Recensione di Stone Men – the Palestinians who built Israel [Uomini di pietra: i palestinesi che hanno costruito Israele] di Andrew Ross (Verso, 2019)

Ben Ehrenreich

mercoledì 1 maggio 2019 – The Guardian

Un segreto di cui nessuno vuole parlare: come le colonie in Cisgiordania vengono costruite da palestinesi espulsi dalla loro terra.

Non lontano dall’orrendo posto di controllo di Qalandia – la principale porta d’entrata attraverso la quale l’esercito israeliano controlla il passaggio di esseri umani tra Ramallah e Gerusalemme – c’è un piccolo laboratorio all’aperto di tagliatori di pietre, uno delle centinaia sparsi in tutta la Cisgiordania. Qualunque cosa accada al checkpoint, in genere si può vedere almeno un lavoratore nel cortile dove vengono tagliate le pietre, con il volto, i capelli e i vestiti incrostati della stessa polvere bianca che copre l’alto muro di cemento e la torre di guardia, dove si mescola con il fumo e il carbone neri dei pneumatici bruciati e delle bottiglie molotov che i giovani del posto, in giornate particolarmente brutte, lanciano contro il posto di controllo e le barriere che li rinchiudono.

Quando chi va a visitare la regione scrive di pietre, tende a concentrarsi su quelle che i giovani palestinesi lanciano contro soldati armati e blindati. E sui molto più letali proiettili che i soldati gli sparano contro. È facile perdersi in quel parapiglia. Andrew Ross non è né distratto né affascinato da tali scene emblematiche. È più interessato al tagliatore di pietre che in genere rimane fuori dall’inquadratura. Attraverso lui ed altri come lui, Ross esamina le strutture non visibili dell’espropriazione e dello sfruttamento che stanno alla base dell’occupazione altrettanto concretamente quanto tutti quei muri e fucili.

Stone Men” può essere asciutto, persino aspro, ma fornisce in modo coerente la comprensione dei rapporti travagliati e inquietanti tra israeliani e palestinesi che è difficile trovare altrove. Questa è soprattutto una storia di lavoro. La Palestina si trova su riserve di pietra calcarea di alta qualità valutate 20 miliardi di dollari [18 miliardi di euro], e in Cisgiordania l’attività economica per estrarla, tagliarla e lavorarla fornisce più lavoro nel settore privato di qualunque altra industria. Dato che sia i palestinesi che gli israeliani attribuiscono un’importanza mitica alla terra, concentrarsi sulla pietra che da essa viene estratta – e sulle relazioni di potere in gioco quando viene trasformata in case da entrambi i lati della Linea Verde [il confine tra Israele e Cisgiordania, ndtr.] – consente a Ross di demistificare il conflitto mettendo al contempo in evidenza le basi profondamente inique su cui è stato costruito Israele. Il fatto che la maggior parte di quel Paese, le colonie in Cisgiordania e persino la stessa barriera di sicurezza [il Muro di Separazione, ndtr.] è stato costruito da palestinesi, e con materiali estratti dalla stessa ossatura della terra che hanno perduto è un segreto di cui nessuno vuole parlare.

Ross inizia dai primi anni del Mandato britannico, con la spinta sionista – attraverso il boicottaggio, i soprusi e la violenza – per creare un’economia autosufficiente libera dal “lavoro arabo”. Questa strategia avrebbe modellato persino l’architettura. Le cave erano di proprietà di palestinesi, e gli immigrati ebrei appena arrivati dall’Europa non erano esperti nella lavorazione della pietra locale. La maggior parte di Tel Aviv venne costruita in cemento e blocchi di silicato, che permisero ai costruttori ebrei di evitare di dipendere dai lavoratori palestinesi. Questi materiali avrebbero anche consentito loro di costruire una città modernista nuova di zecca, diversa – e segregata – dalla sua antica vicina, la palestinese Jaffa, che era stata costruita con pietra erosa. Nel 1948 Jaffa sarebbe stata svuotata del 97% della sua popolazione araba. Interi quartieri vennero in seguito distrutti con i bolldozer.

Il famoso centro di Tel Aviv in stile Bauhaus sarebbe in seguito stato chiamato la “Città Bianca” – il nome si riferiva al colore dei mattoni di silicato e del cemento stuccato con cui era stata costruita. Nei decenni seguenti la fondazione di Israele il lavoro arabo avrebbe cessato di essere visto come una minaccia per l’autonomia ebraica. Molte migliaia di case dovevano essere costruite sul territorio appena conquistato. I suoi precedenti abitanti sarebbero stati impiegati, con salari a buon mercato, per costruire il nuovo Stato. Ingabbiati da restrizioni negli spostamenti ed esclusi dalla maggior parte delle altre occupazioni, avevano poche alternative:

I palestinesi in Israele vennero sottoposti alla legge marziale fino al 1966. Condizioni simili avrebbero creato una classe di lavoratori da sfruttare nelle terre occupate prima della guerra del 1967. Da allora il calcare – denominato “pietra di Gerusalemme”, benché la maggior parte di essa venga estratta dalle colline della Cisgiordania – sarebbe diventato il materiale predominante utilizzato per costruire le comunità israeliane, con una funzione sia ideologica che pratica, trasmettendo un’immagine di omogeneità e di antichi legami con la terra.”

Ross non risparmia l’élite palestinese. Include un capitolo tra i più completi e approfonditi che abbia letto sull’area residenziale di Rawabi, nella zona di Ramallah. Messa in vendita per i ricchi professionisti palestinesi, Rawabi è stata costruita in collaborazione con impresari israeliani su terreni confiscati a contadini del posto dall’Autorità Nazionale Palestinese. Il discorso di Ross gli consente di tracciare la rete di complicità che ha consentito a un piccolo gruppo di ricchi palestinesi di approfittare della spoliazione dei loro compatrioti.

Le parti più tristi di “Stone Men” – e quelle in cui avrei voluto che si fosse soffermato di più e avesse consentito ai suoi interlocutori di apparire con maggiori sfumature e dettagli – si basa sulle sue interviste a lavoratori palestinesi. Uno di loro costruisce case in una colonia edificata su terreni sottratti al villaggio in cui vive. È stato in grado di sopportare le provocazioni razziste dei coloni, dice a Ross, ma quando un colono ha cercato di assumerlo per costruire una casa su un terreno di proprietà della sua stessa famiglia per lui è stato troppo. “Non l’ho potuto fare,” dice. Un’altra delle fonti di Ross, che egli identifica solo come Samir, aveva lavorato per anni in cantieri in Israele, risparmiando per costruirsi una casa, solo per vederla demolire dai soldati israeliani che hanno spianato la strada per il percorso della barriera di sicurezza. In seguito, incapace di trovare un altro impiego, ha accettato un lavoro per la costruzione della barriera. Amici d’infanzia gli hanno tirato pietre mentre stava lavorando.

Storie come questa e gli altri racconti di umiliazione e resistenza che Ross narra valgono più di intere biblioteche di discussioni astratte. Eppure, egli propone ripetutamente la tesi secondo cui, in ogni futuro accordo per uno “status finale”, il lavoro che i palestinesi hanno fatto per costruire Israele debba essere preso in considerazione, “in quanto i palestinesi si sono meritati diritti civili e politici attraverso il loro lavoro complessivo.” È un’argomentazione infelice, che segue una logica che Ross riconosce essere stata utilizzata frequentemente da “colonialisti d’insediamento…per giustificare l’espropriazione di terre dei popoli indigeni,” secondo cui il diritto sulla terra si conquista solo con il suo “miglioramento”. Condizionato dalla negazione della validità di ogni presenza palestinese nella regione prima del sionismo, ciò ripete la cancellazione storica che Ross, in tutti tranne che in pochi punti del suo libro, documenta con notevole competenza ed impegno.

– The Way to the Spring: Life and Death in Palestine [La via verso la sorgente: vita e morte in Palestina] di Ben Ehrenreich è pubblicato da Granta.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)