«Un vuoto che nessuno può colmare » : i bambini di Gaza traumatizzati dalla perdita di familiari

Hind Khoudary

Gaza 23 aprile 2019, Middle East Eye

Wassal Sheikh Khalil sapeva che sarebbe morta. Il 13 maggio, durante la cena, l’adolescente di 14 anni ha detto a sua madre: “È il mio ultimo giorno di scuola e l’ultimo giorno in cui ceno con voi.”

Reem Abu Irmana ricorda che sua figlia le ha detto : « Mi spareranno alla testa. Non sentirò il colpo, non proverò dolore.”

Il giorno dopo, mentre decine di migliaia di palestinesi manifestavano a Gaza per denunciare il trasferimento dell’ambasciata degli Stati Uniti da Tel Aviv a Gerusalemme, l’inquietante profezia dell’adolescente si è realizzata.

Mentre si trovava in mezzo a una folla di donne e bambini con il suo fratellino Mohammed, Wassal è stata centrata alla testa da un cecchino israeliano. Un altro manifestante stava filmando quando lei è stata colpita e il suo corpo si è accasciato al suolo.

Figura tra i 68 palestinesi uccisi quel giorno.

Secondo la commissione d’inchiesta indipendente delle Nazioni Unite e secondo altre associazioni di difesa dei diritti umani, a partire dal 30 marzo 2018 le forze israeliane hanno ucciso almeno 40 minori nel contesto della Grande Marcia del Ritorno.

Almeno 32 di loro sono stati uccisi da proiettili veri o da scoppi di granate. Secondo la commissione, altri 1.642 minori sono stati feriti da pallottole vere, da scoppi di granate, da pallottole d’acciaio rivestite di gomma e dall’impatto di candelotti lacrimogeni.

Nella piccola striscia di terra che è Gaza, in cui metà della popolazione ha meno di 18 anni, molti ragazzi non si ricordano del periodo precedente gli 11 anni di blocco israeliano. La maggior parte di loro ha già vissuto tre guerre devastanti.

Centinaia di migliaia di rifugiati sono nati a Gaza e non hanno mai visto i villaggi da cui le loro famiglie furono espulse al momento della creazione dello Stato di Israele.

Per molti palestinesi che crescono in condizioni disperate, la Grande Marcia del Ritorno simbolizza un grido collettivo a favore della sopravvivenza.

Tuttavia, un anno dopo, la repressione letale delle manifestazioni da parte dell’esercito israeliano costituisce una nuova esperienza traumatica per i ragazzi di Gaza. L’UNICEF stima che più di 25.000 ragazzi abbiano urgente bisogno di sostegno psico-sociale.

La marcia della vita e della morte

Wassal viveva nel campo profughi di al-Maghazi, nel centro della Striscia di Gaza, con la madre divorziata ed i suoi sei fratelli e sorelle.

Ha partecipato alla Grande Marcia del Ritorno fin dal suo inizio con suo fratello Mohammed, di 12 anni.

«Le abbiamo sempre detto che era rischioso e che avevamo paura che venisse ferita », dice sua madre Reem a Middle East Eye.

Ma la ragazza non demordeva. La mattina del 14 maggio Reem ricorda di aver vietato a Wassal di andare nella zona della manifestazione vicino alla frontiera con Israele.

«Wassal piangeva, mi ha detto : ‘Aspetto questo giorno da tanto tempo, devo andarci, non voglio perdermi questa giornata.’”

Per Nadera Shalhoub-Kevorkian, universitaria palestinese che studia l’impatto dell’occupazione sui ragazzi, la Grande Marcia del Ritorno ha risvegliato in molti giovani palestinesi di Gaza un senso di potere, in circostanze in cui si sentono altrimenti impotenti – pur essendo consapevoli dei rischi.

A marzo, durante una conferenza organizzata dalla Rete per la Salute Mentale UK-Palestina a Londra, Nadera Shalhoub-Kevorkian ha citato un ragazzo di Gaza : «Gaza non è una prigione, è un luogo senza vita. La Marcia del Ritorno è la vita – ma è anche la morte.

Partecipare alla Grande Marcia del Ritorno implica un rischio di morte, di ferite o di mutilazioni. Ma dai ragazzi viene percepito come un atto liberatorio per difendere la vita.»

Molti ragazzi, come Wassal, hanno partecipato alle manifestazioni con un senso di appartenenza e di rendersi utili, ma il pericolo intrinseco alla situazione ha avuto un effetto devastante – non solo per quelli che sono stati uccisi, ma anche per quelli che restano.

Mohammed era accanto a Wassal quando è stata uccisa davanti ai suoi occhi.

«É improvvisamente caduta a terra, le usciva il sangue, non si muoveva più », racconta il ragazzino a MEE.

Mohammed e Wassal sono sempre stati vicini per via della ridotta differenza d’età, precisa la madre Reem.

Dopo la morte della sorella, Mohammed ha accusato lo choc. Si è depresso, è diventato violento, non riesce più a concentrarsi a scuola e bagna spesso il letto – il che ha spinto uno dei vicini della famiglia, uno psicologo, ad iniziare a curare il ragazzo preso nella morsa del suo dolore.

Anche adesso, aggiunge Reem, suo figlio continua a parlare di Wassal come se lei fosse sempre lì e appende fotografie della sorella in tutta la casa. Nonostante il sostegno psicologico che ha ricevuto, la maggior parte dei sintomi del suo trauma permangono.

Perdita del migliore amico e confidente

A Khan Younis, nel sud della Striscia di Gaza, gli Shalabi conoscono quello che ha passato la famiglia di Wassal.

L’8 febbraio Hassan Shalabi, di 14 anni, è stato colpito al petto dalle forze israeliane mentre partecipava a una manifestazione.

Meno di due mesi dopo, la morte del ragazzo lascia una ferita aperta nella vita dei suoi familiari ed amici.

«Io ero la sorella, l’amica e la confidente di Hassan», dice Aseel Shalabi, sforzandosi di parlare di suo fratello senza piangere. «Hassan ha lasciato un immenso vuoto che nessuno può colmare. »

Abdel Fattah Shalabi, uno dei fratelli di Hassan, ha sempre dormito sullo stesso materasso di Hassan. Mentre gli altri membri della famiglia parlavano con MEE del fratello morto, lui è rimasto in silenzio, gli occhi pieni di lacrime.

«Hassan è scomparso improvvisamente, è molto difficile abituarsi a vivere senza di lui», confida Fatima Shalabi, la madre di Hassan.

Fatima e suo marito, Iyad, spiegano che i loro figli sono gravemente colpiti da questa perdita, sono in preda a incubi, insonnia e depressione.

Il più piccolo, di 4 anni, non capisce ancora che suo fratello maggiore è morto, ma spesso tocca delle foto di Hassan e le indica col dito.

«Cerco di far coraggio ai miei figli, dicendo loro che Hassan è in un mondo migliore», dice Iyad Shalabi.

Un mese dopo la morte di Hassan i suoi compagni di classe sono ancora sotto choc.

«Hassan non è soltanto il mio migliore amico, è la mia anima gemella. Ho passato più tempo con lui di chiunque altro », confida Ahmed Abu Qusai, di 14 anni.

« Ogni venerdì ci sedevamo sullo stesso sedile dell’autobus per andare alla marcia», continua – tranne nel fatidico giorno in cui il suo amico è stato ucciso, quando Ahmed, che era malato, è rimasto a casa.

Rasmi Abu Sabla, di 16 anni, racconta a MEE che tutti i giorni giocava a calcio con Hassan, Ahmed e altri ragazzi del quartiere.

«Le partite di pallone non sono più le stesse », dice. « Hassan era il miglior giocatore e il calcio non è più lo stesso dopo la sua morte. »

I danni emotivi di un’intera generazione

Secondo il Consiglio Norvegese per i Rifugiati (NRC), la Grande Marcia del Ritorno ha causato un’acuta sofferenza tra i ragazzi di Gaza.

In un rapporto pubblicato a fine marzo l’NRC ha segnalato che i giovani ragazzi pativano un grado di sofferenza elevato a causa della perdita di un membro della famiglia.

Il dottor Sami Oweida, consulente psichiatrico del programma di salute mentale comunitario a Gaza, ha segnalato a MEE che dall’inizio della Grande Marcia del Ritorno molti bambini bagnano il letto, hanno difficoltà a scuola, soffrono di incubi, di paure e di ansia.

«I ragazzi palestinesi presentano i tassi più elevati di disturbi mentali di tutti i Paesi del Medio Oriente», afferma.

Durante la conferenza «Infanzia palestinese» a Londra, la psichiatra palestinese Samah Jabr ha messo in guardia dal separare la diagnosi psicologica dal contesto politico.

«L’occupazione incide sulla percezione che i ragazzi hanno di sé stessi, del mondo e delle loro relazioni», ha affermato. “Questo crea una patologia psicologica che va oltre le definizioni ufficiali conosciute in psichiatria.”

«Non dobbiamo cercare di inserire l’esperienza dei palestinesi nel quadro abituale della psicopatologia individuale.

Dobbiamo invece discutere di emancipazione, di rappresentazione, di creazione di modelli – di ciò che aiuta i palestinesi ad uscire dalla loro condizione di oggetti e di individui patologici e a recuperare il loro potere.»

Kate O’Rourke, direttrice del NRC per la Palestina, insiste anche lei sull’importanza fondamentale di affrontare il contesto politico.

«Le violenze di cui i ragazzi sono quotidianamente testimoni, compresa la perdita di persone care, nel contesto del devastante assedio di Israele, che perpetua ed aggrava la crisi umanitaria a Gaza, hanno provocato danni emotivi a un’intera generazione », spiega a MEE.

«Ci vogliono anni di lavoro con questi ragazzi per attenuare l’impatto dei traumi e restituire loro la speranza nel futuro.

Gaza, come il resto del territorio palestinese occupato, ha disperatamente bisogno di una soluzione politica giusta e duratura – anche per i profughi della Palestina – che metta al centro la vita, il benessere e la dignità dei palestinesi e degli israeliani.»

Tuttavia, in assenza di soluzioni politiche in vista, ai ragazzi di Gaza non restano altro che dei palliativi per curare il loro dolore e i loro traumi.

Ogni settimana la famiglia Shalabi si reca sulla tomba di Hassan. Pensano che i fiori che depositano accanto alla sua tomba lo faranno felice e sostengono che, anche se il suo corpo se ne è andato, la sua anima resterà per sempre.

Chloé Benoist ha collaborato a questo reportage da Londra.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)