L’antisionismo riguarda la correzione di errori storici, non l’incoraggiamento all’antisemitismo
Ran Greenstein
23 dicembre 2019 – +972
Il dibattito sul sionismo è fondamentale, ma non deve diventare anche un test di purezza che indebolisca la solidarietà dove può essere costruita.
Il decreto del presidente Trump dell’11dicembre non cita sionismo o antisionismo, Israele o Palestina. Eppure ha determinato un acceso dibattito su tutte e quattro le questioni, in particolare sul rapporto tra antisionismo e antisemitismo. Buona parte di questo dibattito si sta svolgendo come se avessimo una comprensione condivisa di questi termini e come se fossero interconnessi. Sarebbe opportuno riflettere su questi problemi per chiarire le questioni che ci troviamo ad affrontare oggi.
Il sionismo – l’ideologia, il movimento politico e il progetto di insediamento nato nell’Europa centro-orientale alla fine del XIX° secolo – nella sua essenza vedeva gli ebrei come un gruppo nazionale che necessitava di una propria patria o un proprio Stato indipendente in cui essere al sicuro dalle persecuzioni. Questa patria doveva essere il loro “vecchio-nuovo” territorio ancestrale: la storica terra di Israele, che allora era la terra di Palestina abitata da arabi.
Comprendere il sionismo, così come l’atteggiamento internazionale nei suoi confronti, richiede di guardare al contesto storico in cui è nato, con tre dimensioni fondamentali. La prima è l’emergere dell’etno-nazionalismo negli imperi territoriali in declino, in cui all’epoca viveva la maggior parte degli ebrei – gli imperi russo, austro-ungarico e ottomano – che videro minoranze cercare l’indipendenza dai loro dominatori imperiali. La seconda è l’ultimo stadio dell’espansione coloniale degli imperi marittimi – in particolare di Gran Bretagna e Francia – che videro vaste parti dell’Asia e dell’Africa cadere sotto la dominazione straniera. La terza, che si sviluppò in seguito, è la decolonizzazione dei domini coloniali degli imperi e il sorgere di nuove forme di potere imperialista, che hanno portato alla Guerra Fredda e alle sue conseguenze.
Nei suoi primi decenni il sionismo non riuscì a conquistarsi l’adesione della maggior parte degli ebrei. Alcuni di loro adottarono esplicite posizioni antisioniste e rifiutarono l’appello alla concentrazione territoriale degli ebrei in un proprio Stato. Queste posizioni erano variamente motivate da visioni del mondo religiose, di sinistra e liberali.
La maggioranza degli ebrei non era attivamente contraria al sionismo, ma non lo seguì ideologicamente o nella pratica. Privilegiavano invece altre possibilità: l’integrazione come uguali nei propri Paesi di residenza (su base individuale o collettiva); l’assimilazione nelle culture dominanti; l’immigrazione in luoghi più favorevoli, dove gli ebrei potessero vivere liberi dai vecchi pregiudizi europei contro di loro, come il Nord e il Sud America e il Sudafrica.
In contrasto con questa linea di condotta, il sionismo chiese agli ebrei di tutto il mondo di insediarsi in Palestina. Alcuni lo fecero durante le prime fasi del movimento sionista, ma non necessariamente per un impegno ideologico. Di fatto molti immigrati ebrei si spostarono e si insediarono là perché costretti e in mancanza di alternative migliori – in particolare gli ebrei polacchi negli anni ’20 e quelli tedeschi negli anni ’30, il cui viaggio verso l’ovest era stato bloccato da leggi restrittive.
Comunque centinaia di migliaia di ebrei si spostarono in Palestina, incrementando la popolazione ebraica locale da 50.000 alla fine della Prima Guerra Mondiale nel 1918 a 450.000 alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, nel 1939. Non era solo il numero crescente che importava: durante quel periodo sotto la direzione delle agenzie sioniste gli ebrei comprarono grandi appezzamenti di terra, fondarono decine di nuovi insediamenti urbani e rurali e costruirono vaste infrastrutture economiche ed istituzionali.
Naturalmente gli arabi palestinesi si opposero all’immigrazione, all’acquisto di terre e allo sviluppo politico sulla loro terra guidati fin dalla nascita dal movimento dai sionisti. Tuttavia avevano scarso interesse nel sionismo come l’ideologia della costruzione dello Stato e dell’identità ebraici: il movimento nazionale palestinese si è sempre concentrato sulle conseguenze pratiche dell’insediamento sionista, su come lo colpiva direttamente. Che ciò fosse messo in pratica in particolare dagli ebrei era una preoccupazione molto marginale, ed è lo stesso ora. Alcuni atteggiamenti negativi verso gli ebrei potrebbero essere emersi come conseguenza dello scontro con il sionismo, ma questi furono un risultato, non una causa, della resistenza ad un progetto politico visto come intenzionato a cacciarli e a sostituirli.
Negli anni ’40, in seguito alla Seconda Guerra Mondiale e all’Olocausto, il principio fondante del sionismo – la necessità di una patria sicura o di uno Stato per gli ebrei – conquistò un vastissimo appoggio internazionale e divenne la posizione maggioritaria tra gli ebrei. Anche allora la maggioranza di quanti emigrarono nel nuovo Stato di Israele continuò a farlo per mancanza di opzioni migliori, in particolare a causa dell’espulsione fisica e di condizioni politiche difficili nell’Europa orientale del dopoguerra e della crescente sensazione di insicurezza e di esclusione politica in Medio Oriente e in Nord Africa. L’impegno politico giocò ancora un ruolo secondario in questo processo. La percezione del sionismo come la possibilità di un rifugio per gli ebrei in circostanze disperate e di fare tutto quanto fosse possibile per garantire la loro sopravvivenza alla fine si consolidò nelle menti degli stessi ebrei e nel resto del mondo.
Tuttavia questa forma di sopravvivenza degli ebrei comportò un prezzo notevole. Israele venne edificato sulle rovine della società arabo-palestinese e la sua creazione diede come risultato la pulizia etnica, la frammentazione e l’esilio su larga scala. Quindi l’opposizione a Israele divenne molto vasta nel mondo arabo e islamico. Parte di questa opposizione venne occasionalmente espressa in discorsi e azioni antisemiti, ma fu quasi sempre un risultato dell’indignazione per l’espulsione dei palestinesi, non la sua causa. Così è in buona misura ancora ai giorni nostri.
Globalmente il sionismo è stato visto contemporaneamente come una forma di autodeterminazione nazionale e come una forma di dominio colonialista sulla popolazione indigena del territorio. Per i palestinesi, sionismo significa spoliazione e privazione dei diritti; per la maggior parte degli ebrei, significa appoggiare il concetto di uno Stato ebraico. Le precise implicazioni del carattere ebraico dello Stato, la sua relazione con l’ebraismo come religione, le conseguenze pratiche per i cittadini ebrei e non ebrei e i suoi confini e le sue politiche sono tutti messi in discussione all’interno. Non c’è una posizione sionista unitaria su questi argomenti, e non c’è mai stata.
Di fronte a questo scenario, per la maggioranza degli attivisti della solidarietà di oggi, antisionismo significa il rifiuto della nozione di Israele come Stato esclusivamente ebraico in cui i palestinesi sono sottoposti a una posizione di inferiorità o ne sono del tutto esclusi. In pratica antisionismo significa appoggiare l’uguaglianza, la giustizia e il risarcimento per i palestinesi che vivono come cittadini di seconda classe, soggetti all’occupazione o rifugiati senza Stato. Ciò significa appoggiare i diritti degli ebrei di vivere come uguali in Israele-Palestina, e in qualunque altro luogo di residenza, senza particolari privilegi o obblighi. Ciò va oltre la contrapposizione rispetto a politiche specifiche, come l’occupazione del 1967 o l’assedio di Gaza, che non richiedono una posizione antisionista.
Le principali obiezioni nel dibattito interno tra gli ebrei sul sionismo nel periodo precedente al 1948 sono di grande interesse per gli accademici. Tuttavia sono diventate marginali nel discorso pubblico a causa della concentrazione di molti attivisti sulle sole politiche israeliane. Queste questioni rimangono rilevanti oggi: gli ebrei sono una Nazione, una religione o una combinazione di entrambe? Hanno bisogno di uno Stato solo per loro? La diaspora è un’anomalia o una caratteristica permanente, forse desiderabile, dell’esistenza ebraica?
In questo contesto di solidarietà e di lotta, la divisione tra prospettive liberali e radicali si basa sulla questione dello Stato ebraico, che tende a separare i sionisti dagli antisionisti. Ma ciò non dovrebbe essere un ostacolo per la mobilitazione su preoccupazioni pratiche condivise: opposizione all’occupazione del 1967 e alle politiche di colonizzazione, uguaglianza per i cittadini palestinesi, e via di seguito. Qui la regola pratica è costruire un vasto fronte basato su quello che abbiamo in comune, facendo nel frattempo attivismo in modo separato per pubblici diversi su questioni che ci dividono. La questione del sionismo, per quanto fondamentale, non deve diventare un test di purezza che indebolisca la solidarietà dove può essere costruita.
Un modo per garantire questo è l’adozione di un linguaggio strategico semplice. Le forze che mettono in atto l’assedio di Gaza, spogliano il popolo della propria terra su entrambi i lati della Linea Verde [il confine tra Israele e la Cisgiordania, ndtr.] e tengono i palestinesi sotto occupazione sono lo Stato di Israele e i suoi organi militari e civili. Sono aiutati e spalleggiati da sostenitori (sia ebrei che non ebrei) che agiscono come agenti dell’hasbara [propaganda israeliana, ndtr.] all’estero. Non sono i “sionisti” genericamente etichettati (per non parlare degli “zios” [termine spregiativo per indicare i sionisti, ndtr.]) che lo fanno. Semmai è una concreta serie di forze affiliate in vario modo all’apparato statale israeliano.
Più prendiamo di mira individui, istituzioni e politiche concreti ed evitiamo di usare termini vaghi e fumosi, meglio possiamo concentrare gli sforzi di solidarietà e resistenza e contrastare con efficacia accuse di antisemitismo come armi utilizzate contro il movimento per porre fine all’apartheid israeliana e ottenere giustizia ed uguaglianza per tutti.
Ran Greenstein è professore associato di sociologia all’università del Witwatersrand a Johannesburg, in Sudafrica. Tra le sue opere ci sono “Zionism and its Discontents: A Century of Radical Dissent in Israel/Palestine [Il sionismo e i suoi dissidenti: un secolo di dissenso radicale in Israele/Palestina], (Pluto, 2014) e “Identity, Nationalism, and Race: Anti-Colonial Resistance in South Africa and Israel/Palestine [Identità, Nazionalismo e Razza: resistenza anticolonialista in Sudafrica e in Israele/Palestina] (Routledge, in uscita).
(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)