Coronavirus: i lavoratori palestinesi affrontano una difficile scelta tra garanzie di sussistenza e isolamento

Akram Al-Waara da Betlemme, nella Cisgiordania occupata

18 marzo 2020 – Middle East Eye

Per migliaia di palestinesi che lavorano in Israele le restrizioni legate alla pandemia hanno comportato la rinuncia al reddito necessario o il rischio di restare separati per mesi dalle loro famiglie

Quando nella città di Betlemme, nella Cisgiordania occupata, è stato confermato il primo caso del nuovo coronavirus o COVID-19, un improvviso sentimento di panico ha travolto la piccola città.

Mentre scuole, università e aziende iniziavano a chiudere, migliaia di cittadini si sono rifugiati nelle loro case in previsione di quello che sarebbe successo dopo.

Ma quando i confini della città sono stati chiusi e i vicini posti di controllo con Israele hanno iniziato ad rimanere bloccati, ha cominciato a manifestarsi un nuovo senso di ansia, questa volta per le migliaia dei cittadini lavoratori che operano all’interno di Israele.

“Lo stato di emergenza è stato annunciato giovedì (5 marzo) e alla conclusione del fine settimana tutto era cambiato”, ha riferito a Middle East Eye Kareem A., un operaio edile di 51 anni di Betlemme.

La diffusione del coronavirus sia in Israele che in Cisgiordania ha avuto un profondo impatto sulla forza lavoro palestinese all’interno di Israele – con le ultime restrizioni che costringono i lavoratori palestinesi a scegliere tra mesi di separazione dalle loro famiglie – o il crollo economico.

Nuove restrizioni

Kareem ha saputo che Israele aveva chiuso il posto di controllo 300, il principale punto di ingresso dell’intera Cisgiordania meridionale in Israele per migliaia di lavoratori palestinesi.

“Ho deciso di provare a passare comunque”, dice, “sperando che avrebbero fatto delle eccezioni per i lavoratori”. Ma Kareem e centinaia di suoi colleghi sono stati fermati e rimandati a casa.

“Abbiamo sperato che fosse solo una cosa temporanea, fino a quando non avessero trovato un modo per far entrare i lavoratori di Betlemme”, afferma, “ma sembra che sarà un problema molto più duraturo”.

Mentre i lavoratori di Betlemme dal 5 marzo sono rimasti bloccati a casa, decine di migliaia di lavoratori palestinesi degli altri distretti della Cisgiordania hanno attraversato la Linea Verde [linea di demarcazione stabilita negli accordi d’armistizio arabo-israeliani del 1949, ndtr.] in modo relativamente incontrollato.

Il primo caso di coronavirus al di fuori di Betlemme è stato confermato la scorsa settimana nel distretto settentrionale di Tulkarem. Il paziente era un manovale che lavorava in Israele.

Mentre il virus continuava a diffondersi in Israele e in Cisgiordania, sia Israele che l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) hanno iniziato a porre sempre maggiori restrizioni agli spostamenti all’interno e tra i territori.

Martedì il ministro della Difesa israeliano Naftali Bennett, che ha preso la decisione iniziale di chiudere i posti di blocco intorno a Betlemme, ha annunciato una serie di restrizioni ancora più pesanti nei riguardi dei lavoratori palestinesi provenienti da altre parti della Cisgiordania.

Bennett ha limitato l’ingresso ai lavoratori che ha classificato come impegnati in settori “essenziali”, come l’edilizia, l’assistenza sanitaria e l’agricoltura. Tutti gli altri, nell’immediato futuro, dovrebbero rimanere a casa.

Con una mossa sconvolgente Bennett ha annunciato che qualsiasi lavoratore che avesse deciso di continuare a lavorare in Israele sarebbe stato costretto a rimanere lì e non avrebbe potuto tornare a casa per almeno uno o due mesi.

Ai lavoratori palestinesi sono stati concessi tre giorni per prendere una decisione: andare al lavoro e restare separati dalle loro famiglie a tempo indeterminato o rimanere a casa, impossibilitati a guadagnarsi da vivere. Indipendentemente da ciò che avessero deciso, dopo tre giorni i confini sarebbero stati chiusi da entrambe le parti.

Non è apparso chiaro se le stesse eccezioni sarebbero state estese ai lavoratori di Betlemme, dal momento che i posti di controllo tra Israele e la città rimangono chiusi.

La notizia è stata uno shock sia per i funzionari israeliani che la considerano una grave “minaccia alla sicurezza”, sia per i palestinesi, i cui permessi di lavoro di solito non consentono loro di rimanere in Israele durante la notte.

“Ho deciso di correre il rischio e venire a stare qui perché non ho davvero altra scelta”, dice a MEE Wael A, un lavoratore di Betlemme.

Wael ha attraversato illegalmente [il confine con] Israele da Betlemme la scorsa settimana, insieme a un amico e ad alcuni altri lavoratori.

“Non sapevamo quanto sarebbe durata la quarantena a Betlemme”, sostiene, “e dovevamo dar da mangiare alle nostre famiglie” aggiungendo che i lavoratori, in genere quelli senza permesso, spesso rimangono illegalmente in Israele durante la notte per evitare il rischio di passare quotidianamente attraverso i punti di controllo.

In quel momento Wael non poteva immaginare che Israele avrebbe permesso ai lavoratori di rimanere per un lungo periodo di tempo nel Paese con un alloggio adeguato fornito a spese del datore di lavoro.

Wael e il suo amico hanno dormito nel cantiere dove lavorano, ma sperano di poter legalizzare “in modo retroattivo” il loro soggiorno e trovare una sistemazione adeguata.

Tuttavia afferma di temere che se le autorità israeliane leggessero “Betlemme” sulle loro carte d’identità, verrebbero rimandati a casa.

“Devo pagare la casa, l’auto e ho tre bambini da nutrire”, dice. “Non posso permettermi di rimanere bloccato a Betlemme in questo momento.”

“Israele ha bisogno di noi”

I rischi [insiti nel] consentire ai palestinesi di lavorare in Israele e quindi tornare a casa possono sembrare agli osservatori esterni troppo elevati nel corso di una pandemia.

Ma per i palestinesi la decisione non è affatto sorprendente.

“Israele non può sopravvivere a questa [pandemia] senza i lavoratori palestinesi”, afferma Kareem a MEE. “La loro economia è troppo dipendente da noi per non consentire ai lavoratori di entrare”.

Si stima che 120.000 palestinesi, con e senza permesso, lavorino in Israele, costituendo una forza lavoro consistente e a basso costo principalmente nei settori dell’edilizia e dell’agricoltura.

“Mentre gli israeliani stanno nelle loro case, “prosegue Kareem”, ci stanno mettendo al lavoro in modo che il sistema non crolli”.

Kareem afferma di ritenere che Israele rischierebbe “senza alcun dubbio” la salute della forza lavoro palestinese “in nome della salvaguardia della sua economia”.

“Stanno permettendo ai palestinesi di mettere a repentaglio le proprie vite mentre dicono agli israeliani di rimanere a casa e di stare al sicuro”.

Un disastro economico e nessuna rete di salvataggio

Per gli operai ancora bloccati a Betlemme il futuro sembra ogni giorno più incerto.

“Ogni giorno senza lavoro è un altro che ci avvicina al disastro economico”, sostiene Kareem a MEE dalla sua casa in un campo profughi locale.

Kareem, sposato e padre di quattro figli, è l’unico a mantenere la sua famiglia di sei persone. In un mese buono Kareem guadagna circa 250 shekel (61 euro) al giorno, il 20%  dei quali va ai pasti quotidiani e al trasporto per e dal suo [posto di] lavoro alla periferia di Tel Aviv.

Ma, osserva, “i mesi appena trascorsi sono stati segnati da festività ebraiche e dal maltempo, quindi non abbiamo avuto molto lavoro nei cantieri”.

“Quindi non è come possedere dei risparmi su cui poter contare per arrivare alla fine del mese”, dice. “Niente lavoro significa niente soldi.” Come conseguenza della sua impossibilità di recarsi al lavoro, Kareem riferisce di aver ricevuto dal suo datore di lavoro israeliano dei messaggi che minacciavano di assegnare il suo lavoro a qualcun altro, revocandogli, quindi, il permesso.

“Vogliono continuare a fare soldi e non possono farlo con i lavoratori di Betlemme”, ha detto, aggiungendo che un certo numero di datori di lavoro ha licenziato i lavoratori di Betlemme e li ha sostituiti con lavoratori palestinesi di altre parti della Cisgiordania.

Egli teme che, se un numero sufficiente di lavoratori facesse la scelta di andare in Israele e restarci per i prossimi due mesi, il suo lavoro sarebbe ancora di più a rischio.

“Li ho pregati di non levare il mio nome dall’elenco dei dipendenti, ma non so cosa faranno.”

Preoccupazioni per la salute

Anche con un rischio così elevato per i lavoratori e le loro famiglie, la preoccupazione principale per la maggior parte dei palestinesi rimane la loro salute personale e quella della loro comunità.

Prima dell’annuncio di martedì scorso da parte di Bennett molti in Cisgiordania avevano paura del rischio che i lavoratori potessero portare il virus da Israele, che ha un tasso significativamente più alto di infezioni da coronavirus rispetto al territorio palestinese.

“Come lavoratore, è stato spaventoso sapere che stavamo andando in Israele”, ha detto Wael a MEE. “Ovviamente nessuno vuole ammalarsi e quindi rischiare di portare [l’infezione] alle proprie famiglie e alla propria comunità”.

Ma sarebbe un rischio che Wael dice di essere costretto a correre.

“Né il nostro governo né il governo israeliano proteggono i nostri diritti di lavoratori in Israele”, afferma. “Preferirei ammalarmi piuttosto che lasciare che la mia famiglia muoia di fame o che la banca ci perseguiti.”

Con le nuove misure annunciate martedì, tuttavia, gli esperti locali della salute sperano che la pressione economica sui lavoratori palestinesi possa essere parzialmente alleviata mantenendo rigide linee guida sulla salute pubblica.

“Siamo scettici sul fatto che gli operai si debbano recare in Israele per lavorare, perché questo aumenta le possibilità che portino qui il virus e lo diffondano”, sostiene a MEE il dott. Imad Shahadeh, capo della divisione di Betlemme del Ministero della Sanità dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Ma,  afferma, consentire ai lavoratori di rimanere all’interno di Israele in alloggi appositi riduce alcuni di questi rischi.

“Prevenire la diffusione del virus”, dice Shahadeh, “è una buona misura”, aggiungendo di sperare che i lavoratori siano al sicuro dal virus, “attraverso la riduzione al minimo dei loro rapporti con israeliani e con non lavoratori”.

Shahadeh aggiunge che l’Autorità Nazionale Palestinese starebbe già pianificando di attuare una serie di misure in occasione del ritorno dei lavoratori dopo uno o due mesi, tra cui controlli sanitari ai posti di blocco e ai punti di ingresso e l’imposizione di un’auto-quarantena obbligatoria per 14 giorni dopo il rientro in Cisgiordania.

Per Kareem, le misure adottate dai governi israeliano e palestinese non sarebbero ancora sufficienti e non coprirebbero i rischi.

“Permettere ai lavoratori di dormire in Israele sta mettendo a rischio la salute di tutti i lavoratori”, dice, affermando che qualcuno “inevitabilmente” prenderà il virus, che “non fa distinzione tra palestinesi e israeliani”.

“Anche se tutti saranno sottoposti a screening e messi in quarantena, metteranno comunque a rischio la comunità al loro arrivo”, sostiene. “E se si ammaleranno in Israele, ci possiamo davvero fidare che il governo israeliano dia la priorità delle cure ai lavoratori palestinesi?”

Nonostante non sia d’accordo con le iniziative dei governi, Kareem afferma di non giudicare alcun lavoratore per le sue decisioni.

“So come si sentono. Hanno un disperato bisogno di prendersi cura delle loro famiglie “, dice. “Quindi, se stanno sacrificando la loro salute per salvare le loro famiglie, li capisco.”

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)