Gerusalemme: la Disneyland d’Israele

Francesca Merz

22 ottobre 2019, Nena News

Il primo di due articoli di Francesca Merz sulle trasformazioni in corso nella Città Santa: parte del progetto di turistizzazione e mercificazione messo in piedi dal governo israeliano è una funivia che attraverserà, ignorandoli e stravolgendoli, i quartieri palestinesi. Con uno fine chiaramente politico.

Ci sono argomenti di dibattito internazionale che non trovano nemmeno una riga scritta in italiano, da nessuna parte, uno di questi riguarda il futuro dello skyline di Gerusalemme. Argomento certamente di grande interesse sotto il profilo dello storico dell’arte, dell’architetto, del paesaggista, ma, soprattutto, vero e proprio grande tema politico.

Nell’ambito del grande piano per la turisticizzazione di Gerusalemme, e contestualmente della necessità di controllare i flussi in arrivo, non solo nella fase di accesso al Paese, ma soprattutto negli itinerari e nei luoghi ai quali i turisti possono accedere, di lavorare col turismo di massa, e di concretizzare al massimo le entrate derivanti da un turismo facilmente indottrinabile, sono in ponte nuovi progetti: il National Infrastructure Committee (NIC) ha approvato la richiesta del piano per la costruzione di una funivia nella Città Vecchia. Il progetto, che andrà a modificare il maniera sostanziale l’aspetto della città, avrà ripercussioni economiche, culturali e politiche per la Città Vecchia e non solo.

La ratifica del progetto è avvenuta in un modo quanto mai anomalo, promossa dal Ministro del Turismo Yariv Levin e dall’Autorità per lo Sviluppo di Gerusalemme (JDA), in una prima fase sono stati stanziati 18 milioni di shekel, destinati alla pianificazione. Con un colpo di coda atto a bypassare le commissioni per la conservazione dello stesso stato israeliano, il Ministero del Turismo ha deciso di dare la precedenza a questo progetto definendolo una “priorità nazionale”, una categoria che di solito è riservata all’avanzamento di progetti infrastrutturali e costruzioni stradali, aggirando così efficacemente i comitati destinati a elaborare tali progetti. La funivia è stata definita dal National Infrastructure Committee (NIC) come un progetto di trasporto progettato per ridurre la congestione delle strade che portano alla Città Vecchia.

Nella prima fase il percorso della funivia comprenderà tre stazioni: dal sito della Prima stazione a Monte Sion, e da lì al Kedem Center all’ingresso di Silwan. Verrà inoltre costruito un grande parcheggio per lasciare autobus e auto. Il piano a lungo termine, non attualmente approvato, comprenderà invece la costruzione di stazioni sul Monte degli Ulivi e vicino alla piscina Siloam ai margini del Wadi e nel quartiere Hilweh di Silwan.

La maggior parte dei problemi di pianificazione sembrano concentrarsi tra la stazione di Sion e il centro Kedem. Al centro del dibattito, se dibattito si può chiamare la scelta di uno Stato occupante nei confronti della popolazione palestinese che vive in questi quartieri, è che la costruzione di queste nuove stazioni comporterebbe la demolizione di alcuni piani superiori di case del quartiere di Silwan.

Il Kedem Center, così come progettato andrà a diventare l’edificio più grande della Città Vecchia, con una superficie complessiva di 15.000 metri quadrati, situato a soli 20 metri dalle mura della Città Vecchia. Il fatto che questo progetto, il cui impatto sul paesaggio storico di Gerusalemme sarà drastico e irreversibile sia stato posto nei termini della “priorità nazionale” fa chiaramente intravedere gli interessi politici ed economici che ne stanno alla base, e dovrebbe, aldilà della preoccupazione per gli abitanti delle zone interessate alle demolizioni, allertare tutta la comunità internazionale.

Molti esperti di conservazione e architetti, stanno protestando contro la “Disneyfication” del bacino storico della città, tanto che è arrivato ad occuparsi del caso anche il New York Times, nella figura di Michael Kimmelman, giornalista e principale critico d’arte del quotidiano statunitense.

Kimmelman è arrivato in Israele a metà luglio sulla scia di una petizione internazionale proprio contro il piano per la costruzione della funivia: trentacinque importanti architetti e storici dell’architettura della comunità internazionale si sono uniti ai loro colleghi e alle società di conservazione dei beni culturali in Israele per esprimere la loro veemente opposizione al progetto.

Come indica in maniera assai precisa nel suo articolo la funivia di Gerusalemme non è la soluzione di trasporto funzionale che i suoi sostenitori sostengono che sarà, ma un chiaro prodotto della realtà politica nell’Israele del 21° secolo, le ragioni che stanno alla base della “necessità nazionale”, sono come sempre politiche ed ideologiche, mascherate da necessità di sviluppo e progresso. Kimmelman ha capito che le ragioni sono soprattutto di natura politica, con lo scopo di nascondere il carattere universale della città, in modo che “curi una narrazione specificamente ebraica di Gerusalemme, promuovendo le rivendicazioni israeliane sulle parti arabe della città”.

Dal suo punto di vista, la funivia – che ignora l’esistenza del villaggio arabo di Silwan, dove verrà eretto uno dei suoi giganteschi piloni, rappresenta l’approccio generale del governo israeliano verso i palestinesi, come parte di una brutale strategia che ha lo scopo di rendere la vita difficile, impadronirsi delle proprietà dei palestinesi e infine costringerli a lasciare la città.

Un altro principio che deriva dall’articolo di Kimmelman e sul quale è necessario soffermarsi è nella stessa concezione del progresso infrastrutturale della città di Gerusalemme portato avanti dalle autorità israeliane, ovvero quello che lui stesso chiama il metodo “taglia e incolla”: le idee vengono importate in Israele in modo avventato, senza alcun riferimento ai singoli contesti locali, e in maniera specifica con la mal celata necessità di eliminare gli spazi per i cittadini, in una tensione costante verso la mercificazione e dysneyzzazione della città.

La violazione delle restrizioni sui grattacieli in tutte le parti della città, che è destinata, in parte, a trasformare l’ingresso di Gerusalemme in un enorme blocco di edifici per uffici e centri commerciali con torri di vetro a 40 piani è solo uno dei tanti esempi di pianificazione del “taglio” da Singapore o Jakarta e “incolla” a Gerusalemme. Inoltre è stata la stessa Shira Talmi Babay, pianificatore distrettuale, ad aver dichiarato a TheMarker che Singapore è il modello di pianificazione adeguato per Gerusalemme.

Dell’esperienza di Kimmelman è importante notare il fatto che l’esperto è andato anche in visita in campi profughi, e qui, uno dei più grandi esperti di urbanistica e arte internazionale, ha rilevato come in totale assenza di pianificazione si siano costituite, grazie ad un’architettura spontanea, spazi di comunità legati alla visione della cittadinanza e non orientati solo ai flussi turistici e alla mercificazione della città.

I pianificatori israeliani hanno totalmente dimenticato, come sottolinea lo stesso Kimmelman, di dover fornire non solo alloggi, ma anche “spazio comune”, al fine di evitare la sensazione di vivere in quartieri fantasma alienati, e se è vero, come è vero, che il problema è ben noto in molte città, il fatto che la repressione di spazi comunitari vada a incidere proprio sulla possibilità di riunione, manifestazione e condivisione delle comunità storiche non può non portare all’attenzione internazionale di come la pianificazione in ottica di disneyficazione della città contribuisca anche al principale scopo politico dello Stato sionista. I quartieri in difficoltà sono stati del tutto ignorati, i danni in termini sociali ed ecologici sono già incalcolabili.

Inoltre, la costruzione della funivia, avrà un ulteriore vantaggio per la narrazione, la tipologia stessa di trasporto andrà a modificare i flussi turistici e in particolare i luoghi toccati da questi flussi. E’ sentore comune e condiviso che la fruizione stessa di un complesso storico possa essere garantita al meglio entrando in una città storica attraverso le sue storiche entrate, che nel tempo, per l’appunto ne hanno caratterizzato l’evoluzione urbanistica e la fruizione, la funivia è invece destinata a “scaricare” i suoi passeggeri nel Kedem Center. L’ingresso alla Città Vecchia avverrebbe a quel punto necessariamente tramite tunnel o attraverso Dung Gate.

Va ricordato che il Kedem Center, che  diventerebbe a quel punto il luogo di accesso a tutta la città Vecchia, appartiene alla Fondazione Elad, Fondazione nazionalista ebraica. Non è difficile comprendere come la costruzione stessa della funivia si identifichi con l’acquisizione ebraica di Silwan, poiché essa sarà gestita da coloni o entità nazionaliste, e terminerà la sua corsa nel grande centro Kedem, è dunque abbastanza scontato e ragionevole supporre che pochi palestinesi useranno i servizi della funivia.

Va inoltre detto che, divenendo il Centro il principale accesso alla città Vecchia, pare allo stesso modo del tutto probabile che l’accesso alla città sarà a pagamento tramite il Kedem Center, che le guide che partiranno dal Kedem Center realizzeranno speciali visite per le carovane di turisti in arrivo con percorsi di racconto molto specifici; già ora tutti i percorsi turistici, i pannelli esplicativi in giro per la città, e il racconto della cosiddetta “Città di Davide” dimentica ad esempio di raccontare la presenza di cristiani e musulmani a Gerusalemme.

Verrà così a essere costituita una nuova rotta di trasporto turistico, con una capacità di 3.000 persone all’ora per la Città Vecchia e capace di produrre enormi profitti per i gestori che determineranno percorso e suoi contenuti. Gli organismi che trarranno vantaggio da questo progetto saranno Elad, che gestisce la città di David e il Centro Kedem, e la Western Wall Heritage Foundation, che gestisce i tunnel del Muro occidentale, inoltre sarà l’ennesima esperienza indirizzata dal nazionalismo israeliano, i visitatori non saranno più liberi di muoversi all’interno di un tessuto urbano occupato e diversificato, ma saranno “incanalati” in siti come i tunnel della città di David e del muro occidentale dove, oltre ad addebitare un vero e proprio costo d’entrata alla città, il turista sarà anche indirizzato ancor di più verso una narrazione “chiusa”, modellata secondo le opinioni nazionali e religiose, basate putativamente su reperti archeologici selezionati tra quelli trovati,  nascondendo del tutto le parti non ebraiche del passato di Gerusalemme. Nena News




Benny Gantz di Israele: un principiante della politica che cerca di spodestare Netanyahu

22 ottobre 2019 – Al Jazeera

Se neanche l’ex capo di stato maggiore riesce a formare un governo entro i prossimi 28 giorni, Israele potrebbe andare a nuove elezioni

L’ex capo di stato maggiore dell’esercito Benny Gantz ha la possibilità di porre fine al mandato del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu che ha superato ogni record, ma ha di fronte una ardua battaglia.

Non riuscendo a formare un nuovo governo, Netanyahu ha subito una grave sconfitta nel suo tentativo di rimanere primo ministro.

Ora ci si aspetta che da parte del presidente Reuven Rivlin venga data a Gantz la possibilità di tentare di formare una coalizione, ma in seguito alle elezioni del 17 settembre rimane una situazione di stallo e non è da escludere un’ulteriore votazione.

Sarebbero le terze elezioni in un anno dopo che neanche dopo il voto di aprile Netanyahu è riuscito a formare una coalizione.

La decisione di Netanyahu di informare Rivlin lunedì notte di non essere assolutamente in grado di formare un governo ha segnato la fine del suo mandato come primo ministro di Israele per più lungo tempo.

Rimarrà primo ministro finché non si sarà formato un nuovo governo, e una serie di scenari potrebbe vederlo conservare il suo incarico, anche se nelle prossime settimane dovrà far fronte alla possibilità di essere accusato di corruzione.

Una delle poche cose che sono chiare nel pantano post-elettorale in Israele è che Netanyahu, che lunedì ha festeggiato il suo settantesimo compleanno, non si arrenderà.

Ma il suo annuncio è stato un momento storico nella politica israeliana, perché dal 2009 dopo ogni elezione Netanyahu ha ricevuto il mandato presidenziale per formare il governo.

Ostacolato”

Quando ha annunciato la sua decisione con un video sulle reti sociali, Netanyahu ha cercato di attribuire la colpa a Gantz, in quanto l’ex-capo di stato maggiore ha rifiutato di negoziare sulla base delle condizioni preferite dal primo ministro.

Martedì uno degli alleati più vicini a Netanyahu, il ministro dell’Energia Yuval Steinitz [dello stesso partito di destra di Netanyahu, il Likud, ndtr.], ha affermato che il primo ministro è stato “ostacolato” nei negoziati.

Il disaccordo non impedisce i negoziati,” ha detto alla radio militare israeliana. “Al contrario, si arriva al negoziato quando si inizia in disaccordo. Pertanto, se Benny Gantz offrisse a Netanyahu di sedersi con lui faccia a faccia, sono certo che Netanyahu lo farebbe.”

Martedì mattina alcuni giornalisti della televisione pubblica israeliana si sono incontrati con Gantz fuori dalla sua casa dopo un allenamento.

Siamo sempre ottimisti, è un modo di vivere,” ha detto al volante della sua macchina, vestito con pantaloncini e maglietta.

Un importante politico della sua alleanza di centro “Blu e Bianco” ha criticato pesantemente Netanyahu. “Cosa ne ha fatto Bibi (Netanyahu) del mandato di costituire un governo? Quattro settimane di niente,” ha detto su Twitter Ofer Shelah, usando il nomignolo di Netanyahu.

Ha fatto passare tempo per continuare come primo ministro ancora per un po’ …Bibi vuole le elezioni. È ovvio.”

Lunedì sera Rivlin ha detto di aver intenzione di chiedere a Gantz di cercare di formare un governo, ma può prendersi tre giorni per sentire i partiti eletti in parlamento prima di incaricarlo ufficialmente di farlo.

Il leader di “Blu e Bianco” non ha esperienza politica, prima di sfidare il primo ministro è stato capo di stato maggiore, ma ora si ritrova sulla soglia del potere.

Tuttavia, anche se può assumere l’incarico che Netanyahu ha ricoperto per un totale di più di 13 anni, è una sfida che potrebbe assillare anche il politico più esperto.

Da Gerusalemme, Harry Fawcett di Al Jazeera ha spiegato che Israele sta affrontando un periodo turbolento.

Le sue (di Gantz) prospettive di formare un governo di minoranza o di unità con il Likud scaricando Netanyahu sembrano entrambe molto improbabili. Potrebbe anche non riuscirci. Se ciò avviene, il mandato andrà alla Knesset. Se dopo tutto ciò non si forma un governo, allora Netanyahu potrebbe rimanere in carica finché non si terranno le terze elezioni. Ma ci potrebbe essere una questione giuridica in merito al dubbio se un primo ministro possa mantenere il potere mentre è sotto processo.”

Divisione nell’unità

Probabilmente il vicolo cieco dopo le elezioni del 17 settembre richiederà ulteriori concessioni o una decisione da parte dei membri del partito di destra di Netanyahu di abbandonarlo – ed entrambe queste opzioni per il momento sono molto remote.

Sia il Likud che “Blu e Bianco” affermano di volere un governo di unità, ma sono divisi sul come. Il Likud ha cercato di negoziare in base a un compromesso stabilito da Rivlin, che prende in considerazione la possibilità che il primo ministro venga accusato di corruzione nelle prossime settimane. Potrebbe rimanere primo ministro per il momento, ma mettersi da parte in seguito per difendersi dalle accuse.

In tale scenario Gantz assumerebbe l’incarico come primo ministro pro tempore.

Blu e Bianco” ha detto che in base a un qualunque accordo di rotazione Gantz dovrebbe essere capo del governo per primo, dato che il suo partito ha vinto più seggi, avendone ottenuti 33 rispetto ai 32 del Likud.

Gantz ha anche detto che “Blu e Bianco” non può partecipare a un governo con un primo ministro che deve affrontare gravi accuse.

Netanyahu ha aggiunto un’ulteriore complicazione ai colloqui per formare una coalizione.

Si è impegnato a non abbandonare i piccoli partiti di destra e religiosi che lo appoggiano in parlamento, affermando di rappresentare tutto il blocco [di destra] nei negoziati per una coalizione.

Neanche questa condizione è accettabile per Gantz, secondo cui ciò significherebbe che “Blu e Bianco” parteciperebbe a un governo Netanyahu come membro di minoranza.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La guerra alla verità: come i troll dei social media israeliani hanno conquistato Facebook

Ramzy Baroud

20 ottobre 2019,  Middle East Monitor

Il 9 ottobre la piattaforma di social media Facebook ha cancellato la pagina del nuovo e popolare sito web del Palestinian Information Center (PIC). Questa azione, avvenuta senza nemmeno contattare gli amministratori della pagina, conferma che la guerra di Facebook alle voci pro-Palestina continua senza sosta.

PIC ha quasi 5 milioni di follower su Facebook, un gruppo diversificato e ampio di palestinesi e loro sostenitori internazionali, a dimostrazione della sua popolarità e credibilità. Per i troll di Israele sui social, PIC era semplicemente troppo efficace per lasciargli divulgare il suo messaggio. Come al solito, Facebook ha obbedito.

Questo scenario, che si ripete spesso, è ora la norma: i troll dei social pro-Israele zumano su una piattaforma di media palestinesi, lavorando nel contempo in stretta collaborazione con i gestori di Facebook, per censurare il contenuto, bloccare individui o cancellare intere pagine. Semplicemente i punti di vista palestinesi su Facebook sono indesiderati e il margine di ciò che è permesso si sta rapidamente restringendo.

Sue, un’utente di Facebook, mi ha detto che è stata contattata dalla piattaforma per il suo presunto “odio verbale/bullismo” dopo aver affermato che gli “israeliani sono psicologicamente militarizzati” e che “la minaccia percepita ad opera dei palestinesi e un vero e proprio odio verso di loro (sono) tenuti vivi dal governo (israeliano).”

Sue’ naturalmente ha ragione nel suo giudizio, un’affermazione che è stata fatta molte volte, persino dallo stesso presidente israeliano. Il 14 ottobre 2014 il Presidente Reuven Rivlin ha detto che “è venuto il momento di ammettere che quella israeliana è una società malata di una malattia che ha bisogno di una cura.” Inoltre, il fatto che il Primo Ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, abbia soffiato sul fuoco della paura, dell’odio e del razzismo per conquistarsi qualche voto alle elezioni israeliane ha fatto il giro dei giornali in tutto il mondo.

È poco chiaro dove esattamente ‘Sue’ abbia sbagliato e quale parte del suo commento costituisca “odio verbale” e “bullismo”. Ho chiesto ad altri di condividere le esperienze che avevano avuto con Facebook a causa dei loro discorsi pro-palestinesi. Le risposte che ho ricevuto indicano un disegno chiaro, cioè che Facebook non sta effettivamente prendendo di mira l’incitamento all’odio, ma le critiche alla guerra di Israele, all’assedio, al razzismo e all’apartheid. Per esempio, ‘José’ è stato censurato per aver scritto, in spagnolo, che “non c’è nulla di più vigliacco che attaccare o uccidere un bambino.”

Un esercito di dannati vigliacchi, assassini di bambini palestinesi, questa non è una guerra, questo è un genocidio,” ha commentato.

Derek’ è stato sospeso dall’uso di Facebook per 30 giorni, fatto avvenuto “molte volte” in passato con “accuse diverse.” Mi ha detto che “basta un certo numero di rapporti da parte dei troll che hanno dei gruppi segreti su chi prendere di mira.”

Lo stesso schema si è ripetuto con ‘Anissa’, ‘Debbie’, Erika’, ‘Layla’, ‘Olivia’, ‘Rich’, ‘Eddy’ e numerosissimi altri.

Ma chi sono questi “troll” e quali sono le radici del fatto che Facebook prenda costantemente di mira palestinesi e i loro sostenitori?

I troll

Secondo un documento ottenuto da Electronic Intifada, il governo israeliano ha finanziato con un enorme budget una “campagna globale di pressione” con l’unico scopo di influenzare l’opinione pubblica straniera e combattere il movimento palestinese di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS). Scrivendo su EI, Asa Winstanley ha descritto “un esercito di migliaia di troll” che è “parzialmente finanziato dal Ministero Israeliano per gli Affari Strategici”.

Per occultare il proprio coinvolgimento, il ministero ha ammesso di operare usando come facciata dei gruppi che ‘non vogliono rivelare il loro legame con lo Stato,’” ha scritto Winstanley.

Uno di questi gruppi di troll, che si stima includa 15.000 membri attivi, è Act.IL.

Sul sito web “Jacobin Magazine” [rivista on line della sinistra radicale americana, ndtr.], Michael Bueckert  ha descritto la funzione principale degli utenti dell’applicazione Act.IL:

Con le applicazioni su cellulari e la piattaforma online Act.IL, Israele mira a reclutare una folla di attivisti da tastiera e troll per unirsi alla loro guerra contro le più insidiose forme di violenza: i tweet pro-palestinesi e i post su Facebook.”

Act.IL è solo la punta dell’iceberg di un tentativo massiccio e centralizzato, guidato dal governo israeliano e che coinvolge legioni di sostenitori in tutto il mondo. Comunque, Israele non avrebbe mai raggiunto i propri obiettivi se Facebook non si fosse ufficialmente unita al governo israeliano nella sua “guerra” sui social contro i palestinesi.

Sembra che Sohaib Zahda, nel 2014, sia stato il primo palestinese a essere arrestato dall’esercito israeliano per un suo post sui social, seguendo una nuova strategia con cui si vuole dare un giro di vite a quello che Israele considera “incitamento all’odio”. Da allora la campagna di arresti si è allargata e ha incluso centinaia di palestinesi, la maggior parte giovani attivisti artisti, poeti e studenti.

Ma, secondo “Intercept”[sito di controinformazione e di denuncia, ndtr.], Israele ha cominciato a monitorare seriamente Facebook solo nel 2015.

Gli arresti di palestinesi per post su Facebook hanno aperto uno spiraglio su quale sia la situazione della sorveglianza in Israele, rivelando il lato oscuro dei social media,” ha scritto Alex Kane. “ Quella che una volta era vista come un’arma dei deboli è diventata il posto perfetto per stanare una resistenza potenziale.”

Israele ha rapidamente fabbricato una base legale per gli arresti (solo nel 2015 sono stati aperti 155 casi), dando in questo modo una copertura giuridica che è poi stata usata in accordi successivi con Facebook. Il Codice Penale israeliano del 1977, art. 144 D.2, è stato ripetutamente usato per contrastare un fenomeno sulle reti sociali che si è costituito molto più di recente, tutto in nome della repressione dell’ “incitamento alla violenza e al terrorismo”.

 

La strategia israeliana è cominciata con una massiccia campagna di propaganda, hasbara, che mira a creare una pressione pubblica e dei media su Facebook. Il governo israeliano ha attivato l’allora nascente armata di troll per costruire una narrazione globale centrata sull’idea presunta che Facebook sia diventata una piattaforma per idee violente, che i palestinesi stanno utilizzando sul campo.

Il team Facebook-Israele

Quando nel settembre 2016 il governo israeliano ha annunciato la sua intenzione di lavorare con Facebook per “contrastare l’istigazione all’odio”, il colosso dei social media era pronto a raggiungere un accordo, anche se ciò significava violare quella fondamentale libertà di espressione che aveva ripetutamente promesso di rispettare.

Secondo l’Associated Press, che cita funzionari israeliani di alto livello, in quel momento il governo israeliano e Facebook si sono accordati per “decidere come contrastare l’istigazione all’odio sul network dei social media.”

L’accordo è stato il risultato di due giorni di discussioni che hanno coinvolto, fra gli altri, il Ministro degli Interni israeliano, Gilad Erdan, e la Ministra della Giustizia, Ayelet Shaked.

In un comunicato l’ufficio di Erdan ha detto che, “si sono accordati con i rappresentanti di Facebook per creare dei team onde capire come monitorare nel modo migliore e rimuovere i contenuti provocatori.”

In essenza, ciò significa che ogni contenuto relativo alla Palestina e a Israele viene ora filtrato, non solo dagli editor di Facebook, ma anche dai funzionari israeliani.

Per i palestinesi il risultato è stato disastroso, dato che molte pagine, come quelle di PIC, sono state cancellate e innumerevoli utenti sono stati bannati, temporaneamente o per sempre.

La procedura che prende di mira i palestinesi e i loro sostenitori molto spesso segue lo stesso iter:

  • I troll pro-Israele si muovono in tutte le direzioni, monitorando e commentando i post palestinesi.

  • I troll riportano individui e contenuti presumibilmente offensivi al “team” di Facebook/Israele.

  • Facebook esegue le raccomandazioni relative agli account che sono stati segnalati come da censurare.

  • Gli account di pagine palestinesi e pro-palestinesi e quelli di individui singoli sono cancellati o bannati.

Anche se PIC non ha ricevuto nessun preavviso prima che il suo account molto popolare fosse cancellato, è probabile che la decisione abbia seguito lo stesso schema riportato qui sopra.

Quando i social media furono introdotti per la prima volta, molti ci videro un’opportunità per presentare idee e promuovere cause che, per una qualche ragione, erano state ignorate dai media tradizionali.

La Palestina improvvisamente trovò una piattaforma nuova e accogliente, non era influenzata da ricchi proprietari e pubblicitari pagati, ma da individui ordinari – milioni di loro.

Sembra che Israele abbia comunque trovato un modo per eludere l’influenza di Facebook sulle discussioni relative ai diritti palestinesi e all’occupazione di Israele.

Quando la denuncia dell’apartheid, la condanna degli assassini di bambini e la discussione la mentalità di paura che permea Israele diventano “incitamento all’odio” e “bullismo”, uno dovrebbe riflettere su cosa ne è della promessa di libertà e democrazia popolare fatta dai social media.

Se in anni recenti Facebook ha fatto molto di più per screditarsi, niente è più sinistro che censurare le voci di quelli che hanno il coraggio di sfidare violenza, razzismo e apartheid promossi dallo Stato, ovunque, ma specialmente in Palestina.

Romana Rubeo, scrittrice e editor italiana, ha contribuito a questo articolo.

Le opinioni espresse in quest’articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione di Mirella Alessio)




L’ambasciatore USA afferma che evacuare le colonie della Cisgiordania “sarebbe un sicuro disastro”

Yumna Patel

17 ottobre 2019 – Mondoweiss

Giovedì l’ambasciatore USA in Israele David Friedman ha detto al sito di notizie in rete “Arutz Sheva” [legato ai coloni sionisti religiosi, ndtr.] di ritenere che lo spostamento dell’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme “abbia promosso la pace” e che “lo sradicamento” di ebrei o arabi nel caso di un piano di pace USA nella regione sarebbe “inumano”.

In una lunga intervista con il sito di notizie, che si occupa di argomenti che vanno dalla guerra del 1967 all’Iran, a Freidman è stato chiesto del fantomatico piano di pace del presidente Donald Trump e del futuro status delle colonie israeliane nella Cisgiordania occupata.

È una parte molto importante del piano,” ha detto Friedman. “Vista l’esperienza dell’evacuazione da Gaza non credo che un piano realistico e praticabile possa prevedere che qualcuno, ebreo o arabo, venga obbligato a lasciare la propria casa.”

Riferendosi apparentemente alla vecchia posizione dei palestinesi e della comunità internazionale secondo cui ogni piano di pace dovrebbe richiedere che alcune delle centinaia di colonie in Cisgiordania vengano evacuate, Friedman ha affermato che “sarebbe un sicuro disastro”.

Quindi non riteniamo che un’evacuazione forzata sia realizzabile. E lo dico sia dal punto di vista degli ebrei che degli arabi,” ha continuato Friedman.

Né l’intervistatore né Friedman hanno fatto menzione delle centinaia di migliaia di palestinesi espulsi a forza dalle loro case nel 1948 e nel 1967, e dei continui tentativi di Israele di trasferire con la forza comunità palestinesi come i beduini di Khan al-Ahmar.

Quando gli viene chiesto: “Nessuna espulsione?” Friedman ha risposto affermando che è stato “francamente un processo inumano – parlando di ebrei e di arabi.”

Nel 2006 è fallito, ha prodotto una reazione estremamente contraria tra gli israeliani. Penso sia una politica fallimentare, e non qualcosa che potremmo proporre,” ha detto, in riferimento all’evacuazione delle colonie israeliane illegali da Gaza a metà degli anni 2000.

Friedman ha manifestato la speranza di espandere la sovranità israeliana su Gerusalemme occupata, le Alture del Golan e la Cisgiordania, affermando “abbiamo fatto enormi progressi su Gerusalemme – se non il 100% del ritorno a casa, siamo al 95%.”

Il Golan era raggiungibile al 100% nei termini del riconoscimento del presidente”, ha affermato, lodando la decisione di Trump all’inizio dell’anno di riconoscere il territorio siriano occupato come parte di Israele.

Ha anche apprezzato il “progresso che abbiamo fatto” nella Cisgiordania occupata ed ha manifestato la speranza che “anche se non accettato immediatamente” gli USA possano promuovere un piano che “lavori per lo Stato di Israele e per la regione, che i palestinesi possano accettare e che porti la pace nella regione.”

Friedman ha proseguito elogiando la guerra del 1967, che diede come risultato l’espulsione di altre centinaia di migliaia di palestinesi e l’occupazione della Cisgiordania e di Gerusalemme est, come “una data straordinaria per Israele e per il mondo.”

Da quando è stato nominato ambasciatore, Friedman è stato una figura molto controversa tra i palestinesi e i loro sostenitori.

Strenuo sostenitore del movimento di colonizzazione, Friedman ha provocato polemiche all’inizio dell’anno, quando ha detto di credere che Israele abbia il diritto di annettere parti della Cisgiordania – una proposta che, pur illegale in base al diritto internazionale, negli ultimi mesi ha ripreso molto vigore nella politica israeliana dominante.

Friedman, ex-curatore fallimentare di Trump, è anche stato presidente di “American Friends of Beit El Yeshiva” [Amici Americani della Yeshiva di Beit El] – una ong che appoggia la colonia illegale di Beit El, nei pressi di Ramallah, nella Cisgiordania occupata, dove il suo nome compare su vari edifici della colonia, direttamente finanziati dalla sua organizzazione.

Yumna Patel

Yumna Patel è la corrispondente in Palestina per Mondoweiss.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Un giudice multa i promotori di una petizione contro la vendita di armi di Israele alle Filippine

Orly Noy

17 ottobre 2019 – +972

Un giudice condanna i promotori di un ricorso, che hanno fatto causa al governo nel tentativo di porre fine all’esportazione di armi nelle Filippine, a pagare una multa, mandando un chiaro messaggio a quanti protestano contro la complicità di Israele con alcuni dei regimi più repressivi al mondo

Giovedì la giudice Gilia Ravid, del tribunale distrettuale di Tel Aviv, ha emesso una sentenza su un ricorso presentato dall’avvocato per i diritti umani Eitay Mack per conto di più di 50 attivisti per i diritti umani che chiedono che Israele smetta di esportare armi alle Filippine. Come avviene di solito nel caso di ricorsi di questo genere, l’udienza si è tenuta a porte chiuse e la sentenza è stata tenuta segreta. Tuttavia, con un’iniziativa inusuale, il giudice ha imposto ai ricorrenti il pagamento di 10.000 shekel (circa 2.500 euro) per le spese legali – l’unica parte della sentenza di cui è stata autorizzata la pubblicazione. 

In risposta alla richiesta dello Stato in questo senso, l’udienza si è tenuta a porte chiuse “per evitare danni alla sicurezza dello Stato e alle relazioni internazionali.” Mentre questa è la norma per simili processi, non si può fare a meno di chiedersi la ragione che ci sta dietro e la reale efficacia di una richiesta simile, dato che la maggior parte delle prove presentate dai ricorrenti era già di dominio pubblico ed è stata riferita sia dai media israeliani che internazionali.

Il ricorso era basato su comunicati stampa ufficiali delle autorità filippine che elencano in dettaglio le forniture di armi da Israele. Le prove includono post sulla pagina Facebook della polizia e della guardia costiera filippine e di un’industria bellica che agevola le vendite da Israele, oltre a informazioni ufficiali pubblicate dalla polizia filippina, dal ministero della Difesa e da fonti di informazione ufficiali.

Nel settembre 2019, durante la sua visita in Israele, il presidente filippino Rodrigo Duderte ha ammesso di aver ordinato alle forze di sicurezza di acquistare armi solo da Israele, dato che, a differenza di Stati Uniti, Germania e persino Cina, Israele non pone nessuna restrizione sul suo traffico d’armi. Ha fatto questa dichiarazione durante una conferenza stampa a Gerusalemme, davanti al presidente israeliano Reuven Rivlin e a molti leader mondiali.

Non è neppure un segreto come il governo di Duderte utilizzi queste armi. Secondo i gruppi per i diritti umani, da quando nel giugno 2016 Duderte ha preso il potere, la polizia e le milizie filippine che con essa collaborano hanno ucciso senza un regolare processo almeno 12.000 persone come parte della “lotta alla droga” del regime.

Se tutte le informazioni del ricorso sono note e disponibili all’opinione pubblica, perché l’udienza si è svolta a porte chiuse? E perché non è stato reso pubblico il verdetto del giudice? Come sempre la parola magica è “sicurezza dello Stato”, sufficiente a rendere i giudici acquiescenti nei confronti della volontà dei servizi di sicurezza e del governo. L’ufficio del pubblico ministero del distretto, che rappresenta lo Stato, ha argomentato a favore del silenzio stampa affermando che, dato che lo Stato non può rispondere pubblicamente all’azione legale, il suo silenzio potrebbe essere mal interpretato dai media.

Ciò presuppone che i mezzi di comunicazione israeliani abbiano un qualche interesse in questo tipo di denunce. Storicamente i media locali non hanno mai sfidato la pesante censura dello Stato su informazioni riguardanti le vendite di armi ad alcuni dei regimi più repressivi al mondo, nonostante il fatto che i ricorsi siano stati presentati in “tempo reale”, e che i Paesi che comprano le armi stiano commettendo gravi violazioni dei diritti umani, crimini di guerra e contro l’umanità.

Altrettanto irragionevole della decisione del tribunale di accogliere la censura sul caso è la decisione della giudice Ravid di imporre un’ammenda ai promotori. Ciò manda un chiaro e sconfortante messaggio all’opinione pubblica: “Siete stati avvertiti: protestare ha un prezzo.”

Questo tipo di ricorsi viene presentato con un’intrinseca mancanza di equilibrio dei poteri, perché lo Stato presenta i suoi documenti al tribunale senza notificarli alla parte avversa,” ha detto Mack. “Il tribunale ora è andato oltre, punendo i cittadini che hanno esercitato il proprio dovere civico cercando di impedire la complicità del loro Paese in crimini contro l’umanità,” ha aggiunto.

Secondo Mack i promotori hanno quasi finito di raccogliere di fondi necessari per coprire le spese legali imposte dal tribunale. “Ho avuto l’appoggio di ogni gruppo sociale, veramente da tutti, compresi personaggi di destra che stanno facendo una lotta per proprio conto su questo problema,” ha affermato.

C’è qualcosa di anacronistico riguardo alle ripetute richieste da parte dei ministeri degli Esteri e della Difesa dell’imposizione del silenzio stampa. L’opinione pubblica percepisce questo comportamento come rivoltante. I ministeri possono anche vincere la battaglia, però stanno perdendo la guerra. Nessun divieto può cancellare le orribili immagini che arrivano dalle Filippine,” ha aggiunto Mack.

Una versione di questo articolo è stata pubblicata per la prima volta in ebraico su Local Call [edizione in ebraico di +972, ndtr.]

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




L’Associazione Rabbinica Ricostruzionista appoggia la legge USA che protegge i minori palestinesi dalla prigione militare israeliana

16 ottobre 2019 – Comunicato stampa di Jewish Voice for Peace

Filadelfia (Pennsylvania), 16 ottobre 2019: Jewish Voice for Peace [Voce Ebraica per la Pace, gruppo di ebrei americani contro l’occupazione, ndtr.] è entusiasta del fatto che oggi l’Associazione Rabbinica Ricostruzionista [scuola rabbinica progressista statunitense, ndtr.] ha appoggiato la proposta di legge del Congresso [americano] per la protezione dei diritti dei bambini palestinesi incarcerati dall’esercito israeliano.

Promossa dalla deputata Betty McCollum, la legge HR 2407 vieterebbe che i finanziamenti USA contribuiscano a “detenzione militare, interrogatori, violenze o maltrattamenti di minori in violazione del diritto umanitario internazionale”.

La deputata Betty McCollum ha ringraziato l’Associazione Rabbinica Ricostruzionista: “Questo è da parte dell’Associazione Rabbinica Ricostruzionista una grande spinta per la promozione della Legge HR 2407. Ringrazio questi autorevoli rabbini per l’aiuto alla lotta per i diritti umani. Il loro appoggio invia un segnale forte alla gente di ogni fede sul fatto che ogni minore merita di essere trattato con dignità e rispetto. Ora è tempo per gli Stati Uniti di mandare un chiaro segnale che nessun dollaro delle tasse USA possa consentire la detenzione e il maltrattamento dei minori palestinesi da parte dell’esercito israeliano.”

La “Legge per la promozione dei diritti umani per i minori palestinesi che vivono sotto l’occupazione militare israeliana” (HR 2407) garantisce che nessun finanziamento militare USA sia destinato all’arresto militare e all’ incriminazione di minori – in Israele o in ogni altro Paese. Dal 2000 si stima che circa 10.000 minori palestinesi tra i 12 e i 17 anni siano stati arrestati, incriminati e incarcerati dall’esercito israeliano nella Cisgiordania occupata. Molti di questi minori vengono trascinati fuori dalle loro case nel pieno della notte da soldati armati e per giorni viene loro impedito di parlare con le proprie famiglie. Subiscono violenze verbali, umiliazioni, intimidazioni e violenza fisica. Questi minori vengono interrogati senza la presenza di familiari o avvocati, nel tentativo di estorcere confessioni forzate, e alla fine possono essere detenuti per mesi.

La rabbina Alissa Wise, Vicedirettrice esecutiva di Jewish Voice for Peace, ha sottolineato: “Alcuni anni fa l’idea di proporre al Congresso USA una legge per i diritti dei palestinesi era inconcepibile, per non parlare della possibilità che un’ importante associazione rabbinica la appoggiasse. La decisione dell’Associazione Rabbinica Ricostruzionista di appoggiare la Legge HR2407 è la dimostrazione più evidente che la comunità ebraica americana sta accrescendo il proprio sostegno ai diritti dei palestinesi.”

La rabbina Wise continua: “L’appoggio dell’Associazione Rabbinica Ricostruzionista contraddice fortemente i postulati precedenti riguardo alle comunità ebraiche americane e alla difesa dei palestinesi ed è un segnale di un mutamento radicale per quanto possibile. In questo momento politico di precarietà ed incertezza, questo è un richiamo auspicato e necessario al dinamismo della comunità ebraica di Washington e più in generale dell’America. Oggi sono molto orgogliosa di essere una rabbina ricostruzionista”.

La direttrice delle questioni istituzionali di Jewish Voice for Peace, Beth Miller, ha detto: “Questa coraggiosa e storica presa di posizione dell’Associazione Rabbinica Ricostruzionista indica chiaramente che il terreno si sta modificando. I movimenti progressisti in tutti gli USA, compresi gli ebrei americani progressisti, chiedono passi concreti verso la giustizia e l’equità per i palestinesi. La proposta di legge della deputata McCollum per proteggere i minori palestinesi dalle violazioni israeliane dei diritti umani va proprio in questa direzione. Siamo entusiasti e grati all’Associazione per aver mandato un chiaro messaggio al Campidoglio [sede del Congresso a Washington, ndtr.] che il cieco appoggio ad Israele non è più lo ‘status quo’ ed il Congresso deve prenderne atto.”

Jewish Voice for Peace è orgogliosamente membro della campagna ‘Non è il modo di trattare i minori’, condotta da ‘Defense for Children International – Palestina’ e ‘American Friend Service Commettee’.

Jewish Voice for Peace è un’organizzazione nazionale di base ispirata alla tradizione ebraica che lavora per una pace giusta e duratura in base ai principi dei diritti umani, dell’eguaglianza e del diritto internazionale per tutto il popolo di Israele e Palestina. JVP conta oltre 500.000 sostenitori online, più di 70 sedi locali, un gruppo giovanile, un Consiglio rabbinico ed uno artistico, un Consiglio di consulenza accademica ed un Comitato consultivo formato da importanti intellettuali e artisti statunitensi.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




L’ultima àncora di salvezza: la vera ragione dell’appello di Abbas alle elezioni

Ramzy Baroud

14 ottobre, 2019 – Middle East Monitor

L’appello alle elezioni nei territori occupati da parte del Presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese [ANP] Mahmoud Abbas è uno stratagemma politico. Non ci saranno elezioni veramente democratiche sotto la leadership di Abbas. La vera domanda è: innanzitutto, perché lo ha fatto?

Il 26 settembre Abbas ha scelto la sede politica più importante al mondo, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, per proporre “elezioni generali in Palestina – in Cisgiordania, inclusa Gerusalemme est e nella Striscia di Gaza.”

Il leader palestinese ha fatto precedere al suo annuncio una nobile enfasi sulla centralità della democrazia nei suoi pensieri. “Fin dall’inizio abbiamo creduto nella democrazia come fondamento della costruzione del nostro Stato e della nostra società”, ha detto con inconfondibile disinvoltura. Ma, a conti fatti, è stata solo Hamas a rendere impossibile la missione democratica di Abbas – non Israele, e certo non il retaggio antidemocratico, evidente e corrotto della stessa ANP.

Al suo rientro da New York Abbas ha creato una commissione il cui compito, secondo i media ufficiali palestinesi, è di svolgere consultazioni con varie fazioni palestinesi riguardo alle elezioni che ha promesso.

Hamas ha immediatamente accettato l’invito alle elezioni, pur chiedendo maggiori delucidazioni. La principale richiesta del gruppo islamico, che controlla la Striscia di Gaza assediata, è di svolgere elezioni che comprendano contemporaneamente il Consiglio Legislativo Palestinese (CLP), la presidenza dell’ANP e soprattutto il Consiglio Nazionale Palestinese (CNP) – la componente legislativa dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP).

Mentre l’OLP è caduta sotto lo stretto controllo di Abbas e di una cricca interna al suo stesso partito Fatah, le altre istituzioni hanno operato senza alcun mandato democratico e popolare per quasi 13 anni. Le ultime elezioni del CLP si sono tenute nel 2006, seguite da uno scontro tra Hamas e Fatah che ha portato all’attuale rottura politica tra i due partiti. Quanto al mandato di Abbas, anch’esso è scaduto nel 2009. Ciò significa che Abbas, che apparentemente crede “nella democrazia come fondamento della costruzione del nostro Stato”, è un presidente che regna in modo antidemocratico senza alcun mandato per governare i palestinesi.

Non è che i palestinesi rinuncino a esplicitare i propri sentimenti. Più volte hanno chiesto ad Abbas di andarsene. Ma l’ottantatreenne è deciso a rimanere al potere – per quanto si possa definire ‘potere’ sotto il giogo dell’occupazione militare israeliana.

L’opinione prevalente dopo la richiesta di Abbas di elezioni è che, date le circostanze, una simile impresa sia semplicemente impossibile. Tanto per cominciare, dopo aver ottenuto il riconoscimento degli USA di Gerusalemme come capitale, è difficile che Israele permetta ai palestinesi di includere Gerusalemme est occupata in qualunque futura votazione.

D’altro lato, è probabile che Hamas rifiuti l’inclusione di Gaza nelle elezioni se esse fossero limitate al CLP e escludessero la carica di Abbas e il CNP. Senza un voto per il CNP la riorganizzazione e la rinascita dell’OLP resterebbero fantomatiche, un’opinione condivisa da altre fazioni palestinesi.

Essendo consapevole di questi ostacoli, Abbas sa già che le possibilità di reali elezioni eque, libere e veramente inclusive sono minime. Ma la sua proposta è l’ultima, disperata mossa per fermare il crescente risentimento tra i palestinesi e la sua incapacità per decenni di utilizzare il cosiddetto processo di pace per ottenere i diritti del suo popolo a lungo negati.

Ci sono tre principali ragioni che spingono Abbas a compiere questa mossa in questo specifico momento.

Primo, la fine del processo di pace e della soluzione dei due Stati, attraverso una serie di iniziative israeliane e americane, hanno lasciato l’ANP, e soprattutto Abbas, isolati e con scarse disponibilità finanziarie. I palestinesi che hanno sostenuto simili illusioni politiche non sono più la maggioranza.

Secondo, lo scorso dicembre la corte costituzionale dell’ANP ha stabilito che il presidente avrebbe dovuto indire le elezioni entro i prossimi sei mesi, cioè entro giugno 2019. La corte, anch’essa sotto il controllo di Abbas, ha inteso fornire al leader palestinese uno strumento giuridico per sciogliere il parlamento precedentemente eletto – il cui mandato è scaduto nel 2010 – e predisporre nuove basi per la sua legittimazione politica. Tuttavia egli non ha rispettato la decisione della corte.

Terzo, e più importante, il popolo palestinese è chiaramente stufo di Abbas, della sua autorità e di tutti gli intrighi politici delle fazioni. Infatti, secondo un sondaggio dell’opinione pubblica svolto a settembre dal Centro palestinese per la Ricerca Politica e di Opinione, il 61% di tutti i palestinesi in Cisgiordania e Gaza vuole che Abbas si dimetta.

Lo stesso sondaggio indica che i palestinesi rifiutano l’intero discorso politico che è stato alla base delle strategie politiche di Abbas e della sua ANP. Inoltre, il 56% dei palestinesi è contrario alla soluzione dei due Stati; quasi il 50% ritiene che l’azione dell’attuale governo dell’ANP di Mohammed Shtayyeh sia peggiore del precedente e il 40% vuole che l’ANP venga sciolta.

Significativamente, il 72% dei palestinesi vuole che le elezioni legislative e presidenziali si svolgano in tutti i territori occupati. La stessa percentuale vuole che l’ANP interrompa la sua partecipazione all’assedio imposto alla Striscia di Gaza.

Abbas si trova ora nella posizione politica più debole da quando ha preso il potere, molti anni fa. Privo del controllo sugli esiti politici che sono decisi da Tel Aviv e Washington, ha fatto ricorso ad una vaga richiesta di elezioni che non hanno possibilità di successo.

Mentre l’esito è prevedibile, Abbas spera che, per ora, potrà ancora una volta apparire come il leader impegnato che rivolge l’attenzione al consenso internazionale e ai desideri del suo popolo.

Ci vorranno mesi di spreco di energie, di contese politiche e di un imbarazzante circo mediatico prima che l’imbroglio delle elezioni vada in pezzi, lasciando il campo ad un gioco al massacro tra Abbas ed i suoi rivali che potrebbe durare mesi, se non anni.

È difficile che questa sia la strategia che il popolo palestinese – che vive sotto una brutale occupazione ed un soffocante assedio – necessiti o desideri. La verità è che Abbas e qualunque classe politica egli rappresenti sono diventati un vero ostacolo nel cammino di una nazione che ha un disperato bisogno di unità e di una strategia politica seria. Ciò che il popolo palestinese chiede con urgenza non è una timida chiamata al voto, ma una nuova leadership, una richiesta che ha ripetutamente espresso, benché Abbas rifiuti di ascoltare.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Israele si appresta a trasformare i cittadini beduini in rifugiati nel loro stesso Paese

Jonathan Cook

16 ottobre 2019 – Mondoweiss

La pluridecennale lotta di decine di migliaia di israeliani contro l’espulsione dalle loro case – per alcuni per la seconda o la terza volta – dovrebbe essere la prova sufficiente che Israele non è una democrazia liberale occidentale, come sostiene di essere.

La scorsa settimana 36.000 beduini – tutti cittadini israeliani – hanno scoperto che il loro Stato sta per farne rifugiati nel loro stesso Paese, spostandoli in campi vigilati. Questi israeliani, a quanto pare, sono del tipo sbagliato.

Il loro trattamento ha dolorosamente ricordato il passato. Nel 1948 750.000 palestinesi vennero espulsi dall’esercito israeliano fuori dai confini del recentemente fondato Stato ebraico costituito sulla loro patria – quella che i palestinesi definiscono la Nakba, o catastrofe.

Israele viene regolarmente criticato per la sua aggressiva occupazione, la sua espansione incessante delle colonie illegali sulla terra palestinese e i suoi ripetuti e spietati attacchi, soprattutto contro Gaza. Di rado gli analisti notano anche le sistematiche discriminazioni di Israele contro gli 1.8 milioni di palestinesi i cui progenitori sopravvissero alla Nakba e vivono all’interno di Israele, apparentemente come cittadini.

Ma ognuno di questi soprusi viene affrontato singolarmente, come se non fossero collegati tra loro, invece che come differenti sfaccettature di un progetto complessivo. Si può individuare un modello guidato da un’ideologia che disumanizza i palestinesi ovunque Israele li trovi.

Questa ideologia ha un nome. Il sionismo fornisce il filo rosso che mette in rapporto il passato – la Nakba – con l’attuale pulizia etnica dalle loro case da parte di Israele a danno dei palestinesi nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme est, la distruzione di Gaza e i tentativi coordinati dello Stato di cacciare i cittadini palestinesi di Israele fuori da ciò che è rimasto delle loro terre storiche e dentro a ghetti.

La logica del sionismo, anche se i suoi più ingenui sostenitori non riescono a comprenderla, è sostituire i palestinesi con ebrei – quella che Israele definisce ufficialmente ebraizzazione.

La sofferenza dei palestinesi non è uno sfortunato effetto collaterale del conflitto. È il reale obiettivo del sionismo: incentivare i palestinesi ancora presenti ad andarsene “volontariamente”, per sfuggire a oppressione e miseria ulteriori.

L’esempio più evidente di questa strategia di sostituzione della popolazione è il trattamento di lunga data che Israele riserva a 250.000 beduini che formalmente hanno la cittadinanza. I beduini sono il gruppo più povero di Israele, vivono in comunità isolate per lo più nella vasta area semiarida del Negev, il sud del Paese. In gran parte non visibili, Israele ha avuto relativamente mano libera nei suoi tentativi di “spostarli”.

È per questo che, per un decennio dopo che aveva apparentemente finito le sue operazioni di pulizia etnica del 1948 e guadagnato il riconoscimento dalle capitali occidentali, Israele ha segretamente continuato ad espellere migliaia di beduini fuori dai suoi confini, nonostante il loro diritto alla cittadinanza.

Nel contempo altri beduini in Israele sono stati cacciati a forza fuori dalle loro terre ancestrali per essere spostati sia in circoscritte zone controllate, sia in townships [termine che riprende il nome delle zone urbane destinate ai neri nel Sudafrica dell’apartheid, ndtr.] che sono diventate le comunità più deprivate di Israele.

È difficile definire nei beduini, semplici contadini e pastori, una minaccia per la sicurezza, come è stato fatto con i palestinesi sotto occupazione.

Ma Israele ha una definizione più ampia di sicurezza della semplice sicurezza fisica. Essa si fonda sulla conservazione di un’assoluta predominanza demografica degli ebrei. I beduini possono essere tranquilli, ma il loro numero pone una gravissima minaccia demografica e il loro modo di vivere pastorale ostacola la sorte prevista per loro – tenerli ben chiusi in ghetti.

La maggior parte dei beduini ha titoli di proprietà di molto precedenti alla creazione di Israele. Ma Israele ha rifiutato di rispettare queste rivendicazioni e molte decine di migliaia sono stati criminalizzati dallo Stato, ai loro villaggi è stato negato il riconoscimento legale.

Per decenni sono stati obbligati a vivere in baracche o tende perché le autorità rifiutano di autorizzare [la costruzione di] case adeguate e vengono loro negati servizi pubblici come scuole, acqua ed elettricità.

Se vogliono vivere in modo legale i beduini hanno un’unica alternativa: devono abbandonare le loro terre ancestrali e il loro modo di vita per spostarsi in una povera township. Molti beduini hanno fatto resistenza, rimanendo attaccati alla loro terra storica nonostante le durissime condizioni impostegli.

Uno di questi villaggi non riconosciuti, Al Araqib, è stato utilizzato per dare l’esempio. Lì le forze israeliane hanno demolito le case di fortuna più di 160 volte in meno di un decennio. Ad agosto un tribunale israeliano ha approvato il fatto che lo Stato faccia pagare a sei abitanti 370.000 dollari come multa per le ripetute espulsioni.

Il leader di Al Araqib, il settantenne Sheikh Sayah Abu Madhim, recentemente ha passato mesi in carcere dopo essere stato arrestato per occupazione illegale di suolo, benché la sua tenda sia a pochi passi dal cimitero dove sono sepolti i suoi antenati.

Ora le autorità israeliane stanno perdendo la pazienza con i beduini.

Lo scorso gennaio sono stati svelati piani per lo sgombero dalle loro case urgentemente e con la forza di circa 40.000 beduini in villaggi non riconosciuti, sotto il pretesto di progetti di “sviluppo economico”. Sarà la più vasta espulsione da decenni.

Come “sicurezza”, anche “sviluppo” ha una connotazione diversa in Israele. In realtà significa sviluppo per gli ebrei, o ebraizzazione – non sviluppo per i palestinesi.

Il progetto include una nuova autostrada, una linea elettrica ad alta tensione, una struttura per la sperimentazione di armamenti, una zona militare di tiro e una miniera di fosforo.

La scorsa settimana è stato rivelato che le famiglie verrebbero obbligate a stare dentro centri di trasferimento nelle township, a vivere per anni in sistemazioni di fortuna mentre viene deciso il loro destino finale. Questi centri sono già stati paragonati ai campi di rifugiati costruiti per i palestinesi in seguito alla Nakba.

Il malcelato scopo è di imporre ai beduini condizioni di vita tali per cui alla fine accetteranno di essere rinchiusi definitivamente nelle township alle condizioni imposte da Israele.

Quest’estate sei importanti esperti per i diritti umani delle Nazioni Unite hanno inviato una lettera a Israele per protestare in base alle leggi internazionali contro le gravi violazioni dei diritti delle famiglie beduine e per sostenere che sarebbero possibili approcci alternativi.

Adalah”, l’associazione giuridica per i palestinesi in Israele, nota che Israele ha espulso a forza i beduini per settant’anni, trattandoli non come esseri umani ma come pedine nella sua battaglia senza fine per sostituirli con coloni ebrei.

Lo spazio vitale dei beduini si è incessantemente ridotto e il loro modo di vita è stato distrutto. Ciò contrasta crudamente con la rapida espansione delle città e fattorie di singole famiglie ebraiche sulla terra da cui i beduini sono stati cacciati.

È difficile non concludere che quello che sta avvenendo sia una versione amministrativa della pulizia etnica che i funzionari israeliani mettono in atto in modo più palese nei territori occupati sulla base di cosiddetti problemi di sicurezza.

Queste interminabili espulsioni sembrano meno una politica necessaria e ragionata e più un orribile tic nervoso ideologico.

Jonathan Cook ha vinto il Premio Speciale Martha Gellhorn per il giornalismo. Tra i suoi libri: “Israel and the Clash of Civilisations: Iraq, Iran and the Plan to Remake the Middle East” [“Israele e il crollo della civiltà: Iraq, Iran ed il piano per rifare il Medio Oriente”] (Pluto Press), e “Disappearing Palestine: Israel’s Experiments in Human Despair” [“Palestina scomparsa: esperimenti israeliani in disperazione umana”] (Zed Books).

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




I nostri ragazzi: un’altra storia della superiorità morale di Israele

Joseph Massad

10 Ottobre 2019 – Middle East Eye

I tentativi cinematografici dei sionisti americani di rappresentare la colonizzazione della Palestina come una “lotta ebraica per la liberazione nazionale” ottennero un enorme successo con il film “Exodus” del 1960. Il film rese popolare la causa sionista e rimane d’ispirazione per i giovani sionisti americani ed europei.

Exodus” non fa menzione della conquista della terra dei palestinesi e dell’espulsione della maggioranza della popolazione nativa, in quanto i nativi palestinesi vengono mostrati come se non fossero altro che odiosi ostacoli per gli ebrei che costruivano una patria solo per sé.

Superiorità morale 

Un progetto cinematografico più recente che, benché di successo, non ha avuto lo stesso effetto di “Exodus”, è stato il film di Steven Spielberg “Monaco” del 2005.

Il film riguarda lo spirito degli ebrei in Israele negli anni ’70, nel contesto della campagna di Golda Meir [primo ministro israeliano dal 1969 al 1974, ndtr.] per assassinare intellettuali palestinesi in tutta Europa e vendicare l’attacco contro gli atleti israeliani durante le Olimpiadi di Monaco del 1972.

Come ho sostenuto nella mia recensione al film, concentrandosi sulla superiorità morale degli ebrei, “Monaco” non si allontana molto dalla propaganda israeliana, che sostiene che i soldati ebrei “sparano e piangono”. Il fatto che la violenza palestinese sia sempre stata in risposta alla conquista e agli assassini sionisti nella logica di “Monaco” è irrilevante.

Il bombardamento da parte dell’aviazione israeliana dei campi di rifugiati in Libano e Siria, che uccise centinaia di rifugiati palestinesi immediatamente dopo la morte degli atleti israeliani, non compare affatto nel film e non sembra compromettere lo spirito degli ebrei israeliani.

Monaco” si chiede se la politica terroristica contro singoli palestinesi scatenata da Meir possa essere stata sbagliata, ma insiste sul fatto che furono i palestinesi che imposero a Israele la scelta del terrorismo. La tesi di “Monaco” è che, poiché gli ebrei hanno un codice morale superiore, Israele non avrebbe dovuto rispondere ai palestinesi nello stesso modo.

I nostri ragazzi”

Questa è esattamente la premessa sottintesa alla nuova serie coprodotta dalla HBO [rete televisiva e di produzione USA, ndtr.] israeliana “I nostri ragazzi”, che recentemente è stata messa in onda su HBO e su Canale 12 in Israele. La serie inizia con il rapimento e l’uccisione di tre giovani coloni ebrei israeliani in Cisgiordania nel 2014 ad opera di due uomini palestinesi che, benché membri di Hamas, agirono di loro iniziativa.

Non veniamo a sapere molto sul rapimento degli adolescenti, la cui condizione di coloni viene appena menzionata, mentre i loro rapitori vengono semplicemente identificati come palestinesi. Questi ultimi non sono nominati fino all’ultimo episodio, quando veniamo informati che l’esercito israeliano li ha uccisi ed ha distrutto con un bulldozer le case delle loro famiglie.

Ma non sappiamo niente delle ragioni per cui i due palestinesi hanno rapito i tre giovani coloni, per non parlare delle loro vicende personali, o delle loro famiglie che vivono a Al-Khalil (Hebron) e della loro lotta contro l’occupazione israeliana e la violenza dei coloni ebrei.

La campagna israeliana che fece seguito al rapimento portò a incursioni dell’esercito israeliano in 1.300 case e negozi palestinesi, all’arresto di più di 800 palestinesi e all’uccisione di 9 di loro. Ma tutto questo non interessa a “I nostri ragazzi”, che si concentra sull’angoscia dell’opinione pubblica ebreo-israeliana.

É in seguito alla scoperta che i tre adolescenti erano stati uccisi, e alla successiva violenza popolare ebraica nelle strade di Gerusalemme e altrove contro civili palestinesi, che si sviluppa la storia dell’uccisione per “vendetta” del sedicenne palestinese Mohammad Abu Khdeir, bruciato vivo da tre coloni ebrei (due cugini adolescenti e il loro zio).

Il rapimento per vendetta

La storia dei tre adolescenti uccisi aleggia sulla serie come la causa principale di tutto quanto si svolge. La serie descrive angosciosamente la macabra vendetta del rapimento del ragazzo palestinese, che si trovava di fronte a casa sua quando venne rapito e strangolato dai due ragazzi ebrei, e poi picchiato con un piede di porco dallo zio che gli diede fuoco quando era ancora vivo.

L’angoscia della serie, e quella dell’opinione pubblica israeliana, è che non avrebbe potuto essere un crimine commesso da ebrei, perché, se gli ebrei lo avessero commesso, lo spirito e la moralità degli ebrei israeliani sarebbero stati compromessi.

Ci viene fornito ogni dettaglio sui terroristi ebrei. Vediamo lo zio suonare la chitarra e cantare per la figlia, preoccuparsi dei nipoti, lottare contro il sentimento di inadeguatezza con il padre (un rabbino mizrahi [ebreo di origini arabe, ndtr.] che tiene una propria scuola religiosa), preoccuparsi per la madre malata, cenare il sabato, fumare con i nipoti nel giardino della sua casa in una colonia ebraica in Cisgiordania, costruita su terra rubata ai palestinesi.

Scopriamo persino che ha traslocato là non per ideologia sionista, che motiva i coloni di destra ashkenaziti [ebrei di origine europea, ndtr.], ma per il basso costo delle case.

Vediamo anche i nipoti adolescenti nel loro contesto familiare. Il più giovane balbetta ed è emotivamente gravato dal peso delle aspettative dei suoi genitori ortodossi perché vada ad una scuola religiosa. Lo vediamo combattere con sentimenti di colpa e disperazione che manifesta durante sedute di cura con un terapista ashkenazita che si occupa della comunità ortodossa.

Sono preoccupazioni e problemi condivisi dal detective ortodosso dello Shabbak (servizio segreto interno di Israele) che risolve il caso. Proviene anche lui da un contesto ebreo ortodosso marocchino e si sente in colpa riguardo alla cura della sua anziana madre e per le aspettative di costei e del fratello ortodosso.

Disumanizzare i palestinesi

Nessuna di queste scene che rendono umani i personaggi riguarda i palestinesi che hanno ucciso i giovani coloni ebrei. In effetti gli unici palestinesi che meritano una piccola parte di scene umanizzanti sono quelle che riguardano i genitori di Abu Khdeir, ma non i suoi fratelli, salvo una minima attenzione per il fratello maggiore. Non vediamo la vita familiare di Abu Khdeir, se non nel contesto del lutto, con palestinesi anonimi che vanno a porgere le condoglianze.

Non li vediamo mai mentre cantano, cenano o si comprano regali a vicenda. Tuttavia li vediamo lavorare per clienti e padroni ebrei e assistiamo alla discussione tra il padre e il giovane Mohammad Abu Khdeir, innamorato di una ragazza profuga siriana a Istanbul, a cui ossessivamente scrive sul suo cellulare trascurando il lavoro.

Apprendiamo che Mohammad ama il ballo di gruppo, o dabkeh. Ma a parte questo, a Mohammad viene dedicata poca attenzione. Altri palestinesi che vengono fatti parlare non hanno una storia personale, tranne Abu Zuhdi, il cui figlio era stato ucciso dall’esercito israeliano e la cui casa è stata demolita come punizione per la sua resistenza all’occupazione.

Abu Zuhdi racconta rapidamente la sua storia, ma senza scene che umanizzino lui o la sua famiglia. A parte questo, i palestinesi vengono mostrati come una folla violenta che sconvolge la tranquillità della loro città occupata, dichiarata capitale di Israele.

Questa serie è trionfalista nel suo rispettare l’obiettività solo a parole, mostrando alcuni aspetti della sofferenza dei palestinesi e della situazione kafkiana in cui si trovano gli Abu Khdeir e gli interrogatori a cui vengono sottoposti.

Tuttavia la simpatia mostrata per gli Abu Khdeir impallidisce rispetto a quella mostrata per i tre terroristi ebrei e per le loro famiglie, al cui strazio e dolore “I nostri ragazzi” dedica la maggior parte delle scene.

Proteste contro la trasmissione

Eppure le discriminazioni che i palestinesi devono sopportare da parte della polizia, dell’apparato di sicurezza, delle leggi e dei tribunali israeliani sono ampiamente mostrati. Di conseguenza ciò ha suscitato la condanna da parte di israeliani che hanno scritto centinaia di lettere di protesta contro la trasmissione e da parte del primo ministro Benjamin Netanyahu, che l‘ha definita “antisemita” e ha chiesto il boicottaggio del canale israeliano che la mette in onda. L’uccisione degli adolescenti israeliani scatenò l’attacco israeliano contro Gaza nell’estate 2014, provocando l’uccisione di 2.251 palestinesi, compresi almeno 551 minorenni, e il ferimento di 11.231 palestinesi, tra cui 3.436 minori.

I nostri ragazzi” mostra di sfuggita, senza dettagli, come i bombardamenti su Gaza siano stati raccontati dalla televisione israeliana. In realtà il giorno prima dell’uccisione di Mohammad la deputata israeliana Ayelet Shaked aveva invocato su Facebook il genocidio del popolo palestinese, una dichiarazione che ottenne migliaia di condivisioni. Meno di un anno dopo diventò ministra della Giustizia di Israele. Per quanto riguarda la serie, questi avvenimenti non sembrano minacciare la moralità israeliana.

Ma la morale della storia che “I nostri ragazzi” vuole raccontare è che i palestinesi che non si oppongono al razzismo e al colonialismo israeliani e che lavorano con o per gli ebrei (lo stesso Mohammad lavorava in un ristorante di proprietà di un israeliano) non meritano di avere un figlio bruciato vivo, in quanto ciò pregiudica la superiorità morale ebraica e danneggia lo spirito degli ebrei israeliani.

Un progetto ideologico

Invece i palestinesi che resistono ad Israele sembrano meritare di essere bruciati vivi con le bombe israeliane senza che ciò rappresenti alcuna minaccia per la superiorità morale di Israele. In effetti la serie, intitolata in ebraico “Ha-Ne’arim”, che significa “giovani uomini”, e maldestramente tradotto in arabo come “Fityan” [che significa “novizi”, ndtr.], è reso in inglese con “I nostri ragazzi”, dove il pronome possessivo si riferisce a Israele.

Il titolo inglese tradisce il progetto ideologico dei produttori della serie (nessuno di loro è palestinese) e dei suoi tre registi israeliani, uno dei quali è un palestinese cittadino di Israele, l’altro un ebreo israeliano ashkenazita e il terzo un colono ebreo americano arrivato da New York con la sua famiglia ortodossa quando aveva 5 anni.

Alla fine della trasmissione i principi morali superiori di Israele e delle sue anime ebraiche sono vittoriosi, vista la condanna del tribunale contro i tre terroristi ebrei, anche se la corte si è rifiutata di accettare la richiesta degli Abu Khdeir di demolire le case degli assassini come Israele fa con i “terroristi” palestinesi.

A parte ciò, “I nostri ragazzi”, come il film “Monaco”, non si stanca di ricordarci che la minaccia alla superiorità morale di Israele e della sua anima ebraica viene dai palestinesi violenti che resistono e non dalle conquiste coloniali, dall’occupazione militare e dal razzismo istituzionalizzato di Israele.

Così facendo, “I nostri ragazzi” segue le orme dell’affermazione razzista di Golda Meir che riassunse perfettamente l’argomento principale della serie: “Possiamo perdonarvi di uccidere i nostri figli, ma non potremo mai perdonarvi di farci uccidere i vostri.”

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye

Joseph Massad è professore di politica araba contemporanea e di storia del pensiero alla Columbia University di New York. È autore di diversi libri e di articoli accademici e giornalistici. I suoi libri comprendono: ‘Colonial effects: the making of National identity in Jordan’ [Effetti colonialisti: la creazione di un’identità nazionale in Giordania], ‘Desiring arabs’ [Arabi desideranti], ‘The persistence of the palestinian question: essays on zionism and the palestinians’ [La persistenza della questione palestinese: saggi su sionismo e palestinesi], ed il più recente ‘Islam in liberalism’ [L’Islam nel liberalismo]. I suoi libri e i suoi articoli sono stati tradotti in una decina di lingue.

(Traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA del periodo 1- 14 ottobre 2019 (due settimane)

Il 4 ottobre, ad est di Jabalia (Gaza nord), vicino alla recinzione israeliana di Gaza, un palestinese 28enne è stato ucciso dalle forze israeliane durante una manifestazione della “Grande Marcia del Ritorno” (GMR).

Un altro palestinese, 20enne, è morto il 7 ottobre per le ferite riportate durante una protesta svolta nell’aprile 2019. Dal marzo 2018, data di inizio delle proteste GMR, sono stati complessivamente uccisi 210 palestinesi, tra cui 46 minori. Inoltre, nel corso delle proteste tenute durante il periodo di riferimento [1-14 ottobre], sono stati feriti dalle forze israeliane 261 palestinesi (di cui 127 minori); 48 di loro presentavano ferite di arma da fuoco. Fonti israeliane hanno riferito che contro le forze israeliane sono stati lanciati ordigni esplosivi improvvisati, bombe a mano e bottiglie incendiarie; inoltre ci sono stati diversi tentativi di forzare la recinzione: non sono state riportate vittime israeliane. Jamie McGoldrick, Coordinatore umanitario per i Territori palestinesi occupati, in una dichiarazione rilasciata prima della protesta dell’11 ottobre, organizzata sul tema “Our Child Martyrs”, ha invitato Israele e Hamas a proteggere i minori, ribadendo che “i minori non devono mai essere il bersaglio di violenza, né dovrebbero essere messi a rischio di subire violenza o essere incoraggiati a partecipare alla violenza”.

In almeno 18 occasioni non collegate alla GRM, allo scopo di far rispettare le restrizioni di accesso [imposte ai palestinesi], le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento verso aree [interne] di Gaza adiacenti alla recinzione perimetrale e [in mare] al largo della costa; non sono state riportate vittime. In un’altra occasione, le forze israeliane hanno arrestato tre civili palestinesi, incluso un minore che, presumibilmente, avevano tentato di entrare illegalmente in Israele attraverso la recinzione.

In Cisgiordania, durante proteste e scontri, sono stati feriti dalle forze israeliane 37 palestinesi, tra cui almeno due minori. Tale numero [37] rappresenta una riduzione significativa rispetto alla media bisettimanale di ferimenti di palestinesi (129), registrata dall’inizio del 2019. 14 dei 37 ferimenti si sono verificati venerdì 4 e 11 ottobre a Kafr Qaddum (Qalqiliya), durante le proteste settimanali contro l’espansione degli insediamenti [colonici] e contro le restrizioni di accesso. Altre 10 persone sono rimaste ferite nei giorni 1 e 4 ottobre, vicino al checkpoint di Beit El / DCO (Ramallah), in due manifestazioni tenute in solidarietà con i prigionieri palestinesi in sciopero della fame. In un altro caso, avvenuto il 5 ottobre nel villaggio di Azzun (Qalqiliya), un bambino di un anno e una donna hanno subìto lesioni causate da inalazione di gas: la loro casa è parzialmente bruciata a causa di un incendio innescato da candelotti lacrimogeni lanciati dalle forze israeliane durante scontri con i residenti palestinesi. Complessivamente, quasi la metà dei feriti è stata curata per inalazione di gas lacrimogeno, il 38% per lesioni provocate da proiettili di gomma; i rimanenti erano stati aggrediti fisicamente o feriti con armi da fuoco.

In Cisgiordania le forze israeliane hanno effettuato 152 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 101 palestinesi, tra cui quattro minori. La maggior parte delle operazioni sono state condotte nel governatorato di Ramallah (42), seguita dai governatorati di Hebron (35) e Gerusalemme (33).

In Area C e Gerusalemme Est, citando la mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, le autorità israeliane hanno demolito o costretto le persone ad autodemolire 31 strutture; come conseguenza, 52 persone sono state sfollate ed altre 98 hanno subito ripercussioni [segue dettaglio]. L’episodio più consistente si è verificato nel quartiere di Jabal al Mukabbir, a Gerusalemme Est, dove sono state prese di mira 13 strutture, tra cui una abitazione; rappresentanti delle famiglie colpite hanno riferito di non aver ricevuto ordini di demolizione, né alcun preavviso. Sempre a Gerusalemme Est, nel quartiere di Beit Hanina, palestinesi sono stati costretti ad autodemolire tre edifici abitativi, provocando lo sfollamento di sei famiglie di rifugiati. A Gerusalemme Est, oltre un quarto delle demolizioni di quest’anno (46 su 173 strutture) sono state eseguite dagli stessi proprietari palestinesi, principalmente per evitare di pagare al Comune il costo della demolizione. In Area C, una delle undici strutture demolite era un pannello solare finanziato da donatori, fornito come assistenza umanitaria in risposta a una precedente demolizione avvenuta nella Comunità di Shib al Harathat (Hebron). Ad oggi, il numero di strutture demolite quest’anno in Cisgiordania rappresenta un aumento di quasi il 40% rispetto al corrispondente periodo del 2018.

Durante il periodo di riferimento, in occasione delle festività ebraiche, le autorità israeliane hanno bloccato su larga scala, per cinque giorni, gli spostamenti tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania; il provvedimento ha colpito i titolari di permessi palestinesi, compresi i commercianti. Sono state fatte eccezioni per emergenze sanitarie e, in Cisgiordania, anche per studenti e impiegati palestinesi presso ONG internazionali e agenzie delle Nazioni Unite. Per israeliani e titolari di documenti di identità di Gerusalemme, coloni compresi, gli spostamenti tra Israele e la Cisgiordania sono proseguiti senza restrizioni. Inoltre, a Tulkarm e Jenin, a causa delle festività ebraiche, le autorità israeliane hanno rimandato fino al 23 ottobre l’apertura dei cancelli della Barriera della Cisgiordania, interrompendo l’accesso degli agricoltori alle loro terre per la raccolta delle olive.

La stagione della raccolta delle olive, iniziata ai primi di ottobre, è stata interrotta in diverse aree dalla violenza di coloni israeliani. Gli episodi includono l’aggressione fisica ed il ferimento di tre contadini palestinesi a Tell e Jit (entrambi a Nablus) e Al Jab’a (Betlemme). Includono inoltre l’incendio di circa 100 ulivi e sette furti di raccolti nei villaggi di Kafr ad Dik (Salfit) e Burin (Nablus). Per i palestinesi, la stagione della raccolta delle olive, che si svolge ogni anno tra ottobre e novembre, è un evento chiave, sia dal punto di vista economico che sociale e culturale.

Altri cinque attacchi di coloni hanno provocato ferimenti di palestinesi e danni alle proprietà. In due di questi attacchi, verificatesi nella zona della città di Hebron controllata da Israele e nella Comunità di Khirbet al Marajim, quattro palestinesi, tra cui un minore e una donna, sono stati aggrediti e feriti fisicamente da coloni israeliani. In altri due casi, avvenuti nei villaggi di Qira e Marda (entrambi a Salfit) oltre 20 veicoli e alcune abitazioni sono stati vandalizzati; in altri due casi separati due veicoli sono stati colpiti da pietre e danneggiati. Finora, nel 2019, OCHA ha registrato 243 episodi in cui coloni israeliani hanno ucciso o ferito palestinesi o danneggiato proprietà palestinesi. Questo numero indica un limitato aumento rispetto al corrispondente periodo del 2018 (213 casi), ma un numero di casi quasi doppio rispetto al 2017 (124).

Media israeliani hanno riportato tre episodi di lancio di pietre e bottiglie incendiarie da parte di palestinesi contro veicoli o case di coloni israeliani: non sono state segnalate vittime o danni. Finora, nel 2019, OCHA ha registrato 84 episodi in cui palestinesi hanno ucciso o ferito coloni o altri civili israeliani oppure danneggiato le loro proprietà: un declino rispetto al numero di episodi verificatisi nei corrispondenti periodi del 2018 (141 episodi) e 2017 (211 episodi).

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nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it