Israele assassina a Gaza l’importante leader della Jihad Islamica Bahaa abul-Ata

Moatasim Dalloul da Gaza

12 Novembre 2019 – Middle East Eye

La Jihad Islamica ha anche annunciato che Akram al-Ajjouri, membro del suo ufficio politico, è sopravvissuto a un attacco israeliano contro la sua casa a Damasco.

All’alba di martedì [12 novembre 2019] l’esercito israeliano ha annunciato di aver assassinato

In un comunicato congiunto l’esercito israeliano e l’Agenzia per la Sicurezza Generale (Shin Bet), hanno affermato di aver effettuato un attacco aereo alle 4 del mattino prendendo di mira l’edificio in cui si trovavano abul-Ata e sua moglie.

Il comunicato afferma che al-Ata era il “capo supremo della Jihad Islamica” e che l’assassinio è stato approvato una settimana fa dal primo ministro israeliano e ministro per la Sicurezza, Benjamin Netanyahu.

In una dichiarazione la Jihad Islamica ha confermato la morte di abul-Ata, il comandante del gruppo nel nord della Striscia di Gaza, e di sua moglie Asmaa durante un attacco israeliano contro la loro casa a est di Gaza City. Il ministero della Salute palestinese ha affermato che nello stesso attacco aereo i fratelli e la sorella della coppia, Salim, Mohammed Layan e Fatima, insieme alla loro vicina Hanan Hellis, sono rimasti feriti e sono in condizioni stabili.

La Jihad Islamica ha anche annunciato che Akram al-Ajjouri, membro del suo ufficio politico, è sopravvissuto a un attacco israeliano nella sua casa di Damasco e che suo figlio e un certo numero di guardie del corpo sono stati uccisi.

Circa un’ora dopo le uccisioni a Gaza, parecchi allarmi per il lancio di razzi sono risuonati nella parte meridionale di Israele, comprese Ashdod, Beit Elazari, Ashkelon, Zikim, Karmia, e a nord fino a Holon e Rishon le Zion, alla periferia di Tel Aviv, segnalando che erano in corso rappresaglie della Jihad Islamica.

Secondo le informazioni della polizia, ad Ashdod non sono state riportate vittime, ma sono stati danneggiati alcuni veicoli.

Il quotidiano israeliano Haaretz [di centro sinistra, ndtr.] ha affermato che sono in corso preparativi per un’ulteriore escalation, con scuole e ogni attività non essenziale chiuse nella zona presa di mira, e le autorità locali stanno predisponendo rifugi.

In seguito alle ultime uccisioni a Gaza, Benny Gantz, il leader di “Blu e Bianco” [partito di centro destra di opposizione che ha vinto le ultime elezioni, ndtr.] attualmente incaricato di formare il futuro governo israeliano, ha detto su Twitter: “Stanotte i dirigenti politici e l’IDF (esercito israeliano) hanno preso la giusta decisione per la sicurezza dei cittadini di Israele e della gente del sud [di Israele]

Blu e Bianco’ sosterrà ogni giusta attività per la sicurezza di Israele e mette la sicurezza del popolo al di sopra della politica.”

Nuova guerra israeliana”

Parlando con Middle East Eye, Khalid al-Batch, membro dell’ufficio politico della Jihad Islamica, ha affermato: “Questi crimini sono l’annuncio di una nuova guerra israeliana contro il popolo palestinese e l’occupazione israeliana ne è responsabile.”

Riguardo al tempismo dell’assassinio, Batch ha detto: “L’occupazione israeliana sta scaricando le sue crisi interne sui palestinesi e sui loro gruppi della resistenza.”

A proposito del tentativo di assassinio di Ajjouri, ha affermato: “L’occupazione israeliana ha oltrepassato i confini per aggredire i palestinesi.

Ci deve essere una risposta massiccia che sia all’altezza dei crimini.”

Batch ha detto che il suo movimento e la sua ala militare sono pronti alla rappresaglia e a difendere il popolo palestinese a Gaza e ovunque.

Tutte le altre fazioni palestinesi, compresi Hamas, Fatah, il Fronte Popolare e il Fronte Democratico hanno condannato l’“aggressione” israeliana e hanno anche dato la colpa all’occupazione israeliana per ogni possibile escalation.

Il portavoce di Hamas Hazim Qasim ha detto a MEE: “L’occupazione sionista ha la colpa delle conseguenze di questo assassinio e di questa pericolosa escalation.

La resistenza contro l’occupazione israeliana continuerà e si accentuerà. Il criminale assassinio del dirigente della Jihad Islamica non rimarrà impunito.”

Qasim ha detto che i comandi congiunti delle ali militari delle fazioni palestinesi decideranno quanto grande e quanto lunga sarà la rappresaglia.

Ha detto che Hamas non prenderà mai da sola una decisione su qualunque problema palestinese, e che ogni misura deve essere discussa con altre fazioni palestinesi e una decisione collettiva verrà presa insieme a loro.

Netanyahu si prende il merito

Parlando con MEE l’analista politico Adnan abu-Amer ha detto che l’uccisione di abul-Ata è stato il primo assassinio di un importante leader della resistenza palestinese dal 2012, quando Israele uccise l’importante dirigente delle brigate Al-Qassam, l’ala militare di Hamas, Ahmed al-Jaabari.

Egli non esclude che l’uccisione possa portare a una più ampia escalation di violenza in quanto la Jihad Islamica sicuramente vendicherà l’uccisione dei suoi dirigenti.

Altre fazioni non rimarranno in silenzio, sopratutto Hamas, afferma, sostenendo che l’esercito israeliano ha detto di essere pronto per una serie di scontri che dureranno per un paio di giorni.

Abu-Amer afferma che il tempismo dell’assassinio di abul-Ata è legato alle conseguenze delle elezioni israeliane, in quanto Netanyahu ne ricaverà parecchi vantaggi.

Sostiene che Netanyahu sarebbe capace di rinviare la formazione di un governo di coalizione e spingere i politici israeliani ad accettare una coalizione d’emergenza guidata da lui.

Il primo ministro israeliano sarebbe anche in grado di rivendicare il risultato dell’uccisione di abul-Ata, in quanto ha intenzionalmente approvato l’operazione qualche ora prima di incaricare Naftali Bennett [leader del partito dei coloni “Nuova Destra”, ndtr.] alla guida del ministero della Difesa.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La visione progressista di Bernie Sanders sul “come combattere l’antisemitismo” rivela una visione superata di Israele

Nada Elia

11 novembre 2019       Mondoweiss

L’editoriale di Bernie Sanders, “Come combattere l’antisemitismo”, coglie molti argomenti appropriati con le attuali idee progressiste. Ricordando come i crimini di odio siano cresciuti dopo l’elezione di Trump, scrive: “Gli antisemiti che hanno marciato a Charlottesville non odiano solo gli ebrei. Odiano l’idea della democrazia multirazziale. Odiano l’idea di uguaglianza politica. Odiano gli immigrati, le persone di colore, le persone LGBTQ, le donne e chiunque altro si opponga a un’America per soli bianchi. Accusano gli ebrei di coordinare un massiccio attacco contro i bianchi di tutto il mondo, usando persone di colore e altri gruppi emarginati per fare il loro lavoro sporco.”

Bernie continua col denunciare l’utilizzo dell’antisemitismo come arma, sia in quanto strategia per dividere i progressisti, sia come tentativo di soffocare le critiche nei confronti di Israele. L’antisemitismo, afferma Bernie, è “una teoria della cospirazione secondo cui una minoranza segretamente potente esercita il controllo sulla società. Come altre forme di fanatismo – razzismo, sessismo, omofobia – l’antisemitismo è usato dalla destra per dividere le persone l’una dall’altra e impedirci di lottare insieme per un futuro condiviso di uguaglianza, pace, prosperità e giustizia ambientale. Quindi voglio dire il più chiaramente possibile: affronteremo questo odio, faremo esattamente l’opposto di ciò che Trump sta facendo e riuniremo le nostre differenze per riunire le persone”.

Fin qui tutto bene. Ma poi, Bernie continua col fare una dichiarazione incredibilmente anacronistica, vale a dire che “Una delle cose più pericolose che Trump ha fatto è dividere gli americani usando false accuse di antisemitismo, soprattutto per quanto riguarda le relazioni USA-Israele. Dovremmo essere molto chiari sul fatto che non è antisemita criticare le politiche del governo israeliano”.

Per qualsiasi attivista amante della giustizia che  abbia sostenuto i diritti dei palestinesi per molti lunghi anni prima che Trump aspirasse persino alla presidenza, e che sia stato tacciato per decenni di antisemitismo dai progressisti e dai PEPS (Progressisti Eccetto che per la Palestina), che sia stato inserito nelle liste nere, a cui siano state negate le promozioni o a cui siano stati sottratti i mezzi di sostentamento per aver criticato le politiche del governo israeliano, molto prima di Trump, questa affermazione è offensiva. La censura sistematica di qualsiasi critica progressista a Israele, l'”eccezione palestinese alla libertà di parola”, come è  noto, si è basata a lungo sulla falsa accusa di antisemitismo. Non è che, come vorrebbe Bernie, sia stato Trump [il primo] a farlo.

Il giudizio erroneo di Bernie sulla cronologia dell’utilizzo dell’accusa di antisemitismo come arma è, tuttavia, in sintonia con un altro suo grave errore storico, vale a dire la sua nostalgia dei sionisti “liberal” per l’Israele precedente al 1967. Nonostante la sua affermazione stranamente vaga, che “la fondazione di Israele è ritenuta da un’altra popolazione nella terra di Palestina la causa del loro doloroso sradicamento”, Bernie afferma sbrigativamente che i gravi crimini di Israele sono iniziati solo con l’occupazione del 1967.

 “Quando guardo al Medio Oriente – scrive Bernie – io vedo in Israele [un Paese] in grado di contribuire alla pace e alla prosperità dell’intera regione, ma a cui mancano le possibilità di farlo in parte a causa del suo conflitto irrisolto con i palestinesi. E vedo un popolo palestinese desideroso di dare il suo contributo – e con molto da offrire -, eppure schiacciato sotto un’occupazione militare che ormai dura da mezzo secolo, che determina una realtà quotidiana di dolore, umiliazione e risentimento. Porre fine a quell’occupazione e consentire ai palestinesi di avere l’autodeterminazione in uno Stato indipendente, democratico ed economicamente vitale è nell’interesse degli Stati Uniti, di Israele, dei palestinesi e della regione”.

Evidentemente l’illusione dei due Stati è difficile da abbandonare. Quindi sarò molto onesta: Bernie non è il candidato dei miei sogni. La sua nostalgia per l’Israele di prima del 1967 rivela una cecità riguardo l’oppressione strutturale insita nella fondazione dello Stato etno-nazionalista che egli ama. Afferma “Il mio orgoglio e la mia ammirazione nei confronti di Israele convive con il mio sostegno alla libertà e all’indipendenza palestinese. Respingo l’idea che ci siano delle contraddizioni”, eppure sembra inconsapevole che la stessa discriminazione che denuncia nella Cisgiordania post-1967 è stata e rimane l’esperienza quotidiana dei palestinesi all’interno della Linea verde [linea di demarcazione stabilita tra Israele e alcuni paesi arabi dopo il 1949, n.d.tr.]. Non riconosce che Israele ha negato ai palestinesi il diritto al ritorno nelle loro città a partire dal 1948, non solo dal 1967, e che Israele stava già sparando sui palestinesi che cercavano di reclamare le loro proprietà nel 1948, 1949 e fin da allora, non solo a partire dalla Grande Marcia del Ritorno.

Tuttavia, [riguardo] questo ciclo elettorale, sono solo pragmatica. Nel condannare ancora l’intero sionismo in quanto razzismo, le mie critiche a Bernie non significano che non voterò per lui, e inviterò anche gli altri a votare per lui, se dovesse essere il candidato democratico. E per molti versi, Bernie rimane il miglior candidato presidenziale raccomandabile per quanto riguarda i palestinesi, non ultimo a causa della sua recente dichiarazione sul cambiare orientamento di alcuni degli aiuti statunitensi a Israele verso aiuti umanitari a Gaza, e il suo riconoscimento che non può esserci una soluzione che non rispetti i diritti e le aspirazioni palestinesi.

Questo paese è arrivato così a destra che una presidenza di Bernie Sanders, pur non risolvendo la maggior parte dei problemi, produrrà un correttivo indispensabile, sia a livello nazionale, sia in termini di politica estera.

Nada Elia

Nada Elia è una studiosa e attivista palestinese, scrittrice e responsabile di movimenti locali,. A attualmente sta completando un libro sull’attivismo nella diaspora palestinese.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




I lacrimogeni devastano le condizioni di vita a Gaza

Amjad Ayman Yaghi

6 novembre 2019 – The Electronic Intifada

Attraverso le sue fotografie Atia Darwish ha documentato come, nonostante il fatto di essere sottoposta a un brutale blocco israeliano, la gente di Gaza riesca ancora a trovare momenti di gioia.

La sua immagine di bambini palestinesi che mangiano un’anguria in spiaggia è stata ospitata in un’esposizione all’aperto che in settembre ha circolato in Libano.

Molti di quelli che si sono meravigliati dell’immagine probabilmente non erano a conoscenza del fatto che l’uomo che l’ha fotografata attualmente non può lavorare. Darwish ha perso parzialmente la vista – indispensabile per un fotografo – a causa di ferite inflittegli da Israele.

Il 14 dicembre dello scorso anno Darwish stava lavorando durante le proteste della Grande Marcia del Ritorno nella zona orientale di Gaza. Stava scattando foto da circa mezz’ora quando è stato ferito da un candelotto lacrimogeno.

Darwish ha perso conoscenza. Quando l’ha riacquistata, si è ritrovato in terapia intensiva all’ospedale al-Shifa di Gaza City.

Il candelotto lo aveva colpito sotto l’occhio sinistro. Ha perso alcune ossa attorno all’occhio e anche la mascella è stata danneggiata.

L’occhio ha continuato a sanguinare per una settimana e il mio orecchio nei due giorni successivi,” dice.

Darwish teme di non poter recuperare la vista.

Nel febbraio di quest’anno è andato a farsi curare in Egitto. Lì un medico gli ha diagnosticato una fibrosi della retina e ha detto che non è curabile.

Posso solo essere sottoposto ad [un intervento di] chirurgia estetica,” dice Darwish. “Mi sento abbandonato. Il mondo non considera le bombe lanciate contro di noi da Israele come pericolose. Ma possono uccidere persone e i sogni dei nostri giovani.”

Darwish con l’occhio sinistro non può vedere a più di 15 cm. È anche diventato parzialmente sordo.

Il drammatico cambiamento del suo aspetto provocato dalla ferita lo ha scioccato. “Quando sono tornato a Gaza (dall’Egitto), mi sono sentito senza speranza guardando le vecchie foto di me su Facebook e Instagram,” dice. “Non sarò mai più così.”

Darwish spera di riprendere a lavorare come fotografo, facendo affidamento sul suo occhio destro. “Dovrò stare più attento,” afferma.

Non era la prima volta che Darwish veniva colpito da un candelotto lacrimogeno mentre fotografava la Grande Marcia del Ritorno.

Nel luglio dello scorso anno uno di questi candelotti lo ha colpito alla gamba destra. In seguito ha dovuto essere curato per le ustioni.

Non letali?

Le sue ferite sono tutt’altro che rare. Benché l’esercito israeliano descriva i lacrimogeni come “non letali”, queste armi hanno ucciso [dei] palestinesi.

Almeno sette persone sono morte perché colpite da candelotti lacrimogeni sparati da Israele durante le proteste della Grande Marcia del Ritorno, iniziate il 30 marzo 2018. Quattro delle vittime erano minorenni.

Hasan Nofal è morto dopo essere stato colpito a febbraio da un lacrimogeno sparato verso i manifestanti. Aveva solo 16 anni.

Suo padre Nabil sta ancora cercando di capire cosa sia successo.

In un primo tempo, quando ha saputo che Hasan era stato ferito, Nabil non ha pensato che la ferita potesse essere troppo grave. Hasan si trovava ad una distanza sufficiente dalla barriera che separa Gaza da Israele, ha pensato Nabil.

Hasan è morto quattro giorni dopo essere stato portato in ospedale.

Mio figlio era innocente,” dice Nabil. “Israele sa che le bombe che lancia stanno uccidendo persone?”

Mentre la loro tragedia viene spesso ignorata dai mezzi di comunicazione occidentali, i manifestanti sono regolarmente feriti a Gaza. “Al Mezar”, un’organizzazione per i diritti umani, ha informato che solo il 25 ottobre 13 persone che hanno partecipato alla Grande Marcia del Ritorno sono state direttamente colpite da candelotti lacrimogeni. Ahmad Ammar, un ventitreenne di al-Shujaiyeh, un quartiere di Gaza City, è stato colpito da uno di questi candelotti a settembre. La bocca e la guancia destra sono rimaste gravemente ustionate, provocando danni a lungo termine al suo volto.

Ero lontano dalla barriera di confine,” dice Ammar. “Stavo bevendo un succo perché avevo la nausea a causa dei gas lacrimogeni, che hanno un forte odore. Quando ho iniziato lentamente ad allontanarmi ho sentito qualcuno gridarmi di stare attento alle bombe lacrimogene visibili vicino a me. Mi sono girato e improvvisamente sono stato colpito da una di loro.”

Disoccupato

Ammar ha perso conoscenza. “Quando mi sono risvegliato ero in ospedale,” racconta. “Alcuni dei miei amici erano vicino a me. Ho chiesto loro uno specchio per vedere la mia faccia, ma si sono rifiutati di darmelo.”

Ammar era solito vendere ortaggi in un mercato locale. Da quando è stato ferito non è tornato a lavorare. Non può pensare ad altro che alla sua ferita e ad ottenere una terapia correttiva. “Ho bisogno di una chirurgia estetica,” dice. “Sfortunatamente non si può avere a Gaza. Alcuni dottori mi hanno detto che qui non abbiamo le risorse necessarie. E fuori da Gaza è molto cara.”

I lacrimogeni che l’occupazione israeliana spara contro di noi uccidono i nostri sogni e le nostre speranze,” afferma. “Ogni giorno mi alzo e mi vedo allo specchio. Mi sento malissimo.”

Anche Mohammad Fseifes è rimasto disoccupato a causa delle ferite riportate durante una protesta a fine maggio.

Lavorava nelle costruzioni e nell’agricoltura nella zona di Khan Younis a Gaza. Da quando è rimasto ferito non è riuscito a trovare un lavoro.

Da circa cinque mesi ha frequenti dolori alla testa e stenta a dormire. Non si sente sufficientemente bene neppure per giocare a pallone.

Fseifes si trovava nei pressi della barriera di confine quando le truppe israeliane lo hanno colpito con un candelotto lacrimogeno. “Ricordo di essere caduto a terra,” dice. “Sei giorni dopo mi sono svegliato e ho visto mio padre. Ho forti dolori alla testa. Il medico mi ha detto che il mio cranio è stato fratturato.”

Sono molto triste quando mi guardo allo specchio,” aggiunge. “Il medico dice che posso essere operato al cranio, ma solo fuori da Gaza. Non so cosa ne sarà di me.”

Amjad Ayman Yaghi è un giornalista con sede a Gaza.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




“Fiori nel deserto” e insostenibilità ambientale

Francesca Merz

7 novembre 2019 Nena News

Tra le narrazioni più note vi è quella legata alla “fioritura del deserto”: la tecnologia messa al servizio di zone desertiche. Ma tutto questo ha avuto ed ha un costo eccezionale per l’ambiente, l’acqua e altre risorse naturali.

La narrazione dedicata alla capacità di far fiorire il deserto è certamente molto efficace, efficace a tal punto da essere stata la principale al centro del padiglione israeliano dell’Expo di Milano. Gli articoli che raccontavano dello stupendo padiglione israeliano così si esprimevano Un campo verde verticale, installazioni multimediali e le storie di un popolo industrioso, di tecnologie all’avanguardia e aziende innovative che hanno fatto fiorire il deserto. Queste sono le prerogative del Padiglione Israele a Expo 2015”. “Fields of tomorrow” i campi del domani, ecco il titolo immaginifico e grandioso che raccontava di un popolo e di un’industria che era stata capace di apportare benessere, verde, coltivazioni mai tentate, dove prima era deserto.

Nella prima stanza del padiglione attori e performer interagiscono con il pubblico mentre video sono proiettati alle pareti. La prima parte della mostra racconta la storia e le vite di tre generazioni di contadini che sono riusciti a far fiorire il deserto. Attraverso ricordi, immagini e filmati i visitatori scoprono l’ostinazione pro-attiva degli israeliani ma anche la loro attitudine di fronte alle avversità” L’articolo continua “Una sezione della mostra è dedicata alla Foresta KKL-JNF. Con all’attivo 240 milioni di alberi piantati negli ultimi 70 anni, Keren Kayemeth LeIsrael – Jewish National Fund sta riforestando il paesaggio di Israele e offre nuove chance a ecosistemi a rischio creando una banca di semi, sviluppando nursery botaniche e piantando alberi”. “Israele è un Paese giovane, ma con una tradizione di tremila anni, che attraverso lavoro, ricerca e sviluppo ha saputo rendere fertili molti dei suoi terreni in prevalenza aridi”. Queste le argomentazioni scelte dal governo di Netanyahu per presentare alla vetrina milanese che aveva come slogan “Nutrire il pianeta” l’ennesima storia fatta di molte imprecisioni. E’utile quindi fare un passo indietro e provare a capire con maggiore precisione, come nascono “i fiori nel deserto”. Per sostenere questo sistema di fioritura Israele sta da anni affrontando una delle crisi più ampie sul rifornimento di acqua, il lago di Tiberiade, che era stata la principale fonte d’acqua potabile per Israele, si sta prosciugando.

Da un paio di decenni, resisi conto che il problema stava divenendo assai importante per tutta l’economia dello Stato, le autorità israeliane hanno avviato un piano di desalinizzazione dell’acqua di mare riuscendo a ridurre la quantità di acqua che veniva estratta dal lago per irrigare le vaste coltivazione del deserto. Tiberiade rimane però in condizioni sempre sotto soglia. Il governo israeliano era arrivato a prendere 400 milioni di metri cubi all’anno di acqua, per poter gestire la sempre maggiore richiesta idrica per coltivazioni, allevamenti e colonie con esigenze ben lontane da quel calibrato uso delle risorse che era stato attuato per secoli dalle comunità storiche. È il motivo per cui Israele ha deciso di investire circa 250 milioni di euro per pompare nel lago acqua presa dal Mediterraneo, che dista circa 50 chilometri, e in seguito desalinizzata. È risultata però un’impresa complicata, perché mai nella storia un lago di acqua dolce è stato ri-riempito in questo modo, una volta installate tutte le pompe, ci si aspettava di stabilizzare il livello del lago entro il 2020, obiettivo che appare quanto mai lontano. I lavori fanno parte di un ancora più grande piano del Ministro dell’Energia Yuval Steinitz, che vuole raddoppiare la quantità d’acqua che Israele desalinizza ogni anno, e che al momento è pari a circa 600 milioni di metri cubi.

Il problema dell’acqua, come si può immaginare, è stato vivo sin dall’inizio dell’occupazione, la crescente quantità di popolazione, e le necessità di una popolazione con abitudini occidentali, ha comportato fin dall’inizio la necessità di controllare le risorse idriche del territorio. Il 90 per cento dell’acqua del Giordano viene portata al Negev per il progetto sul deserto, non solo bypassando tutte le necessità dei palestinesi sulla strada, ma sballando completamente tutti gli equilibri naturali. Assolutamente esemplare è l’esempio della valle di Gerico, in cui sono sorte 33 colonie, per la maggior parte specializzate in monocolture molto richieste dal mercato interno e internazionale, come il caffè e il the, piantagioni tipicamente inadatte al luogo, e che tendono ad inaridire terreni, che avrebbero necessità di colture a rotazione. Parallelamente, proseguendo nella valle, le intense monocolture sono invece di ananas, banane, palma da dattero, manghi, avocados. Coltivazioni non endemiche, disadatte alla ciclicità e al naturale rinnovamento del terreno; in tutta la valle di Gerico e non solo, sono completamente scomparsi gli alberi più caratteristici del territorio, ovvero gli alberi di arance, il commercio delle arance, come tristemente ci racconta anche l’esperienza economica siciliana, era troppo poco redditizio rispetto a datteri, manghi o avocados, cibi che oramai con la nuova cultura alimentare sono molto più richiesti e vengono pagati maggiormente.

Il problema idrico rimane tema cruciale della politica e della propaganda elettorale israeliana, tra i vari progetti saltati fuori negli anni, anche la creazione di un canale di comunicazione tra il Mar Rosso e il Mar Morto, progetto difficile e quasi irrealizzabile ma che ha visto molta popolarità anche nelle recenti campagne elettorali, insieme all’altro grande tema: la presa da parte di Israele di tutta la valle del Giordano per ragioni economiche  e strategiche, valle che conserva la maggior parte delle risorse idriche utilizzabili. Questi  progetti di immensa portata, che prevedono la costruzione di pompe idrauliche e la desalinizzazione progressiva delle acque pompate dal mare, sono salutati dalla comunità internazionale con l’afflato salvifico che fa come sempre di Israele il salvatore di un territorio arido, senza invece capire minimamente che questa immensa opera è pensata per arginare i danni irreversibili di uno sviluppo economico insostenibile sul piano ambientale, prosciugando il lago di Tiberiade, il Giordano e conseguentemente il Mar Morto, a causa di una politica dello spreco senza precedenti. Il medesimo discorso fatto per Tiberiade vale ovviamente per il Mar Morto, il calo dei livelli di acqua non è il risultato dei cambiamenti climatici, ma è dovuto all’aumentato uso delle acque degli immissari che dovrebbero rifornire il lago per l’irrigazione, e allo sfruttamento per l’estrazione di minerali. Il bacino è alimentato principalmente dal fiume Giordano, che si immette nel lago a nord, ma il Giordano non ha emissari, dunque se si modifica il suo corso prelevando una ingente parte delle sue acque per l’agricoltura e le colonie, il contraccolpo non solo sul fiume stesso ma anche sul mar Morto è risultato insostenibileil ritiro dell’acqua ha lasciato intere sezioni del lago completamente secche, e questa rapida diminuzione del livello del Mar Morto ha una serie di conseguenze dannose, che vanno dai più elevati costi di pompaggio per le fabbriche che utilizzano il Mar Morto per estrarre il cloruro di potassio, magnesio e sale, ad un accelerato deflusso delle acque dolci sotterrane e circostanti dalle falde acquifere, inoltre, sempre per portare i famosi “fiori nel deserto”, il Giordano da circa cinquanta anni viene sfruttato per irrigazione su larga scala sottraendo gran parte dell’acqua che da sempre alimenta il lago.

Basti pensare che Israele controlla una diga nella parte meridionale del Lago di Tiberiade attraverso la quale può regolare il flusso d’acqua in entrata. Attualmente l’acqua che arriva nel Mar Morto è pari a meno di 30 metri cubi al secondo mentre secondo i dati dei primi anni Sessanta la portata del Giordano era stimata attorno ai 1.300 metri cubi. Ecco il motivo per cui il livello del lago salato è sceso di 27 metri in circa 35 anni, ad un ritmo medio di poco meno di un metro all’anno. L’estensione complessiva del Mar Morto è di oltre 1000 kmq, lungo circa 75 chilometri e largo 15. Fino a circa trenta anni fa si componeva di due bacini comunicanti e uniti tra di loro, oggi, in seguito alla continua evaporazione e al minore contributo idrico dovuto alla variazione del corso del Giordano, per alimentare la straordinaria agricoltura iper-tecnologica che ha fatto fiorire il deserto, il bacino meridionale si è quasi completamente prosciugato, lasciando al posto dell’acqua una vasta distesa di sale. La salinità media delle acque raggiunge il 33.7%, valore elevatissimo se lo confrontiamo con il Mar Rosso che ha una salinità media del 3.8%. Il fiume Giordano si è ridotto a uno stretto ruscello marroncino che gorgoglia verso sud. Una volta 1,3 miliardi di metri cubi d’acqua scorrevano ogni anno attraverso il fiume Giordano. Era largo 25 metri, fiancheggiato da salici e pioppi e pieno di pesci che potevano essere mangiati. Oggi l’acqua del fiume Giordano non proviene più dal Mare di Galilea ma dalle acque reflue, dal deflusso agricolo contaminato e dall’acqua salata che è stata scaricata al suo interno. Uno dei piccoli affluenti del fiume, il torrente di Erode, oggi è contaminato a causa degli allevamenti intensivi e dalle enormi vasche di pesci riempite con mangimi, ormoni ed escrementi di pesci. Poco lontano, la grande diga di di Alumot è ridotta a un semplice tumulo di terra a soli due chilometri da dove il fiume ha avuto inizio. Sul lato settentrionale della diga macchinari pesanti pompano acqua fresca di fiume nel vettore nazionale israeliano, che fornisce agli israeliani da un quarto a un terzo della loro acqua dolce, mentre sul lato meridionale della diga un grande tubo emette acqua di fogna giallo-marrone che gorgoglia e schiuma nel letto del fiume.

Questo è lo scenario del nuovo deserto fiorito, mentre prima certamente il deserto era solo deserto, ma era inutile e inutilizzato solo per i nostri occhi occidentali, era invece un perfetto sistema climatico in equilibrio da millenni, capace di dare cibo in abbondanza e sostentamento ad un popolo, quello palestinese, che, a differenza di quanto ci piace credere, non è mai stato povero, come dimostrano molto bene i reportage dei viaggiatori ottocenteschi, che raccontano di un popolo di pastori, agricoltori, proprietari terrieri, beduini il cui legame con quella terra conosciuta palmo a palmo da secoli, consentiva un equilibrio e una ricchezza in termini di produzione, che ne faceva decantare i fasti dai pellegrini che passavano per quelle terre d’Oriente, le cui memorie di viaggio parlavano di une terra ricca di ogni prelibatezza e prodotto, e i prodotti di quella terra, al contrario di ciò che possiamo immaginare, non erano datteri, non erano avocados, non erano manghi, così richiesti dal recente mercato “bio” internazionale, che si ritiene etico e solidale per il solo essere vegano, ma che davvero poche domande si fa sulle metodologie di produzione di ogni singolo frutto che arriva sulle nostre tavole. Il deserto dunque è fiorito, fiorito grazie a coltivazioni non endemiche che succhiano quantità di acqua che prima serviva per sostentare migliaia di ettari, e ora non basta nemmeno per una singola coltivazione intensiva, fiorito grazie al lavoro minorile e sottopagato, fiorito devastando l’eco-sistema globale,  fiorisce ora per lasciare poi morte e desertificazione nel giro di pochi decenni, eliminando la naturale ciclicità delle coltivazioni, essenziale per preservare il terreno e renderlo coltivabile nel tempo, come già chiaramente visibile dal prosciugamento massiccio del Lago di Tiberiade e del Mar Morto.

La grande quantità di risorse necessarie non è utilizzata solo per le coltivazioni intensive, ma anche in gran parte per la vita delle colonie e degli insediamenti illegali, all’ingresso di ognuna delle colonie che potrete visitare vi si presenterà di fronte una ricca serie di aiuole e fontane. Le colonie del  Neghev sono veri e propri villaggi turistici perfetti, con villette a schiera in stile Florida, grandi centri commerciali, fiori dai mille colori, una immagine distopica, un outlet del benessere nel mezzo del deserto, in cui ogni forma di disordine è stata abolita, dove il “decoro”, parola così abusata di questi tempi, regna sovrano, in cui filari di pini (ebbene sì, i pini, nel deserto) allineati come le coscienze collettive di uno stato di polizia, segnano il punto più elevato di quel concetto di pulizia e decoro tanto caro ai nostri giorni. Decoro e benessere, in contrapposizione con la gioiosa e apparentemente disorganizzata vita che lì, in quelle terre, aveva consentito un equilibrio straordinario tra uomo, ambiente e animali. Il deserto è fiorito, i beduini che vi abitavano sono relegati in campi profughi, gli stessi beduini che da secoli con equilibrio e rispetto per il clima e per la ciclicità delle stagioni preservavano quell’ambiente desertico conoscendo tutte le sue falde acquifere che si rinnovavano nel tempo. Il nostro occhio poco allenato a pensare che un deserto possa essere un luogo di vita, si accontenta di provare ammirazione per chi riesce a far fiorire i tulipani nel deserto, così vedere i fiori e accanto il deserto e le tende dei beduini nella nostra narrazione distorta ci fa pensare ad un miglioramento, è invece un’aggressione scriteriata al territorio, non solo ai danni dei palestinesi, ma di un intero ecosistema, e di un valore paesaggistico destinato a perdersi per sempre, un’aggressione che Israele stesso sta pagando, poiché l’abbassamento del livello del Mar Morto e del lago di Tiberiade sono i primi e più evidenti segnali del grande collasso creato da questa situazione, uno sfruttamento esagerato e non controllato delle risorse del territorio; per questo eccesso di richiesta di risorse non basta nemmeno più utilizzare l’acqua dei pozzi in territorio palestinese, come Israele fa da tempo, avendo posto sotto il suo controllo l’intera rete idrica.

Come ci ricorda Neve Gordon L’80% delle falde acquifere montane, i più vasti bacini d’acqua di queste regioni, è ubicato nel sottosuolo della Cisgiordania, il restante 20% in quello israeliano. Rendendosi conto dell’importanza di questa risorsa vitale, che al momento fornisce il 40% del fabbisogno dell’agricoltura di Israele, e quasi il 50% della sua acqua potabile, dopo la guerra Israele cominciò a modificare lo statuto giuridico e istituzionale dei diritti sull’acqua delle regioni occupate. L’effetto principale di tale trasferimento di poteri fu una pesante limitazione alla trivellazione di nuovi pozzi atti a soddisfare i bisogni degli abitanti palestinesi, in parallelo all’appropriazione di acqua per soddisfare i fabbisogni della popolazione israeliana.

In contrapposizione a questo modello, può essere utile riportare uno dei tantissimi esempi virtuosi di coltivazione e cura del territorio, portato avanti in Palestina, uno degli esempi più significativi è ciò che sta avvenendo nel villaggio di Battir, un luogo che di per sé merita il viaggio, merita per poter respirare modelli economici e sociali differenti.  Battir è una comunità autonoma, un villaggio di circa 4000 persone, situato poco a sud di Gerusalemme, poco lontano da Betlemme,  un paesino dove le colline sono ricoperte di ulivi ed un antico sistema di irrigazione permette al verde di crescere rigoglioso. A Battir ci sono vigneti, alberi di fico, sette sorgenti naturali e terrazze coltivate. Il paese è incastonato in un sistema di valli dove l’agricoltura fiorisce sin dal tempo dei romani e le cisterne dell’epoca sono ancora in funzione, restaurate e tenute funzionanti da una comunità locale attenta e consapevole. Alcune funzionano anche da vasche di pietra dove la gente del posto fa il bagno per rinfrescarsi quando il caldo è troppo torrido. Recentemente Battir è diventato patrimonio Unesco. La comunità autonoma ha fatto una scelta importante, quella di non farsi finanziare da aiuti internazionali, il loro modello di sviluppo si è basato su una condivisione iniziale, la scelta di sedersi intorno ad un tavolo per capire come gestire la terra, anche per loro è stato del tutto nuovo, Vivien Sansor, fotografa e attivista palestinese, è tra le anime del progetto, e ci racconta di come esso sia nato, e di come le persone non fossero abituate a poter scegliere per la loro terra.

A Battir hanno costruito una comunità autonoma, ad essere coinvolte nella gestione dei terrazzamenti le famiglie della comunità, che si occupano di coltivare e manutenere gli antichi terrazzamenti ancora intatti, nessuna occupazione è passata su queste terre, nessuna ruspa, nessuna nuova casetta californiana ha preso il posto delle meraviglie che si possono osservare in questa oasi di bellezza autentica. Ogni famiglia ha il suo lotto di terra, e raziona l’acqua, come era d’uso in quelle comunità fin dall’antichità. L’ Unesco l’ha iscritta nel suo patrimonio, in relazione alle sue terrazze, e ai canali di irrigazione, ed è così che Battir continua a combattere costantemente l’occupazione, tramite la salvaguardia  del suo patrimonio, materiale e immateriale, fatto di reperti, ma anche di tradizioni, e di un paesaggio con colture specifiche, adatte a non far impoverire il terreno, ma anzi capaci di dare nuova linfa ai terreni. E’ stato creato un ecomuseo, un vero e proprio progetto dinamico di supporto alla città. Da qui è ben visibile il clamoroso divario che esiste tra due concetti di mondo, economia, evoluzione completamente differenti. L’occupazione ha inciso e continua ad incidere sul paesaggio, volendolo fare anche quando non è necessario per scopi agricoli o di riconversione di terreni per le monocolture industriali. Dalla collina di Battir questo è subito chiaro: proprio da qui si può scorgere tutta la valle di fronte, sotto il controllo israeliano, e lì, in contrapposizione alla gioia rigogliosa di frutta e verdura delle terrazze di Battir, si può vedere una valle ricoperta di abeti portati dal Nord America, esili, gracili, su un terreno arido, rappresentano ancora una volta la necessità di sostituire una memoria.

L’architettura del paesaggio, così come quella urbana, è uno dei tanti metodi per mistificare la storia, modificando addirittura la flora e la fauna dei luoghi, una globalizzazione anche della natura che è regimentata, modificata, piegata, in una distorsione globale che aiuta la cancellazione di ogni memoria. Battir guarda gli abeti dalle sue cascate d’acqua, e si prepara a crescere: per il prossimo anno (2020) la comunità sta cercando di coinvolgere un numero sempre più alto di contadini per la gestione e la coltivazione dei terrazzamenti, ed anche in questo caso è chiaramente visibile che, oltre che due popoli in conflitto ci sono due modelli di sviluppo contrapposti. Nena News




Israele sta falsificando la storia palestinese e rubando la sua eredità

Nabil Al Sahli

6 novembre 2019 Middle East Monitor

La Palestina è uno dei paesi più ricchi del mondo in termini di antichità, in competizione con l’Egitto nel mondo arabo. Almeno 22 civiltà hanno lasciato il segno in Palestina, la prima delle quali fu quella dei Cananei; presenza che è ancora visibile fino a oggi.

Dal 1948, i governi israeliani che si sono succeduti hanno prestato una particolare attenzione alle antichità che hanno una spiccata identità araba e palestinese. Hanno formato comitati di archeologi israeliani per indagare in ogni parte della Palestina su cui è stato fondato Israele.

L’obiettivo è ancora quello di creare una falsa narrativa storica giudaizzando le antichità palestinesi.

Monumenti storici nelle principali città palestinesi, come Acri, Giaffa, Gerusalemme e Tiberiade, non sono stati risparmiati da questo processo.

Inoltre, Israele ha usato varie istituzioni per giudaizzare la moda palestinese attraverso il furto culturale e la falsificazione del suo patrimonio.

Nemmeno le ricette locali si salvano. Israele ha partecipato a mostre internazionali per mostrare moda e cucina palestinesi etichettate come “israeliane”. È così che l’occupazione israeliana e le “mafie” che vendono oggetti d’antiquariato di valore inestimabili stanno rubando l’eredità e la storia della Palestina risalenti a migliaia di anni fa.

Questo accade in un momento in cui i partiti palestinesi stanno prendendo provvedimenti e chiedono la protezione del loro retaggio, della loro storia e della loro civiltà.

In questo contesto, studi hanno indicato che ci sono più di 3.300 siti archeologici nella sola Cisgiordania occupata. Diversi ricercatori confermano che, in media in Palestina, ogni mezzo chilometro esiste un sito archeologico che indica la vera identità e la storia della terra.

Qui è importante menzionare gli effetti devastanti del muro di separazione israeliano nel futuro delle antichità e dei monumenti palestinesi.

La costruzione in corso del muro sulle terre palestinesi in Cisgiordania porterà infine all’annessione di oltre il 50% del territorio occupato. Comprenderà inoltre oltre 270 importanti siti archeologici, oltre a 2.000 postazioni archeologiche e storiche. Decine di siti e monumenti storicamente importanti sono stati distrutti durante la costruzione del muro.

Studi specializzati sulle antichità palestinesi indicano che, da quando ha occupato la Cisgiordania e la Striscia di Gaza nel giugno 1967, Israele ha potuto rubare e vendere ancora più manufatti palestinesi dalla Cisgiordania. Questo fenomeno è stato esacerbato dallo scoppio dell’Intifada di Al Aqsa alla fine di settembre 2000.

Studi palestinesi indicano che la ragione di questa Nakba (catastrofe) in corso è il crollo di qualsiasi sistema per proteggere le aree palestinesi a causa del controllo israeliano. Tale protezione rientra nella gestione diretta dell’occupazione, il che significa sostanzialmente che l’esercito israeliano è libero di distruggere il patrimonio culturale, come è accaduto a Gerusalemme, Nablus, Hebron, Betlemme e altre città e villaggi palestinesi.

Il furto archeologico e la violazione dei siti del patrimonio palestinese sono una delle maggiori sfide che i palestinesi devono affrontare mentre cercano di preservare la loro cultura e presenza fisica nella loro patria, minacciati dalla giudeizzazione e guidati dalle sistematiche politiche israeliane. Dobbiamo sensibilizzare la società palestinese perché affronti questa nuova e vecchia sfida imposta da Israele.

Dobbiamo anche aumentare la nostra capacità di combattere il furto della nostra storia da parte di Israele a livello locale, regionale e internazionale. Ciò può essere rafforzato dalla piena adesione della Palestina alle pertinenti organizzazioni internazionali, compreso l’UNESCO.

La diversità culturale in Palestina risale a migliaia di anni fa. È vergognoso che permettiamo che questo venga cancellato dalla storia, perché Israele cerca “prove” per la sua falsa narrazione dello “stato ebraico”, escludendo le popolazioni indigene.

(Traduzione dallo spagnolo di Carmela Ieroianni – Invictapalestina.org)




P sta per Palestina: paura e disgusto nella biblioteca dei bambini

Nada Elia

4 novembre 2019-11-11  MIDDLE EAST EYE

L’autrice Golbarg Bashi dice di aver ricevuto attacchi e intimidazioni da parte di gruppi sionisti relativamente a un libro per bambini che insegna l’alfabeto

Quando le forze di sicurezza hanno circondato l’edificio a Highland Park nel New Jersey, l’autrice –  che ha avuto bisogno di una scorta armata della polizia – ha dovuto entrare da una porta sul retro. Un suo amico, membro di ‘Jews for Palestinian Right of Return’ [Ebrei per il diritto al ritorno dei palestinesi] era al suo fianco durante l’evento.

Fuori, la polizia era pronta ad agire. Il timore era che membri della‘Jewish Defense League’ [Lega per la difesa ebraica], considerata dall’FBI un gruppo terrorista di destra, sarebbero intervenuti ad attaccare i clienti della biblioteca, come avevano fatto due an ni prima per un’altra presentazione dello stesso libro.

Infatti, posizionati su entrambi i lati dell’entrata della biblioteca, sotto una pioggia battente, vi erano due gruppi. Da una parte c’erano i sostenitori, con uno striscione colorato con la scritta: “Sosteniamo le nostre biblioteche, la libertà di parola e i diritti dei palestinesi.”

Sull’altro lato, imitando i raduni di nazionalisti bianchi che sono oggi una triste presenza in alcune parti degli USA, gli avversari intonavano slogan pro Trump e gridavano insulti all’autrice.

Calunniata come terrorista

 “Mi sono sentita come un bambino afro-americano scortato dentro una scuola di bianchi a lui ostile negli anni ‘60”, ha detto a MEE l’autrice, Golbarg Bashi.

 “La comunità, gli utenti della biblioteca, non mi volevano, mi consideravano una minaccia. Nel periodo della desegregazione, i bianchi sostenevano che i neri fossero pericolosi, che i ragazzi neri avrebbero violentato le ragazze bianche. Oggi, la paura riguarda i palestinesi – nessuno dovrebbe nemmeno sapere che esistono ed il mio piccolo libriccino autofinanziato è considerato una minaccia.”

Infatti, dalla pubblicazione del suo libro per bambini nel 2017, Bashi è stata calunniata come terrorista e antisemita ed ha ricevuto minacce di morte. I sionisti hanno anche costretto una libreria indipendente di New York a smettere di tenere il libro e a formulare scuse per averlo tenuto in magazzino.

Secondo il titolare di quella libreria, l’ultima volta che aveva ricevuto simili minacce è stata decenni fa, dopo che l’Iran ha emesso una fatwa contro Salman Rushdie per il suo libro ‘I versetti satanici’.

Per garantire che non ci fosse una folla ostile accalcata nel locale della biblioteca, era necessaria una registrazione preventiva, riservata ai bambini in possesso della tessera della biblioteca, accompagnati da un genitore.

Il libro in questione, percepito come “minaccia” dai membri della comunità sionista di Highland Park, era ‘P is for Palestine’ [P sta per Palestina], un libro di alfabeto che fornisce insegnamenti sul Paese con semplici illustrazioni colorate. “A” sta per Arabo, “B” sta per Betlemme, “D” sta per Dabke [popolare danza mediorientale, ndtr.], e, il più contestato, “I” sta per Intifada.

Implicazioni legali

La presentazione, che alla fine si è svolta il 20 ottobre, era stata programmata come data alternativa ad una precedente presentazione in maggio, che aveva dovuto essere rinviata quando è scoppiato il finimondo nella comunità di Highland Park riguardo al libro, che alcuni ritenevano contenesse materiale offensivo.

Secondo il ‘New Jersey Jewish News’, “dopo che è stata annunciata per la prima volta la presentazione di Bashi, il conseguente finimondo ha attirato l’attenzione dell’Organizzazione Sionista Americana e dell’ Office for Intellectual Freedom of the American Library Association [Ufficio per la Libertà Intellettuale dell’Associazione Bibliotecaria Americana] (AMA). L’AMA ha contattato i funzionari della biblioteca dicendo che non era giusto cancellare un evento a causa di ipotetiche implicazioni legali o finanziarie.

La biblioteca ha ricevuto anche una lettera fermata da ACLU [American Civil Liberties Union, Unione per le Libertà Civili negli USA, organizzazione non governativa orientata a difendere i diritti civili e le libertà individuali negli Stati Uniti] del New Jersey, dal ‘Centro per i diritti costituzionali’, con sede a New York, e da  Palestine Legal [organizzazione per la difesa dei diritti civili e costituzionali delle persone che si esprimono a favore del popolo palestinese negli USA, ndtr.], che informava la biblioteca che essi ritenevano incostituzionale una cancellazione, segnalando che annullare la presentazione avrebbe potuto provocare un ricorso legale.”

Sicuramente è stato solo dopo l’invio delle lettere da parte di queste associazioni per i diritti civili che la biblioteca ha accettato di riprogrammare la presentazione.

Ma la vicenda potrebbe non finire qui : la presentazione del libro potrebbe ancora essere contestata come una violazione delle leggi federali anti-discriminazione (Titolo VI).

La biblioteca è stata minacciata di azione legale in quanto il libro è promosso da ‘Jewish Voice for Peace’ [Voci ebraiche per la pace, gruppo di ebrei antisionisti, ndtr.] di New York, un’organizzazione progressista che sostiene i diritti dei palestinesi, e da ‘Samidoun’, la rete di solidarietà con i prigionieri palestinesi.

Una lettera del 4 ottobre di Marc Greendorfer, un avvocato di Zachor [organizzazione per la memoria dell’olocausto, ndtr.], aveva avvertito la biblioteca che il centro legale anti-BDS [Movimento per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni contro Israele, ndtr.] avrebbe intrapreso un’azione contro di essa e il distretto di Highland Park per aver ospitato l’evento.

 “Sulla base di informazioni da noi ricevute, due dei principali promotori della presentazione, ‘Samidoun’ e ‘Jewish Voice for Peace’, hanno legami con organizzazioni che praticano la discriminazione e forniscono appoggio ad organizzazioni terroristiche”, affermava la lettera, suggerendo che la presentazione avrebbe violato le disposizioni anti-discriminazione del Titolo VI e potenzialmente anche le leggi anti-terrorismo, e che “se la biblioteca procedesse a tenere  questa presentazione noi sporgeremo denuncia presso il Dipartimento dell’Educazione.”

 ‘Praticamente vietato’

A quanto pare, secondo Bashi, il direttore della biblioteca l’ha successivamente informata che tutti i posti erano stati immediatamente prenotati nel giorno stesso dell’apertura delle registrazioni da noti sionisti in possesso della tessera della biblioteca, che prima si erano opposti alla presentazione. Alla fine, solo un piccolo gruppo di bambini si è presentato alla presentazione del 20 ottobre, e Bashi ha detto di aver avuto la netta sensazione che gli adulti che li accompagnavano fossero ostili.

Bashi ha detto a MEE che, quando lei ha rotto il ghiaccio con i bambini, scherzando con loro e domandandogli quali fossero le loro materie preferite a scuola, i genitori si sono irritati e alla fine “hanno strattonato i bambini fuori” dal locale.

Eppure, alla fine della sua presentazione, Bashi ha gentilmente offerto alla biblioteca una copia del libro, che la biblioteca non ha accettato.

 “Il mio libro è praticamente vietato”, ha detto Bashi, dato che le biblioteche pubbliche non lo accettano, mentre le librerie tradizionali stanno cedendo agli attacchi sionisti  contro i loro dipendenti e dirigenti e anch’esse rifiutano di accettarlo.

Bashi ha anche avuto la sua serie di problemi con i grandi distributori di libri online, dove ‘P is for Palestine’ è segnalato come esaurito, mentre il suo secondo libro, ‘Counting up the olive tree’ [Contare gli  alberi di ulivo] non viene neanche menzionato.

Fortunatamente, per coloro che desiderano una copia di uno dei libri o di entrambi, essi sono disponibili tramite il ‘Palestine Online Store’ – attualmente l’unico sito che contiene questi magnifici doni.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Nada Elia è una scrittrice e commentatrice politica palestinese della diaspora, che attualmente sta lavorando al suo secondo libro, “Chi chiamate ‘minaccia demografica’?: Note dall’Intifada globale.” E’ docente (in pensione) di Studi di genere e globali ed è membro del gruppo dirigente della campagna USA per il Boicottaggio Accademico e Culturale di Israele (USACBI).

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Il leader dei coloni in Cisgiordania da poco nominato promette di ottenere l’annessione

5 novembre 2019 – Middle East Monitor

Il Jerusalem Post [quotidiano israeliano di destra in lingua inglese, ndtr.] ha informato che il nuovo leader dalla popolazione di coloni israeliani nella Cisgiordania occupata ha promesso di lavorare per garantirsi l’annessione della maggior parte del territorio.

David ElHayani è stato eletto per guidare il consiglio di Yesha, dopo essere stato negli ultimi 11 anni a capo del consiglio regionale delle colonie, con sede nella Valle del Giordano.

Gli abitanti della Giudea e della Samaria (Cisgiordania) e della Valle del Giordano sono cittadini (israeliani) da tutti i punti di vista. Lavoriamo insieme, noi tutti, per mettere in pratica la sovranità su tutta l’Area C e nella Valle del Giordano [sotto totale ma temporaneo controllo di Israele in base agli accordi di Oslo, ndtr.] in Giudea e Samaria,” ha detto ElHayani dopo essere stato eletto.

Secondo l’articolo, “ElHayani ha anche approfittato dell’opportunità per invitare il primo ministro Benjamin Netanyahu e il capo del partito “Blu e Bianco” Benny Gantz [di centro destra e principale avversario di Netanyahu, ndtr.] a formare un governo di coalizione.

Da parte sua Netanyahu “ha telefonato a ElHayani per complimentarsi” ed ha promesso di lavorare insieme per promuovere la colonizzazione nella Cisgiordania occupata.

Tutte le colonie nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme est sono illegali in base al diritto internazionale.

Il precedente capo del consiglio di Yesha, Hananel Durani, ha detto di “essere sicuro che ElHayani riuscirà ad ottenere la sovranità (annessione) e a raddoppiare il numero di coloni ebrei in Giudea e Samaria in modo da arrivare a 1.000.000 di ebrei.”

Nel contempo Sharren Haskel, deputata israeliana della Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.] per il Likud [partito di destra attualmente al potere, ndtr.], ha presentato un progetto di legge per chiedere che il versante est della regione della Valle del Giordano, nella Cisgiordania occupata, venga formalmente annesso.

Secondo le informazioni, la proposta “permetterebbe agli abitanti palestinesi nel territorio di chiedere la cittadinanza israeliana entro dieci anni dalla sua messa in pratica, sempre che non siano stati accusati in passato di alcun delitto contro la sicurezza [di Israele] e non abbiano chiesto pubblicamente il boicottaggio contro Israele.”

Oggi esiste un ampio consenso riguardo a questa regione, in seguito al tanto sperato riconoscimento da parte del presidente statunitense della sovranità israeliana sulle Alture del Golan. È ora di fare altrettanto con la Valle del Giordano,” ha detto Haskel.

Domenica Ayelet Shaked, deputata della Knesset per il partito “Nuova Destra”, ha proposto un progetto di legge simile, focalizzato su una serie di importanti colonie in Cisgiordania.

(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)




Come Israele ridefinisce il diritto internazionale per coprire i suoi crimini a Gaza

Ben White

5 Novembre 2019 – Middle East Eye

L’approccio di Israele al diritto internazionale può essere sintetizzato così: ‘Se fai qualcosa per un tempo abbastanza lungo, il mondo lo accetterà’.

Da quando Israele, nel 2005, ha evacuato coloni e ha riposizionato le sue forze armate lungo la barriera perimetrale, ha sottoposto i palestinesi di Gaza a numerose aggressioni devastanti, un blocco e costanti attacchi contro persone come agricoltori e pescatori.

Molte di queste politiche hanno ricevuto pesanti condanne – da parte palestinese ovviamente, ma anche da parte di associazioni per i diritti umani israeliane e internazionali e addirittura da parte di leader e politici mondiali – seppure, purtroppo, raramente accompagnate da azioni concrete a livello di Stati. Israele tuttavia ha cercato di evitare anche solo la possibilità di una significativa assunzione di responsabilità. Il suo approccio è stato molto semplice: di fronte alle critiche per aver violato le leggi, cambia le leggi.

Fornire copertura

Più precisamente, Israele si è impegnato molto a sviluppare e promuovere interpretazioni del diritto internazionale che forniscano una copertura alle sue politiche e tattiche nella Striscia di Gaza.

Nel gennaio 2009, all’indomani di un’offensiva israeliana [operazione Piombo Fuso, ndtr.] che ha portato al rapporto Goldstone commissionato dall’ONU, è stato pubblicato su Haaretz un dettagliato articolo sul lavoro della sezione sul diritto internazionale all’interno dell’ufficio dell’Avvocatura Generale militare. Si tratta dei dirigenti responsabili di controllare (o forse autorizzare) le azioni e le tattiche militari e di fornire la giustificazione legale a tali azioni.

Una delle persone intervistate in quell’articolo era Daniel Reisner, che era stato in precedenza a capo della sezione sul diritto internazionale. “Se fai qualcosa abbastanza a lungo il mondo la accetterà”, ha detto. “Il complesso del diritto internazionale è ora basato sul concetto che un atto vietato oggi diventa accettabile se attuato da un sufficiente numero di Paesi…Il diritto internazionale progredisce attraverso le violazioni ad esso.”

È stata la Striscia di Gaza ad essere usata da Israele come laboratorio per simili violazioni “progressive”. Un esempio è dato dallo stesso status di Gaza. Fin dal 2005 la posizione di Israele è stata che Gaza non è né occupata né sovrana, bensì costituisce un’“entità ostile”.

Nel suo recente libro ‘Justice for some’ [Giustizia per alcuni], la studiosa Noura Erakat analizza in dettaglio le implicazioni di una simile definizione, che fa di Gaza “né uno Stato in cui i palestinesi hanno il diritto di governarsi e proteggersi, né un territorio occupato la cui popolazione civile Israele ha il dovere di proteggere.”

Di fatto, Israele ha usurpato il diritto dei palestinesi a difendersi, in quanto non appartengono ad alcuna sovranità embrionale, si è sottratto ai suoi obblighi in quanto potenza occupante ed ha ampliato il proprio diritto a dispiegare la forza militare, rendendo così i palestinesi della Striscia di Gaza tre volte vulnerabili”, ha sottolineato Erakat.

Intento deliberato

La pretesa che la Striscia di Gaza non sia più occupata è ovviamente errata, non ultimo perché Israele ha mantenuto il controllo effettivo sul territorio. Le sue forze armate entrano quando vogliono per terra e per mare e Israele ha il controllo sullo spazio aereo di Gaza, sullo spettro elettromagnetico [cioè sulle frequenze per le telecomunicazioni, ndtr.], sulla maggior parte dei movimenti in entrata e uscita e sull’anagrafe – oltre al blocco tuttora in corso.

La Striscia di Gaza è soltanto una parte del territorio palestinese occupato, che, insieme alla Cisgiordania (compresa Gerusalemme est), costituisce un’unica entità territoriale. Lo status di Gaza come occupata dal 2005 è stato quindi sancito da molte istituzioni importanti, compreso il Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

La “creatività” giuridica dei dirigenti israeliani è dimostrata molto spesso da alcune delle tattiche adottate dall’esercito israeliano durante gli attacchi.

Nell’offensiva israeliana su Gaza del 2014 [operazione Margine Protettivo, ndtr.], 142 famiglie palestinesi hanno subito l’uccisione di tre o più membri nel corso dello stesso incidente. Questi numeri impressionanti sono stati in parte il risultato della scelta di Israele di prendere di mira decine di case di famiglie palestinesi, oltre a quelle colpite in seguito a bombardamenti indiscriminati.

La chiave di lettura è la decisione da parte di Israele che qualunque (presunto) membro di una fazione armata palestinese fosse un obbiettivo legittimo, anche quando non partecipava alla lotta – cioè era a casa con la famiglia – e che i membri della famiglia diventassero legittimi “danni collaterali” sulla base della presenza di un sospetto nella casa (tra l’altro, anche se quella persona non era in realtà in casa in quel momento). Come ha detto un ufficiale israeliano: “Voi la chiamate casa, noi la chiamiamo centrale operativa.”

Vittime civili

Nonostante il fatto che in base al diritto internazionale Israele dovesse dimostrare che ogni struttura presa di mira svolgeva una funzione militare, come ha specificato l’associazione per i diritti B’Tselem, “nessun comandante ha sostenuto che ci fosse alcuna connessione tra una casa presa di mira e una specifica attività militare in quel luogo.”

Perciò le spiegazioni dell’esercito israeliano per la distruzione delle case è apparsa “nient’altro che una mistificazione della reale ragione della distruzione, cioè l’identità degli abitanti” – il che significa che queste sono state “demolizioni punitive di case…condotte da aerei, mentre gli abitanti erano ancora all’interno”.

Un’altra tattica utilizzata dall’esercito israeliano è la diffusione di “avvisi” ai civili, sia attraverso il telefono che con messaggi a specifici edifici, o con volantini lanciati su interi quartieri. Israele presenta questa tattica come una prova del fatto che fa il possibile per evitare vittime civili, anche se questi avvertimenti sono di fatto un obbligo piuttosto che “buone azioni”.

È ovvio che fondamentalmente questi avvisi non privano gli abitanti civili dello status di persone sotto protezione. Tuttavia ci sono sufficienti prove che indicano che questa non è una posizione condivisa all’interno dell’esercito israeliano.

Nel citato articolo di Haaretz del 2009 un comandante ha detto: “Le persone che entrano in una casa nonostante un avviso non devono essere annoverate nel conto dei danni a civili, poiché sono scudi umani volontari. Dal punto di vista legale non devo preoccuparmi per loro.”

Quindi, con una deformazione sconcertante, mentre gli avvisi sono presentati come modo per minimizzare le vittime civili, in realtà servono ad agevolare gli attacchi e possono anche aumentare il numero di morti.

Normalizzare l’illegalità

Questi sono solo alcuni esempi di come Israele cerca di normalizzare ciò che è illegale, con due obbiettivi. Si noti che è stato dopo la pubblicazione del rapporto Goldstone che il Primo Ministro Benjamin Netanyahu “ha dato ordine ai dirigenti del governo di elaborare proposte per modificare il diritto internazionale di guerra.”

Le “innovazioni” di Israele nel diritto internazionale sono quindi tese a facilitare la sempre più brutale soppressione di palestinesi sul terreno, mentre a livello internazionale queste interpretazioni sono avanzate sia per confondere le acque nei consessi giuridici sia, in ultima analisi, per ottenere l’appoggio da di altri Stati terzi.

È importante ricordare che il problema della responsabilità è precedente agli sviluppi più recenti. Israele ha a lungo violato il diritto internazionale e giustificato in termini giuridici certe politiche – dalla confisca della terra nei territori occupati all’insediamento di colonie.

Questo ci aiuta a capire che il problema centrale è politico – e che la risposta a come contestare l’impunità e resistere alle interpretazioni “innovative” delle leggi da parte di Israele è la stessa: la pressione politica.

Un fallimento su questo fronte verrà percepito molto pesantemente dai più vulnerabili: i palestinesi.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Ben White

Ben White è autore di ‘Apartheid israeliano: una guida per i neofiti’ e di ‘Palestinesi in Israele: segregazione, discriminazione e democrazia’. Scrive per Middle East Monitor ed i suoi articoli sono stati pubblicati da Al Jazeera, al-Araby, Huffington Post, The Electronic Intifada, The Guardian e altri.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Perché l’uomo che ha stilato la definizione dell’IHRA ne condanna l’uso

Nonostante si tratti di un articolo che risale all’anno scorso, riteniamo importante proporre questo articolo relativo alla definizione di antisemitismo dell’IHRA, che viene costantemente utilizzata per tacitare e criminalizzare la solidarietà con il popolo palestinese. Questo articolo evidenzia che lo stesso autore del testo dell’IHRA denuncia che il suo uso a questo fine è scorretto.

George Wilmers

1 agosto 2018 – Jewish Voice for Peace

La persona che ha stilato la definizione di antisemitismo dell’IHRA ne condanna l’uso rivolto a limitare la libertà di parola.

Secondo gli ultimi criteri isterici della lobby israeliana* e dei suoi seguaci, l’estensore originario della cosiddetta definizione di antisemitismo dell’IHRA [International Holocaust Remembrance Alliance, Alleanza Internazionale per il Ricordo dell’Olocausto, organizzazione intergovernativa composta da 31 Paesi, ndtr.], un sionista dichiarato, dovrebbe egli stesso essere definito antisemita, o forse un “kapo” [gli ebrei che nei campi di sterminio collaboravano con i nazisti, ndtr.]. Perché questa è la conclusione che si dovrebbe trarre se si accettasse l’affermazione secondo cui chiunque metta in discussione un qualunque aspetto del sacro testo che la definizione dell’IHRA è diventato sia un antisemita. L’estensore di quella che in seguito è diventata comunemente nota come EUMC o definizione di antisemitismo dell’IRHA, compresi gli esempi ad esso associati, è stato l’avvocato statunitense Kenneth S. Stern.

Tuttavia, in una testimonianza scritta presentata lo scorso anno al Congresso USA, Stern ha denunciato che la sua originaria definizione è stata utilizzata per uno scopo totalmente diverso da quello per il quale era stata pensata. Secondo Stern, in principio era stata ideata come una “definizione provvisoria” con l’obiettivo di cercare di standardizzare la raccolta di dati sull’incidenza dei delitti d’odio antisemita in Paesi diversi. Non è mai stata pensata per essere utilizzata come lo si sta facendo ora. Nello stesso documento Stern condanna specificatamente come improprio l’uso della definizione per questi scopi, citando in particolare la restrizione alla libertà di parola nelle università della Gran Bretagna, e riferendosi come esempi alle università di Manchester e di Bristol. Ecco quello che scrive:

La “definizione provvisoria” dell’EUMC è stata di recente adottata nel Regno Unito e messa in pratica nelle università. Un evento della “Israel Apartheid Week” [Settimana contro l’Apartheid Israeliana, ricorrenza annuale celebrata a livello internazionale con attività di denuncia delle discriminazioni israeliane contro i palestinesi, ndtr.] è stato annullato in quanto violava la definizione. A un sopravvissuto all’Olocausto è stato chiesto di cambiare il titolo del suo discorso all’università, e l’università (di Manchester) ha ordinato che venisse registrato, dopo che un diplomatico israeliano (l’ambasciatore Regev) si è lamentato che il titolo violava la definizione. Cosa forse ancora più significativa, un gruppo esterno all’università, citando la definizione, ha chiesto a un’università di condurre un’indagine per antisemitismo su una docente (che ha ottenuto un dottorato alla Columbia University), in base a un articolo che aveva scritto l’anno precedente. L’università (Bristol) allora ha condotto l’indagine. E, benché alla fine non abbia trovato nessun fondamento per punire la professoressa, il tentativo è stato in sé agghiacciante e maccartista.

Ovviamente i gruppi che stavano dietro questa repressione della libertà di parola in stile maccartista condannati da Stern sono proprio gli stessi ora impegnati nell’attuale vendetta [in italiano nel testo, ndtr.] contro Corbyn [segretario del partito Laburista inglese, ndtr.]. Per esempio, nel caso della docente dell’università di Bristol che è stata sottoposta ad inchiesta con le false accuse di antisemitismo, si è trattato della denominata, a torto, “Campagna contro l’Antisemitismo”, in realtà un gruppo aggressivo della lobby filo-israeliana, che ha chiesto che fosse sospesa [dall’insegnamento] finché non avesse ritrattato.

Significativamente Stern riconosce chiaramente l’intrinseca assurdità logica e la minaccia alla libertà di parola che solleva dove vengono messi in atto significativi tentativi di proibire discorsi politici riguardanti Stati o governi:

Immaginate una definizione destinata ai palestinesi. Se “negare al popolo ebraico il suo diritto all’autodeterminazione, e negare ad Israele il diritto di esistere” è antisemita, allora non dovrebbe essere antipalestinese “negare al popolo palestinese il suo diritto all’autodeterminazione, e negare alla Palestina il diritto di esistere”? Allora chiederebbero ai responsabili [delle università] di sorvegliare ed eventualmente punire eventi nelle università da parte di gruppi filo-israeliani che si oppongono alla soluzione dei due Stati, o sostengono che il popolo palestinese sia un mito?

Kenneth Stern è un sionista e sicuramente non è di sinistra. Tuttavia va riconosciuto a merito dell’autore originario della definizione dell’IHRA di essere un coerente difensore della libertà di parola che condanna l’attuale uso maccartista della definizione dell’IHRA.

Quindi l’autore sionista della definizione di antisemitismo dell’IHRA è un antisemita in incognito che ora si è smascherato da solo? Era forse la vecchia talpa di una segreta cospirazione internazionale di antisemiti guidati da Jeremy Corbyn? Forse Nick Cohen [giornalista filoisraeliano del quotidiano inglese “The Guardian”, ndtr.] ci darà una risposta?

Come per ogni passo di una sacra scrittura, il processo politico attraverso il quale la definizione dell’IHRA ha acquisito sia la sua attuale interpretazione che il suo status sacro tra i suoi fanatici fedeli è ancora avvolto nel mistero, nonostante qualche interessante tentativo di indagare la sua breve storia di 14 anni. Che i dettagli della definizione e la sua evidente inadeguatezza come testo giuridico e para-giuridico siano un argomento tabù nei principali mezzi di comunicazione è un tributo all’abbandono del ragionamento razionale nel discorso pubblico ufficiale.**

Nonostante la convinzione generale del contrario e la sua “adozione” da parte del governo del Regno Unito, la definizione dell’IHRA non vi ha un valore legale, e per ottime ragioni: com’è stato evidenziato da importanti giuristi come Hugh Tomlinson [prestigioso esperto inglese in diritto dei mezzi di comunicazione e di informazione, ndtr.] e Stephen Sedley [noto giudice e docente di diritto ad Oxford, di origine ebraica, ndtr.], non solo non si tratta di una definizione corretta per scopi legali, ma la sua adozione dal punto di vista giuridico da parte di una qualunque autorità sarebbe in conflitto con il diritto esistente e protetto di libertà di parola garantito dall’articolo 10 della Convenzione Europea sui Diritti Umani. Ciononostante è tale il potere della campagna di propaganda a favore del culto dell’IHRA che, lasciando da parte considerazioni razionali, la dirigenza del partito Laburista si è sentita obbligata ad obbedire allo status sacro dell’IHRA, pur cercando discretamente di modificare il testo per mitigare alcuni dei suoi effetti draconiani. Tuttavia malauguratamente non si può cavare sangue da una rapa.

Quindi, qualunque sia la vostra convinzione riguardante la funzionalità della rapa nella sua condizione originaria, dobbiamo essere grati all’uomo che l’ha forgiata per aver evidenziato con una tale chiarezza i suoi evidenti limiti.

Note

* Utilizzo il termine “lobby israeliana” come abbreviazione per indicare quanti utilizzano accuse di antisemitismo false o estremamente esagerate contro il partito Laburista per coprire i loro veri obiettivi, che sono: (a) rendere impossibile l’attivismo a favore dei palestinesi all’interno del partito Laburista, e (b), ottenere che Corbyn venga rimosso da segretario del partito Laburista. In realtà, come ha ripetutamente evidenziato Moshe Machover [matematico, filosofo e attivista israeliano antisionista, espulso e poi riammesso al partito Laburista, ndtr.], questa è una libera coalizione di gruppi politici notevolmente differenziati di centro e di estrema destra, alcuni dei quali sono legati a organizzazioni ebraiche filoisraeliane e di destra, ma alcune delle quali non hanno particolari rapporti o interessi né nei confronti dell’ebraismo né del conflitto israelo-palestinese, ma stanno semplicemente utilizzando l’isteria contro l’antisemitismo come mezzo per attaccare il progetto politico di Corbyn. Alcuni hanno suggerito che il termine “lobby antipalestinese” sarebbe una terminologia più adeguata.

** La BBC può essere presa come esempio paradigmatico di questo completo abbandono di un’argomentazione razionale, in cui i presentatori dei notiziari e i commentatori tentano quasi sempre di bloccare qualunque discussione sui dettagli, sulla storia della definizione dell’IHRA o sulla sua inadeguatezza giuridica, concentrandosi esclusivamente sulla presunta “percezione della comunità ebraica,” un concetto che in sé è segnato da uno stereotipo razzista. Un’eccezione molto rara rispetto a questo comportamento vergognoso è l’eccellente intervista recente del notiziario della BBC del 23 luglio 2018 da parte di Norma Smith a Naomi Wimborne-Idrissi, in cui a quest’ultima viene rispettosamente concesso di presentare il suo caso senza interruzioni prepotenti o faziose da parte dell’intervistatore.

L’autore ringrazia Richard Kuper e Murray Glickman per la loro significativa collaborazione e consulenza nella preparazione di questo articolo.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Candidata laburista si ritira dopo aver paragonato Israele a un “adulto maltrattatore”

Rowena Mason

7 novembre 2019 The Guardian

Kate Ramsden prima ha messo in rapporto lo Stato di Israele con un “bambino maltrattato” e potrebbe dover affrontare una sanzione disciplinare del partito

Una candidata laburista ha rinunciato [a partecipare alle elezioni] dopo essere stata messa sotto accusa per un blog in cui ha paragonato Israele a “un bambino maltrattato che diventa un adulto maltrattatore.”

Kate Ramsden, candidata a Gordon, nell’ Aberdeenshire [in Scozia, ndtr.], si è ritirata per “ragioni personali” dopo che il partito Laburista le ha chiesto di essere di nuovo sottoposta a selezione ed ha affermato che potrebbe dover affrontare un procedimento disciplinare.

Nel blog, riportato dal Jewish Chronicle [storico settimanale degli ebrei britannici schierato con Israele e sostenitore della campagna contro il presunto antisemitismo nel partito Laburista, ndtr.], lei ha detto: “Per me, lo Stato israeliano è come un bambino maltrattato che diventa un adulto maltrattatore.” L’articolo afferma che ha aggiunto: “Come i maltrattamenti contro i bambini, deve smetterla…Come interveniamo sui maltrattamenti contro i bambini, la comunità internazionale deve intervenire su Israele.”

Il partito Laburista ha detto di aver scoperto il blog e quindi di averle chiesto di essere di nuovo sottoposta a selezione, ma i dettagli sono comparsi sul “Jewish Chronicle” prima che lei venisse riesaminata. Ramsden allora ha dichiarato di rinunciare a candidarsi di sua spontanea volontà.

Una fonte laburista ha affermato: “Abbiamo immediatamente preso un’iniziativa perché la candidatura di Kate Ramsden venisse riconsiderata alla luce del materiale che abbiamo trovato. Personale della sede centrale del partito Laburista ha scoperto questi post quando stava facendo controlli supplementari relativi a comportamenti corretti.

Il personale ha immediatamente allertato il partito Laburista scozzese, che ha informato il comitato esecutivo scozzese, il quale ha deciso di rivalutare la candidatura di Kate Ramsden riguardo ai nuovi post che erano stati trovati. Kate Ramsden ha rinunciato alla candidatura e quindi non è una candidata del partito Laburista alle elezioni. Il partito ha preso un’iniziativa rapida e decisa sull’argomento.”

Un’altra candidata laburista, Zarah Sultana, è stata oggetto di una polemica dopo che ha accusato la destra del partito di “utilizzare come arma” contro la dirigenza accuse di antisemitismo. La candidata per Coventry Sud in precedenza era stata obbligata a chiedere scusa per aver detto che avrebbe festeggiato la morte di Tony Blair e di Benjamin Netanyahu.

Una terza candidata, Jane Aitchison, che si presenta a Pudsey, Yorkshire ovest, è stata criticata dai conservatori per la sua reazione alle affermazioni di Sultana. Intervistata da Emma Barnett della rete radiofonica 5 Live della BBC, Aitchison ha detto di ritenere che “a volte si dicono cose con molta passione e che sono sbagliate.”

Ma ha aggiunto: “A volte si festeggia la morte di qualcuno…Per esempio quella di Hitler.”

Andrew Percy, vice presidente del gruppo parlamentare interpartitico contro l’antisemitismo, ha affermato: “Paragonare il leader israeliano con Adolf Hitler, un uomo responsabile della morte di 6 milioni di ebrei, non è solo profondamente sconvolgente per la comunità ebraica, ma anche folle.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)