Il giorno dopo: che succede se Israele annette la Cisgiordania?

Ramzy Baroud

24 giugno, 2019 – Middle East Monitor

Gli inviti all’annessione della Cisgiordania occupata sono all’ordine del giorno sia a Tel Aviv che a Washington. Ma Israele e i suoi alleati americani dovrebbero stare attenti riguardo a ciò che auspicano. Annettere i Territori Palestinesi Occupati non farà che rafforzare l’attuale ripensamento della strategia palestinese, invece di risolvere i problemi che Israele stesso si provoca.

Incoraggiati dalla decisione dell’amministrazione di Donald Trump di spostare l’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme, i dirigenti del governo israeliano ritengono che questo sia il momento giusto per annettere l’intera Cisgiordania.

Infatti, “non vi è momento migliore di questo” è stata la frase esatta usata dall’ex Ministra della Giustizia israeliana Ayelet Shaked, quando ha sostenuto l’annessione in una recente conferenza a New York.

Certo, in Israele è nuovamente una stagione elettorale, poiché il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu non è riuscito a formare un governo dopo le ultime elezioni di aprile. Durante queste campagne politiche si assiste a molte dimostrazioni di forza, dato che i candidati fanno la voce grossa in nome della ‘sicurezza’, della lotta al terrorismo, eccetera.

Ma i commenti di Shaked non possono essere liquidati come effimere scaramucce elettorali. Rappresentano molto di più, se considerati all’interno di un più ampio contesto politico.

Sicuramente, da quando Trump è arrivato alla Casa Bianca, per Israele le cose non sono mai – e ripeto, mai – andate così bene. È come se il programma più radicale del governo di destra fosse diventato una lista dei desideri per gli alleati di Israele a Washington. Questa lista include il riconoscimento USA dell’annessione illegale da parte di Israele della Gerusalemme est palestinese occupata, delle Alture del Golan siriane occupate e l’abbandono totale del diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi.

Ma non è tutto. Affermazioni fatte da influenti dirigenti USA indicano un iniziale interesse per la completa annessione della Cisgiordania occupata o almeno di larga parte di essa. L’ultimo di questi auspici è stato fatto dall’ambasciatore USA in Israele David Friedman.

Israele ha il diritto di annettere parte…della Cisgiordania”, ha detto Friedman in un’intervista, citata dal New York Times l’8 giugno.

Friedman è molto coinvolto nel cosiddetto accordo del secolo, uno stratagemma politico sostenuto soprattutto dal primo consigliere e genero di Trump, Jared Kushner. La palese idea che sorregge questo ‘accordo’ è cancellare le fondamentali richieste dei palestinesi, rassicurando al contempo Israele sulla sua ricerca di maggioranza demografica e sulle preoccupazioni riguardo alla ‘sicurezza’.

Altri dirigenti USA che spalleggiano gli sforzi di Washington a favore di Israele sono l’inviato speciale USA in Medio Oriente, Jason Greenblatt, e l’ex ambasciatrice USA alle Nazioni Unite, Nicki Haley. In una recente intervista al giornale di destra israeliano ‘Israel Hayom’ Haley ha detto che il governo israeliano “non dovrebbe preoccuparsi” riguardo ai dettagli dell’accordo del secolo, che devono essere ancora del tutto svelati.

Conoscendo l’amore di Haley – e la sua sfrontata difesa – per Israele presso le Nazioni Unite, non dovrebbe essere troppo difficile capire il sottile ed ovvio significato delle sue parole.

Ecco perché il richiamo di Shaked all’annessione della Cisgiordania non può essere liquidato come un banale discorso da periodo elettorale.

Ma Israele può annettere la Cisgiordania?

In pratica sì, lo può fare. È vero che sarebbe una flagrante violazione del diritto internazionale, ma questo concetto non ha mai disturbato Israele, né gli ha impedito di annettere territori arabi o palestinesi. Per esempio, ha occupato Gerusalemme est e le Alture del Golan rispettivamente nel 1980 e 1981.

Inoltre in Israele il clima politico è sempre più disponibile a compiere un simile passo. Un sondaggio condotto dal quotidiano israeliano Haaretz lo scorso marzo ha rivelato che il 42% degli israeliani è favorevole all’annessione della Cisgiordania. Questa percentuale è destinata a crescere nei prossimi mesi, dato che Israele continua a spostarsi a destra.

È anche importante notare che diversi passi sono già stati compiuti in questa direzione, compresa la decisione della Knesset [parlamento israeliano, ndtr.] di applicare ai coloni ebrei illegali in Cisgiordania le stesse leggi civili applicate a chi vive in Israele.

Ma è qui che Israele si trova di fronte al suo più grande dilemma.

Secondo un sondaggio condotto congiuntamente dall’università di Tel Aviv e dal Centro palestinese per la Politica e la Ricerca nell’agosto 2018, più del 50% dei palestinesi si rende conto che la cosiddetta soluzione dei due Stati non può più reggere.

Inoltre un crescente numero di palestinesi ritiene anche che la coesistenza in un unico Stato, in cui ebrei israeliani e arabi palestinesi (sia musulmani che cristiani) vivano fianco a fianco, sia la sola formula possibile per un futuro migliore.

La dicotomia per i dirigenti israeliani che cercano di mantenere una maggioranza demografica ebraica e la marginalizzazione dei diritti dei palestinesi, è che non hanno più alternative valide.

Anzitutto comprendono che l’occupazione senza fine dei territori palestinesi non può essere sostenibile. La perdurante resistenza palestinese all’interno e la nascita del movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) all’estero stanno minacciando la stessa legittimità politica di Israele in tutto il mondo.

In secondo luogo, devono anche tenere conto del fatto che, dal punto di vista dei dirigenti ebrei israeliani, l’annessione della Cisgiordania con milioni di palestinesi moltiplicherà proprio la “minaccia demografica” che hanno temuto per molti anni.

Terzo, la pulizia etnica di intere comunità palestinesi – la cosiddetta opzione “trasferimento” – come quella che fece Israele alla sua fondazione nel 1948, e nuovamente nel 1967, non è più possibile. Né i Paesi arabi apriranno le loro frontiere per i genocidi utili a Israele, né i palestinesi se ne andranno, per quanto il prezzo sia alto. Il fatto che gli abitanti di Gaza siano rimasti là, nonostante anni di assedio e di feroci guerre, ne è un esempio.

Al di là delle messinscene politiche, i dirigenti israeliani capiscono che non sono più al posto di comando e, nonostante la loro superiorità militare e politica rispetto ai palestinesi, sta diventando evidente che la potenza di fuoco ed il cieco sostegno di Washington non sono più sufficienti a determinare il futuro del popolo palestinese.

È altresì chiaro che il popolo palestinese non è, e non è mai stato, un soggetto passivo del proprio destino. Se Israele mantiene la sua occupazione da 52 anni, i palestinesi continueranno a resistere. Quella resistenza non verrà indebolita o domata da alcuna decisione di annettere la Cisgiordania, in parte o del tutto, esattamente come la resistenza palestinese a Gerusalemme non è cessata dopo la sua illegale annessione da parte di Tel Aviv quarant’anni fa.

Infine, l’annessione illegale della Cisgiordania può solo contribuire alla irreversibile consapevolezza tra i palestinesi che la loro lotta per la libertà, i diritti umani, la giustizia e l’uguaglianza può essere meglio sostenuta attraverso una battaglia per i diritti civili all’interno dei confini di un unico Stato democratico.

Nella sua cieca arroganza, Shaked e la sua genia di destra non fanno che accelerare la scomparsa di Israele come Stato etnico e razzista, mentre avviano una fase di possibilità migliori della continua violenza e apartheid.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Germania: attivista del BDS espulso dagli eventi pro-Palestina

24 giugno 2019 – Middle East Monitor

La Germania ha proibito allo scrittore e giornalista palestinese Khalid Barakat e a sua moglie Charlotte Keats di partecipare agli eventi pro-Palestina a causa del loro supporto al movimento per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) contro Israele.

Barakat vive a Berlino da 18 mesi e lavora come libero professionista, mentre sua moglie è coordinatrice internazionale per Samidoon, una agenzia di comunicazione palestinese che si occupa di difendere i prigionieri palestinesi. Entrambi sono stati accusati di sostenere il BDS, come riferito da Arab 48 il 23 giugno.

La polizia tedesca ha arrestato Barakat lo scorso sabato mentre si stava recando a un evento sulla Palestina, organizzato da una serie di comunità arabe residenti nella capitale tedesca.

Secondo quanto riportato da Arab 48, la polizia tedesca ha informato Barakat che da quel momento in poi non potrà più prendere parte ad alcun evento politico o culturale e neanche a riunioni familiari composte da più di dieci persone. Infrangere queste restrizioni gli costerà la detenzione per un anno e il pagamento di una multa.

L’ordinanza specifica che tale decisione è basata su informazioni raccolte dai servizi di intelligence tedesca “su un lungo periodo di tempo”. Dichiara anche che Barakat è stato coinvolto in una serie di incontri e attività che “provano” il suo essere “un antisemita e anti-israeliano”.

Idris ha anche dichiarato che la disposizione accusa Barakat di essere una minaccia alla sicurezza interna, di istigare all’odio contro gli ebrei e di essere membro del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (PFLP).

Lo scorso mese il parlamento tedesco ha approvato una legge per definire il BDS un movimento antisemita. La mozione affermava che “gli argomenti, atteggiamenti e metodi del movimento BDS hanno i caratteri dell’antisemitismo”, contestando ad esempio il fatto che gli adesivi “non comprare”, utilizzati dal BDS per identificare l’origine israeliana di un prodotto in modo che il consumatore possa scegliere di non comprarlo, “rievocano una associazione mentale con lo slogan nazista ‘non comprate dagli ebrei’”, cose che “ricordano alcuni dei momenti più terrificanti della storia tedesca”.

L’iniziativa è stata criticata sin da subito: l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha criticato duramente la decisione definendola “pericolosa”, mentre le ONG palestinesi obiettano che azioni del genere possono delegittimare le forme di resistenza pacifica.

( Traduzione di Maria Monno)




I rifugiati palestinesi e il ‘monologo del secolo’

Lorenzo Kamel

24 giugno 2019 – Al Jazeera

Ovvero, perché l’analogia tra l’espulsione dei palestinesi e l’‘esodo’ degli ebrei dai Paesi arabi è fuorviante

Nel 1948 circa 450 villaggi palestinesi vennero rasi al suolo dalle forze israeliane e circa 770.000 persone – compresi circa 20.000 ebrei cacciati da Hebron, Gerusalemme, Jenin e Gaza dalle milizie arabe – furono espulsi nell’arco di pochi giorni e poi venne loro negato il ritorno con la forza. Alcuni di loro fuggirono per paura, spesso dopo aver assistito al tragico destino dei loro parenti e amici.

Un caso emblematico fu l’espulsione di massa di palestinesi dalle città di Lydda e Ramle nel luglio 1948, che rappresentarono un decimo di tutto l’esodo arabo-palestinese. La maggioranza dei 50.000-70.000 palestinesi che vennero cacciati dalle due città lo furono in seguito a un ordine ufficiale di espulsione firmato dall’allora comandante della brigata Harel, Yitzhak Rabin: “Gli abitanti di Lydda,” chiarì Rabin, “devono essere espulsi rapidamente senza badare all’età.” Molte centinaia di loro morirono durante l’esodo per lo sfinimento e la disidratazione.

Oltre 70 anni dopo è diventato sempre più comune imbattersi in analogie tra i rifugiati palestinesi come quelli di Lydda e Ramle e il “simultaneo sradicamento” di ebrei che vivevano nei Paesi arabi. Il vice ministro israeliano delle Finanze Yitzhak Cohen, per esempio, ha detto che “il problema degli ebrei espulsi è uguale al problema dei rifugiati palestinesi, se non maggiore.”

L’analogia, che in primo luogo intende eliminare il problema dei rifugiati palestinesi da ogni futuro negoziato di pace, è in genere presentata nei seguenti termini: a causa del “rifiuto arabo” del piano delle Nazioni Unite del 1947, scoppiò un conflitto e 770.000 palestinesi “fuggirono” da quello che oggi è Israele”; allo stesso tempo 800.000 ebrei che vivevano nei Paesi arabi dovettero affrontare un’“espulsione di massa”; quindi ci fu uno “scambio di popolazione” tra “rifugiati arabi ed ebrei.” I palestinesi dovrebbero quindi accettare questa “reciprocità” e rinunciare alle loro richieste di tornare e/o di indennizzi.

Ma questo tentativo di equivalenza morale è fuorviante. Palestinesi ed ebrei scapparono dalle proprie case in contesti diversi e i primi non possono essere accusati del destino dei secondi. La complessa storia dei rifugiati palestinesi non dovrebbe essere ridotta a una semplice analogia su basi non dimostrate.

Chi ha rifiutato cosa?

Una pletora di osservatori e studiosi ha legato l’inizio del problema dei rifugiati palestinesi, e più in generale il conflitto arabo-israeliano, al “rifiuto arabo” della partizione della Palestina da parte dell’ONU nel 1947. Mentre apparentemente questa affermazione può avere senso, la realtà di chi rifiutò cosa negli anni ’40 è più complicata di così.

Infatti, come ha evidenziato il defunto giornalista e attivista israeliano Uri Avnery, se ai palestinesi “fosse stato chiesto, probabilmente avrebbero rifiutato la partizione, dato che – secondo loro – concedeva una gran parte della loro patria storica a stranieri.” Tanto più, ha notato, “in quanto agli ebrei, che all’epoca rappresentavano un terzo della popolazione, venne destinato il 55% del territorio – ed anche lì gli arabi costituivano il 40% della popolazione.”

Ma dalla prospettiva degli arabo-palestinesi, che all’inizio del secolo costituivano circa il 90% della popolazione, il 1947-48 non segnò l’inizio della lotta, ma coincise piuttosto con il capitolo finale di una guerra che era iniziata con alcuni leader sionisti che nei primi anni del XX° secolo avevano adottato politiche e strategie di rifiuto.

L’inizio del conflitto può essere fissato al 1907, quando l’ottavo congresso sionista creò un “ufficio della Palestina” a Giaffa, sotto la direzione del leader sionista Arthur Ruppin, il cui principale obiettivo era – con le sue stesse parole – “la creazione di un contesto ebraico e di un’economia ebraica chiusi, in cui produttori, consumatori e intermediari debbano essere tutti ebrei.” In effetti il “rifiuto” era presente con particolare rilievo nella mentalità di Ruppin.

L’obiettivo di un’“economia ebraica chiusa” venne parzialmente messo in pratica dal 1904 in poi dai dirigenti della seconda e terza aliyot (ondate di immigrazione ebraica in Palestina) attraverso politiche come la kibbush ha’avoda (conquista del lavoro) e la pratica dell’ avodah ivrit (lavoro ebraico, o l’idea che solo i lavoratori ebrei dovessero lavorare terra ebraica).

Benché entrambe fossero guidate dalla necessità di maggiori opportunità di lavoro per i nuovi immigrati, diedero come risultato la creazione di un sistema di esclusione che bloccò fin dall’inizio, in primo luogo a livello ideologico, qualunque potenziale integrazione con la popolazione araba locale.

Alcuni ricercatori hanno sottolineato che allo stesso modo la popolazione araba tendeva a evitare di assumere coloni ebrei. Ciò, tuttavia, non tiene in alcun conto il fatto che gli arabi avevano solo un interesse molto limitato ad assumere una minoranza di nuovi immigrati che avevano una molto minore esperienza agricola e non parlavano la lingua utilizzata dal resto della popolazione locale. Il loro rifiuto dei lavoratori ebrei non faceva parte di una campagna politica organizzata.

Bisognerebbe anche notare che il “sistema di esclusione” e le due strutture sociali e politiche parallele che innescarono colpirono altre questioni fondamentali, quali la terra e le sue risorse.

Per esempio il Fondo Nazionale Ebraico (KKL) venne fondato con il compito di comprare terre in Palestina (riuscì a comprare i nove decimi della terra acquistata in Palestina da proprietari sionisti), mentre vietava la vendita di queste nuove aree acquisite a non ebrei.

Le aree del KKL vennero gestite in modo discriminatorio rispetto alla popolazione araba. I contadini del KKL che venivano scoperti ad assumere lavoratori non ebrei erano soggetti a multe e/o espulsioni. Tali politiche erano effettivamente allarmanti, soprattutto in considerazione dell’ obiettivo perseguito, che il futuro primo presidente dello Stato di Israele, Chaim Weizmann, sottolineò in una lettera inviata a sua moglie nel 1907: “Se i nostri capitalisti ebrei, cioè solo i capitalisti sionisti, dovessero investire i loro capitali, anche solo in parte, in Palestina, non ci sono dubbi che l’arteria vitale della Palestina – tutta la fascia costiera – sarebbe in mani ebraiche entro venticinque anni (…) L’arabo conserva il suo attaccamento primitivo alla terra, l’istinto del suolo è forte in lui, ed essendo costantemente impiegato in esso c’è il pericolo che possa sentirsi indispensabile, con un diritto morale su di esso.”

Tutto ciò conferma ulteriormente che la tendenza a collegare il “rifiuto arabo” alla nascita del problema dei rifugiati palestinesi ignora buona parte della storia e non può che favorire una comprensione limitata di una questione molto più complessa.

Rapporti arabo – ebraici

Le politiche di rifiuto ebbero un effetto estremamente distruttivo sui rapporti intercomunitari in Palestina. Una serie di fonti primarie prodotte da attori locali alla fine del XIX° secolo e agli inizi del XX° confermano che prima della messa in pratica di queste politiche i rapporti tra diverse comunità erano molto meno conflittuali di quanto sia stato sostenuto di recente.

Per esempio un editoriale anonimo pubblicato sul quotidiano arabo-palestinese “Filastin” del 29 aprile 1914 asseriva: “Fino a dieci anni fa gli ebrei costituivano un elemento autoctono ottomano fraterno. Vivevano e si mescolavano liberamente in armonia con altri soggetti ed intrattenevano rapporti di lavoro, vivevano negli stessi quartieri e mandavano i propri figli nelle stesse scuole.” Queste parole, nonostante il tono apologetico, non erano lontane dalla realtà. Gli atteggiamenti mostrati da varie importanti figure e gruppi religiosi nella regione e la pressione esercitata dalla Porta [la Sublime Porta, cioè l’impero ottomano, ndtr.] in modo che gli ebrei locali potessero diventare cittadini ottomani a pieno diritto confermano – almeno come tendenza generale – tali considerazioni.

Parlando in una pubblica piazza a Beirut nella primavera del 1909, l’avvocato ebreo Shlomo Yellin affermò che “non è legittimo dividere in base alla razza: turchi, arabi, armeni ed ebrei si sono mischiati tra loro e tutti sono legati insieme.”

Lo studioso e scrittore Yaacov Yehoshua scrisse nelle sue memorie “Yaldut be-Yerushalayim ha-yashena” (Infanzia nella Gerusalemme vecchia), pubblicate nel 1965, che a Gerusalemme “c’erano complessi edilizi comuni di ebrei e musulmani. Eravamo come una famiglia (…) I nostri figli giocavano con i loro (musulmani) in cortile, e se bambini del quartiere ci davano fastidio i bambini musulmani che vivevano nel nostro complesso ci proteggevano. Erano nostri alleati.”

Nello stesso periodo, in una città religiosa per eccellenza come Gerusalemme, circa l’80% degli abitanti viveva in quartieri e strutture misti.

Tutto ciò non dovrebbe far pensare che conflitti interreligiosi e/o confessionali fossero sconosciuti. Divisioni e scontri di questo tipo possono essere documentati fin dal Medioevo. Eppure la loro natura e dimensione non erano comparabili con quelle di tempi più recenti. Cosa ancora più importante, non riflettono la storia reale di buona parte del passato della regione.

I palestinesi e l’espulsione degli ebrei

Se la questione dei rifugiati palestinesi ha poco a che vedere con il “rifiuto arabo”, lo stesso si può dire riguardo al tentativo di collegare i rifugiati palestinesi alla vittimizzazione ed espulsione delle comunità ebraiche.

Certamente migliaia di ebrei nei Paesi arabi patirono discriminazioni, oppressione, minacce e varie forme di violenza. L’esempio più noto è il “Farhud” – un pogrom del 1941 in cui oltre 180 ebrei vennero brutalmente uccisi a Baghdad. Secondo Hayyim J. Cohen, “fu l’unico evento (di questo genere) noto riguardo agli ebrei in Iraq, almeno durante il loro ultimo secolo di vita là.”

Indipendentemente dal fatto che siamo d’accordo o meno con le parole di Cohen, è comunque incontestabile che i palestinesi non furono responsabili di quanto avvenne a Baghdad o altrove in Medio Oriente. Possono anche essere arabi, ma non erano e non sono lo stesso popolo degli iracheni.

Ebrei che soffrirono discriminazioni e brutalità in alcuni Paesi arabi hanno rivendicazioni legittime, ogni forma di violenza è ugualmente inaccettabile e deve essere riconosciuta e condannata. Al contempo, va rilevato che, contrariamente ai rifugiati palestinesi, molti dei quali vennero espulsi, o scapparono per paura, una grande maggioranza degli ebrei non volle raggiungere la loro “Eretz Yisrael” (Terra di Israele).

Una personalità che spesso viene utilizzata per giustificare la presunta responsabilità dei palestinesi per le condizioni degli ebrei nei Paesi arabi è Hajj Amin al-Ḥusayni, il “Grand Mufti di Gerusalemme”. Al-Husayni era un sostenitore del primo ministro iracheno Rashid Ali al-Gaylani, che intendeva stabilire legami più forti con la Germania nazista e l’Italia. Fu all’indomani della caduta del governo di al-Gaylani che a Baghdad scoppiarono i disordini che portarono al “Farhud”.

Nel 1941 al_Husayni andò prima in Italia e poi in Germania. Due anni dopo partecipò alla formazione della “Handschar”, una divisione nazista creata in collaborazione con il comandante delle SS Heinrich Himmler, che combatté contro i partigiani comunisti in Yugoslavia e commise vari crimini contro la popolazione locale, compresi molti ebrei. Date le sue presunte credenziali islamiche, venne incaricato di reclutare musulmani bosniaci e serbi che, insieme a qualche volontario croato cattolico, formarono il nucleo centrale dell’unità.

Non c’erano palestinesi arruolati nell’”Handschar”; al contrario, circa 12.000 arabi palestinesi si unirono all’esercito britannico per combattere le potenze dell’Asse nel 1939.

A causa della sua collaborazione con il regime nazista, al-Husayni è spesso utilizzato come esempio del perché il popolo palestinese sia stato il presunto responsabile del suo tragico destino. Eppure, come hanno dimostrato studi recenti, egli [Al-Husayni] non era un legittimo rappresentante del popolo palestinese, in quanto venne semmai imposto ai palestinesi dalle autorità britanniche.

La questione dell’‘assimilazione’

L’analogia tra i rifugiati palestinesi e gli ebrei dei Paesi arabi è fuori luogo per una serie di altri aspetti. Uno dei più ovvi è la questione di come e perché i rifugiati palestinesi e gli ebrei espulsi o emigrati dai Paesi arabi sono (o non sono) stati “assimilati”. Durante e dopo la guerra del 1948, molti palestinesi vennero obbligati a scappare nei vicini Paesi arabi. Fino al recente passato, a molti di loro è stato vietato di prendere la cittadinanza e di esercitare alcune professioni. Le sofferenze dei rifugiati palestinesi sono state – e in alcuni casi sono ancora – sfruttate dalla dirigenza di quei Paesi per fini politici.

Inoltre un paragone tra i campi di rifugiati palestinesi in Libano o in Siria e i ma’abarot, i campi di assimilazione degli immigrati in Israele negli anni ’50 sarebbe fuorviante.

La ragione per cui l’ultimo ma’abara venne chiuso nel 1963 ha in parte a che vedere con la costruzione in Israele di una serie di città di sviluppo, in cui agli ebrei rifugiati è stata fornita una casa. Molti nuovi immigrati dovettero passare attraverso un penoso e violento processo di inserimento in case palestinesi vuote.

Chiunque abbia visitato Ein Hod, Musrara, Qira e qualche centinaio di altri villaggi, quartieri o città in precedenza palestinesi conosce bene le migliaia di case rimaste ancora perfettamente intatte. La maggior parte (se non tutte) sono oggi abitate da famiglie di ex-immigrati.

Quindi non dovrebbe sorprendere che molti dirigenti israeliani abbiano rifiutato il termine “rifugiati”. Come il presidente della Knesset Yisrael Yeshayahu notò nel 1975, “non siamo rifugiati. (Alcuni di noi) sono venuti in questo Paese prima che nascesse lo Stato. Avevamo aspirazioni messianiche.”

L’ex-membro della Knesset Ran Cohen è andato oltre affermando: “Devo dire questo: non sono un rifugiato (…) Sono arrivato al servizio del sionismo, a causa dell’attrazione che questa terra esercita e dell’idea di redenzione. Nessuno mi definirà un rifugiato.”

Al contrario una gran parte della popolazione palestinese ora è formata da rifugiati di seconda, terza o quarta generazione che vivono ancora nei campi.

Di fatto sono gli unici rifugiati non di competenza dell’UNHCR [agenzia Onu per i rifugiati, ndtr.] ma che invece hanno la propria agenzia (UNRWA). La ragione di ciò è radicata nel pieno riconoscimento del pesante prezzo pagato dai palestinesi per le decisioni – pienamente legittime agli occhi di alcuni, completamente o parzialmente illegali secondo altri – prese dalla comunità internazionale alla fine degli anni ’40.

In altre parole, 70 anni fa l’UNRWA venne fondata dall’assemblea generale dell’ONU come agenzia umanitaria per appoggiare quegli stessi rifugiati che avevano perso la propria casa nel 1948, qualche mese dopo il piano ONU di partizione della Palestina nel novembre 1947. Ancor oggi l’UNRWA rispecchia l’obbligo della comunità internazionale di fornire una soluzione giusta e duratura per loro.

Il ‘monologo del secolo’

“La gente (adatta) la propria memoria in modo che si adegui alla propria sofferenza,” scrisse lo storico ateniese Tucidide nella sua “Storia della guerra del Peloponneso”. Oggi questa affermazione sembra particolarmente significativa per il conflitto israelo-palestinese.

Un certo livello di accettazione reciproca delle narrazioni e traumi dell’altro, attraverso riconciliazione e empatia, è la chiave per qualunque pace duratura.

Infatti, quando cicatrici visibili e invisibili sono sfruttate per scopi politici e ideologici, non possono che preparare la strada a quello che il filosofo ebreo nato in Austria Martin Buber ha chiamato “monologo mascherato da dialogo” cioè il dialogo “in cui due o più uomini, riuniti in un luogo, parlano solo con se stessi in modo stranamente contorto e indiretto, eppure immaginano di essere sfuggiti al cruccio di dover ricorrere alle proprie risorse.”

Il cosiddetto “accordo del secolo”, i cui dettagli saranno resi noti durante la riunione economica in Bahrain il 25 giugno, è un ulteriore esempio di una lunga lista di monologhi mascherati da dialoghi.

Tutti gli indizi suggeriscono che quelli che stanno dietro all’“accordo” cercheranno di togliere di mezzo il problema dei rifugiati palestinesi da ogni futuro negoziato di pace. È il passato presentato come se fosse il futuro. È per questo che è destinato a fallire.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Al Jazeera.

Lorenzo Kamel è professore associato di storia all’università di Torino e membro anziano dell’IAI [Istituto Affari Internazionali].

(traduzione di Amedeo Rossi)




Gli accademici israeliani e l’emigrazione

Edo Konrad

24 giugno 2019 972.com

da Nena News

Alcuni documenti appena scoperti rivelano che, nei giorni immediatamente successivi all’occupazione, Israele istituì una “Commissione dei Cattedratici” con il compito di elaborare politiche volte a tenere calmi i palestinesi e a indurli ad abbandonare definitivamente la Cisgiordania e Gaza

Poche settimane dopo aver quasi triplicato la dimensione del territorio sotto controllo israeliano, con la Guerra dei Sei Giorni del 1967, Israele reclutò squadre di accademici perché individuassero un modo per  indurre i palestinesi ad emigrare dai territori appena occupati.

Secondo i documenti appena scoperti da Omru Shafer Raviv, dottorando del Dipartimento di Storia Ebraica dell’Università Ebraica, nel luglio del 1967 l’allora primo ministro Levi Eshkol riunì una commissione di accademici, tra cui l’illustre sociologo Shmuel Noah Eisenstadt, l’economista Michael Bruno, il demografo Roberto Bachi e il matematico Aryeh Dvoretzky – tutti  caratterizzati da legami con le alte sfere – e li spedì nei territori per analizzare la popolazione appena messa sotto occupazione.

In teoria, l’obiettivo della “Commissione per lo Sviluppo dei Territori Amministrati”, anche detta “Commissione dei Cattedratici”, era quello di creare un ente responsabile della “pianificazione a lungo termine” nei territori occupati. I professori, insieme alle loro squadre di ricercatori, vennero spediti nei villaggi, nelle città e nei campi profughi per intervistare i palestinesi sulle loro vite, bisogni e desideri.

Il secondo obiettivo, spiega Shafer Raviv, doveva essere una miglior comprensione dei palestinesi dei territori occupati, per poter capire come evitare che facessero resistenza al regime militare loro imposto da Israele – che ancora oggi li domina – mentre si cercava il modo di indurli ad andarsene. “Quei primi anni hanno dato forma alle odierne politiche israeliane”, sostiene Raviv.

La minaccia della modernità

Alla fine della guerra, il governo israeliano si era posto obiettivi di ogni sorta nei confronti della popolazione palestinese, primo fra tutti la riduzione del numero di coloro che vivevano nei territori occupati. “Lo si è visto soprattutto a Gaza, dove le autorità credevano di poter dimezzare la popolazione da 400mila a 200mila per far fronte al nuovo problema demografico”.

I palestinesi di Gaza erano per la maggior parte profughi: il governo voleva smantellare i campi profughi, inducendo (i profughi) a lasciare il Paese e a farsi “assorbire” – o a integrarsi – altrove, spiega Raviv. “Questo è il quadro in cui si inserisce la decisione di Eshkol di creare la Commissione dei Cattedratici”.

Nei primi anni dopo l’inizio dell’occupazione, ci fu un’ondata di resistenza popolare, per lo più nonviolenta, con diversi scioperi generali. Esisteva anche una resistenza armata, di gruppi come Fatah, che tentò di suscitare contro Israele una guerriglia in stile vietcong. Un altra missione che il governo israeliano affidò alla Commissione dei Cattedratici fu quella di capire come circoscrivere la resistenza popolare contro il dominio israeliano e scoprire in che misura idee rivoluzionarie come il comunismo o il nazionalismo palestinese  avrebbero potuto diffondersi nei territori occupati.

Per analizzare le loro scoperte empiriche e formulare linee guida politiche, gli accademici facevano riferimento a un quadro teorico chiamato “teoria della modernizzazione”. Tale teoria, secondo cui le società cambiano seguendo un andamento lineare, da “tradizionali” a “moderne”, divenne molto popolare tra gli scienziati sociali in Occidente, ma non ha superato adeguatamente la prova del tempo. I critici la accusano di essere troppo focalizzata sull’Occidente e fondamentalmente incapace di calcolare i complessi cambiamenti interni ed esterni che caratterizzano gruppi e società. Questi punti deboli teoretici avrebbero pregiudicato tutto il lavoro della Commissione.

“I ricercatori fecero una distinzione tra la popolazione giovanile urbana – più orientata al laicismo e all’istruzione e più incline a partecipare alle attività politiche – e la popolazione anziana, molto meno interessata alla politica, più tradizionalista, religiosa e rurale. La prima era considerata una minaccia, mentre lo stile di vita depoliticizzato di quest’ultima andava incoraggiato”, spiega Raviv.

Mentre gli scienziati sociali occidentali utilizzavano la teoria della modernizzazione nel tentativo di modernizzare le società come parte dello sforzo per evitare il comunismo, gli accademici e le autorità israeliane adottarono un approccio inverso.

“Quando si trattò di mettere una popolazione civile sotto controllo militare, la modernizzazione della società palestinese diventò un elemento avverso agli interessi israeliani”, aggiunge Raviv. “Il governo israeliano voleva mantenere tranquilla la popolazione occupata, e pensava che quanto più questa fosse stata modernizzata, tanto maggiore sarebbe stata la minaccia della resistenza”.

Tra i quesiti posti dai ricercatori israeliani ai palestinesi, c’erano anche domande su cosa mangiassero a cena, per capire se classificarli come “moderni” o “tradizionalisti”. Le cene di famiglia con molti commensali, per esempio, erano considerate tradizionali, mentre quelle più intime, con meno persone, erano considerate sintomo di modernità. Tutto ciò aveva delle conseguenze. Chi veniva considerato più “moderno” veniva più facilmente sospettato di essere laico, e quindi più incline a sostenere politiche nazionaliste o rivoluzionarie.

C’erano poi altre domande politiche, soprattutto nei campi profughi: “Vuoi trasferirti in un nuovo Paese? Perché no? Cosa ti convincerebbe a trasferirti? Quale potrebbe essere, secondo te, la soluzione alla questione profughi?”.

Nell’ottobre del 1967, un ricercatore, scienziato politico, si recò al confine di Allenby Bridge per intervistare i palestinesi diretti in Giordania. Molti palestinesi attraversavano sistematicamente il confine tra i territori palestinesi occupati e la Giordania, per lavoro o perché la loro famiglia viveva all’estero.

“Chiese a 500 persone per quale motivo avevano scelto di andarsene – spiega Raviv – e le risposte sarebbero poi state consegnate al governo, in modo da poter meglio comprendere le ragioni per cui la gente se ne andava”.

L’accademico israeliano, che lavorava con l’autorizzazione dell’esercito israeliano, concluse che i palestinesi se ne andavano in Giordania con l’obiettivo di trovare lavoro, o per motivi di ricongiungimento familiare.

”Sotto il dominio giordano c’erano stati pochissimi investimenti in Cisgiordania, così, quando gli israeliani la occuparono, semplicemente non c’era abbastanza lavoro” spiega Raviv. “Dopo la guerra, in Cisgiordania la situazione era ulteriormente peggiorata. Il governo israeliano preferì mantenere alta la disoccupazione, perché si rese conto che questo avrebbe spinto la gente ad emigrare verso posti come la Giordania o il Kuwait”.

Esperti colti alla sprovvista

Shafer Raviv fa parte di un gruppo di accademici israeliani che hanno deciso di focalizzare la loro ricerca sull’occupazione. Mentre i Nuovi Storici, come Benny Morris e Tom Segev, hanno scoperto dettagli della guerra del ’48 e degli anni successivi alla fondazione di Israele che contraddicevano direttamente la narrativa sionista, questo nuovo gruppo di ricercatori si è concentrato sul regime israeliano nei territori occupati.

Lo studio di Raviv è il primo di questo genere, dato che utilizza documenti governativi ufficiali risalenti alla guerra del 1967 e al periodo immediatamente successivo, che solo recentemente sono stati desecretati dall’Archivio Nazionale di Israele e dagli Archivi delle forze armate israeliane.

Fino alla guerra del 1967, la questione centrale del conflitto israelo-palestinese era quella dei profughi palestinesi, che erano stati deportati e fatti fuggire dal territorio poi divenuto Israele, e ai quali Israele impedì il ritorno alle proprie case dopo la guerra del 1948. Con la fine della guerra del 1967, Israele si ritrovò a spadroneggiare sulla maggior parte di quegli stessi profughi, che si erano rifugiati in Cisgiordania e Gaza da ormai quasi vent’anni.

Il governo israeliano, racconta Raviv, considerò l’occupazione del 1967 come un’opportunità per risolvere alle proprie condizioni il problema dei profughi, inducendoli ad andarsene di propria volontà o tramite un accordo con altri Stati arabi. Ma quando iniziarono la loro ricerca sui profughi, gli accademici scoprirono qualcosa che li colse alla sprovvista: ai profughi non interessavano soluzioni politiche che non comprendessero il loro ritorno alla terra d’origine.

“I ricercatori erano convinti che, se i profughi avessero potuto vivere tranquilli in qualche posto come il Kuwait, non avrebbero avuto alcun motivo per preferire una vita di patimenti in un campo profughi di Gaza”, spiega Raviv. “Ora, invece, la maggioranza dei profughi stava rispondendo che “No, noi vogliamo tornare in quella che è diventata Israele”. Il che, ovviamente, era fuori discussione per le autorità israeliane.

Gli accademici si stupirono ancor di più quando scoprirono che i profughi avevano più caratteristiche “moderne” rispetto alla maggior parte della restante società palestinese. “Quando erano stati costretti nei campi, i profughi avevano dovuto abbandonare le loro terre, il che significava che non c’era motivo che i loro figli imparassero a lavorare la terra”, spiega Raviv.

Costretti ad abbandonare lo stile di vita, i costumi e le economie agrarie della “vita rurale”, i profughi avevano iniziato ad investire nell’educazione dei figli, come fece l’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite incaricata di gestire i campi profughi. “Tutto ciò – dice Raviv – ebbe conseguenze a lungo termine: la percentuale di analfabetismo, nei profughi di prima generazione, si aggirava intorno al 70%, ma scese a circa il 7% con la seconda generazione, cresciuta nei campi profughi”.

La Commissione dei Cattedratici si augurò un rafforzamento di questa “tendenza alla modernizzazione” tra i profughi. Credeva che indurre i profughi di seconda generazione a ricevere un’istruzione e a spostarsi in città, luogo in cui poter realizzare i propri sogni, avrebbe forse portato allo smantellamento dei campi. Avevano capito che, con il semplice smantellamento dei campi profughi e spingendo la gente andarsene, si sarebbe arrivati a quella che battezzarono ”resistenza collettiva”.

”Gli accademici compresero che, per risolvere il problema dei profughi, non si poteva dire apertamente ‘risolvere il problema dei profughi’ ”, spiega Raviv. “Bisognava farlo sottovoce, e cos’è di più discreto che la ricerca di opportunità di studio o lavoro all’estero?”.

Lo spirito della Commissione è ancora vivo

Tra le altre indicazioni della Commissione dei Cattedratici, alcune furono inizialmente contro-intuitive nel loro scopo di incoraggiare l’emigrazione e ridurre il numero di palestinesi che vivevano sotto il controllo israeliano.

”Uno dei suggerimenti, adottato dal governo israeliano nel dicembre del 1967, era di permettere che chiunque volesse lasciare i territori occupati potesse tornarci – racconta Raviv – Era qualcosa di rivoluzionario; andava contro la posizione generale israeliana adottata nel 1948, che proibiva il ritorno delle persone che avevano lasciato il Paese. Se gli si dice in anticipo che non possono tornare, non se ne andranno mai, perché farlo significherebbe perdere qualsiasi legame con la loro famiglia e la loro terra”.

La Commissione dei Cattedratici pubblicò le prime anticipazioni nel settembre del 1967, anche se la prima parte della ricerca fu completata in febbraio del 1968, quando le conclusioni vennero consegnate al primo ministro Eshkol e la Commissione tenne un certo numero di consultazioni con i funzionari del governo militare.

In un documento di parecchi anni dopo, sono elencate almeno 30 ricerche su una gamma di tematiche come ad esempio la popolazione cristiana nei territori occupati, l’economia di Nablus e l’ipotesi di esportazione di beni israeliani in Libano. Questi progetti di ricerca continuarono per un bel po’, fino alla metà degli anni ‘70: a quel punto, la traccia cartacea si perde.

Shafer Raviv sostiene che, anche se non possiamo avere la certezza che le raccomandazioni della Commissione dei Cattedratici siano mai state trasformate direttamente in politiche di governo – dal momento che le autorità tennero in considerazione anche altre osservazioni, come per esempio le opinioni dello Shin Bet e dell’esercito – lo spirito della loro ricerca ha sicuramente influenzato chi aveva il potere decisionale.

Secondo lui, “non c’è prova che le raccomandazioni siano state adottate unicamente sulla base di ciò che la Commissione aveva proposto. Ma è evidente il legame tra raccomandazioni e politiche di governo. Se ne può notare un primo esempio nella decisione del governo di incentivare l’emigrazione palestinese”.

(Traduzione di Elena Bellini)




Rifugiati: l’”accordo del secolo” di Trump è destinato al fallimento

Mustafa Abu SneinehChloé Benoist

19 giugno 2019 – Middle East Eye

La proposta segue lo stesso percorso di altri inutili negoziati del passato e minaccia lo status di milioni di palestinesi

In un conflitto centrato sulla relazione tra terra e popolo, la questione dei rifugiati palestinesi è stata il punto su cui sin dall’istituzione dello Stato di Israele si sono incagliati gli sforzi diplomatici – e sembra che il cosiddetto “accordo del secolo” del presidente americano Donald Trump non faccia eccezione a questa regola.

Israeliani e palestinesi hanno sempre aspramente dissentito su chi sia un rifugiato, su quali diritti abbia e su quale dovrebbe essere il suo destino a lungo termine, visto che gli innumerevoli tentativi da parte della comunità internazionale di raggiungere un consenso sulla questione hanno sempre fallito.

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L’ultima proposta, questa volta da parte dell’amministrazione Trump, sembra non solo orientata al fallimento proprio come i negoziati precedenti, ma addirittura fondata sul tentativo di eliminare completamente il problema dei rifugiati.

A milioni in tutta la regione

Circa 750.000 palestinesi sono fuggiti o sono stati cacciati con la forza dalle loro case da gruppi paramilitari ebrei nel 1948 alla nascita dello Stato israeliano.

Secondo i dati delle Nazioni Unite all’epoca quel numero corrispondeva a più della metà della popolazione palestinese. A settant’anni da quel moderno esodo, quasi 5,5 milioni di quei palestinesi e dei loro discendenti sono registrati come rifugiati presso le Nazioni Unite.

Circa 2,2 milioni di rifugiati vivono in decine di campi profughi tra la Cisgiordania e Gaza occupate, mentre la maggioranza degli altri vive nei paesi confinanti di Giordania, Libano e Siria.

Il “diritto al ritorno” per i palestinesi sfollati a causa del conflitto è stato stabilito nella risoluzione 194 approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1949 e ribadito dalla stessa istituzione in un’altra risoluzione nel 1974, che ha definito la sua attuazione “indispensabile per la soluzione della questione palestinese”.

È sostenuto da altre risoluzioni e convenzioni internazionali, che affermano in modo più generale il diritto delle popolazioni al ritorno nella propria patria.

La lotta per il diritto al ritorno

Ma il diritto al ritorno è stato a lungo considerato da Israele come una minaccia demografica alla sua auto-identificazione come Stato ebraico. Secondo i dati della Banca Mondiale la popolazione di Israele nel 2017 era di 8,7 milioni, di cui circa il 20% cittadini palestinesi di Israele.

Di conseguenza, la posizione di Israele nei negoziati è improntata al rifiuto di accettare la potenziale prospettiva di milioni di palestinesi che ritornano alle proprie case.

Gli accordi di Oslo del 1993 istituirono l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) come organismo governativo ad interim, con l’obiettivo dichiarato di creare uno Stato palestinese indipendente entro la fine del secolo.

L’accordo prevedeva il raggiungimento di una soluzione permanente del conflitto entro cinque anni, dopo di che un accordo su questioni di “status finale” – come gli insediamenti israeliani, il destino di Gerusalemme e dei rifugiati – sarebbe stato presumibilmente concluso durante una seconda fase dei negoziati.

Ma quando nel 1999 si arrivò alla scadenza dei cinque anni, tutti i tentativi di raggiungere un accordo permanente erano falliti.

Tra il 2000 e il 2001, quando l’allora presidente americano Bill Clinton cercò di raggiungere un nuovo accordo durante i vertici di Camp David e Taba, la posizione israeliana oscillò.

A Camp David, il famoso ritiro presidenziale nel Maryland, l’allora capo dello staff israeliano, Gilead Sher, scrisse che i negoziatori israeliani avevano chiaro come qualsiasi accordo che consentisse ai rifugiati di ritornare avrebbe previsto nientemeno che 100.000 persone.

Fu anche discussa l’istituzione di un fondo internazionale tra i 10 e i 20 miliardi di dollari per aiutare i rimanenti rifugiati a reinsediarsi permanentemente nei Paesi di accoglienza – lo scenario preferito da Israele.

Ma quando le parti si incontrarono di nuovo sei mesi più tardi nella località egiziana di Taba, gli israeliani cercarono di far abbandonare del tutto l’ipotesi.

In una riunione di gabinetto in vista del vertice di Taba, il governo israeliano affermò che una delle sue posizioni imprescindibili nei colloqui era che “Israele non permetterà mai ai rifugiati palestinesi il diritto di tornare nello Stato di Israele”.

I negoziatori discussero dei risarcimenti ai rifugiati palestinesi, ma di nuovo non fu possibile raggiungere alcun accordo. I negoziatori palestinesi discutevano la restituzione e il risarcimento in base a valutazioni legate alle proprietà [perse dai profughi e che si trovavano nel territorio diventato israeliano, ndtr.], mentre gli israeliani discutevano del risarcimento solo nei termini di una somma fissa.

I summit di Camp David e Taba si svolsero in tempi molto vicini alle elezioni statunitensi e israeliane, ciò che condannò i colloqui a non raggiungere mai una conclusione positiva.

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Nel 2004, Tzipi Livni, all’epoca ministro israeliano per l’Integrazione degli Immigrati e politicamente di centro, aveva convinto il presidente degli Stati Uniti George W. Bush a far proprio il totale rifiuto di Israele del diritto al ritorno – una posizione intransigente, che in seguito il Segretario di Stato americano Condoleeza Rice disse come l’avesse colpita in quanto ” strenua difesa della purezza etnica dello Stato israeliano”.

Israeliani e palestinesi hanno continuato a dissentire sulla questione dei rifugiati nei successivi importanti colloqui di pace avviati dal 2013 al 2014 dal Segretario di Stato americano John Kerry.

Netanyahu ha respinto il diritto al ritorno dei palestinesi e ha posto come requisito per la pace il riconoscimento di Israele come Stato ebraico, ma il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas ha rifiutato, sostenendo che questo avrebbe compromesso le rivendicazioni dei profughi palestinesi di tornare alle loro case.

L’ UNRWA nel mirino

Adesso, il cosiddetto “accordo del secolo” del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, insieme alla sua decisione di porre fine ai finanziamenti statunitensi per l’UNRWA, l’UN Relief and Works Agency (l’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e il Lavoro) che sostiene i milioni di profughi palestinesi, sembra essere un tentativo di rimuovere completamente il problema dal tavolo dei negoziati.

Creato dalle Nazioni Unite nel dicembre 1949 come organizzazione temporanea, da allora l’UNRWA ha fornito istruzione, assistenza sanitaria, infrastrutture e servizi di soccorso di emergenza ai palestinesi sfollati, oltre a dare lavoro a migliaia di persone nei territori occupati.

Operando in Giordania, Siria, Libano, Cisgiordania e Gaza, l’UNRWA vede il suo mandato rinnovato ogni tre anni ed è finanziato quasi interamente da contributi volontari degli Stati membri delle Nazioni Unite, tra cui gli Stati Uniti, che sono stati per decenni il maggior donatore.

Lo scorso agosto si è saputo che Trump intendeva cambiare la politica degli Stati Uniti nei confronti dei rifugiati palestinesi in modo che i discendenti degli sfollati del 1948 e della guerra arabo-israeliana del 1967 non venissero calcolati.

Ciò ridurrebbe il numero a circa 500.000, ossia a circa un decimo del numero attualmente riconosciuto e supportato dall’UNRWA.

Ciò ha anche portato Washington ad allinearsi ad Israele, che sostiene che ereditare lo status di rifugiato, dalla prima generazione di palestinesi sfollati ai loro discendenti, vale solo per i palestinesi e di per sé “perpetua il conflitto”.

Accogliendo con favore la fine dei finanziamenti statunitensi all’UNRWA, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha affermato che gli Stati Uniti “hanno fatto qualcosa di molto importante bloccando i finanziamenti per l’agenzia di perpetuazione dei rifugiati nota come UNRWA”.

“Sta finalmente iniziando a risolvere il problema. I fondi devono essere presi e utilizzati per aiutare veramente a reinserire i rifugiati, il cui numero reale è una frazione del numero indicato dall’UNRWA “, ha detto. “Questo è un cambiamento molto positivo e importante, e lo sosteniamo.”

Netanyahu ha anche sottolineato le differenze tra le definizioni di rifugiato dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) e dell’UNRWA, e ha chiesto all’UNHCR di assumere gradualmente il mandato dell’UNRWA.

La definizione dell’UNHCR esclude dallo status di rifugiato chiunque abbia successivamente acquisito la cittadinanza di un altro Paese, mentre l’UNRWA conta come rifugiati anche quanti abbiano un’altra cittadinanza e i discendenti della prima generazione sfollata dalla propria terra.

L’UNRWA ha ripetutamente smentito le accuse di trattamento speciale per i rifugiati palestinesi e ha addossato direttamente la responsabilità della continua crisi dei rifugiati all’inconcludente processo di pace.

Perché Trump perseguita i rifugiati?

Nel frattempo, l’interruzione dei finanziamenti statunitensi all’UNRWA ha proiettato ulteriore incertezza e scompiglio nel futuro di milioni di palestinesi in tutta la regione.

Trump ha sostenuto che gli Stati Uniti hanno elargito grandi contributi finanziari ai palestinesi senza ottenerne abbastanza “apprezzamento o rispetto” – sottintendendo che i tagli agli aiuti siano un mezzo per esercitare pressioni sui leader palestinesi nei negoziati del piano di pace detto “accordo del secolo”.

Nonostante le risoluzioni e le convenzioni internazionali che hanno posto la questione dei rifugiati, per lo più i passati colloqui di pace non hanno affrontato in modo concreto il destino dei palestinesi in esilio.

Alcuni vedono quindi lo smantellamento dell’UNRWA da parte di Trump e le sue pressioni per rimuovere la maggioranza dei palestinesi dalla lista dei rifugiati come parte di un piano per portare a termine un accordo in cui uno dei principali punti controversi nella precedente serie di colloqui sia semplicemente rimosso dalla discussione.

Tuttavia, alcuni osservatori hanno sottolineato che la lunga storia statunitense di finanziamento dei palestinesi è perfettamente in linea con il suo sostegno a Israele.

Sostengono che l’esternalizzazione degli aiuti umanitari, ad organizzazioni internazionali e a potenze mondiali, ha permesso a Israele di sganciarsi dalla sua stessa responsabilità come potere occupante di provvedere alle popolazioni civili sotto il suo controllo, come definito dal diritto internazionale.

Queste preoccupazioni sembrano essere condivise da alcuni dirigenti israeliani. A settembre, è stato riferito che i responsabili della sicurezza israeliana hanno sollecitato il loro governo a trovare una fonte alternativa per gli aiuti a Gaza nel timore che la fine dei finanziamenti dell’UNRWA potesse portare a un ulteriore deterioramento della situazione umanitaria nell’enclave e ad un’eventuale guerra.

Il precipitoso calo degli aiuti, quindi, potrebbe ritorcerglisi contro – poiché i profughi palestinesi, la maggior parte dei quali continua a resistere con fermezza nella speranza di tornare in patria, potrebbero avere ora ancora meno da perdere.

(traduzione di Luciana Galliano)




Un ospedale di Gerusalemme in cui i bambini palestinesi muoiono da soli

Oliver Holmes a Gerusalemme e Hazem Balousha a Gaza

Giovedì 20 giugno 2019 – The Guardian

Il blocco israeliano di Gaza implica che i genitori siano separati dai figli con gravi malattie

A prima vista niente sembra fuori posto nell’unità pediatrica di terapia intensiva. Nove letti ospitano nove piccoli bambini appena nati, tutti con tubi collegati ai corpicini. Monitor emettono suoni di continui segnali elettronici. Infermieri passano da un letto all’altro. Un pediatra dall’aspetto stanco compila scartoffie.

Eppure manca qualcosa: non ci sono genitori.

Alcuni sono stati mandati a casa a riposare, o potrebbero stare a bere ansiosamente caffè nel bar al piano inferiore. Ma in questo ospedale palestinese di Gerusalemme le madri di due bambini sono rimaste intrappolate a un’ora e mezza di distanza al di là del blocco imposto da Israele contro Gaza. Entrambi i bambini sono in seguito morti senza aver rivisto la propria madre.

Bambini palestinesi gravemente malati portati da Gaza, impoverita e sconvolta dalla guerra, all’ospedale Makassed, meglio equipaggiato, soffrono e muoiono da soli.

In qualche caso Israele consente l’uscita temporanea da Gaza per ragioni di salute, ma non a tutti. Al contempo impedisce o ritarda in modo grave l’uscita di molti genitori, e altri non fanno neppure richiesta, temendo che gli approfonditi controlli di sicurezza per gli adulti blocchino l’uscita dei loro figli e facciano perdere tempo prezioso.

Secondo l’ospedale, dall’inizio dello scorso anno 56 bambini di Gaza, sei dei quali sono morti in loro assenza, sono stati separati dai loro padri e madri. In un caso a una madre di 24 anni di Gaza è stato permesso di viaggiare due mesi prima fino a Gerusalemme per dare alla luce tre gemelli gravemente malati. Due pesavano meno di un sacchetto di zucchero.

Ma il permesso di Hiba Swailam è scaduto e lei ha dovuto tornare a Gaza. Non era lì quando il suo primo figlio è morto, a nove giorni [dalla nascita], o due settimane dopo, quando è deceduto anche il suo secondo bambino. È stata informata per telefono. La figlia sopravvissuta, Shahad, ha passato i primi mesi della sua vita accudita da infermieri, e Hiba ha potuto vederla solo con videochiamate. Benché la bambina fosse pronta per essere dimessa da febbraio, nessun membro della famiglia è stato in grado di andarla a prendere.

Dopo essere state contattate per fare un commento, le autorità israeliane hanno concesso a Swailam di uscire da Gaza. Le è stato consentito di andare a Gerusalemme lo stesso giorno in cui Israele ha risposto alla richiesta del Guardian di fare un commento, il 29 maggio.

Medici per i diritti umani-Israele”, una Ong di medici israeliani, ha affermato che lo scorso anno più di 7.000 permessi sono stati rilasciati a minori di Gaza. Sono stati concessi meno di 2.000 permessi per genitori, il che lascia pensare che molti bambini abbiano viaggiato senza i propri genitori. Mor Efrat, il direttore del gruppo per i territori palestinesi occupati, ha affermato che “il governo israeliano dovrebbe essere chiamato a rispondere delle sofferenze umane.”

Separare bambini malati dai genitori può avere conseguenze devastanti. I medici credono che uno dei tre gemelli che è morto quando la madre era a Gaza si trovava in una condizione per cui una delle migliori misure di prevenzione sarebbe stato l’allattamento al seno. “Non potrei dire che se la madre fosse stata qui se la sarebbero cavata, ma ciò potrebbe aver ridotto le loro possibilità,” ha affermato Hatem Khammash, il capo dell’unità neonatale.

Ibtisam Risiq, la caposala del reparto dell’unità pediatrica di terapia intensiva, ha osservato un effetto psicologico nei neonati che sono affidati solo alle sue cure: “Hanno bisogno di amore. Il loro battito cardiaco aumenta. Sono depressi,” afferma.

Seduta alla sua scrivania, con pile di carta ovunque, controlla come le sue infermiere si affrettano per tenere in vita i bambini. Le rimprovera di aver lasciato le confezioni di prodotti medici sul pavimento. Un grande schermo di computer dietro di lei mostra il battito cardiaco dei pazienti. Mentre parla, uno sale a 200 battiti al minuto. “Dovrebbe essere a 130”, dice, e rapidamente manda un’infermiera.

Entrano ed escono medici. Risiq prende il telefono per discutere con un direttore amministrativo che l’ha chiamata perché un altro bambino ha bisogno di cure urgenti. Chiede invano se qualcuno dei pazienti di Risiq è sufficientemente stabile da essere spostato in un’unità a basso rischio. “Siamo al 100% della capienza,” dice Risiq. “Ciò succede tutti i giorni. Devo affrontare questa situazione tutti i giorni.”

Sempre alle prese con problemi finanziari, il Makassed è in una situazione critica da quando l’anno scorso Donald Trump ha tagliato milioni di fondi per l’assistenza medica a questo come ad altri ospedali che si occupano di palestinesi a Gerusalemme est. Anche la feroce rivalità tra le fazioni politiche palestinesi in Cisgiordania e a Gaza ha aggravato la crisi sanitaria. L’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), con sede in Cisgiordania, l’unico gruppo con cui Israele collabora, è stata accusata di aver tagliato l’aiuto medico a Gaza per obbligare Hamas a cedere il controllo della Striscia – un’accusa che l’ANP smentisce.

Saleh al-Ziq, il capo dell’ufficio dell’ANP per Gaza che trasmette le richieste di permessi d’uscita per Israele, afferma che esso ha informato che i bambini malati siano accompagnati solo da persone con più di 45 anni, i cui permessi vengono di solito esaminati più rapidamente dalle autorità israeliane in quanto considerati meno rischiosi.

Il risultato è che, invece dei genitori, che di solito sono più giovani, il Makassed è pieno di nonni. L’ospedale deve farsi carico di vitto e alloggio, e ha sistemato roulotte per farceli dormire. Ma in qualche caso anche loro devono tornare a Gaza e i bambini vengono lasciati totalmente soli.

Nel reparto di terapia intensiva pediatrica Risiq prende un grande libro verde pieno delle sue annotazioni compilate a mano di ammissioni, molte delle quali di bambini prematuri.

Una neonata, Reema Abu Eita, è arrivata con la nonna da Gaza per un’operazione urgente al midollo spinale. Questa è stata rimandata perché aveva un’infezione, dice Risiq, guardando la bambina, con gli occhi chiusi e il petto ansimante. Il padre di Abu Eita, un guidatore di ambulanze, ha cercato di ottenere un permesso per visitare la figlia, ma la bambina è morta prima di tornare a Gaza. Un altro neonato di Gaza, Khalil Shurrab, è arrivato con il fegato ingrossato. Giallo per l’itterizia, soffriva di convulsioni.

Secondo suo padre, che parlava da Gaza, lo avrebbe accompagnato la nonna. “L’equipe ospedaliera le ha insegnato come mandare a me e a mia moglie foto del bambino con WhatsApp,” dice Jihad Shurrab, 29 anni.

Sua moglie, Amal, afferma di aver smesso di dormire dopo che suo figlio è partito: “Speravo di poter andare con lui a Gerusalemme. Ho implorato chiunque, ma mi hanno detto che sono giovane e che gli israeliani non avrebbero accettato.”

Con sollievo della famiglia, il Makassed alla fine ha dimesso Khalil dopo un mese, e il bambino ha potuto ritornare a Gaza. Ma quando lo ha fatto, hanno scoperto che lì i farmaci erano introvabili. “Il gonfiore stava aumentando,” dice suo padre. Ha deciso di cercare di andarsene da Gaza verso il sud passando dall’Egitto, che ha imposto anch’esso un blocco ma in alcuni casi consente di viaggiare. “Il giorno in cui avremmo dovuto partire è morto.”

Israele afferma che il blocco terrestre, aereo e marittimo contro Gaza intende impedire ad Hamas e ad altri gruppi di miliziani di lanciare attacchi. L’Onu lo definisce una “punizione collettiva” per 2 milioni di persone che vi sono intrappolate. Gli abitanti lo chiamano assedio.

Il COGAT, l’ente del ministero della Difesa [israeliano] responsabile del coordinamento delle attività governative israeliane nei territori palestinesi, afferma in una risposta scritta di non imporre limiti d’età per i permessi e che ogni richiesta viene esaminata in modo individuale.

Riguardo al caso dei tre gemelli, sostiene che “un errore umano nei moduli per la domanda”, intendendo una richiesta presentata dalla madre in aprile, ha fatto sì che fosse respinto.

Imputa la crisi sanitaria a Gaza ad Hamas e all’ANP, che afferma “riduce drasticamente il bilancio degli aiuti medici per gli abitanti della Striscia di Gaza.” Afferma che Hamas ha utilizzato pazienti come corrieri per far entrare clandestinamente in Israele esplosivi e “finanziamenti per i terroristi”.

Il COGAT è “attivo nel rilascio di decine di migliaia di permessi a pazienti, così come a medici palestinesi, che ricevono formazione negli ospedali in Israele,” aggiunge.

Mentre è più difficile per la gente di Gaza, uscire, il Makassed presta servizio anche per la Cisgiordania, e anche lì i genitori palestinesi trovano difficoltà, e a volte l’impossibilità, di andare all’ospedale.

Israele sostiene di avere la sovranità su tutta Gerusalemme ed ha persino isolato dal resto dei territori palestinesi i suoi quartieri a maggioranza araba. Alcuni pazienti, molti bambini più grandi malati di cancro, hanno famiglie che vivono a pochi minuti di distanza ma non possono andarli a trovare.

La separazione di bambini dalle loro famiglie è talmente comune che gli ospedali palestinesi a Gerusalemme forniscono loro tablet per fare chiamate con Skype.

Un’organizzazione per la salute con sede in Gran Bretagna, “Medical Aid for Palestinians” [Aiuto Medico per la Palestina], ha organizzato visite guidate per parlamentari britannici all’ospedale Makassed per mostrare loro i risultati del fatto di separare i bambini dalle proprie famiglie. Una parlamentare laburista che l’ha visitato ha affermato di aver sollecitato il governo britannico ad intervenire. Rosena Allin-Khan, che lavorava come medico al pronto soccorso, ha affermato: “Nessun bambino, in nessuna parte del mondo, dovrebbe stare da solo in un momento di grande necessità. Il governo britannico dovrebbe fare pressione sulle autorità israeliane perché rivedano questo sistema inumano.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Gaza: come è stata strangolata l’enclave palestinese

Chloé Benoist

21 giugno 2019 Middle East Eye

Decenni di colloqui falliti con Israele e le divisioni interne hanno lasciato gli abitanti più disperati che mai e l’“accordo del secolo” non sembra in grado di modificare lo status quo

Isolata dalla Cisgiordania e da Gerusalemme est occupate; sotto assedio da oltre un decennio; sottoposta a discordie politiche interne, Gaza svolge il più complicato dei ruoli nel conflitto israelo-palestinese.

La sua posizione, sia come teatro di una catastrofica crisi umanitaria che come sede del potere di Hamas – l’organizzazione palestinese di resistenza armata definita organizzazione terroristica da Israele e dai suoi alleati – ha fatto del destino di Gaza uno dei nodi centrali di ogni trattativa che cerchi di occuparsi correttamente del futuro dei palestinesi

Questo articolo fa parte della serie “Done Deal [accordo fatto]” di Middle East Eye, che indaga su quanti degli aspetti attesi del cosiddetto “accordo del secolo” del Presidente USA Donald Trump rispecchino una realtà che già esiste sul terreno.

Prenderà in esame come il territorio palestinese sia già stato di fatto annesso, perché i rifugiati non abbiano prospettive realistiche di tornare un giorno nella loro patria, come la Città Vecchia di Gerusalemme sia sotto dominio israeliano, come vengano usati minacce finanziarie e incentivi per indebolire l’opposizione allo status quo e come Gaza sia tenuta in uno stato di assedio permanente.

Ma Gaza è in un vicolo cieco. Il soccorso umanitario, lo sviluppo economico e l’autodeterminazione palestinese sono considerati troppo spesso nei piani di pace come incompatibili tra loro – e questo include l’ “accordo del secolo” del Presidente USA Donald Trump.

Il ruolo dell’Egitto nell’assedio israeliano

Intrappolata tra Egitto e Israele, lo status di Gaza come enclave fin dalla creazione dello Stato di Israele ha determinato molto della sua esistenza e anche della posta in gioco.

Nel 1948 la Striscia di Gaza contava circa 80.000 abitanti – ma quel numero arrivò velocemente ad una stima di 200.000, quando i rifugiati palestinesi fuggirono dalle forze israeliane. Sessant’anni dopo Gaza ha circa due milioni di abitanti e la reputazione di essere una delle aree più densamente popolate al mondo.

Alla fine degli anni ’40 Gaza era governata dall’esercito egiziano, con un breve periodo di autogoverno ampiamente simbolico, prima di essere occupata da Israele dopo la guerra arabo-israeliana del 1967.

Come in Cisgiordania e a Gerusalemme est, Israele creò insediamenti in tutta la Striscia di Gaza contravvenendo al diritto internazionale. Fu in questo contesto che nel 1987 Hamas si impose come braccio armato della Fratellanza Musulmana nei primi giorni della prima Intifada.

Mentre nel 1993 gli Accordi di Oslo prevedevano un completo ritiro israeliano da Gaza entro un periodo di transizione di cinque anni, questa parte dell’accordo di pace – come molte altre parti – non si realizzò. Fu solo dopo la seconda Intifada, terminata nel 2005, che Israele evacuò le sue 25 colonie da Gaza: alla fine di quell’anno furono trasferiti 9.000 coloni.

Hamas vinse le elezioni legislative del 2006, ma subito dopo scoppiò il conflitto con Fatah, il partito dominante dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP). La faida di fatto lasciò Gaza sotto un’ amministrazione guidata da Hamas, separata dall’ANP guidata da Fatah nella Cisgiordania occupata.

Quando Hamas ottenne il controllo della Striscia, Israele impose un rigido assedio a Gaza, sostenuto anche dall’Egitto sul confine meridionale dell’enclave.

Israele non ha più una presenza militare permanente a Gaza, ma continua ad esercitare il controllo. L’accesso all’elettricità si aggira tra le 3 e le 12 ore al giorno. Le riduzioni di combustibile mettono a rischio il funzionamento di vitali infrastrutture sanitarie. L’acqua pulita è diventata una merce rara. Oltre un milione di persone vive con 3,50 dollari, o meno, al giorno. Il mare, un tempo vitale fonte di reddito per gli abitanti di Gaza, è sottoposto a restrizioni dei diritti di navigazione e pesca che cambiano continuamente.

Dodici anni di assedio, unitamente a tre guerre, innumerevoli scoppi di violenze e la repressione di un movimento di protesta di massa dal 2018 hanno portato le Nazioni Unite a denunciare ripetutamente che Gaza è di fatto diventata “invivibile”.

L’unità dei palestinesi è andata in pezzi

A partire dalle elezioni palestinesi del 2006 Gaza è stata intrappolata tra due conflitti probabilmente irrisolvibili: quello tra palestinesi ed israeliani e quello fra gli stessi palestinesi.

L’ANP vuole consolidare il proprio potere nei territori occupati, ma Hamas teme di venire emarginata sotto un governo unificato. Vi è disaccordo tra Fatah e Hamas anche sull’atteggiamento da adottare verso Israele, soprattutto riguardo al futuro del braccio militare di Hamas.

La rottura politica che dura ormai da 13 anni ha anche impedito qualunque attività diplomatica credibile tra Israele e Palestina. Come potrebbe realizzarsi un’efficace discussione sullo Stato palestinese quando la stessa dirigenza palestinese è aspramente divisa?

Innumerevoli tentativi di riconciliazione – promossi da Egitto, Arabia Saudita, Qatar e Siria – sono falliti. Ma il fallimento di questi colloqui non è dovuto soltanto ad irreconciliabili differenze tra i due partiti palestinesi. Israele ha molto da guadagnare dal continuo dissidio tra palestinesi e spesso ha fatto pressioni militari e finanziarie quando un riavvicinamento tra le parti palestinesi sembrava alla portata.

Nel 2011 il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha reagito ad un accordo di unificazione, firmato dal Presidente dell’ANP Mahmoud Abbas e dall’allora capo dell’ufficio politico di Hamas Khaled Meshaal, definendolo “un colpo mortale alla pace e un grande regalo al terrorismo.” Israele ha quindi sospeso il trasferimento di 80 milioni di dollari di tasse che esso raccoglie per conto dell’ANP.

Il 2 giugno 2014 Abbas promise un governo tecnocratico di unità palestinese guidato dal Primo Ministro Rami Abdallah. Dieci giorni dopo tre adolescenti israeliani furono rapiti in Cisgiordania. Le forze israeliane lanciarono una feroce caccia all’uomo, accusando Hamas del rapimento: i loro corpi furono trovati due settimane dopo.

Alla fine di luglio la polizia israeliana disse che il rapimento e le uccisioni erano opera di una “cellula isolata” – ma a quel punto Israele e Hamas da tre settimane erano coinvolti in una devastante guerra a Gaza, che causò la morte di oltre 2.000 palestinesi e 70 israeliani.

Alcuni osservatori ritengono che la ricerca dei ragazzi e il conseguente attacco ad Hamas fossero meri pretesti per vanificare gli sforzi di unificazione palestinese e, di conseguenza, la creazione di uno Stato palestinese.

Un futuro nel Sinai?

Non vi sono segnali di una duratura riconciliazione tra Fatah e Hamas – quindi questo dove condurrà Gaza?

Lo status particolarmente delicato dell’enclave – isolata tra i due governi ostili di Netanyahu e del Presidente egiziano Abdel Fattah el-Sisi, e alle prese con una crisi umanitaria di proporzioni catastrofiche – ha spinto molti mediatori a cercare di affrontare le sue questioni separatamente da più ampie discussioni sull’autodeterminazione palestinese.

Nel 2015 l’ex Primo Ministro britannico Tony Blair incontrò in diverse occasioni Meshaal – la prima volta in cui Hamas fu il principale rappresentante palestinese in sede di colloqui.

Pare che Blair abbia offerto a Hamas una completa eliminazione del blocco di Gaza, aiuti per la ricostruzione dopo la guerra del 2014 e la possibilità di un porto marittimo e di un aeroporto. In cambio Hamas avrebbe dovuto accettare un cessate il fuoco illimitato con Israele. Alla fine tuttavia Blair non riuscì ad ottenere l’appoggio israeliano ed egiziano al suo piano.

Alla fine del 2018 sono emerse informazioni secondo cui, come parte dell’“accordo del secolo”, Washington ed Israele stavano facendo pressioni sull’Egitto perché trasformasse parti della regione del Sinai settentrionale in una zona industriale e di infrastrutture per dare lavoro ai palestinesi e aiutare Gaza.

L’amministrazione Trump ha negato il piano, ma non sarebbe la prima volta che è stata suggerita questa idea.

Negli anni ’50 l’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, propose che la sovrappopolazione di Gaza potesse essere alleggerita espandendo il territorio verso sud lungo la costa tra le città egiziane di al-Arish e Port Said – un piano che all’epoca fu categoricamente respinto dai rifugiati palestinesi.

Il giornalista e ricercatore palestinese Adnan Abu Amer ha detto a Middle East Eye che vent’anni dopo, facendo seguito alla guerra arabo-israeliana del 1973, Israele tentò di convincere il Presidente egiziano Anwar al-Sadat ad annettere totalmente Gaza all’Egitto.

Per quanto storico, l’ approccio a Gaza come questione a parte durante colloqui non è piaciuto a tutti. Per Saeb Erekat, il segretario generale dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), gli sforzi per negoziare una tregua tra Hamas e Israele proprio mentre Israele applica misure punitive contro l’ANP stavano deliberatamente “accentuando la separazione (tra palestinesi) con tutti i mezzi possibili” nel tentativo di “distruggere il progetto nazionale palestinese consistente nella creazione dello Stato palestinese indipendente e sovrano.”

I piani finanziari falliscono

Intanto l’urgente bisogno di Gaza di soccorso economico ed umanitario è stato a lungo al centro di conferenze e colloqui di pace – ma raramente messo in pratica.

Secondo Abu Amer, nel 1991 durante la conferenza di pace di Madrid furono avanzati piani per lo sviluppo economico di Gaza . Gli Accordi di Oslo del 1993 auspicarono una cooperazione su petrolio e gas tra israeliani e palestinesi per sostenere l’industria di Gaza. Abu Amer ha detto a MEE che i progetti per un’azienda petrolifera a Gaza furono visti come un elemento centrale nella costruzione del futuro economico di un previsto Stato palestinese.

Nel corso degli Accordi di Oslo furono proposti progetti per una fabbrica, un porto marittimo ed un aeroporto a Gaza: di essi, solo l’aeroporto divenne realtà. Inaugurato dall’allora Presidente USA Bill Clinton nel 1998, l’aeroporto internazionale Yasser Arafat ebbe vita breve: nel 2000 venne distrutto dalle forze israeliane durante la seconda Intifada.

Progetti per un porto marittimo sono stati regolarmente suggeriti, anche da politici israeliani. Ma finché permane l’assedio israeliano, compreso il divieto di importazione a Gaza di prodotti “a doppio uso”, come i materiali da costruzione, le iniziative economiche possono essere solo teoriche.

Mentre Israele è stato il principale responsabile nel mantenere Gaza in condizioni di crisi umanitaria, persino personaggi israeliani hanno visto il pericolo creato da un territorio palestinese sempre più impoverito e non in grado di sopravvivere.

È stato rivelato che a settembre ufficiali della sicurezza israeliana hanno fatto pressione sul loro governo perché trovasse una fonte alternativa di aiuti per Gaza. Si temeva che la decisione di Trump di interrompere i finanziamenti all’UNRWA potesse peggiorare la situazione umanitaria dell’enclave, che poteva degenerare in una vera e propria guerra.

Intanto in Israele i politici di estrema destra, che negli ultimi anni hanno accresciuto la propria influenza nel panorama israeliano, hanno auspicato un “duro e sproporzionato” intervento militare contro Hamas.

In condizioni giudicate invivibili dalle organizzazioni internazionali e con uno stallo nei colloqui tra ANP e Israele, il futuro di Gaza e dei suoi due milioni di abitanti appare fosco.

Motasem Dalloul ha inviato corrispondenze dalla Striscia di Gaza.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Proseguono gli scioperi della fame dei prigionieri

Alessandra Mincone

20 giugno 2019, Nena News

Dalla prigione di Ashqelon a quella di Damon i detenuti palestinesi, uomini e donne, portano avanti questa forma di protesta che riesce a frenare abusi e restrizioni attuate dalle autorità carcerarie israeliane

Dopo sabato 15 giugno, quando le celle della prigione centrale di Ashqelon, “Shikma”, sono state prese d’assalto dalle guardie carcerarie, più di quaranta detenuti hanno minacciato uno sciopero della fame ottenendo che numerose rivendicazioni venissero poste all’attenzione delle autorità israeliane. Tra queste, si chiede di mettere fine alle aggressioni da parte delle guardie; l’accesso all’acqua calda; il recupero di beni fondamentali per i prigionieri come cibo, indumenti, carta, penne e libri; il diritto a ricevere visite di legali e familiari; la possibilità di usufruire di cabine telefoniche, di poter godere di tempi e spazi d’aria adeguati alla luce del sole e di eliminare i ripetitori delle frequenze per i telefoni cellulari (usati dalle guardie) dannosi per la salute. Inoltre di mettere fine alla pratica dei trasferimenti eseguite in veicoli militari chiamati “bosta”, una sorta di “bara” in cui i prigionieri viaggiano piegati in strette gabbie di metallo e incatenati  braccia e gambe, persino quelli in precarie condizioni di salute, per tragitti che durano anche tre giorni.

La Società Palestinese dei Detenuti ha riscontrato un primo esito positivo dalla discussione con l’amministrazione carceraria, tanto da affermare che con lo sciopero ad Ashqelon è stato ottenuto un trattamento sanitario per quattro prigionieri gravemente malati e, inoltre, si consentirà il ritorno di un altro prigioniero a Shikma entro il 1 luglio.

Lo scorso aprile, circa 400 prigionieri avevano aderito ad uno sciopero della fame a tempo indeterminato al grido della parola “dignità”. Una protesta che nonostante abbia fallito nella trattativa con le istituzioni carcerarie, è comunque riuscita ad allargarsi ai centri di detenzione di massima sicurezza di Gilboa, Megiddo, Eshel, Ofer, Nafha e Ramon; questi ultimi due edifici formano un’unica prigione che si trova nell’area desertica a sud-est della Palestina. Nafha, denunciato come uno dei carceri più duri e severi attivo dagli anni ottanta, fu progettato per imprigionare i leader delle proteste palestinesi al fine di isolarli. I palestinesi affermano che vi vengono praticate “forme di tortura” con le quali i reclusi sono gradualmente “spinti verso la morte”. Mentre il complesso di Ramon, edificio più recente, proprio lo scorso 17 giugno è stato teatro di tensioni a causa di agguati e saccheggi da parte delle guardie penitenziarie.

Nelle prigioni israeliane la pratica dello sciopero della fame rappresenta storicamente un modello di lotta con cui i palestinesi hanno provato a contrastare l’abuso di potere esercitato quotidianamente dalle guardie. È l’esempio della prigione di Ramleh, dove nel 1953 furono imprigionati i primi palestinesi, e nel 1968 si assisté ai due primi scioperi della fame a causa degli abusi fisici, dell’esposizione costante alla pioggia e per ottenere quaderni, penne e libri nelle celle. Riguardo invece la prigione Shikma di Ashqelon, essa è conosciuta come una delle più dure sin dagli anni Settanta. Se inizialmente una parte dell’edificio di Ashqelon fu strutturato solo come centro per gli interrogatori ai detenuti (tutt’ora in vigore), in seguito fu furono costruite aree murate per imprigionare chi si opponeva all’occupazione israeliana delle terre palestinesi.

Proprio ad Ashqelon alcune indagini portate avanti da gruppi israeliani per i diritti umani – quali B’Tselem e HaMoked – dimostrano che le dinamiche di umiliazione così come i trattamenti degradanti hanno inizio proprio dalla fase dell’interrogatorio dei prigionieri: deprivazione del sonno e dei servizi igienici, isolamento ed esposizione a temperature estreme, minacce, violenze di vario genere, negazione a consultare degli assistenti legali. Tecniche che secondo Noga Kadman di B’Tslem sono orchestrate dall’intelligence israeliana, dagli uffici delle Procure e dall’intero apparato statale, con il beneplacito consenso addirittura dell’Autorità Nazionale Palestinese, al fine di estorcere delle dichiarazioni dall’interrogato completamente manovrate e distorte. Le due organizzazioni hanno congiuntamente scritto che: “hanno tutti contribuito a diversi aspetti di trattamenti abusivi, crudeli, disumani e degradanti subiti dai detenuti palestinesi a Shikma e in altri centri di detenzione”.

L’associazione per i diritti umani e il supporto ai prigionieri palestinesi, mostra sul proprio sito alcuni dati aggiornati fino a Maggio 2019. Sono 5350 i prigionieri politici nelle carceri israeliane, di cui 480 in “detenzione amministrativa” – ossia, reclusi senza processo e quindi formalmente senza aver commesso alcun reato e senza il diritto all’assistenza legale; mentre 210 sono i minori, di cui 26 al di sotto dei 16 anni.

Dal 1967 le forze israeliane hanno arrestato più di 50.000 bambini e giovanissimi. Dallo scoppio della Seconda Intifada, nell’anno 2000, sono stati imprigionati circa 16.500 bambini con un aumento vertiginoso degli arresti nel 2011. Le accuse di provocazione per il lancio di pietre contro i militari e i più recenti aquiloni incendiari (da Gaza verso il territorio meridionale israeliano), hanno prodotto pesanti abusi delle autorità israeliane contro i diritti di ragazzi e giovani a cui viene negata la libertà e possibilità a livello scolastico e sanitario.

Dal malcontento dei prigionieri e delle prigioniere, sottolinea la Rete di Solidarietà dei detenuti politici palestinesi Samidoun, si può sperare nel successo delle lotte avviate. In un comunicato dove si congratula per le proteste di Ashqelon, la Rete coglie l’occasione per lanciare un appello delle prigioniere palestinesi in vista del prossimo sciopero della fame collettivo, proclamato per il 1 luglio nel carcere di Damon. Nena News

“Canterò nella cella della mia prigione

nella stalla

sotto la sferza

tra i ceppi

nello spasimo delle catene.

Ho dentro di me milioni di usignoli

per cantare la mia canzone di lotta.”

Mahmoud Darwish




Rapporto OCHA del periodo 4 – 17 giugno 2019 ( due settimane)

Venerdì 14 giugno, nel corso di una protesta della “Grande Marcia di Ritorno” (GMR), sono stati feriti 238 palestinesi; 70 di essi sono stati ricoverati in ospedale.

Secondo i rapporti israeliani, sia durante manifestazione relative alla “GMR”, sia in altri giorni compresi nel periodo di riferimento [4-17 giugno], in diverse località nel sud di Israele sono scoppiati incendi innescati da palloncini incendiari lanciati da palestinesi.

Tra il 13 ed il 14 giugno si sono registrati lanci di razzi da parte di fazioni armate palestinesi e attacchi aerei da parte dell’aviazione israeliana. Secondo i media, un razzo ha colpito un edificio nella città di Sderot, nel sud di Israele. Non sono stati segnalati feriti.

Nella Striscia di Gaza, in aree adiacenti alla recinzione perimetrale e al largo della costa, allo scopo di far rispettare le restrizioni di accesso, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento in almeno 16 occasioni, ferendo sei palestinesi. Nella zona di Rafah, le forze israeliane hanno anche effettuato un’incursione [all’interno della Striscia] e un’operazione di spianatura del terreno vicino alla recinzione perimetrale; non sono stati segnalati feriti.

In Cisgiordania, in scontri con le forze israeliane, quindici palestinesi hanno subìto lesioni da inalazione di gas lacrimogeno, proiettili di gomma e armi da fuoco. Dieci [dei 15] sono rimasti feriti durante scontri scoppiati in tre operazioni di ricerca-arresto, effettuate nel Campo profughi di Al Jalazoun (Ramallah), nella città di Ramallah e nel villaggio di Bani Na’im (Hebron). Complessivamente, nei villaggi e nelle città della Cisgiordania, le forze israeliane hanno effettuato 119 operazioni di ricerca-arresto, di cui 29 a Hebron e 24 a Gerusalemme. Altri tre feriti [dei 15] si sono avuti venerdì 14 giugno, durante la manifestazione settimanale tenuta nel villaggio di Kafr Qaddum (Qaqiliya), contro l’espansione degli insediamenti e la violenza dei coloni.

Durante il periodo di riferimento, 43 strutture di proprietà palestinese sono state demolite o confiscate a causa della mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele; sono state sfollate 54 persone e coinvolte molte altre. Del totale delle strutture colpite, 32 sono state registrate in 11 Comunità dell’Area C; tra queste è compresa la Comunità di pastori di Khirbet ar Ras al Ahmar (Tubas), dove, il 12 giugno, sono state demolite 11 strutture. Questa Comunità è penalizzata perché collocata all’interno dei confini di un’area designata da Israele “zona militare chiusa”. In un’altra “zona militare chiusa” nel sud di Hebron, le forze israeliane hanno demolito quattro abitazioni nelle Comunità di Halaweh e Khallet Athab’a. Inoltre, nel villaggio di Tammun (Tubas) sono state demolite due cisterne per l’acqua, in quanto erano ubicate all’interno di una “riserva naturale”: risulta così colpito l’accesso all’acqua per i circa 13.600 abitanti del villaggio. Nello stesso villaggio e per motivi simili [ubicazione entro “riserva naturale”], le forze israeliane hanno abbattuto 390 alberi. Una delle cisterne era di uso pubblico ed era stata fornita, insieme a 150 alberi, dall’Autorità palestinese. Le restanti 11 strutture [delle 43] sono state demolite a Gerusalemme Est, di cui 2 in Kafr ‘Aqab e 4 in Bir Onah; si tratta di due Comunità situate all’interno di aree municipali di Gerusalemme, sul lato cisgiordano della Barriera.

Sono stati registrati dodici episodi, perpetrati da coloni israeliani, che hanno provocato danni a centinaia di ulivi e ad altre proprietà palestinesi. In uno di questi episodi, avvenuto il 5 giugno, coloni, probabilmente provenienti dall’avamposto di Adei Ad, hanno appiccato il fuoco a circa 30 ettari di terra appartenenti ai contadini del villaggio di Jalud (Nablus), danneggiando 900 ulivi. La Comunità locale ha riferito che, nello stesso giorno, coloni hanno bruciato altri 233 ulivi e alberelli, oltre ad alcuni ettari coltivati a grano ed appartenenti al villaggio di Al Mughayyir (Ramallah). In tre separati episodi [dei 12], nel villaggio di Ein Samiya (Ramallah), coloni hanno anche bruciato circa 0,4 ettari di coltivazioni di grano e orzo ed hanno spianato 1,5 ettari di terra appartenente ai villaggi di Yanun e Madama (entrambi a Nablus). Dall’inizio dell’anno, sono state danneggiate da coloni circa 4.000 piante di proprietà palestinese. I rimanenti episodi [dei 12] includono la vandalizzazione di sei veicoli, una scritta minatoria sui muri di una moschea nel villaggio di Kafr Malik (Ramallah) e la distruzione di una serra appartenente a un contadino di Wadi Fukin (Betlemme). Nell’area a controllo israeliano (H2) della città di Hebron, secondo testimoni oculari, coloni hanno danneggiato il muro di una casa di nuova costruzione e avviato attività di ristrutturazione in un negozio abbandonato di proprietà palestinese.

Secondo fonti israeliane, in Cisgiordania, in quattro occasioni, palestinesi hanno lanciato pietre contro veicoli israeliani vicino a Gerusalemme, Betlemme e Ramallah, causando danni a quattro veicoli.

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Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Il 18 giugno, le autorità israeliane hanno esteso a dieci miglia nautiche la zona di pesca consentita lungo la costa di Gaza. Il blocco navale totale era stato imposto il 13 giugno, secondo quanto riferito, in risposta al lancio di palloncini incendiari dalla Striscia di Gaza verso il sud di Israele.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it

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Il piano di Trump per cancellare le ragioni dei palestinesi gode di sostegno bipartisan nel Congresso

Jonathan Cook

14 giugno 2019 – Middle East Eye

Gli Stati Uniti cercano di orchestrare una situazione favorevole nella regione prima di cominciare ad attuare l’“accordo del secolo’

Il prolungato bullismo finanziario della Casa Bianca nei confronti dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), possibile futuro governo palestinese, è arrivato al punto che sono ora credibili le avvisaglie circa un suo prossimo collasso. La crisi ha fornito agli oppositori un’ulteriore prova dell’approccio apparentemente caotico e spesso autolesionista dell’amministrazione Trump nei confronti delle questioni di politica estera.

Nel frattempo, i funzionari statunitensi incaricati di risolvere il conflitto israelo-palestinese manifestano in modo ancora più palese la loro parzialità, come nel caso delle recenti affermazioni di David Friedman, ambasciatore in Israele, secondo cui Israele è “dalla parte di Dio” e dovrebbe avere il “diritto di annettere” gran parte della Cisgiordania.

E ancora, i critici vedono l’approccio dell’amministrazione Trump come un pericoloso allontanamento dal tradizionale ruolo statunitense di “mediatore imparziale”.

Tali analisi, per quanto diffuse, sono profondamente fuorvianti. Lungi dal non avere una strategia, la Casa Bianca ne ha una chiara e precisa per imporre una soluzione al conflitto israelo-palestinese – il cosiddetto “accordo del secolo” del presidente Donald Trump. Anche senza aver finora reso pubblico alcun documento formale, i contorni del piano si stanno delineando sempre più chiaramente, e si può già cominciare a vederne la realizzazione sul campo.

Il continuo ritardo nell’annunciare il piano è semplicemente un’indicazione del fatto che la squadra di Trump ha bisogno di più tempo per costruire un contesto politico adatto affinché il piano venga alla luce.

Inoltre, la visione dell’amministrazione Trump sul futuro di israeliani e palestinesi – per quanto estremista ed unilaterale – ha un ampio sostegno bipartisan a Washington. Non c’è nulla di particolarmente “trumpiano” nel “processo di pace” prodotto dall’amministrazione.

Bloccare gli aiuti

Paradossalmente, ciò è apparso chiaro la scorsa settimana, quando i membri del Congresso degli Stati Uniti da entrambi i lati dell’aula hanno presentato una proposta di legge per aiutare l’economia palestinese in difficoltà con 50 milioni di dollari. La speranza è quella di creare un “Fondo di Partnership per la Pace” che offra un appiglio finanziario a israeliani e palestinesi in cerca di una risoluzione al conflitto – o, almeno, questo è quanto viene affermato.

Questa improvvisa preoccupazione per la salute dell’economia palestinese è un’inversione di tendenza spettacolare e poco chiara. Da più di un anno il Congresso è stato partner attivo ed entusiasta della Casa Bianca nel togliere gli aiuti all’Autorità Nazionale Palestinese.

La settimana scorsa Mohammad Shtayyeh, primo ministro palestinese, ha dichiarato al New York Times che l’Autorità Nazionale Palestinese sta per implodere. “Siamo al collasso”, ha detto al giornale.

La crisi dell’ANP non è una sorpresa. Il Congresso l’ha attivamente promossa approvando nel marzo 2018 il Taylor Force Act, che prevede che gli Stati Uniti interrompano i finanziamenti all’Autorità Nazionale Palestinese fino a quando l’ANP pagherà un sussidio a circa 35.000 famiglie di palestinesi incarcerati, uccisi o mutilati da Israele.

Sull’orlo del collasso

Le precedenti amministrazioni statunitensi avrebbero potuto firmare una deroga per impedire che tale legge entrasse in vigore – proprio come hanno fatto tutti i presidenti fino a quando Trump non ha bloccato una legge del Congresso, approvata nel 1995, proponendo che gli Stati Uniti trasferissero la propria ambasciata a Gerusalemme.

Ma la Casa Bianca di Trump non è interessata a salvarsi la faccia dal punto di vista diplomatico o a tenere a freno il fanatismo filo-israeliano dei parlamentari statunitensi. Condivide con fervore ed esplicitamente la parzialità da tempo intrinseca nel sistema politico statunitense.

In linea con il Taylor Force Act, la Casa Bianca ha tagliato fondi vitali per i palestinesi, tra cui quelli all’UNRWA, l’agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite per i palestinesi e agli ospedali nella Gerusalemme est occupata da Israele.

La decisione del Congresso di soffocare l’ANP ha avuto ulteriori ripercussioni, smascherando il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu in patria. Non osando essere considerato meno anti-ANP dei parlamentari statunitensi, all’inizio di quest’anno Netanyahu ha messo in pratica la sua versione del Taylor Force Act.

Da febbraio ha trattenuto una percentuale delle tasse che Israele raccoglie per conto dell’Autorità Nazionale Palestinese, la maggior parte delle sue entrate, pari ai sussidi trasferiti alle famiglie palestinesi di prigionieri e alle vittime della violenza israeliana – o a quelli che Israele e gli Stati Uniti chiamano semplicemente “terroristi”.

Questo, a sua volta, ha messo il presidente palestinese Mahmoud Abbas in una situazione impossibile. Non può accettare un diktat israeliano che legittimi la ritenuta di Israele del denaro palestinese, né che definisca “terroristi” coloro che hanno sacrificato la vita per la causa palestinese. Quindi ha rifiutato l’intero trasferimento fiscale mensile fino al ripristino dell’intero importo.

E ora, proprio mentre tutti questi colpi contro l’ANP stanno finalmente per rovesciarla, il Congresso USA si prepara improvvisamente ad intervenire e salvare l’economia palestinese con 50 milioni di dollari. Cosa diavolo sta succedendo?

‘Soldi in cambio di tranquillità’

Le clausole scritte in piccolo sono rivelatrici. L’ANP, il nascente governo palestinese, non ha diritto a nessuna delle generose promesse del Congresso degli Stati Uniti.

Se passa la legge, i soldi saranno consegnati a “imprenditori e società palestinesi” e ad organizzazioni non governative disposti a lavorare con Stati Uniti e Israele su programmi di “costruzione della pace tra i popoli” e di “riconciliazione tra israeliani e palestinesi”.

In altre parole, la legge è in realtà concepita come un altro attacco contro l’attuale leadership palestinese. L’ANP è stata scavalcata ancora una volta, mentre gli Stati Uniti e Israele cercano di rafforzare una leadership alternativa, più economica che politica.

Questa mossa da parte dei rappresentanti degli Stati Uniti non capita nel vuoto. Dopo l’effettivo collasso degli accordi di Oslo, quasi due decenni fa, Washington ha cercato di ridurre un conflitto nazionale che ha bisogno di una soluzione politica a crisi umanitaria che ha bisogno di una soluzione economica.

È una variante del vecchio obiettivo di Netanyahu, distruggere la lotta nazionale palestinese e sostituirla con la cosiddetta “pace economica”.

Se un tempo l’obiettivo del processo di pace era “terra in cambio di pace” – cioè uno Stato palestinese in cambio della fine delle ostilità – ora lo scopo è “denaro in cambio di tranquillità”. Gli Stati Uniti stanno ora formalmente sostenendo gli sforzi di Israele per la pacificazione economica.

L’indignazione per le nuove elezioni

L’amministrazione Trump ha escogitato un processo in due fasi per neutralizzare i palestinesi.

In primo luogo, il genero di Trump, Jared Kushner, è stato incaricato di puntare sugli Stati arabi, in particolare quelli del Golfo ricchi di petrolio, per accumulare denaro al fine di pacificare i palestinesi e i loro vicini.

Questo è l’obiettivo della conferenza sugli investimenti che si terrà nel Bahrain alla fine di questo mese, perno dell’ “accordo del secolo” e non solo suo preludio.

Ecco perché lo stesso Trump era visibilmente indignato per il ritardo causato dalla decisione di Netanyahu di sciogliere il parlamento israeliano il mese scorso, un riflesso della sua debolezza politica nell’affrontare i prossimi processi per corruzione. Le nuove elezioni in Israele, brontolava Trump, sono “ridicole” e “incasinate”.

L’intento della conferenza del Bahrain è di disporre delle decine di miliardi di dollari raccolti da Washington per comprare l’appoggio all’accordo di Trump, principalmente da parte di Egitto e Giordania, fondamentali per il successo del programma di pacificazione.

Qualsiasi rifiuto ad arrendersi da parte dei palestinesi, a Gaza o in Cisgiordania, potrebbe avere gravi ripercussioni su questi stati confinanti.

Alla ricerca di leader alternativi

In secondo luogo, c’è Friedman al centro degli sforzi per identificare i destinatari delle mazzette finanziate dal Golfo. Ha cercato di creare una nuova alleanza tra i coloni, ai quali è strettamente allineato, e i palestinesi che potrebbero essere disposti a cooperare nel progetto di pacificazione. Alla fine dello scorso anno, ha partecipato a un incontro di imprenditori palestinesi e israeliani nella città di Ariel, in Cisgiordania.

Dopo di che ha twittato che la comunità imprenditoriale era “pronta, disponibile e in grado di far progredire la comune opportunità e la coesistenza pacifica. La gente vuole la pace e noi siamo pronti a dare una mano! La leadership palestinese sta ascoltando? “

Friedman non ha fatto mistero su dove si trovino le sue – e presumibilmente di Dio – priorità, mettendo tutto il suo peso in appoggio alla richiesta sempre più pressante di Israele di annettere gran parte del territorio che una volta era considerato parte integrante nella creazione di uno Stato palestinese. Con questo fiore all’occhiello dell’amministrazione, il compito è ora trovare una leadership palestinese disposta a mettersi in stand by mentre vengono approntati gli ultimi ritocchi a una Grande Israele voluta da Dio.

Le preoccupazioni di Washington sulla riluttanza dell’ANP ad adeguarsi sono state espresse la settimana scorsa da Kushner, anche se le ha presentate come dubbi sulla capacità dei palestinesi ad autogovernarsi. Ha detto dell’ANP: “La speranza è che, col tempo, diventeranno capaci di governare”. Ha aggiunto che la vera prova del piano dell’amministrazione sarebbe che le aree palestinesi diventino “appetibili per gli investimenti”.

“Quando parlo con i palestinesi, quello che dicono è che vogliono opportunità di vivere una vita migliore. Vogliono essere in grado di pagare il mutuo “, ha detto.

Washington sta quindi considerando se le famiglie influenti in Cisgiordania potrebbero eventualmente essere reclutate con tangenti per servire da leadership alternativa e consenziente. A febbraio è stata data la notizia che circa 200 tra uomini d’affari, sindaci israeliani e capi delle comunità palestinesi si sono incontrati a Gerusalemme “per promuovere partnership commerciali tra imprenditori israeliani e palestinesi”.

Feudi tribali corrotti

È naturale che l’amministrazione Trump guardi a un élite imprenditoriale – che, si spera, sarebbe disposta a rinunciare all’opzione nazionale se la situazione economica fosse liberalizzata tanto da consentire nuove opportunità di investimento a livello regionale e globale.

Questi individui appartengono alle grandi famiglie che dominano le principali città della Cisgiordania. Queste potenti famiglie possono essere disposte a collaborare all’eliminazione dell’ANP in cambio di un sistema di clientelismo corrotto che consenta loro di assumere il controllo delle rispettive città.

Alcuni analisti palestinesi, tra cui Samir Awad, professore di politica alla Bir Zeit University vicino a Ramallah, mi hanno detto che la visione israeliana e statunitense di “autonomia” palestinese potrebbe essere più o meno un sistema di feudi tribali simile all’Afghanistan.

Stanno già comparendo alcuni “partner” palestinesi, come l’uomo d’affari di Hebron Ashraf Jabari, che si dice stia pensando di partecipare alla conferenza del Bahrain.

Lui e altri dirigenti d’azienda hanno tranquillamente stabilito legami con controparti nel movimento dei coloni, come Avi Zimmerman. Insieme, hanno creato una camera di commercio comune che opera in Cisgiordania.

Sono proprio queste le iniziative promosse da Friedman e che potrebbero beneficiare delle sovvenzioni del fondo da 50 milioni di dollari che il Congresso americano sta attualmente deliberando.

Alla fine, questi palestinesi “partner” in affari potrebbero formare un élite che visibilmente funga da referente nazionale per la comunità internazionale nei rapporti con il popolo palestinese.

La spada di Damocle sulla testa dell’ANP

Non è necessario togliere di mezzo l’ANP per far progredire il piano di Trump. Ma Washington deve coltivare leadership alternative, nazionali e locali, che servano sia da spada di Damocle sulla testa dell’Autorità Nazionale Palestinese per spingerla a capitolare, sia da classe dirigente alternativa, se l’ANP non dovesse sottomettersi all’“accordo del secolo”.

In breve, Washington sta giocando con Abbas e l’ANP al gioco del coniglio, a chi frena prima davanti al dirupo. È chiaro che i palestinesi cederanno per primi.

Profondamente coinvolti nel progetto di Washington, anche se per lo più invisibili, ci sono gli Stati arabi, il cui ruolo è quello di rafforzare una qualsiasi leadership palestinese necessaria all’attuazione dell’ “accordo del secolo” della Grande Israele.

Il fardello della gestione del conflitto israelo-palestinese cambierà ancora una volta. Quando Israele occupò i territori palestinesi nel 1967, divenne direttamente responsabile per il benessere dei palestinesi che ci vivevano.

Dalla metà degli anni ’90, quando in base gli accordi di Oslo è stata autorizzata la formazione di una leadership palestinese, l’Autorità Nazionale Palestinese ha dovuto assumersi il compito di mantenere tranquilli i territori per conto di Israele. Ora, dopo che l’ANP si è rifiutata di accettare le pretese di Israele di prendersi Gerusalemme Est e gran parte della Cisgiordania, l’ANP è vista sempre più come sopravvissuta al suo scopo.

Piuttosto, le aspettative palestinesi dovrebbero poter essere gestite in altro modo, tramite i principali Stati arabi: l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, l’Egitto e la Giordania. O, come ha recentemente osservato l’analista palestinese Hani al-Masri, la conferenza del Bahrain “prefigura l’inizio dell’abbandono dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina come rappresentante palestinese, aprendo così la porta … all’affermarsi di una nuova era di clientelismo arabo nei confronti dei palestinesi.”

Anni di supremazia imperialista

Sotto Trump, ciò che è davvero cambiato nell’approccio statunitense al conflitto israelo-palestinese è l’urgenza degli sforzi di Washington di mettere da parte una volta per tutte la lotta nazionale palestinese.

Dalla guerra dei Sei Giorni nel 1967, le amministrazioni degli Stati Uniti – con la possibile eccezione di quella di Jimmy Carter – avevano poco interesse a costringere israeliani e palestinesi a trovare un accordo. Al di là delle espressioni generiche in sostegno della pace, erano per lo più contenti di lasciare le due parti impegnate in una lotta asimmetrica che favorisse sempre Israele. La cosa veniva spacciata come “gestione del conflitto”.

Ma dopo 15 anni di supremazia imperialista degli USA in Medio Oriente – e di fronte ai gravi fallimenti della sua politica estera in Iraq e Siria e al relativo insuccesso di Israele in Libano – Washington ha disperatamente bisogno di consolidare la sua posizione contro rivali anche potenziali in questa regione ricca di petrolio .

Russia, Cina, Turchia, Iran e persino l’Europa stanno sgomitando in diversi modi per conquistare un ruolo più decisivo in Medio Oriente. Cercando di contrastare questi poteri, gli Stati Uniti vogliono mettere insieme i principali alleati nella regione: Israele e gli Stati arabi più importanti, guidati dall’Arabia Saudita.

Sebbene da un po’ si stiano stringendo legami segreti tra le due parti, molte tensioni rimangono irrisolte rispetto alla richiesta di Israele di mantenere la propria superiorità militare e di intelligence nella regione. Questo è evidente nelle lotte di potere che si stanno svolgendo a Washington.

Il mese scorso l’amministrazione Trump ha introdotto misure straordinarie per bypassare il Congresso e poter vendere più di 8 miliardi di dollari di armamenti ad Arabia Saudita, Emirati Arabi e Giordania. Per rappresaglia, i leader del Congresso vicini a Israele hanno deciso di bloccare le vendite di armi.

Spina in gola nella regione

Secondo la Casa Bianca, si possono fare pochi progressi fino a quando non verrà rimossa la spina palestinese piantata profondamente nella gola del Medio Oriente.

La maggior parte dei leader arabi non si preoccupa affatto della causa palestinese ed è molto infastidita dal modo in cui l’eterna lotta dei palestinesi per ottenere uno Stato ha complicato i loro rapporti nella regione, specialmente con Iran e Israele.

Abbraccerebbero con entusiasmo una piena partnership con gli Stati Uniti e Israele nella zona, se solo potessero permettersi di farlo apertamente.

Ma la lotta dei palestinesi contro Israele – e il suo forte simbolismo in una regione che ha subito tante malefiche interferenze occidentali – continua a frenare gli sforzi di Washington a stringere alleanze più strette ed esplicite con gli Stati arabi.

Un grave caso di arroganza

Di per sé, l’amministrazione Trump ha concluso che “la gestione del conflitto” non è più un interesse degli Stati Uniti. Vuole isolare ed eliminare la spina palestinese. Una volta che l’impedimento sia tolto di mezzo, la Casa Bianca ritiene di poter andare avanti a creare una coalizione con Israele e la maggior parte degli Stati arabi per riaffermare il proprio dominio sul Medio Oriente.

Tutto ciò sarà molto più difficile da realizzare di quanto immagini l’amministrazione Trump, come suggeriva la settimana scorsa in privato Mike Pompeo.

Ma sarebbe comunque sbagliato presumere che la strategia dietro l’ “accordo del secolo” di Trump, per quanto irrealistica, non sia lungimirante sia negli scopi che nel metodo.

Sarebbe ugualmente fuorviante credere che la politica dell’amministrazione sia anticonformista. Sta operando entro i limiti ideologici dell’élite della politica estera di Washington, anche se il “piano di pace” di Trump si trova ai margini estremi del consenso della classe dirigente.

L’amministrazione Trump gode di un sostegno bipartisan nel Congresso sia riguardo allo spostamento dell’ambasciata a Gerusalemme che alle misure economiche che minacciano di schiacciare l’ANP, governo in divenire – che ha già fatto enormi compromessi accettando di amministrare solo una piccola parte della storica patria del suo popolo.

Non c’è dubbio che la Casa Bianca di Trump sia affetta da un grave caso di arroganza nel suo tentativo di eliminare definitivamente la causa palestinese. Ma dovremmo ricordare che quella arroganza, per quanto pericolosa, è condivisa da gran parte dell’establishment politico statunitense.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Jonathan Cook

Jonathan Cook, giornalista britannico stabilitosi a Nazareth dal 2001, è autore di tre libri sul conflitto israelo-palestinese. Ha vinto in passato il Martha Gellhorn Special Prize for Journalism.