato ebraico, sono emerse parallelamente al militarismo israeliano e alla vanità del potere, col profilarsi di un conflitto per la definizione del carattere laico o religioso dello Stato.

Herzl appare un laico moderato rispetto alla classe politica di questo Stato. Sosteneva la concessione di eguali diritti civili agli arabi e voleva tenere fuori Gerusalemme e il cosiddetto “Monte del Tempio” per preservare il carattere laico del suo futuro Stato. Ma Israele che occupa tutta Gerusalemme, la Cisgiordania, le Alture del Golan, che assedia Gaza e possiede armamenti nucleari, continua a presentarsi come una vittima e utilizza la memoria dell’Olocausto per rappresentare delle vittime che non hanno mai chiesto questa rappresentanza. Allo stesso tempo taccia di antisemitismo chiunque in occidente critichi le sue politiche.

Le questioni del razzismo e del sionismo si sovrapposero con le politiche internazionali. Il 10 novembre 1975, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite adottò la risoluzione 3379 la quale affermava che “il sionismo è una forma di razzismo e di discriminazione razziale”. Questa risoluzione fu abrogata dalla risoluzione 46/86 il 16 dicembre 1991, dopo la caduta del comunismo.[13]

In entrambi i casi, pesarono questioni di alleanze internazionali e il passaggio, nell’equilibrio internazionale del potere, da una fase di alleanza tra Paesi neutrali e il campo socialista negli anni Sessanta e Settanta, in cui l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) raggiunse un certo peso, alla rottura di queste alleanze. Il rapporto tra Israele e Stati Uniti ha giocato un ruolo chiave in tutto ciò, ma l’antisemitismo non era in questione ma lo erano le pratiche di Israele nei confronti dei palestinesi sotto occupazione. Questo non è cambiato, si è piuttosto aggravato, con crescenti livelli di razzismo nella stessa Israele, secondo quanto riferito da indagini israeliane di ogni tipo.[14]

La destra estrema di oggi nei Paesi europei, la cui retorica e cultura politica sono in linea col “profilo” dell’antisemitismo, ammira Israele e Netanyahu. L’antisemita è sbalordito nel vedere Israele che costruisce il muro di separazione in Palestina, guarda con stupore le sue politiche verso gli arabi, esempi che l’Europa e l’America dovrebbero seguire, in amore di Putin e Trump e in odio dei musulmani. L’antisemitismo contemporaneo non è antisionismo, ma xenofobia e, in particolare, islamofobia. L’antisemitismo non può essere combattuto ingraziandosi i favori di lobbisti e politici israeliani durante un meeting. Esso ci impone di combattere tutti i tipi di razzismo, che sia diretto contro gli ebrei, i musulmani, i neri o i bianchi.

[1] “Macron announces measures to combat anti-Semitism in France”, France 24, 21 febbraio 2019: https://amp.france24.com/en/20190220-macron-announces-measures-combat-anti-semitism-france-crif-definition-anti-zionism; and Richard Lough, “France’s Macron says anti-Zionism is a form of anti-Semitism”, Reuters, 21 febbraio 2019: https://uk.reuters.com/article/uk-france-antisemitism-idUKKCN1QA1GX

[2] Daniel Bar-Tal and Yona Teichman, Stereotypes and Prejudice in Conflict: Representations of Arabs in Israeli Jewish Society(Cambridge: Cambridge University Press, 2009). Mazal Mualem, “Anti-Arab racism becomes tool in Israeli elections”, Al-Monitor,  10 febbraio 2015 at: http://bit.ly/2Udgp5i; Nurit Peled-Elhanan, Palestine in Israeli School Books: Ideology and Propaganda in Education, (New York: I.B. Tauris, 2012); Ben White, Palestinians in Israel: Segregation, Discrimination and Democracy, forward by Haneen Zoabi (London: Pluto Press, 2012),. Ali Abunimah, “Anti-Arab racism and incitement in Israel”, The Electronic Intifada, 30 marzo 2008: http://bit.ly/2IAmS8V;

[3] La posizione degli ebrei ortodossi è ben nota, come anche la formazione del partito antisionista Agudat Israel nel 1912. Non è possibile citare qui i numerosi esempi della forte ostilità che gli ebrei ortodossi provarono verso il sionismo. Ma lo stesso si può dire dell’ebraismo riformista. Posizioni antisioniste apparvero anche prima del Primo Congresso Sionista del 1897, per esempio alla conferenza conservatrice di Francoforte (1845) e alla conferenza rabbinica di Filadelfia (1869) o alla Piattaforma di Pittsburgh (1885) e in una risoluzione approvata durante la prima Conferenza Centrale del Gruppo Riformista (1890).

[4] Azmi Bishara, “Dawwamat ad-Din wa’d-Dawla fi Isra’il”, ad-Dirasat al-Filistiniyya 1:3 (Summer 1990), p. 24 (accessed on 28/02/2019, https://bit.ly/2Eyv7hv).

[5] La sezione ebraica del Partito Comunista Sovietico (Yevsektsiya), ad esempio, adottò una posizione esplicitamente antisionista nel suo sforzo di mobilitare i lavorati ebrei all’interno delle organizzazioni rivoluzionarie, e invocò una soluzione alla “questione ebraica” sulla base della lotta al capitalismo, all’imperialismo e alla discriminazione razziale e religiosa che includeva la lotta ai capitalisti ebrei alleati col sionismo.

[6] Durante la prima metà del Diciannovesimo secolo, Marx e Bruno Bauer animarono il dibatto su quale fosse la soluzione, la democrazia liberale o il socialismo. Bauer credeva che la cittadinanza in ogni stato democratico europeo fosse sufficiente all’integrazione degli ebrei in quanto cittadini, mentre Marx sosteneva che la società dovesse prima essere liberata del capitale affinché gli ebrei fossero anch’essi liberati.

[7] Zygmunt Bauman, Modernity and the Holocaust (Ithaca, N.Y.: Cornell University Press, 1989).

[8] Il caso Dreyfus iniziò nel 1894 quando il Capitano Alfred Dreyfus, un ebreo francese, fu accusato di tradimento sulla base di accuse secondo le quali avrebbe inviato informazioni sensibili in Germania. Il caso divise gli intellettuali e i politici francesi fino al 1906 e portò Herzl a fare della “soluzione al problema ebraico” la sua ossessione. In proposito si veda: Katrin Schultheiss, “The Dreyfus Affair and History,” Journal of The Historical Society, vol. 12, no. 2 (June 2012), pp. 189-203, visitato il 28 febbraio 2019: https://bit.ly/2HaWd0f; “Herzl,” Neue Freie Presse, June 1899, in: Alex Bein, Theodor Herzl: A Biography (New York: Jewish Publication Society of America, 1941).

[9] Geoffrey Alderman, Modern British Jewry, (New York: Clarendon Press of Oxford University Press, 1992) Rev.ed.1998, p. 232.

[10] Theodor Herzl, A Jewish State: An Attempt at a Modern Solution of the Jewish Question (New York: The Maccabaean Publishing Co, 1904), pp. 12-13.

[11] La deputata americana Ilhan Omar è stata oggetto di un’ampia campagna che l’ha accusata di antisemitismo per via di un tweet critico nei confronti di un gruppo di pressione israeliano (AIPAC), una lobby che lavora apertamente ed ufficialmente per influenzare i politici, le cu attività dovrebbero essere oggetto di critiche, anche pesanti se necessario. Nel giro di dodici ore, la leadership del Partito Democratico ha rilasciato un comunicato in cui rimproverava Omar per il suo tweet, per il quale lei stessa si è scusata. Molti repubblicani hanno continuato ad invocare la sua espulsione dalla commissione affari esteri del Congresso. Si veda in proposito: “Muslim Congresswoman Ilhan Omar in anti-Semitism row after criticising pro-Israel politicians” The New Arab, 12 febbraio 2019: http://bit.ly/2EcDYUV; John Bowden, “Omar deletes tweets at center of anti-Semitism controversy”, The Hill, Feb. 26, 2019, https://bit.ly/2Vmwcif ; Sheryl Gay Stolberg, “Ilhan Omar Apologizes for Statements Condemned as Anti-Semitic”, The New York Times, 11 febbraio 2019: https://nyti.ms/2I9ywY3.

[12] Zvi Sobel, Benjamin Beit-Hallahmi (eds.), Tradition, Innovation, Conflict: Jewishness and Judaism in Contemporary Israel, (New York, State University of New York Press, 2012), pp. 5-7.

[13] “United Nations General Assembly Resolution 3379: Elimination of All Forms of Racial Discrimination”, 10 novembre 1975: http://bit.ly/2Tha6QM ; “General Assembly Resolution 46/86, Revocation of Resolution 3379”, 16 dicembre 1991: http://bit.ly/2SYRWDW.

[14] Si veda: “Huquq al-Insan 2016: Tahdidat wa-Furas”, ACRI, 16/12/2016 (accessed on 26/02/2019 at http://bit.ly/2IErryU); Aviram Zino, “Racism in Israel on the Rise”, Ynet News, 12 August 2007, accessed at: http://bit.ly/2Nu0zAH.

Azmi Bishara, ex membro palestinese del parlamento israeliano è direttore dell’Arab Center for Research and Policy Studies.

( Traduzione di Saverio Leopardi)




Elezioni in Israele, bombe su Gaza

Patrizia Cecconi

15 marzo 2019 , Pressenza

Tutto è cominciato nella tarda serata di ieri, 14 marzo, quando due razzi del tipo Fajar sono stati lanciati su Tel Aviv. Uno dei due è stato intercettato e neutralizzato dall’iron dome e l’altro è caduto in zona disabitata senza creare danni né a persone né a cose.

I razzi Fajar hanno una gittata capace di raggiungere il centro di Israele, sono in possesso del partito della Jihad Islamica a cui sarebbero forniti dall’Iran. Infatti la prima dichiarazione israeliana ha tirato in mezzo proprio l’Iran che, come tutti sanno, è la bestia nera di Netanyahu. Per la prima volta Israele non ha accusato Hamas del lancio, bensì la Jihad proprio in quanto questa sarebbe foraggiata dal paese islamico che il premier israeliano sogna di distruggere e non ne fa mistero. Così, grazie ai due razzi Fajar, Israele ha potuto accusare al tempo stesso due nemici assoluti: l’Iran e l’islam, ottenendo i consensi che sa di ottenere quando gioca sulla confusione tra islamici e islamisti mettendo nello stesso cesto l’Isis e i suoi avversari musulmani, cosa che fa abitualmente riferendosi ad Hamas il quale, in realtà, è il vero baluardo contro l’Isis. Ma la storia dei razzi fajar questa volta ha del giallo, visto che il partito della Jihad, per voce del suo rappresentante Dawod Shihab, ha categoricamente smentito ogni implicazione ed altrettanto ha fatto il partito al governo, lasciando trapelare nell’aria l’idea che possa essersi trattato di “missili elettorali”.

Per esperienza pluriennale, ogni analista politico sa che tutte le azioni contro Israele partite da Gaza vengono rivendicate con orgoglio e come esempio di resistenza attiva, per cui suona veramente strano che quest’azione non abbia rivendicazioni dall’interno della Striscia. Dopo i recenti episodi di infiltrazioni straniere, non stupisce l’ipotesi che questo lancio possa essere stato pilotato a distanza, una distanza che qualcuno legge come servizi speciali israeliani e qualcuno come mano palestinese profondamente avversa sia alla riconciliazione che al partito al governo nella Striscia.

Al momento ogni opinione ha una sua possibilità di accoglimento, ma nessuna di queste si fonda su basi documentate. Ciò che invece è sotto gli occhi di qualunque lettore minimamente attento, è l’uso elettorale pro-Netanyahu che i due Fajar stanno giocando. A poche settimane dalle elezioni , con cause pendenti per frode e corruzione e con avversari politici che dirigono il loro consenso elettorale sul dichiarato impegno genocidario verso i palestinesi, cosa può essere più indicato – per la risalita nel gradimento elettorale del premier uscente – di una punizione collettiva all’incubo-Gaza, anticipando i vari Gantz, o Bennet, o Lieberman nell’uso dell’aviazione di guerra?

Per quanto Israele ci abbia abituati ad agire in totale libero arbitrio e quindi a uccidere quasi quotidianamente, arrestare adulti e bambini, rubare terra e, non ultimo, bombardare senza doverne mai rispondere, l’ultimo rapporto Onu deve aver influenzato il primo ministro il quale, secondo la comprovata ratio del lupo e dell’agnello, ha avuto bisogno del casus belli per trovare il consenso mondiale alla sua azione, riconquistando, attraverso la punizione collettiva contro Gaza, l’elettorato israeliano.

Interessante notare la correlazione suggerita da diversi media più o meno filo-israeliani, tra le manifestazioni dei gazawi contro il carovita, represse dalla polizia governativa, e il lancio dei razzi su Tel Aviv, come fossero non semplici concomitanze ma frutto di una stessa strategia. Ma se così fosse, la strategia mirerebbe ad accrescere il dissenso verso il governo e a far considerare la “punizione collettiva” come indotta dal partito che governa la Striscia. Ovvero mirerebbe all’abbattimento dall’interno, grazie ad una serie di azioni combinate, della componente che governa Gaza. Chi beneficerebbe di questo, oltre a Israele? E, prima di tutto, ha basi reali per essere presa in considerazione una tale ipotesi o è pura fanta-politica basata su connessioni non troppo dissimili da quelle create da statistici fantasiosi capaci di correlare l’aumento delle vendite di lavatrici in Scozia con l’aumento delle nascite in California?

Per evitare di essere trascinati nella spirale del caos, che impedisce di vedere i fatti nella loro concretezza contestuale, partiamo dalla situazione reale ponendo, metaforicamente, su una superficie piana l’avvicendarsi degli eventi. Da una parte Israele, con le prossime elezioni e gli elementi considerati vincenti dai vari candidati. Dall’altra parte Gaza, come parte della Palestina che rivendica la fine dell’assedio e il rispetto di una Risoluzione Onu, la 194 che Israele calpesta da sempre e che riguarda tutti i palestinesi. Per quanto riguarda le elezioni in Israele, basta una rapida occhiata a quanto successo in tutte le tornate elettorali per capire che il consenso va a chi mostra maggior truculenza, possibilmente genocidaria, verso i palestinesi. Netanyahu è sempre stato uomo di parola, ha rispettato le sue promesse elettorali con espropriazioni di terre palestinesi, incremento degli insediamenti ebraici su terreno palestinese, politiche di arresti e di demolizione di case palestinesi e solenne promessa che con lui al potere non ci sarebbe mai stato uno Stato palestinese. Ciò nonostante, nel democratico Stato ebraico c’è chi promette di più. C’è chi, ignaro dei fondamentali tanto della politica che dell’economia, promette che col suo eventuale governo si arriverebbe alla “soluzione finale” della Striscia di Gaza, senza l’uso di camere a gas, perché quelle appartengono a un passato che non tutti gli ebrei accetterebbero, ma con l’uso di armi moderne già sperimentate nei terribili massacri – ovviamente impuniti – di “piombo fuso” e “margine protettivo”. Questi dichiarati fascisti ebrei ignorano quanto Gaza possa servire economicamente e politicamente a Israele o, forse, non lo ignorano ma contano sull’ignoranza e l’odio viscerale dei loro potenziali elettori.

In questa gara in cui “vinca il migliore” si trasforma in “vinca chi offre maggiori garanzie antipalestinesi” anche il falco Netanyahu sembra poco affidabile ed ecco quindi la necessità di dar prova del suo coraggio da leone nel bombardare in poche ore – ovviamente dall’alto, sapendo che Gaza non ha né aviazione, né unità di contraerea – ben 100 strutture dette, ad usum delphini, postazioni di Hamas, vale a dire uffici pubblici, caserme, palestre, posti di guardia e così via.
Come iniziare un bombardamento così possente, durato un’intera notte? Forse senza il rapporto ONU non ci sarebbe neanche stato bisogno dei missili, comunque i due missili sono stati lanciati, seppur senza danni, e tutto rientra perfettamente nel quadro della risposta del povero Israele aggredito dal terrorismo palestinese. Bugia che ormai non dovrebbe più reggere ma che viene alimentata dai media trasmettitori della narrazione israeliana ormai senza più neanche bisogno di istruzioni. Se qualche operatore dell’informazione stesse qui ora, in Gaza city, scrivendo mentre i droni volano bassi e il loro insopportabile ronzio avverte, da oltre 12 ore, i gazawi che l’occupante guarda dall’alto e può decidere in ogni momento un bombardamento addizionale, forse scriverebbero altro che non la narrazione israeliana, sebbene in salse diversamente colorite come si addice alla forma democratica che accantona la sostanza. Questo tormento di “zannana” cioè dei droni, come vengono chiamati qui per il loro ronzio insopportabile, viene ripreso e rimandato sui canali televisivi israeliani in modo che i telespettatori sappiano che Netanyahu sa come tenere a bada la popolazione assediata di Gaza e in tal modo le pesanti accuse di frodi e corruzioni passino per peccati veniali.

Dall’altra parte della nostra metaforica superficie piana abbiamo una popolazione di circa 2 milioni di abitanti di cui un’alta percentuale è stremata dal disagio economico crescente e dalla mancanza di prospettive; abbiamo al governo un partito che molti anni fa vinse legalmente le elezioni grazie anche al suo impegno a migliorare strutture sanitarie e sociali in genere che ora, però, non riesce più a offrire. Un governo oggettivamente intollerante e bigotto, ma anche ostacolato ed emarginato dal mondo in omaggio a Israele e, secondariamente, all’Anp. Abbiamo un lavorio subdolo portato avanti, anche in buona fede, da molti occidentali che indirettamente fanno cantare nelle menti dei gazawi le sirene del consumismo e, insieme, la frustrazione di non poterle raggiungere. Abbiamo una larga fetta di popolazione che non vuole neanche sentire la parola “politica” ormai considerata solo come clientelismo e rovina, che però sta perdendo il suo antico orgoglio, distruggendolo con continue richieste di elemosine a quell’Occidente che immagina tenutario di ricchezze infinite e dal quale, anche psicologicamente, finisce per dipendere. Ma abbiamo anche energie, minoritarie come numero, ma fortissime come volontà, che sono il vero incubo di Israele. Sono quelle che respingono con dignità e orgoglio il “deal of century” di Trump e il paternalismo del Qatar che pensava di tacitare la popolazione gazawa a beneficio di Israele offrendo denaro e caramelle. E’ questa minoranza che rappresenta la vera resistenza di Gaza, è questa minoranza l’incubo di Israele. Il cuore pulsante, attualmente, ce l’ha nell’organizzazione della Grande marcia del ritorno, anche se Hamas ormai cerca ti tenerne il controllo. L’innovazione politica ce l’ha la costruzione di “Alleanza democratica”, la nuova formazione che raggruppa tutti i partiti di sinistra unendo l’aspetto politico e quello sociale e ponendosi come terzo polo tra Fatah e Hamas. E’ con questa che Israele dovrà fare i conti anche se dovesse arrivare, grazie alla mediazione dell’Egitto, a un accordo con Hamas.

Proprio mentre la delegazione egiziana ieri sera era in riunione con Hamas per stabilire gli eventuali passi per una tregua di lunga durata sono partiti i “missili elettorali” che Gaza NON rivendica. E proprio l’immediato avviso dell’IDF alla delegazione egiziana di lasciare immediatamente la Striscia è stato il campanello d’allarme che ha permesso di svuotare le cosiddette “postazioni di Hamas” ed evitare martiri, nonostante i massicci bombardamenti.
Data la situazione particolarmente drammatica, la Grande Marcia oggi è stata eccezionalmente sospesa. Che sia un bene o un male lo diranno gli eventi. Al momento sappiamo che il governo di Gaza non vuole un’escalation militare. Sappiamo che la resistenza gazawa questa notte ha risposto ai pesanti bombardamenti israeliani lanciando una ventina di missili e sparando colpi di mortaio. Sappiamo che la stampa mainstream ha posto umana attenzione verso gli israeliani spaventati dai razzi i quali correvano nei rifugi – che loro fortunatamente hanno – e che 5 di loro sono stati soccorsi da personale paramedico per ansia da stress. Sappiamo che una donna di Rafah ha subito l’amputazione di una mano e che ci sono diversi altri feriti. Per quanto riguarda lo stress, questo per i palestinesi non è preso in considerazione. Sappiamo inoltre che se non fosse Israele, ma un altro paese ad agire così, non avremmo remore a definirlo Stato canaglia. Sappiamo anche che i droni che fanno impazzire per il loro ronzio sono l’occhio di Israele su Gaza, ma ciò che non sappiamo ancora è chi e perché ha lanciato quei due missili che hanno permesso a Netanyahu di mostrare agli israeliani la faccia che a loro piace di più. Altra cosa che non sappiamo ancora è se Israele è sazio o se stanotte ci sarà un’altra nottata “elettorale”




Una sofferenza lunga un secolo

Cecilia Dalla Negra

Si chiamava Palestina

Storia di un popolo dalla Nakba a oggi

Edizioni Aut Aut, Palermo 2018, pagg.301

Recensione di Cristiana Cavagna

La giornalista esperta di Palestina Cecilia Dalla Negra ( che tra i suoi tanti lavori ha contribuito alla cura del numero dedicato alle donne palestinesi della storica rivista femminista DWF) torna sulla storia di questo popolo che ancora resiste su una terra “così piccola, e insieme così carica di simboli e significati”.

Prima di parlare del libro, mi permetto una nota personale: pur conoscendo da anni le vicende della Palestina, ho letto questo libro tutto d’un fiato, come si legge un romanzo avvincente, quando vuoi sapere “come va a finire”…. una bellissima sorpresa, anche per l’ottimo stile in cui è scritta. Anche il titolo è avvincente: “si chiamava Palestina” è un verso di una poesia (“Su questa terra”) del poeta palestinese Mahmoud Darwish….

Però questo non è un romanzo, e la tragedia del popolo palestinese – la Nakba (catastrofe) – non “va a finire”, perché continua ancora adesso, con gli oltre 200 morti della “Grande Marcia del Ritorno” a Gaza nel 2018, 70 anni dopo quel 1948.

L’autrice mette proprio la Nakba al centro e al cuore del suo lavoro, dedicato a un pubblico di “non addetti ai lavori”, come ci dice nella premessa metodologica, ma dotato di rigore storico, di un robusto apparato di note e di una bibliografia molto vasta, e si conclude con 6 toccanti testimonianze di storie personali.

La Nakba come “dolore….quello individuale e quello collettivo…divenuto elemento fondante dell’identità individuale e collettiva palestinese..” : passaggio dell’introduzione dell’autrice, messo opportunamente in evidenza nella prefazione di Wasim Dahmash, palestinese nato in Siria, saggista e docente di letteratura araba. Dahmash ci ricorda anche un’altra cosa importante, che la Palestina non è l’unico caso di colonialismo di insediamento nella storia, ma è l’unico a non essersi concluso nel XXI secolo…

Nei 6 capitoli del libro si snoda la storia della “Nakba mustamirra”, la “catastrofe ancora in corso”, nei 70 anni dal 1948 alla Grande Marcia del Ritorno a Gaza iniziata nel 2018: l’occupazione del 1967 con la guerra dei 6 giorni, la prima Intifada, gli accordi di Oslo, la seconda Intifada, la questione di Gaza e la nascita e il ruolo di Hamas.

Tutti “fatti storici”, dai quali si è spesso allontanata tanta stampa internazionale, che ha favorito la narrazione dominante e contribuito alla “disumanizzazione” di un popolo… “ogni volta che l’occupazione è stata descritta come conflitto; ogni volta che un’offensiva contro Gaza è diventata una guerra, che una vittima civile è diventata un effetto collaterale, che la resistenza è stata sovrapposta al terrorismo”.

E ogni “fatto storico” viene inquadrato entro un’ampia disamina delle sue premesse, e ne viene messa in luce la specifica caratterizzazione.

Così, alla Nakba si arriva partendo dagli accordi segreti di Sykes-Picot del 1916, dalla dichiarazione Balfour del 1917, dalla nascita del sionismo politico col programma di colonizzare la Palestina e conquistare la sua terra, passando per la “grande rivolta” del 1936-39. Viene citata una lettera del 1937 di Ben Gurion al figlio:”…dopo la formazione di un esercito forte nel quadro della fondazione dello Stato, aboliremo la spartizione e ci estenderemo su tutta la Palestina…Dobbiamo cacciare gli arabi e prendere il loro posto”.

Il 1967 (la “Naksa”, la “ricaduta”) viene considerato uno “spartiacque fondamentale”: viene avviata la costruzione dei primi insediamenti illegali in Cisgiordania, “che non si arresterà mai, a prescindere dall’indirizzo politico dei governi israeliani”. Ed è l’inizio della politicizzazione di massa della popolazione palestinese: “per i palestinesi diventerà evidente che gli Stati arabi non sarebbero mai stati in grado di fronteggiare l’avanzata israeliana e che quindi avrebbero dovuto essere loro, da soli, a cercare la propria liberazione.”

Gli accordi di Oslo, “l’inizio della fine”, trovano le loro premesse nella dichiarazione unilaterale di indipendenza dello Stato di Palestina del 1988, con il reciproco riconoscimento con Israele, e contengono la “pretesa di poter costruire la pace senza il presupposto della giustizia”. Dopo Oslo, “i diritti per i quali i palestinesi si sono battuti per anni…saranno ridotti a singole ‘questioni’: Gerusalemme, il diritto al ritorno dei profughi, i confini, le colonie diventeranno capitoli separati di una storia che non ha più un passato.”

Se la prima Intifada, con i Comitati Popolari della Resistenza e la disobbedienza civile, attraverso il boicottaggio di massa dei prodotti israeliani, parla di riappropriarsi della dignità negata, di autorganizzazione e di solidarietà, la seconda “ non può essere considerata esclusivamente una rivolta contro il potere occupante, ma anche come una sollevazione del popolo palestinese contro la propria leadership”.

La situazione attuale infine, da un lato vede l’assenza di un coordinamento politico del dissenso e la mancanza di strutture forti di riferimento, oltre al rischio di una “depoliticizzazione della vicenda palestinese, ridotta a mera questione economica o umanitaria” (anche con il contributo delle organizzazioni internazionali che hanno reso la popolazione dipendente dai loro finanziamenti); dall’altro riscontra ancora la presenza, nelle mobilitazioni a Gaza, della volontà di “porre fine ad un’ingiustizia troppo a lungo ignorata” e la capacità delle nuove generazioni di trovare forme alternative di espressione, riappropriandosi del “diritto di narrare”, di cui parlava Edward Said.

Citando nella prefazione la bella frase di Vittorio Arrigoni, “la Palestina può essere anche fuori dall’uscio di casa”, Dalla Negra ci dice che “ciò che accade lì è il paradigma di ogni ingiustizia e di ogni violazione…difendere la Palestina è il più scontato tentativo di restare umani.”




La polizia israeliana aggredisce i fedeli e chiude il complesso di Al-Aqsa

12 marzo 2019, Al-Jazeera

Sono scoppiati disordini dopo che la polizia israeliana ha affermato che era stata lanciata una bomba incendiaria contro la sua postazione all’interno dell’area sacra

Una fonte ufficiale palestinese ha detto che forze israeliane hanno chiuso tutte le entrate nel conflittuale complesso della moschea di Al-Aqsa nella Gerusalemme est occupata, tra continui scontri con fedeli palestinesi. “Decine di soldati israeliani hanno fatto irruzione nel complesso di Al-Aqsa e aggredito alcune personalità religiose,” ha detto martedì in un comunicato Firas al-Dibs, portavoce dell’Autorità delle Dotazioni Religiose di Gerusalemme, un ente diretto dalla Giordania incaricato della supervisione dei luoghi musulmani e cristiani della città.

Secondo al-Dibs, il direttore della moschea di Al-Aqsa Omar Kiswani e Sheikh Wasef al-Bakri, il giudice supremo dei tribunali islamici di Gerusalemme attualmente in carica, sono stati tra le persone aggredite dalla polizia israeliana. Ha affermato che poliziotti che brandivano bastoni hanno attaccato decine di fedeli musulmani nei pressi della moschea di Omar [o Cupola della Roccia, ndt.], nel complesso di Al-Aqsa.

“Almeno cinque palestinesi sono stati fermati prima di essere arrestati per ulteriori accertamenti,” ha detto al-Dibs.

Informando da Gerusalemme est occupata, Harry Fawcett di Al Jazeera ha affermato che la polizia israeliana sostiene che “una bottiglia molotov è stata lanciata verso un edificio della polizia” all’interno del complesso.

“Abbiamo sentito fonti palestinesi all’interno del luogo sostenere che invece potrebbero essere stati fuochi d’artificio. Quello che è avvenuto in seguito sono stati scontri piuttosto prevedibili tra le forze di sicurezza israeliane e fedeli palestinesi,” ha detto Fawcett, aggiungendo che sono state chiuse porte all’interno della Città Vecchia.

Secondo l’ong palestinese “Ir Amim” [organizzazione israeliana che sostiene la convivenza tra ebrei e palestinesi a Gerusalemme, ndt.] almeno 10 palestinesi sono rimasti feriti durante gli scontri, dopo di che tutti i fedeli sono stati obbligati ad uscire dal sito.

Martedì “Ir Amim” ha scritto in un comunicato che “la polizia ha risposto con una forza eccessiva, buttando violentemente a terra una donna e spingendo con aggressività altre persone.”

“La risposta eccessivamente dura da parte della polizia israeliana può essere interpretata come una sfacciata affermazione dell’autorità israeliana sul complesso. Svuotare Al-Aqsa, chiuderne le porte e limitare l’accesso a tre importanti ingressi della Città Vecchia trasmette un chiaro messaggio di controllo unilaterale di Israele.”

L’ong ha avvertito che l’uso eccessivo della forza per minacciare lo status quo porterà a un ulteriore incremento delle tensioni nel sito.

Mentre la presidenza palestinese ha condannato l’escalation nel conflittuale luogo religioso, le autorità israeliane non hanno ancora fatto commenti.

Un comunicato pubblicato dall’agenzia di notizie palestinese WAFA dice che il presidente palestinese Mahmoud Abbas sta mantenendo “intensi contatti” con tutte le parti interessate nella speranza di disinnescare la situazione.

Abbas ha chiesto alla comunità internazionale di intervenire ed ha accusato la polizia israeliana e i coloni di “violare sistematicamente la sacralità della moschea e di provocare la sensibilità dei musulmani.”

Lo scorso mese nella Gerusalemme occupata è montata la tensione quando la polizia israeliana ha chiuso la porta Al-Rahma del complesso di Al-Aqsa, situata nei pressi del muro orientale della Città vecchia, scatenando manifestazioni palestinesi.

Nelle settimane seguenti le autorità israeliane hanno vietato a decine di palestinesi, compresi funzionari religiosi, di entrare ad Al-Aqsa, il terzo luogo più sacro per l’Islam.

“Quella che era già una situazione tesa in seguito a una lotta di tre settimane per quest’area all’interno del complesso della moschea di Al-Aqsa, con questo ultimo incidente è ora precipitata,” ha detto Fawcett.

Israele ha occupato Gerusalemme est, dove si trova il complesso di Al-Aqsa, durante la guerra arabo-israeliana del 1967. Ha annesso tutta la città nel 1980 con un’iniziativa che non è stata riconosciuta dalla comunità internazionale.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Perché Benny Gantz è più pericoloso dei kahanisti

Tom Mehager

10 marzo 2019, + 972

Nonostante si mostri orgoglioso di aver bombardato Gaza fino a ridurla all’età della pietra, Benny Gantz è ancora dipinto dai media israeliani come una colomba che vuole porre fine al conflitto. Niente di più lontano dalla verità.

L’alleanza tra il partito Likud al potere e il partito kahanista “Otzma Yehudit” [“Potere ebraico”] è un esempio lampante di quanto negli ultimi anni il razzismo sia stato legittimato nel discorso pubblico israeliano. Se in passato il Likud ha apertamente condannato Meir Kahane [rabbino e politico americano-israeliano ultranazionalista e razzista, ndt.] e i suoi discepoli, oggi quella linea rossa non esiste più. Persino il leader del Shas [partito religioso ultraortodosso degli ebrei di origine araba, ndt.] Aryeh Deri ha mostrato disponibilità ad allearsi con Itamar Ben-Gvir di “Otzma”, una cosa che in passato sarebbe stata inaccettabile per il suo partito. Di punto in bianco l’ormai famoso avvertimento di Netanyahu nel giorno delle elezioni [del 2014, ndt.], “Gli arabi stanno andando a votare in massa”, è diventato una realtà terrificante. Il primo ministro ha effettivamente spianato la strada a sfrenate espressioni di razzismo ai più alti livelli della società israeliana.

Eppure il momento più orribile di questa tornata elettorale è stato indubbiamente il lancio della campagna elettorale dell’ex-capo di stato maggiore dell’IDF [l’esercito israeliano, ndt.] Benny Gantz, in cui si è vantato di aver “fatto regredire parti di Gaza all’età della pietra”. In questo senso Gantz e l’umore popolare che rappresenta sono molto più pericolosi del razzismo esplicito dei kahanisti.

Sono pericolosi proprio perché si possono trasformare molto più facilmente in politiche concrete che potrebbero danneggiare materialmente il diritto delle persone alla vita, ad avere un rifugio e all’accesso all’acqua, all’elettricità e alle infrastrutture. Se è in questo modo che misuriamo il pericolo, allora Benny Gantz è una delle persone più pericolose in Israele – molto più di kahanisti come Ben-Gvir.

È importante evidenziare le differenze tra la violenza di un leader politico come Gantz e quella dei partiti israeliani di estrema destra. Mentre c’è un’unanime condanna dell’estrema destra da ogni settore dello spettro politico, così come dalla comunità internazionale, Gantz rappresenta la tendenza israeliana prevalente – corretta, moderata, etica, ed ha conquistato l’appoggio dei principali media israeliani, con partiti di sinistra come il Meretz [partito della sinistra sionista, ndt.] che hanno manifestato il proprio sostegno alla sua candidatura.

Le affermazioni di Gantz riflettono una violenza che è legittimata ed accettata in Israele – il tipo di violenza delle cui vittime non parliamo né ci preoccupiamo. Se Gantz si inorgoglisce veramente di aver portato avanti una simile politica nel passato – ed è chiaro che non solo la società israeliana manca di ogni meccanismo o voce alternativa per evitarlo in futuro (dato che dà i suoi frutti per un’ampia schiera dell’elettorato) – allora una vittoria di Gantz pone un pericolo reale.

Nel discorso prevalente in Israele, il partito “Blue e Bianco” di Gantz è universalmente visto come di centro sinistra, che lavorerà in prospettiva di una soluzione del conflitto israelo-palestinese – in quanto opposto a quello della destra e dei coloni. Ma questo è esattamente il tipo di autonegazione collettiva che ci è già scoppiato in faccia in precedenza: Ehud Barak, un tempo leader della sinistra israeliana, tornò dai negoziati con i dirigenti palestinesi a Camp David dichiarando che “non c’erano partner” per la pace. Fino da quello stesso giorno le sue affermazioni sono state utilizzate dalla destra ogni volta che è sorta la possibilità di colloqui. Ed hanno ragione: “Se la sinistra ha guidato negoziati, fatto varie proposte di pace e tuttavia dice che non ci sono partner per la pace, allora ovviamente non ci sono alternative all’uso della forza,” si pensa.

Inoltre, se Benny Gantz, il politico moderato accolto dalla sinistra israeliana, si vanta della violenza che ha inflitto agli abitanti di Gaza, allora Netanyahu e la destra chiederanno semplicemente di usare ancora più violenza in ogni futuro scontro militare. Nel contempo i gazawi saranno costretti a pagare il pezzo dell’ingannevole dibattito pubblico israeliano.

Quindi, com’è possibile che Gantz sia visto come una valida alternativa al governo della destra? Perché la sua identità ashkenazita [ebreo di origine europea, ndt.] incanta ancora gran parte dell’opinione pubblica israeliana. Gantz porta con sé il capitale culturale del fatto di essere “il sale della terra” – un comandante in capo dell’esercito israeliano alto e con gli occhi azzurri. La versione di Yitzhak Rabin nel 2019. Ma, proprio come la violenza dei padri fondatori di Israele è ignorata da molti nella sinistra israeliana, che vedono le radici del conflitto nell’occupazione del 1967, nonostante innumerevoli ricerche e testimonianze sulla pulizia etnica commessa dal movimento sionista nel 1948, lo è anche la violenza commessa da Benny Gantz. Non c’è da stupirsi allora che sia così facile per la sinistra adirarsi per l’accordo di Netanyahu con i fascisti.

Tom Mehager è un attivista mizrahi [ebreo di origine araba, ndt.]. Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta su “Haokets” [sito di controinformazione israeliano, ndt.] in ebraico.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Luoghi comuni antipalestinesi

Donald Johnson

10 marzo 2019,MondoWeiss

Ho cercato con Google la frase “luoghi comuni anti-palestinesi”. Quasi tutti gli articoli riguardavano il presunto antisemitismo di Omar [deputata USA di origine somala accusata di antisemitismo per le sue affermazioni contro la lobby filoisraeliana, ndt.].

Allora ho utilizzato la funzione di ricerca avanzata ed ho trovato una conversazione di Yousef Munayyer [scrittore a analista politico palestinese con cittadinanza israeliana e statunitense, ndt.] su “luoghi comuni antipalestinesi”.

Si può affermare con certezza che la preoccupazione per il razzismo contro i palestinesi e per i luoghi comuni antipalestinesi è praticamente inesistente nel dibattito politico prevalente e nei media statunitensi. In quei contesti le persone sembrano inconsapevoli che tali concetti possano esistere, figuriamoci [se hanno] il dubbio che loro stessi possano esserne influenzati. La maggior parte delle persone che scrive o legge giornali come il NYT [New York Times] è probabilmente della classe medio-alta o anche più in alto e vede se stessa come progressista e raffinata. Giudica gli altri in base ai propri standard e non gli viene in mente di poter avere propri punti deboli etici o tabù, alcuni giustificabili e altri no.

Ilhan Omar non fa parte della loro cerchia. Ha detto cose che li hanno turbati, per cui per loro il problema è se lo ha fatto per deliberata cattiveria o si è sbagliata a questo proposito per ignoranza. Il fatto che li abbia turbati due volte in un mese ha provocato un certo scompiglio.

Si trovano progressisti che hanno difeso Omar trattandola come un’immigrata sempliciotta che non sa che questo argomento rappresenta un campo minato. Ciò da parte di persone che vedono se stesse come suoi difensori critici frustrati con molte sfumature, come Michelle Goldberg [editorialista del NYT critica nei confronti di Israele, ndt.].

Anche Nancy Pelosi [presidentessa democratica della Camera dei Rappresentanti USA, ndt.] ha adottato questo atteggiamento.

Potrebbe essere utile pensare a cosa dire agli opinionisti e ai progressisti americani in generale che vivono all’interno di questa campana di vetro, che in modo compiacente presumono di avere la comprensione e l’autorità morale di decidere come dovrebbe essere discussa la questione israelo-palestinese. Anch’io mi trovo in questa campana di vetro e potrei ancora essere sotto la sua influenza. Comunque ecco i miei suggerimenti agli americani riguardo ai luoghi comuni antipalestinesi da evitare quando si scrive dei luoghi comuni antisemiti da evitare. Se uno cade in questi luoghi comuni, corre il rischio di incoraggiare il razzismo antipalestinese. Un sincero progressista non dovrebbe volerlo fare. Potrebbe cadere nell’uso di luoghi comuni antipalestinesi quando pensa che la gente meno colta possa fare una gaffe dicendo qualcosa di antisemita, ma dovrebbe evitare di dirlo. Ovviamente qualcuno o molti dei critici di Omar sono fanatici antipalestinesi che non vogliono cambiare, ma questo articolo è scritto per progressisti che non seminerebbero razzismo se fossero consapevoli di quanto probabilmente lo stiano facendo.

Dovreste leggere la lista di argomenti di Munayyer citata sopra. Poi c’è la mia, senza un ordine particolare.

Luogo comune 1. “Israele ha il diritto di esistere”.

Boom. Siete appena saltati su una mina. È possibile dire ciò senza intendere niente di antipalestinese. Potreste sostenere, come ha fatto qualcuno, che Israele ha il diritto giuridico (come qualunque altra Nazione, indipendentemente dalle sue violazioni dei diritti umani) di esistere all’interno di confini ben definiti senza essere invaso, sebbene potremmo allora continuare su questo argomento delle violazioni dei diritti umani. Ci sarebbe da discutere su tutto questo. Sembra bizzarro, detto da un qualunque americano, parlare della natura inviolabile dei confini, considerando quanto spesso invadiamo o bombardiamo o appoggiamo attacchi terroristici contro altri, e considerando anche la vaga definizione dei confini israeliani. Ma non c’è bisogno di discuterne, perché poche persone la pensano in questo modo.

Quello che la frase effettivamente significa in molti casi è che i palestinesi non hanno il diritto di esistere nella propria patria, quindi non tirate fuori questo argomento o siete antisemiti. La frase intende bloccare qualunque giudizio etico riguardo alla Nakba, o, meglio ancora, non citarla affatto. Si può ricorrere al concetto senza utilizzare proprio questa frase. Si veda, per esempio, il recente attacco di Roger Cohen [opinionista del New York Times, ndt.] contro Jeremy Corbyn, in cui Cohen ha detto di essere orgogliosamente sionista e propone una storia unilaterale del 1948, con tanto di frase tra parentesi sull’invasione degli eserciti arabi (Gli eserciti arabi fecero la guerra contro il compromesso territoriale – dell’ONU – tra palestinesi ed ebrei e persero).

Si dovrebbe dire qualcosa su questa invasione, che avvenne settimane dopo il massacro del 9 aprile [1948] a Deir Yassin e la creazione di 300.000 rifugiati palestinesi, e che nel caso della Transgiordania fu un’invasione di terre che dovevano essere concesse allo Stato palestinese – ma lasciamo perdere.

Qui il vero problema è che Roger Cohen esclude la Nakba [la catastrofe, cioè l’espulsione di buona parte della popolazione palestinese da territorio che diventò lo Stato di Israele, ndt.]. Cohen vuole perorare la causa del sionismo sulla base della minaccia dell’antisemitismo. Se mi chiedesse cosa avrebbero dovuto fare gli ebrei negli anni ’30 di fronte alla minaccia nazista, non saprei cosa rispondergli. La minaccia era reale e divenne un genocidio. Persino i Paesi che si opponevano al nazismo erano permeati in vario grado di antisemitismo. In quel periodo c’era chiaramente una necessità estremamente urgente di un rifugio per gli ebrei.

Ma so che la Nakba è stato un crimine gravissimo, due cose sbagliate non fanno una cosa giusta, ed è impossibile avere una seria discussione sul sionismo senza nemmeno menzionare la Nakba. Qualcuno potrebbe cercare di giustificarla. Il signor Cohen, suppongo, capisce di non poter arrivare fino a questo punto, per cui risolve il problema non menzionandola.

A un certo livello gli argomenti sionisti sono convincenti per i cristiani occidentali a causa del senso di colpa dei cristiani. I cristiani sanno che gli ebrei furono perseguitati per secoli a causa dell’antisemitismo cristiano. Appoggiare il sionismo e ignorare i crimini commessi da Israele rappresenta un modo a buon mercato per fare ammenda. I palestinesi sono diventati i capri espiatori dei crimini altrui. Ovviamente, dato che non sono disposti ad essere capri espiatori, devono essere demonizzati per giustificare il modo in cui sono trattati.

Luogo comune 2. “Israele ha il diritto di difendersi”.

Ciò viene sempre affermato dopo che Israele ha commesso qualche crimine di guerra. I politici americani citano questo come una sorta di mantra. È immorale utilizzare questo luogo comune per giustificare crimini di guerra. Ma invariabilmente, ogniqualvolta Israele uccide civili, si troveranno politici americani dire che Israele ha il diritto di difendersi. Obama lo disse durante la guerra a Gaza nel 2014, in cui Israele si difese uccidendo circa 1.500 civili, compresi 500 minorenni. Morì qualche decina di israeliani, tra cui sei civili. I più importanti politici USA sembrano non avere problemi a chiamare tutto ciò “autodifesa”.

Israele continua a sparare contro manifestanti palestinesi disarmati. Lo scorso anno il New York Times ha pubblicato quattro articoli per difendere questo modo di agire ed ha dato tutta la colpa delle morti ad Hamas.

Due di questi opinionisti, Bret Stephens e Tom Friedman [entrambi noti giornalisti filoisraeliani, ndt.], ora condannano [Ilhan] Omar.

Ci si potrebbe mai immaginare il New York Times che pubblica un articolo che difenda come giustificabile un attacco terroristico palestinese contro civili perché i palestinesi hanno il diritto di difendersi, che dica che la colpa debba cadere interamente su Israele? Quale sarebbe la reazione se lo facesse?

Ci sarebbe una rivolta in tutto il Paese, perché la difesa dell’uccisione di civili israeliani ebrei sarebbe giustamente vista come una vergogna morale, ma l’uccisione di palestinesi è solo un problema di immagine per Israele e in nessun modo una vergogna morale. Se qualcuno lo difende, ha lo spazio sul New York Times per farlo e ciò non desta assolutamente alcun clamore.

Cohen e Goldberg lavorano lì. Ne deduco che a quanto pare è in atto una politica che proibisce agli editorialisti del New York Times di criticarsi a vicenda per nome, o di criticare i direttori.

Ma potrebbero scrivere articoli criticando il cinico disprezzo di alcuni dei sostenitori americani di Israele senza nominare i loro colleghi. Lo faranno? Non lo so.

Luogo comune 3. “Si può criticare Israele duramente quanto si vuole, ma nel farlo bisogna evitare luoghi comuni antisemiti.”

Sono d’accordo. Ma per la maggior parte di quelli che lo dicono, si tratta di vuota retorica. Quante delle persone che lo affermano riguardo ad Omar scrivono effettivamente articoli che condannano l’apartheid o i crimini di guerra di Israele e l’oscenità di quanti li difendono? E cos’ha esattamente detto Omar che sia scorretto riguardo alla lobby [Omar ha detto che la lobby israeliana paga deputati per avere l’appoggio USA, ndt.]? È praticamente certo che parte del delitto di Omar sia stato di criticare la lobby essendo lei musulmana. Ma persino Bret Stephens condanna l’islamofobia.

Bret Stephens, l’onesto critico di Israele e avversario dell’islamofobia, di fatto si spinge ad attaccare quella posizione sullo stesso giornale che pubblica la sua difesa dell’uccisione di manifestanti:

Kamala Harris, Bernie Sanders e Warren [tutti e tre candidati alle primarie democratiche per le elezioni del 2020, ndtr.] hanno espresso la loro posizione con dichiarazioni che hanno dipinto Omar come vittima di islamofobia – cosa che è vera – senza menzionare che anche lei è dispensatrice di fanatismo antisemita – che lei allo stesso modo sicuramente è.

E si noti che nel momento in cui viene fatta un’accusa di antisemitismo, questa prende immediatamente il centro della scena, mentre i diritti dei palestinesi, che già in partenza non sono mai molto importanti, scompaiono a livello di argomento secondario, sempre che vengano citati. Sì, ci viene detto in teoria, si può esprimere qualche critica sulle colonie e su Netanyahu. Non farebbe nessuna differenza per il nostro appoggio verso Israele se semplicemente Israele se ne liberasse, ovviamente. Non lo ha mai fatto. Le persone hanno criticato Israele per decenni e continuiamo ad appoggiarle. É teatro kabuki. Andiamo avanti. Goldberg è arrabbiata per il fatto che repubblicani, che sono molto più intolleranti di Omar (secondo lei Omar un po’ intollerante lo è), possano farla franca.

Questo è il modo sicuro per difendere Omar. Per Goldberg, gli altri democratici, che cercano di scoprire come punire Omar per il suo “antisemitismo morbido” (parole di Goldberg, non la mia opinione), non lasciando che i fanatici repubblicani la passino liscia, sono gli eroi della vicenda. Ci potrebbe essere fanatismo antipalestinese tra i parlamentari di entrambi i partiti che ogni anno elargiscono miliardi a Israele, a prescindere da quanto Israele tratti male i palestinesi? Queste persone dovrebbero essere criticate per la loro ignavia o apatia o fanatismo? Non sembra essere una domanda che qualcuno dei critici di Omar intenda porre. Omar non fa parte del ‘club’, quindi può essere definita fanatica.

A quanto pare, lei [Goldstein, ndt.] ha sostenitori nel Congresso, per cui il Congresso ha deciso di condannare ogni forma di intolleranza tranne quella che quasi tutti praticano, che è essere contro i palestinesi. Qui sembro sarcastico, eppure che lo crediate o no sto cercando di evitare ogni ironia a buon mercato. Molte delle nostre discussioni politiche in America hanno senso se le pensate come il comportamento di gruppi di liceali. Ciò va ben oltre questo argomento, ma sto divagando.

Luogo comune 4. “Cosa dite di X? Come potete essere spinti da altro che non sia l’intolleranza se vi concentrate solo su Israele e ignorate X?”

Non ho obiezioni riguardo al “benaltrismo” in generale. Lo uso anch’io. “Quando è onesto il “benaltrismo” mette in evidenza l’ipocrisia. Uno dei primi esempi noti viene dalla Bibbia quando il profeta Nathan affronta re David a causa del suo complotto per uccidere Uriah e coprire l’adulterio di David con Betsabea.

(É affascinante e toccante attraversare millenni e vedere che David sente una sincera vergogna in nome del povero il cui cucciolo è stato trucidato dal ricco. Il “benaltrismo” funziona meglio con le persone che hanno una coscienza).

Ma quando lo si usa, il “benaltrismo” deve essere appropriato.

Il “benaltrismo” è stato utilizzato parecchie volte contro Omar. In un tweet cancellato e per cui si è scusata, Julia Ioffe [nota giornalista ebrea statunitense di origine russa, ndt.] ha detto che Omar avrebbe dovuto criticare i sauditi. La gente che usa questo argomento sta facendo una supposizione inconsciamente intollerante secondo cui, poiché Omar è musulmana, deve essere un’ipocrita fanatica antisemita che non critica nessuno Stato musulmano.

Tom Friedman ha fatto ricorso a questo argomento, anche se ha utilizzato invece la Siria.

Quando vedo l’accusa di doppia lealtà che arriva da una deputata che sembra essere ossessionata dalle malefatte di Israele come il principale problema del Medio Oriente – non l’occupazione di fatto di quattro capitali arabe da parte dell’Iran, il suo appoggio alla pulizia etnica e il suo uso di gas velenosi in Siria e il fatto che stia distruggendo la democrazia libanese – mi fa sospettare delle sue motivazioni.”

Non poteva citare i sauditi, perché Friedman è stato uno dei maggiori sostenitori in circolazione di bin Salman [principe saudita che di fatto governa il Paese, ndt.] e dopo l’uccisione del suo amico Khashoggi ha detto che il suo assassinio, in linea di principio se non come numeri, è stato peggio della guerra in Yemen, una guerra che ha in grande misura ignorato. Il “benaltrismo” è anche utilizzato in modo singolare con i palestinesi. Non ci sono altri gruppi per i quali, se si sostengono i loro diritti, puoi star sicuro che qualche progressista dirà che dovresti guardare prima ad altri cinquanta gruppi. Il presupposto implicito, in molti casi probabilmente a livello inconscio, è che i palestinesi non contano niente e quindi l’unica ragione per cui a qualcuno possono importare debba essere l’antisemitismo.

Luogo comune 5. “Pioggia di razzi”

Nessuno con un minimo senso di correttezza potrebbe confrontare il lancio di razzi di Hamas con quello che Israele fa a Gaza. Ma non c’è nessun altro cliché più ampiamente utilizzato per descrivere le azioni molto più distruttive di Israele che “Israele ha il diritto di difendersi”.

Non importa neanche chi abbia sparato per primo o se il blocco di Gaza in sé sia una guerra contro la popolazione. Il lancio di razzi di Hamas è per definizione la giustificazione della brutalità di Israele, non importa quale sia stato l’ordine degli avvenimenti.

Luogo comune 6. Apologia di piccoli Hitler.

Ciò in realtà non riguarda la questione dei palestinesi, ma qualche settimana fa Ilhan Omar si è scontrata con Elliot Abrams [attuale consigliere di Trump per l’America latina, ndt.], un noto difensore di alleati centroamericani omicidi e persino genocidi negli anni ’80. Parecchi membri della “comunità” della politica estera sono corsi in difesa di Abrams, compresi alcuni progressisti. È interessante vedere lo scarso interesse che ciò ha creato tra la maggior parte di quanti ora criticano Omar. Se uno fa parte della banda, può in realtà avere una storia di apologia di piccoli Hitler, e ciò non importa.

Si può continuare. Il punto è che abbiamo disumanizzato i luoghi comuni antipalestinesi che sono utilizzati in continuazione e, per quanto ne so, a nessuno dei progressisti più in voga che criticano Omar non è mai avvenuto di scrivere di questi.

Devono uscire dalla loro campana di vetro, voltarsi e vedere come appare da fuori. Secondo me sembra un gruppo di liceali, ma con un potere enormemente amplificato di ostracizzare e intimorire e mettere all’indice, così come di bombardare, invadere, bloccare e occupare. Se fai parte dell’impero americano, forse puoi imparare qualcosa da Ilhan Omar, nata in Somalia, su come questo appare a qualcuno che è nato all’estero.

Intendo questo come una sorta di colpo basso melodrammatico? No. I membri dell’istruita classe di professionisti americani (di ogni religione o di nessuna) devono smettere di pensare a se stessi come gli arbitri morali finali di cosa è giusto o sbagliato.

Guardate cosa ha fatto l’America in Medio Oriente negli ultimi decenni sotto [i governi di] entrambi i partiti. Sembriamo persone che possano dare lezioni a qualcuno?

Donald Johnson è un commentatore fisso di questo sito come “Donald”.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Come Israele è stato assolto per le violazioni dei diritti delle donne palestinesi

Yara Hawari

8 marzo 2019, Al Jazeera

Dagli accordi di Oslo sono stati fatti sistematici tentativi di de-politicizzare l’attivismo per i diritti delle donne in Palestina

Benché la Giornata Internazionale della Donna abbia le proprie radici nei movimenti di base rivoluzionari e anti-capitalisti delle donne, nel Sud del mondo la sua celebrazione è appannaggio di settori dell’ONU e delle Ong. L’occasione è spesso sfruttata per rafforzare certe narrazioni di sviluppo dei diritti delle donne e per raccogliere fondi per i progetti.

In Palestina quest’anno le agenzie ONU, varie organizzazioni internazionali e Ong locali hanno lanciato una campagna durata una settimana chiamata “I miei diritti, il nostro potere”, intesa a “sensibilizzare sui diritti umani fondamentali delle donne” e in particolare sulla violenza domestica. Si è concentrata su cinque aree di interesse: il diritto ad una vita senza violenza, il diritto ad avere giustizia, il diritto a chiedere aiuto, il diritto a pari opportunità e il diritto alla libertà di scelta.

Tuttavia nel messaggio della campagna gli organizzatori hanno fatto una palese omissione: non hanno menzionato l’occupazione israeliana della Cisgiordania e di Gaza come il principale fattore che contribuisce alle violazioni dei diritti commesse contro le donne palestinesi. Le parole “occupazione” o “Israele” non si trovano da nessuna parte nel comunicato stampa e nei materiali della campagna.

Quindi, dovremmo credere che le donne palestinesi siano in grado di ottenere giustizia e una vita libera dalla violenza nel contesto di un continuo progetto israeliano di pulizia etnica e di cancellazione di una cultura?

Chiaramente questa omissione non è un errore o una svista, ma riflette piuttosto una tendenza evidente nel discorso della comunità internazionale di aiuti e donatori che parla di “problemi” e “barriere” nel campo dei diritti delle donne come se tutto ciò avvenisse in un vuoto politico.

In Palestina questa tendenza si è acuita dopo gli accordi di pace di Oslo, che sono serviti da catalizzatore della de-politicizzazione della Palestina. Venticinque anni fa Oslo introdusse una nuova cornice per la “pace” e la “costruzione dello Stato”, che non solo ha danneggiato il progetto di liberazione dei palestinesi, ma ha anche innescato una fondamentale trasformazione della società civile palestinese.

In base a questa nuova cornice, l’aiuto internazionale è stato convogliato in Palestina e utilizzato per de-politicizzare sistematicamente la società civile, rendendola dipendente da finanziamenti esterni e obbligandola a seguire l’agenda dei donatori stranieri.

Mentre questo processo di “ong-izzazione” ha smobilitato molti gruppi all’interno della società palestinese, le donne sono risultate particolarmente colpite. Anche le tendenze patriarcali all’interno delle istituzioni palestinesi hanno contribuito al processo di esclusione delle donne dalla sfera pubblica, compresa quella politica.

La de-politicizzazione delle donne è particolarmente evidente nell’uso del lessico successivo a Oslo sui diritti delle donne in Palestina. Le agenzie ONU e altre organizzazioni internazionali hanno intenzionalmente attribuito una definizione limitata a molti dei concetti riguardanti i diritti umani e l’attivismo. Un esempio è il termine “empowerment” [emancipazione, autoaffermazione, ndt.], che in apparenza sembra rivoluzionario, ma nel contesto dei progetti guidati dalle Ong e nel dibattito pubblico è quasi sempre limitato alla sfera socio-economica.

In pratica, il settore delle Ong non parla mai di emancipazione politica delle donne palestinesi, che potrebbe rafforzare la loro capacità di resistere alla violenza di genere e colonialista israeliana.

Dalla sua fondazione nel 1948 il regime israeliano ha costantemente e sistematicamente utilizzato l’oppressione di genere contro le donne palestinesi, in particolare contro quelle attive in politica.

La sua strategia include maltrattamenti, minacce di violenza e incarcerazione – quest’ultima è il modo più efficace di punire la politicizzazione.

Le donne palestinesi che sfidano attivamente l’occupazione israeliana e rifiutano di essere cooptate dal sistema politico ufficiale palestinese creato agli accordi di Oslo, come la deputata Khalida Jarrar [membro del parlamento dell’ANP e del gruppo della resistenza marxista FPLP, ndt.], che è stata in carcere per 20 mesi senza processo, e la poetessa Dareen Tartour, condannata a cinque mesi di prigione per aver scritto una poesia, sono presto diventate bersagli delle forze di sicurezza israeliane.

Gli interrogatori da parte di soldati o forze di sicurezza israeliani spesso includono molestie sessuali o minacce di violenza sessuale per fare pressione sulle donne e ragazze affinché firmino confessioni o diano informazioni.

Lo scorso anno un video filtrato clandestinamente ha mostrato l’adolescente palestinese Ahed Tamimi, arrestata per aver preso a schiaffi un soldato israeliano, sottoposta a maltrattamenti durante un interrogatorio.

Sfortunatamente le violazioni dei diritti delle donne palestinesi sono state accettate come una cosa della vita e quelli che dovrebbero garantire che questi diritti vengano rispettati sono diventati complici proprio delle loro violazioni.

Mentre le donne palestinesi dovrebbero essere messe nelle condizioni di combattere il patriarcato interno, soprattutto nella sfera privata, è indubitabile che la violenza di genere è intrinsecamente legata al regime israeliano che controlla la maggior parte degli aspetti della vita palestinese.

La comprensione del ruolo distruttivo che il colonialismo di insediamento israeliano gioca nelle vite delle donne palestinesi non assolve comunque la società palestinese nel suo complesso per il suo ruolo nell’oppressione delle donne.

L’incapacità a riconoscere come le strutture del potere colonialista e patriarcale si sovrappongano e siano al contempo complici nella persecuzione di donne e uomini palestinesi ha notevolmente limitato il progresso dei diritti delle donne in Palestina. In questo contesto faremmo bene a ricordarci che il femminismo radicale è stato fondato da donne di colore che hanno imposto una comprensione articolata e ricca di sfumature dell’oppressione femminile che è insita nel colonialismo, nelle strutture della gerarchia razziale, nella classe e nel capitalismo. È solo con questa consapevolezza in mente che possiamo sperare di smantellare l’oppressione delle donne in Palestina e nel resto del mondo.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Al Jazeera.

Yara Hawari è l’esperta di politica palestinese di Al-Shabaka, la rete politica palestinese.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Essere donne a Gaza

Qamar Taha

8 marzo 2019 , +972 Magazine

Le donne di Gaza si ergono ogni giorno al di sopra del blocco israeliano e continuano a progredire nonostante l’alto tasso di disoccupazione e le infrastrutture carenti.

Negli ultimi due anni ho potuto conoscere decine di donne straordinarie provenienti dalla Striscia di Gaza: donne imprenditrici, creative, impegnate nel sociale, che sono riuscite a costruirsi carriere incredibili tra le tante difficoltà e gli ostacoli a cui sono sottoposte dalla vita e dall’assedio israeliano.

Miriam Abu-Ata ha studiato architettura. Dopo aver tentato per anni invano di trovare un impiego aveva pensato di emigrare in un altro Paese, ma alla fine ha deciso di rimanere a Gaza per servire la sua comunità. Adesso dirige il reparto di progettazione e sviluppo presso l’associazione Aisha Per La Protezione di Donne e Bambini. Hanan Khashan, laureata in informatica, ha lavorato due anni nel suo campo di studio inseguendo il suo sogno di passare al marketing digitale. Ha sviluppato un progetto con lo scopo di promuovere le donne nel settore informatico e progetta di espandersi anche negli altri Paesi arabi. Fathieh Timraz è un’artista. Quando il suo compagno è morto tre anni fa lasciandola con due figli piccoli, ha avviato un’impresa per vendere oggettistica in legno da lei intagliata.

Secondo l’Istituto Centrale di Statistica della Palestina, nel 2018 il 29.4% delle donne di Gaza era inserito nel mondo del lavoro, con un tasso di disoccupazione che restava al 74,6%. Per le donne tra i 15 e i 29 anni il tasso di disoccupazione saliva addirittura all’88,1%. Nonostante l’aumento dell’impiego delle donne nella forza lavoro negli ultimi anni, gran parte degli impieghi è ancora considerato una prerogativa maschile. Ne campo medico, ed esempio, le donne erano il 13,3%, di cui il 59,2% lavorava nel settore farmaceutico e il 47,8% in quello infermieristico. La percentuale di donne in campo giuridico era del 23,4%. Nell’agricoltura, del 6,5%. Circa due terzi delle donne lavorava nel settore privato, e il tasso di povertà tra le donne ha raggiunto il 53,8%.

A spiegare tali numeri ci sono molti fattori in gioco: le condizioni sociali, la devastazione economica, la mancanza di stabilità al valico di Rafah al confine con l’Egitto, la divisione interna della politica palestinese, ma soprattutto il blocco della Striscia da parte di Israele. Questi fattori hanno un impatto diretto significativo sulla vita delle donne e sul loro accesso al mondo del lavoro. A causa della mancanza di lavoro, molte donne sono costrette a lavorare in settori diversi da quello di specializzazione, mentre è raro per loro trovare impiego fuori dalla Striscia di Gaza.

Dal 2007 a oggi c’è stato un aumento del numero di famiglie guidate da donne, dal 7% al 9,4%. L’incremento può essere attribuito alle guerre e ai continui attacchi contro Gaza che hanno provocato molte morti. Le donne vedove a Gaza costituiscono il 4,5%.

Secondo i dati del Comitato Palestinese per gli Affari Civili, nel 2018 il numero di donne che ha ricevuto permessi di uscita da Israele ha raggiunto il 30%, meno di un terzo di tutti i permessi concessi. Le donne detengono solo il 3% di tutti i permessi per commercio, che garantiscono uscite e entrate multiple alle persone d’affari che vendono beni da e a Gaza. La maggior parte delle imprese gestite da donne sono di piccola entità e dunque il loro giro di affari non soddisfa i severi criteri di Israele per ottenerne uno. In tal modo le donne subiscono restrizioni negli spostamenti, cosicché il blocco influisce direttamente sulle loro opportunità di impiego e sulle loro vite.

Dal 2000 Israele ha impedito agli studenti di Gaza di frequentare le università in Cisgiordania. Se fosse stato loro consentito di studiare lì, proprio a poche ore dalle loro case, sicuramente gli abitanti di Gaza avrebbero avuto molte più opportunità formative e professionali. Le politiche di segregazione israeliane puntano a allontanare tra loro i palestinesi che vivono fisicamente in territori divisi, separando mariti da mogli, genitori da figli e turbando la vita familiare. Trasferirsi dalla Striscia di Gaza alla Cisgiordania è un’impresa quasi impossibile.

Bisogna infine riconoscere come ciò impatti sulla salute delle donne. Secondo l’Organizzazione Mondiale per la Sanità, nel 2018 sono stati richiesti 11.759 permessi da parte di donne per cure mediche non disponibili a Gaza, di cui 7.651 autorizzati, 740 negati e 3.368 senza risposta. Per quanto riguarda gli accompagnatori dei pazienti, la maggior parte dei quali sono donne, su 19.396 permessi richiesti sono state ricevute 10.546 autorizzazioni, 1.724 rifiuti e 7.126 richieste senza riscontro in tempi utili per le cure. La mancata risposta è una pura mancanza di rispetto verso le vite dei pazienti che necessitano cure vitali. La sofferenza si somma alle difficili condizioni di vita a Gaza, costituite da infrastrutture in rovina, carenza di energia elettrica e un sistema sanitario al collasso.

In occasione della Giornata Internazionale della Donna voglio dunque omaggiare queste donne autorevoli e di successo e dire che ho avuto l’onore di lavorare con loro e di essere coinvolta nelle loro vite. Esse sono la testimonianza dell’immenso potenziale di Gaza. È tempo di rimuovere le restrizioni alla loro libertà di movimento nonché il blocco soffocante che Israele impone sugli abitanti di Gaza, per concedere a questi uomini e donne la vita normale e sicura che meritano.

Qamar Taha è coordinatrice di ricerca a Gisha. Questo articolo è stato inizialmente pubblicato in ebraico sul Local Call.

(traduzione di Maria Monno)




Il New York Times lascia che sia Israele a fare il suo “controllo dei fatti”

Michael F. Brown

7 marzo 2019, Electronic Intifada

Il New York Times mi ha detto che è assolutamente disposto ad accettare la parola del governo israeliano sui fatti.

Avevo avvertito il giornale dell’informazione secondo cui l’editorialista Bret Stephens ha travisato i fatti nella sua implicita replica all’incisivo articolo di opinione di Michelle Alexander che chiedeva di rompere il silenzio sulla Palestina.

Stephens aveva scritto: “In questo secolo circa 1.300 civili israeliani sono stati uccisi durante attacchi terroristici palestinesi: questo in proporzione corrisponde a circa 16 volte l’11 settembre negli Stati Uniti.”

Ciò è falso.

Secondo il gruppo israeliano per i diritti umani B’Tselem, che raccoglie statistiche scrupolose, dal 29 settembre 2000 alla fine di gennaio di quest’anno sono stati uccisi 823 civili israeliani, insieme a 433 “persone delle forze di sicurezza israeliane”.

Nello stesso periodo circa 10.000 palestinesi sono stati uccisi da Israele – il corrispettivo di decine di 11 settembre, per utilizzare il metro di valutazione di Stephens – anche se per lui a quanto pare le vittime palestinesi non hanno nessuna importanza.

Invece di correggere o verificare con decisione l’informazione errata presentata dal suo editorialista antipalestinese, il caporedattore degli articoli di opinione James Dao mi ha scritto che Stephens aveva avuto la sua “informazione dal governo israeliano, e a me va bene così.”

A me invece non va per niente bene. Trasmettere all’opinione pubblica un’informazione falsa del governo israeliano come se fosse vera è propaganda, non giornalismo o un commento legittimo.

Stephens è autorizzato ad avere le proprie opinioni, ma non i propri dati di fatto. Né lo è il governo israeliano. La parola del governo israeliano – e di Bret Stephens – dovrebbe essere messa a confronto con i dati reali.

In questo caso, non solo ci ha mentito, ma ha affermato che tutti i combattenti palestinesi sono terroristi e tutti gli israeliani – anche i soldati armati dell’occupazione – sono civili.

Il giornale, che giustamente è pronto a contraddire le menzogne del presidente Donald Trump, in questo caso sta prendendo un atteggiamento molto diverso verso le menzogne del primo ministro Benjamin Netanyahu.

Notevole peggioramento

Ciò è pericoloso. E riduce la credibilità di un giornale che ho a lungo sollecitato perché facesse di meglio.

Non aver fatto una rettifica rappresenta un notevole peggioramento da quando, quasi 14 anni fa, parlai al public editor [giornalista incaricato di verificare la correttezza degli articoli pubblicati dal suo quotidiano, ndt.] del New York Times, Daniel Okrent.

Ci sono meno opportunità ora di quante ce ne fossero allora, in quanto il quotidiano non ha più un garante a cui i lettori possano rivolgersi.

Non lo posso sapere con certezza, ma penso che Okrent sarebbe sconcertato dal fatto che il “controllo dei fatti” sia stato appaltato al governo israeliano.

Stephens è di parte. E gioca a favore del razzismo contro i palestinesi. La sua credibilità è stata intaccata – o lo avrebbe dovuto essere – quando ha scritto di un “feticismo del sangue dei palestinesi.” Questo è un estremismo vile e lampante contro il popolo palestinese.

Sorprendentemente ha fatto un’affermazione altrettanto generale nel suo recente articolo domenicale quando ha reagito contro i progressisti che sono sempre più preoccupati per le politiche discriminatorie di Israele: “Tutto ciò è profondamente inquietante per una comunità ebraica che ha in genere visto il partito Democratico come il proprio referente politico.”

Questa è una generalizzazione antisemita da parte di Stephens, né tutti nella comunità ebraica la pensano come sostiene Stephens. Gli ebrei americani non sono monolitici quando si tratta dei tentativi di garantire i diritti e la libertà dei palestinesi.

Molti ebrei si oppongono all’occupazione israeliana e ad altri crimini, e sono profondamente sconvolti dai continui attacchi da parte di membri della lobby israeliana contro donne di colore che parlano a favore dei diritti dei palestinesi.

Oltretutto molti ebrei rifiutano l’ideologia ufficiale di Israele, il sionismo, in quanto colonialismo di insediamento e apartheid. Oltre ai dubbi sollevati da “Jewish Voice for Peace” [“Voce Ebraica per la Pace”, organizzazione di ebrei USA contraria all’occupazione dei territori palestinesi, ndt.] riguardo al sionismo, gruppi ebraici antisionisti includono Neturei Karta [gruppo di ebrei religiosi contrari al sionismo e all’esistenza di Israele, ndt.] e Satmar Hasidim, la principale setta hassidica [corrente religiosa ebraica con tendenze mistiche e messianiche, ndt.] negli Stati Uniti.

Lettere invece di un fatto accertato

Invece di pubblicare una rettifica, Dao mi ha suggerito di mandare piuttosto una lettera. Ma quella era stata la mia reazione prima ancora di rivolgermi a lui.

La lettera non era stata pubblicata. Né avrebbe sortito un risultato del tutto accettabile. Una rettifica da parte del giornale ha un peso molto maggiore rispetto all’opinione di chi avesse scritto una lettera.

Più di un decennio fa il New York Times Magazine [supplemento domenicale del NYT, ndt.] ebbe un approccio simile e insistette che scrivessi una lettera su un errore riguardante la posizione della barriera israeliana e il fatto che in molti punti non separa Israele dalla Cisgiordania occupata ma la Cisgiordania dalla Cisgiordania [perché non segue il percorso del confine tra Israele e Giordania precedente alla guerra del ’67, ma passa per lo più nei territori palestinesi occupati, ndt.].

Invece il supplemento pubblicò una rettifica piuttosto insignificante riguardo all’articolo, rilevando che una didascalia “aveva sbagliato ad identificare un mezzo meccanico su una strada nei pressi della struttura. Si trattava di un veicolo militare israeliano e non di un carrarmato.”

Questa “rettifica” affermava persino che l’articolo a cui faceva riferimento riguardava la “discussa barriera costruita per separare Israele dalla Cisgiordania.” In altre parole, la “rettifica” conteneva un errore peggiore di quello che avrebbe dovuto correggere.

Come segnalato, il giornale da allora ha fatto lo stesso errore e non lo ha corretto nonostante numerose sollecitazioni.

Nel marzo 2017 il giornalista Russell Goldman ha scritto: “L’inafferrabile artista di strada Banksy ha decorato gli interni dell’hotel “Walled Off” [Recintato], un albergo di nove stanze nella città cisgiordana di Betlemme le cui finestre danno sulla barriera che separa il territorio da Israele.”

Ancora una volta il New York Times avrebbe dovuto descrivere una barriera che in larga misura separa i palestinesi tra loro e dalle loro terre all’interno della Cisgiordania occupata.

La posizione della barriera e il fatto che molti israeliani uccisi non erano civili ma forze militari di occupazione sono dati informativi che possono essere facilmente verificabili.

Il fatto che il New York Times rifiuti di correggere Stephens, confidando in modo incondizionato nelle affermazioni di fonti ufficiali israeliane, indica che a Stephens è stato dato troppo spazio per proporre la propaganda legata ad Israele.

Non credo che Dao nutra lo stesso animo antipalestinese di Stephens – e venerdì persino Stephens ha criticato gli “attacchi demagogici contro gli arabi israeliani” da parte di Netanyahu, benché non si sia potuto spingere fino a chiamarli cittadini palestinesi di Israele o manifestare un minimo di preoccupazione per l’occupazione e per i crimini di guerra di Netanyahu a Gaza e in Cisgiordania.

Ma critiche relativamente moderate nei confronti di Netanyahu non possono mitigare grossolani errori riguardo ai fatti, insinuazioni razziste e indulgenza nei confronti delle violazioni dei diritti umani da parte di Israele, come Stephens ha fatto nella sua carriera. Con questi precedenti, Dao non dovrebbe privilegiare la parola di Stephens – e del governo israeliano – rispetto a quella di una credibile organizzazione per i diritti umani.

Il New York Times dovrebbe pubblicare una rettifica alla fine del prossimo articolo di Stephens, chiarendo che il governo israeliano ha fornito un’informazione errata e che chi controlla i fatti non ha cercato altre fonti di informazione più attendibili.

(traduzione di Amedeo Rossi)