“Era un angolo di paradiso”: i palestinesi della Cisgiordania che sono autorizzati ad accedere alla loro terra solo per un istante

Shatha Hammad – RAMALLAH, Cisgiordania occupata

Mercoledì 11 dicembre 2019 – Middle East Eye

Queste terre in Cisgiordania sono loro, ma queste famiglie palestinesi non hanno diritto di recarvisi che qualche ora due volte all’anno, sotto il controllo dell’esercito di occupazione israeliano

Alle 7 del mattino di questo 2 novembre una decina di vetture che trasportano 35 famiglie palestinesi si presentano una dopo l’altra all’ingresso del villaggio di Janiya, a nord-est di Ramallah, in attesa che l’esercito israeliano le autorizzi ad accedere ai terreni agricoli.

Queste famiglie devono pazientare per più di 3 ore, i bambini iniziano ad innervosirsi e gli adulti a perdere la pazienza, mentre i soldati prendono posizione nella zona.

Poco dopo le 10 i soldati ritirano le carte d’identità di tutti quanti e danno il segnale che consente alla fila di auto palestinesi di entrare, accompagnate dall’esercito. I veicoli devono attraversare la colonia di “Talmon A” e dovranno imboccare lo stesso cammino al ritorno tra qualche ora. Il villaggio di Janiya è quasi totalmente circondato dalle colonie ebraiche.

Dall’inizio degli anni ’90, quando i coloni si sono impossessati delle zone circostanti, l’esercito autorizza i palestinesi ad accedere alle loro fattorie solo due volte all’anno, ogni volta per una giornata. Tuttavia negli ultimi due anni l’esercito ha impedito loro di accedere alle loro terre per la semplice ragione che la stagione della raccolta coincideva con giorni di feste ebraiche.

Questa visita è una grande occasione per le famiglie palestinesi, anche se vivono solo a qualche minuto in macchina da lì, nel villaggio.

Nabiha è madre di dieci figli ed ha un’ottantina di nipoti. Questa ottuagenaria è arrivata in sedia a rotelle con una trentina di membri della sua famiglia, indossando il tradizionale thobe [abito tipico, ndtr.] ricamato palestinese, che ha attentamente scelto la sera prima.

Nabiha descrive i suoi ricordi nella fattoria con qualche parola: “Passavamo tutta l’estate qui. Ci stavamo fino alla stagione della raccolta delle olive, in ottobre. Coltivavamo ogni sorta di verdure estive. Mi ricordo di una pianta di pomodori che una volta ne produsse 16! Vendevamo i nostri prodotti nei villaggi intorno e, all’arrivo dell’inverno, tornavamo a casa a Janiya.”

Quando la famiglia arriva al suo appezzamento di terreno di circa 2 ettari, Nabiha si piazza davanti alla sorgente, nei pressi di dove una volta si trovava la sua casa. Oggi l’edificio è vuoto, porte e finestre sono state sfasciate e dei rifiuti costellano il suolo, lasciati lì da altri arrivati prima di loro. Per un attimo Nabiha fissa il campo, canta una lamentazione per il marito defunto e rifiuta di parlare con chiunque. Approfitta di questo momento per rivivere i suoi preziosi ricordi in questo luogo.

Ma non assomiglia più a come se lo ricordava. Dei coloni hanno installato delle altalene e delle sedie di legno in ogni angolo e hanno piantato nuovi alberi. Si sono riuniti lì per tutto l’anno nei pressi della sorgente, Umm Siraj, che scorre nel bacino davanti alla casa di Nabiha.

L’anziana signora rifiuta di definire la sua terra come “confiscata” finché ci può andare, anche se solo due volte all’anno.

Questa terra era un angolo di paradiso – noi la coltivavamo tre volte all’anno. La sabbia era rossa e non c’erano pietre. La cisterna era sempre pulita, bevevamo e innaffiavamo le piante con la sua acqua”, racconta Nabiha a Middle East Eye, circondata dai suoi nipoti affascinati dalle storie della nonna a proposito di quel luogo.

Ogni volta che la famiglia vi torna, lei ci trova sempre meno ulivi, abbattuti dai coloni. Questa volta sono rimasti scioccati nel trovare l’albero più grande e antico tagliato in due.

La tristezza regna nella famiglia, come se avessero perso uno dei loro cari. “Passavamo tre giorni a raccogliere le olive di quell’albero,” racconta Mayza, una delle figlie di Nabiha. “Nessun dolore è pari a quello di aver perso quest’albero. Sono scoraggiata.”

Mayza passa il resto della giornata chiusa nel suo silenzio.

Corsa contro il tempo

La famiglia lavora come può, impegnata nella corsa contro il tempo. Alle 15 i soldati arriveranno e daranno l’ordine di andarsene dal terreno, anche se non hanno terminato il loro lavoro. La figlia di Nabiha, Fatima, e sua figlia di 19 anni, Mariam, raccolgono le olive come macchine, senza fermarsi, per anticipare l’arrivo dell’esercito.

Fatima, 50 anni, s’è svegliata presto ed ha preparato i dolci da portare per la colazione. Confida che non ha potuto dormire la notte prima per l’entusiasmo.

Il suo sguardo si illumina guardando la fattoria. “Mia madre ci portava qui quando eravamo bambini, ci passavamo otto mesi all’anno. In pratica sono cresciuta qui – non si tratta solo dei nostri ricordi, qui ci sono anche le nostre anime,” dichiara a MEE.

Io e i miei fratelli e sorelle abbiamo imparato a nuotare in questa cisterna,” continua indicando il bacino ormai vuoto.

Fa notare che in primavera la terra fioriva e i bambini della famiglia avevano memorizzato i nomi delle diverse piante: “Mi ricordo che c’era un alveare su uno degli ulivi. Avevamo troppa paura per avvicinarci.”

Le restrizioni israeliane relative all’accesso delle famiglie palestinesi s’inaspriscono ogni anno, con lo scopo di scoraggiarle al tornarvi. Di conseguenza la terra ne soffre, così come le persone che se ne occupano.

La terra e gli alberi qui hanno bisogno di cure, sono stati trascurati. Alcuni dei nostri ulivi hanno smesso di produrre, per cui un certo numero di famiglie non viene più,” spiega Fatima.

Quando mio padre ha visto quello che era successo alla nostra terra la prima volta che abbiamo potuto tornare, ha avuto un infarto. Da quel momento la sua salute è peggiorata fino alla sua morte nel 2009,” continua.

Mariam, la figlia di Fatima, piange ascoltando il racconto di sua madre: “Raccogliere le olive era una delle nostre attività preferite in famiglia, anche se è faticoso. La storia dei nostri genitori e della nostra famiglia qui fa sì che noi siamo cresciuti ereditando questo attaccamento e l’amore per questa terra,” confida.

Tre soldati israeliani fanno la guardia mentre la famiglia lavora la terra.

I coloni si comportano come se questa terra fosse loro e noi fossimo dei semplici visitatori. Ciò ci fa infuriare e significa che continueremo a doverci battere per venire qui, ma non rinunceremo,” aggiunge Mariam.

La famiglia ha deciso di procedere in anticipo al raccolto, temendo che le autorità israeliane non l’autorizzino a tornare durante la stagione della raccolta l’anno prossimo. “Viviamo con la paura e l’angoscia costanti all’idea di perdere questa terra a favore dei coloni… è circondata e dominata dalle colonie,” sottolinea Fatima.

Tayseer Abu Fkhaida, presidente del consiglio municipale di Janiya, descrive la zona della sorgente di Umm Siraj come una delle più fertili della regione, costellata di antichi uliveti romani e che produce un olio d’oliva di grande qualità.

Dice a MEE che centinaia di ettari sono già stati confiscati al villaggio: “Si sono già impossessati del 65% circa delle terre. Oggi il villaggio non conta più di 300 degli 800 ettari originari.”

Temiamo che questa zona venga confiscata. I coloni e l’esercito tentano di imporre il fatto compiuto. Ci aspettiamo che in ogni momento l’accesso alle nostre terre ci venga totalmente vietato,” dichiara Abu Fkhaida.

Sono circa le 15,30. L’esercito decide che è giunta l’ora e comincia a cacciare dalla zona le famiglie, anche se non hanno finito il loro lavoro.

Al momento di andarsene, i soldati li trattengono per circa due ore in più, con il pretesto di verificare le loro carte d’identità, allungando questo viaggio faticoso che un tempo non era che un breve tragitto fino alle loro case nel villaggio.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)