I palestinesi sono una minaccia “demografica” per Israele, affermano autorevoli difensori

Philip Weiss

28 aprile 2020 – Mondoweiss

I sostenitori progressisti di Israele avvertono che gli ebrei stanno per essere sopraffatti dall’alto tasso di natalità dei palestinesi

L’argomentazione “demografica” a favore della soluzione dei due Stati rappresenta la manifestazione della paura che gli ebrei divengano una minoranza in Israele, e quindi il “popolo ebraico” perda il diritto di rivendicare la sovranità.

È un’argomentazione apertamente razzista, che contempla la possibilità che gli ebrei vengano sopraffatti dalle nascite, o dagli elettori, palestinesi, tale da poter essere avanzata con molta difficoltà nei principali luoghi di discussione statunitensi. Lo studioso Ian Lustick [scienziato e giornalista americano, studioso delle politiche mediorientali, sostenitore della soluzione dello Stato israeliano palestinese unico, ndtr.] ha recentemente confessato la sua vergogna riguardo la formulazione dell’argomentazione demografica per la soluzione dei due Stati. È stato un “patto col diavolo”, ha detto Lustick. “Mia madre non approverebbe.”

Bene – ecco due autorevoli organizzazioni sioniste americane che si considerano illuminate ma che hanno recentemente avanzato quella vergognosa teoria.

Per prima, la Israel Policy Forum [organizzazione ebraico-statunitense che dal 1993 opera a favore della soluzione dei due Stati, ndtr.] ha pubblicato a febbraio un rapporto sui possibili esiti del conflitto firmato da presunti progressisti americani – l’ambasciatore di Obama [in Israele, ndtr.] Dan Shapiro ha scritto la prefazione, Shira Efron ed Evan Gottesman hanno scritto il rapporto – il quale afferma che è “importante” valutare se i palestinesi stiano divenendo la maggioranza nel territorio tra il fiume[Giordano, ndtr.] e il mare [Mediterraneo, ndtr.], e nello stesso Israele, e fanno osservazioni sui tassi di “fertilità” ebraici e palestinesi come se fosse un modo accettabile di vedere le cose.

Questi progressisti avvertono che anche una minoranza consistente di palestinesi all’interno di Israele “metterà in pericolo” il Paese. Se e quando i palestinesi diverranno una maggioranza è una domanda importante, ma la capacità di Israele di conservare le proprie credenziali di Stato ebraico e democratico sarebbe messa a repentaglio anche se i palestinesi diventassero anche solo una minoranza consistente. La proposta di annettere in parte o del tutto la Cisgiordania potrebbe aggiungere 2,6 milioni di palestinesi alla popolazione israeliana. Se diventassero cittadini con uguali diritti avrebbero un immenso potere politico, costituendo quasi il 40% della popolazione e modificando il carattere ebraico di Israele.

Pensate se diceste che le persone di colore mettono a repentaglio il carattere degli Stati Uniti … Che persone sareste? Poi questo fine settimana l’American Jewish Committee [organizzazione internazionale per la promozione e difesa dei diritti religiosi e politici degli ebrei, ndtr.] ha ospitato David Horovitz del Times of Israel [quotidiano israeliano indipendente online, ndtr.] per un dibattito sulla rete in cui ha spiegato che lui e Benjamin Netanyahu sono a favore di uno Stato palestinese sempre che non abbia reali possibilità di minacciare Israele. E indovina un po’, la minaccia non è solo militare ma “demografica”.

Una solida soluzione con due Stati, una soluzione sicura dei due Stati, una soluzione dei due Stati che non minacci gli interessi demografici e di sicurezza di Israele – penso che questo dovrebbe essere un nostro obiettivo …

Penso che Netanyahu direbbe che il problema riguardo alla soluzione dei due Stati sia la rigidità della nozione di Stato, e direbbe: se uno Stato per i palestinesi fosse un’entità non in grado di minacciarci militarmente o demograficamente, mi trovereste pronto ad appoggiare i palestinesi per quel tipo di Stato. Ma preciserebbe che le definizioni condivise a livello internazionale sono tali che direbbe: ‘No, io non posso appoggiare per l’immediato futuro i palestinesi nella realizzazione di uno Stato su quelle basi’.

Horovitz potrebbe dire che la divisione debba essere fatta in modo tale che in Israele rimanga il maggior numero possibile di ebrei e il minor numero di palestinesi. Più probabilmente, si riferirebbe al ritorno in Palestina dei rifugiati, il cui numero dovrebbe essere limitato, in modo da non sopraffare numericamente gli ebrei israeliani.

La sua argomentazione riecheggia i leader ebrei di Israele che hanno cercato a lungo una maggioranza ebraica “forte” e per raggiungere questo obiettivo hanno fatto ricorso alla pulizia etnica. E a proposito, i palestinesi hanno già eguagliato o superato il numero degli ebrei se si includono i territori occupati – circa 6,5 milioni ciascuno.

È sorprendente che questi argomenti siano considerati kosher [corretti, ndtr.]. Ma i sostenitori di Israele li fanno regolarmente, nei circoli progressisti americani! Non dimenticherò mai il discorso di Ali Abunimah [giornalista palestinese-statunitense, acceso sostenitore della soluzione di uno Stato unico, ndtr.] che affermava che la più grande minaccia per il sionismo sono … i bambini palestinesi … Beh, i sionisti lo sostengono.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




L’esercito israeliano è contrario all’annessione della valle del Giordano sostenuta dai suoi dirigenti politici

Adnan Abu Amer

28 aprile 2020 – Middle East Monitor

I generali israeliani hanno rivelato che l’annuncio dell’annessione della valle del Giordano e di colonie in Cisgiordania porterà al collasso dei servizi di sicurezza palestinesi, perché essi perderanno il controllo della popolazione e verranno visti come collusi con l’occupazione. Inoltre il piano di annessione darà come risultato il collasso della stessa ANP [Autorità Nazionale Palestinese, ndtr.] perché dimostrerà ai palestinesi il suo fallimento nel processo politico, anche se questo dovesse significare che l’opinione pubblica palestinese si rivolga ad Hamas, che sta cercando di trarre vantaggio dall’eventuale caos relativo alla sicurezza in Cisgiordania.

Stanno emergendo sempre più voci di un certo numero di ex- importanti generali e dirigenti dell’esercito e dei sistemi di sicurezza israeliani secondo i quali ogni decisione di annettere la Cisgiordania costituisce una minaccia per il destino degli israeliani e Israele potrebbe non essere in grado di affrontare le conseguenze di una simile iniziativa. Tuttavia ai sostenitori del piano di annessione non interessa quello che potrebbe succedere il giorno dopo, intendono semplicemente soddisfare i propri desideri, benché ci siano ancora molte questioni irrisolte.

Molti generali israeliani credono che i risultati di un qualunque processo di annessione, totale o parziale, provocheranno reazioni che Israele non sarà in grado di affrontare o gestire, soprattutto perché il danno provocato dall’annessione avrà un effetto domino. Porrà una minaccia alla sicurezza dello Stato, alla sua economia e ai suoi rapporti con i vicini arabi.

Oltretutto il fatto che i decisori politici israeliani non ascoltino le raccomandazioni di chi ha l’esperienza nel prevedere le conseguenze del piano di annessione suggerisce una mancanza di responsabilità, perché questi esperti stanno dicendo che riprendere il controllo israeliano sui palestinesi costerà al bilancio israeliano circa 14, 8 miliardi di dollari.

L’attuale capo di stato maggiore dell’esercito israeliano, Aviv Kochavi, ha manifestato la propria irritazione nei confronti del suo ministro della Difesa, Naftali Bennett [della coalizione di estrema destra dei coloni “Nuova Destra”, ndtr.] per aver posto le basi dell’annessione senza averlo coinvolto in questi sforzi. Ciò ha implicato radunare importanti ufficiali di vari settori dell’esercito, dell’amministrazione civile e del coordinatore israeliano delle attività di governo nei territori occupati [enti israeliani che gestiscono i territori palestinesi, ndtr.] ed esperti di diritto e chiedere loro di preparare una serie di scenari per annettere la valle del Giordano e alcune colonie.

Sul terreno la decisione di annettere la valle del Giordano e altre zone porterà a proteste di massa da parte dei palestinesi e indebolirà la Giordania a causa della diffusione di caos e disordini che potrebbero avvenire sul suo territorio. Ciò potrebbe consentire l’ingresso nel Paese dell’influenza iraniana, lasciando Israele senza confini sicuri mentre sulla sua porta di casa si insedierebbero milizie filo-iraniane.

Ci sono stime secondo cui l’annuncio da parte di Israele di un piano per l’annessione della valle del Giordano sia una finzione da sbandierare e serva come messaggio all’opinione pubblica israeliana secondo cui la valle del Giordano è ancora presente nell’agenda politica del partito. Pertanto l’idea dell’annessione di un terzo della Cisgiordania riappare quando si inizia a parlare di elezioni e poi viene subito accantonata e ritirata dopo il voto.

L’appello israeliano ad annettere la valle del Giordano è un’implicita manifestazione della mancanza di volontà di raggiungere un accordo politico con i palestinesi, in quanto tale annessione danneggia l’accordo di pace con la Giordania e l’Egitto, oltre alle minacce che i palestinesi interrompano il coordinamento per la sicurezza con Israele.

Si prevede che annettere la Cisgiordania senza un accordo con l’ANP danneggerà seriamente il progetto sionista. Non c’è modo di ottenere un’annessione, ridotta o estesa, o di dire che l’annessione includerà solo la “Zona A” della Cisgiordania o le colonie ebraiche al suo interno.

Il danno diretto risultante dall’annessione è la cessazione del coordinamento per la sicurezza con l’ANP, che non sarà in grado di sopravvivere, obbligando l’esercito israeliano a schierarsi in tutta la Cisgiordania. A quel punto è difficile immaginare gli scenari previsti. Si potrebbe assistere alla fine del sogno sionista perché la comunità internazionale considererebbe Israele una nuova versione del regime di apartheid sudafricano.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




WhatsApp: azienda israeliana ‘pesantemente coinvolta’ nello spionaggio dei nostri utenti

Stephanie Kirchgaessner da Washington

29 aprile 2020 – The Guardian

La NSO Group accusata di aver hackerato 1400 persone, inclusi attivisti per i diritti umani

Nuove deposizioni processuali presentate da WhatsApp rivelerebbero che una azienda israeliana specializzata in spyware usava server con sede negli USA e che era “pesantemente coinvolta” nell’hackeraggio di telefonini di 1.400 utenti di WhatsApp, inclusi funzionari governativi di alto livello, giornalisti e attivisti per i diritti umani.

Le nuove affermazioni sul NSO Group sostengono che l’azienda israeliana sarebbe responsabile di serie violazioni dei diritti umani, incluso l’hackeraggio di oltre una decina di giornalisti indiani e dissidenti del Rwanda.

Per anni, NSO Group ha detto che il suo software di sorveglianza è acquistato dai governi per rintracciare terroristi e altri criminali e di non avere a disposizione informazioni indipendenti riguardo a come tali clienti, che in passato avrebbero incluso l’Arabia Saudita e il Messico, usino il suo software.

Ma la causa intentata l’anno scorso da Whatsupp contro NSO, la prima nel suo genere intentata da una grande azienda tecnologica, sta rivelando altri dettagli su come lo spyware Pegasus verrebbe utilizzato contro obiettivi precisi.

La scorsa settimana WhatsApp ha rivelato come le proprie indagini su come Pegasus sia stato usato l’anno scorso contro 1.400 utenti mostrerebbero che i server controllati da NSO Group, non i governi suoi clienti, erano parte integrante di come si effettuavano gli hackeraggi.

WhatsApp ha detto che le vittime ricevevano telefonate tramite l’app di messaggistica ed erano infettatate da Pegasus. Ha poi aggiunto: “NSO usava una rete di computer per monitorare e aggiornare Pegasus dopo che era stato impiantato sui dispositivi degli utenti. Tali computer erano controllati da NSO e servivano come centro nevralgico attraverso cui controllava le operazioni dei propri clienti e l’uso di Pegasus.”

Secondo l’accusa di WhatsApp, NSO otteneva un “accesso non autorizzato” ai suoi server tramite il processo di reverse engineering dell’app di messaggistica e poi eludeva le funzioni di sicurezza che impediscono la manomissione delle funzioni di chiamata della compagnia. Un tecnico di WhatsApp che aveva indagato sugli hackeraggi ha dichiarato in una deposizione giurata presentata al tribunale che in 720 casi l’indirizzo IP di un server in remoto era stato incluso nel codice malevolo usato negli attacchi. Secondo il tecnico, il server remoto con sede a Los Angeles era di proprietà di una azienda il cui data centre era usato da NSO.

NSO ha sostenuto nella sua deposizione di non avere informazioni su come i governi suoi clienti usino i suoi strumenti di hackeraggio e perciò non può sapere chi siano i loro bersagli.

Ma John Scott-Railton, un esperto che lavora per Citizen Lab [centro canadese che si occupa della difesa dei diritti dei cittadini contro l’uso improprio delle informazioni, ndtr.] e ha collaborato al caso con WhatsApp, ha detto che il controllo dei server coinvolti da parte di NSO suggerisce che l’azienda avrebbe avuto i log, inclusi gli indirizzi IP [etichetta numerica dei dispositivi informatici, ndtr.] che identificavano gli utenti oggetto della sorveglianza.

Chi può sapere se NSO guarda quei log? Ma il semplice fatto che potrebbe avvenire smentisce quello che dicono,” fa notare Scott-Railton.

In una dichiarazione al Guardian NSO conferma quelle che aveva fatto in precedenza. “I nostri prodotti sono utilizzati per porre fine al terrorismo, limitare il crimine violento e salvare vite. NSO Group non gestisce il software Pegasus per i propri clienti,” afferma l’azienda. “Le nostre affermazioni precedenti sulle nostre attività, e la portata delle nostre interazioni con la nostra intelligence governativa e i clienti appartenenti alle forze dell’ordine sono corrette.”

L’azienda ha detto che avrebbe presentato la propria replica al tribunale nei prossimi giorni.

I nuovi sviluppi del caso arrivano nello stesso momento in cui NSO deve rispondere a domande, in sede separata, sull’accuratezza di un prodotto di tracciamento lanciato in seguito all’insorgere del Covid-19. Si chiama Fleming e usa i dati dei telefonini e le informazioni sulla salute pubblica per identificare con quali individui infettati si è venuti in contatto. Lo scorso finesettimana, un reportage dell’emittente NBC [rete televisiva US, ndtr.] ha affermato che la nuova app di tracciamento di NSO era commercializzata negli USA.

Ma in un thread su Twitter Scott-Railton ha sostenuto che la sua analisi rivelava che essa si basa su dati che sembrano molto imprecisi.

Quando stai lavorando con dati che incorporano tante imprecisioni, sarebbe molto laborioso lanciare un allarme ogni volta che ciò accade. O chiedere la quarantena. O un test. La percentuale di falsi positivi esploderebbe. Ma … anche quella dei falsi negativi,” ha aggiunto.

Interrogato sui tweet, NSO ha detto che le “accuse infondate” erano basate su “supposizioni e schermate non aggiornate e non su fatti”.

Fleming, il nostro prodotto contro il Covid-19, si è nel frattempo rivelato fondamentale per governi in tutto il mondo, contribuendo a contenere la pandemia. Stimati giornalisti di vari Paesi l’hanno esaminato, hanno capito come funziona la tecnologia e hanno riconosciuto che si tratta della più recente evoluzione dei software di analisi e che non mette in pericolo la privacy,” ha concluso l’azienda.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Rapporto OCHA del periodo 14 – 27 aprile 2020

Il 22 aprile, due speronamenti con auto, effettuati da palestinesi contro checkpoint israeliani, hanno provocato il ferimento di tre israeliani; uno degli attentatori è stato ucciso.

In uno dei due casi, verificatosi presso il checkpoint di Wadi an Nar (Gerusalemme), che controlla tutto il traffico palestinese tra nord e sud della Cisgiordania, un 25enne palestinese ha investito con la sua auto un ufficiale della Polizia di Frontiera, ferendolo. L’attentatore è uscito dal veicolo e, prima di essere colpito e ucciso dalle forze israeliane, ha tentato di pugnalare l’ufficiale. Nel secondo caso, riportato da giornali israeliani, un’auto con targa palestinese è stata lanciata contro un checkpoint temporaneo allestito presso l’insediamento [colonico] israeliano di Ateret (Ramallah): un altro ufficiale della Polizia di Frontiera e un civile israeliano sono rimasti feriti; il guidatore è riuscito ad allontanarsi con l’auto.

In Cisgiordania, nel corso di numerosi scontri con forze israeliane, 39 palestinesi sono rimasti feriti [segue dettaglio]. Venti di questi feriti sono stati curati per inalazione di gas lacrimogeno, otto per lesioni causate da proiettili di gomma, tre per ferite di arma da fuoco, mentre otto palestinesi sono stati aggrediti fisicamente. Gli scontri più gravi, che hanno provocato 15 feriti, sono stati registrati ad Ar Rihiya (Hebron) in seguito all’ingresso di una jeep militare israeliana nel villaggio. Altri sette palestinesi sono rimasti feriti durante un’operazione di ricerca-arresto effettuata [da forze israeliane] nel villaggio di As Sawahira as Sharqiya (Gerusalemme) a seguito dell’aggressione compiuta da un palestinese presso il checkpoint di Wadi an Nar [vedi paragrafo precedente]. Due, dei tre colpiti con armi da fuoco, pare che stessero tentando di infiltrarsi in Israele attraverso la Barriera, nei pressi di Qalqiliya; il terzo è stato colpito durante scontri vicino al villaggio di Kobar (Ramallah). I rimanenti ferimenti sono stati registrati in scontri spontanei nel Campo Profughi di Qalandiya (Gerusalemme), al checkpoint di Za’tara (Nablus), vicino ai villaggi di Tuwani (Hebron) e Qusra (Nablus) e durante le manifestazioni settimanali a Kafr Qaddum (Qalqiliya).

Nel complesso, in Cisgiordania, le forze israeliane hanno effettuato 99 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato oltre 100 palestinesi. La maggior parte delle operazioni (45) e degli arresti (55) è avvenuta in Gerusalemme Est, 18 nel governatorato di Hebron e 14 nel governatorato di Ramallah.

Il 22 aprile, un palestinese di 23 anni è morto in una prigione israeliana, in circostanze non chiare. Il Comitato dei Prigionieri Palestinesi ha affermato che la morte è da attribuire a negligenza medica. Secondo media israeliani, il Servizio Penitenziario Israeliano ha avviato un’indagine.

Al fine di far rispettare le restrizioni di accesso alle aree prossime alla recinzione perimetrale israeliana e al largo della costa di Gaza [zone dichiarate da Israele come “Aree ad Accesso Riservato”], in almeno 48 occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento. Un pescatore è stato ferito alla testa da un proiettile di gomma e due barche sono state danneggiate. In due occasioni, ad est di Jabaliya e di Rafah, le forze israeliane sono entrate nella Striscia di Gaza ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo vicino alla recinzione perimetrale.

In quattro Comunità dislocate in Area C della Cisgiordania, a motivo della mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito nove strutture di proprietà palestinese, sfollando una famiglia di otto persone e causando ripercussioni su altre 19. Lo sfollamento ha avuto luogo nella Comunità beduina di Ein ad Duyuk at Tahta (Gerico), dove le autorità hanno demolito una roulotte abitata che era stata fornita come assistenza umanitaria. Altre cinque strutture di aiuto, tra cui tende residenziali (disabitate) e ricoveri per animali, sono state demolite nella vicina Comunità di Deir al Qilt. A Gerusalemme Est, da metà marzo, non sono state effettuate demolizioni. Il Coordinatore Umanitario, Jamie McGoldrick, ha chiesto alle autorità israeliane di fermare le demolizioni, in particolare durante la crisi per il COVID-19 e nel mese del Ramadan.

Cinque palestinesi sono stati feriti e circa 470 ulivi e alberelli di proprietà palestinese sono stati danneggiati da coloni israeliani [segue dettaglio]. Quattro dei cinque ferimenti sono stati causati da aggressioni fisiche avvenute nella città Hebron, nell’Area H2 controllata da Israele, nei villaggi At Tuwani (Hebron) e Jibiya (Ramallah), mentre il quinto [ferimento] è stato causato, ancora in Area H2, dal lancio di pietre. Circa 200 ulivi appartenenti agli agricoltori dei villaggi di Turmus’ayya e Al Mughayyir (Ramallah) sono stati vandalizzati, a quanto riferito, da coloni del vicino insediamento avamposto [non autorizzato] di Adei Ad. La maggior parte di questi alberi si trovano su un terreno il cui accesso, per i palestinesi, è regolato da un sistema di “coordinamento preventivo”. Assalitori, che si ritiene provengano dallo stesso avamposto, hanno anche smantellato una recinzione attorno a un altro appezzamento di terreno ed hanno rubato decine di pali di legno. 120 alberi circa sono stati abbattuti nei villaggi di Ras Karkar (Ramallah), Kafr Qaddum (Qalqiliya), As Sawiya e Qaryut (entrambi a Nablus). Vicino al villaggio di Fuqeiqis (Hebron), coloni hanno sradicato circa 1.000 piantine di ortaggi stagionali e 150 alberelli di ulivo mentre, nel villaggio di Khirbet Samra (Tubas), hanno pascolato il loro bestiame su 10 ettari di terra coltivata a verdure di stagione, danneggiando le colture. Dall’inizio di marzo, la violenza dei coloni è in aumento: la media settimanale di episodi comportanti ferimenti o danni a proprietà è aumentata di oltre l’80% rispetto a gennaio-febbraio.

Sono stati segnalati diversi episodi di lancio di pietre e bottiglie incendiarie da parte di palestinesi contro veicoli israeliani in viaggio lungo strade della Cisgiordania. Non ci sono stati feriti, ma, secondo una ONG israeliana, nei governatorati di Gerusalemme, Hebron e Ramallah, nove veicoli hanno subìto danni.

272




Covid-19 in Palestina : la duplice lotta dei palestinesi contro l’epidemia e l’apartheid

Samah Jabr

26 aprile 2020Chronique de Palestine

Ho scritto questo articolo in una giornata che ha visto la conferma di un aumento improvviso e in controtendenza dei casi di Covid-19 tra i palestinesi del piccolo quartiere di Silwan, a Gerusalemme est.

In quello stesso giorno dei soldati israeliani al posto di controllo di Qalandia mi hanno negato l’accesso al mio luogo di lavoro a Ramallah, nonostante gli avessi mostrato il mio documento di responsabile ufficiale d’urgenza del Ministero della Salute palestinese – che è stato ignorato dai soldati con queste parole: “Noi non riconosciamo un simile documento.”

Nella Palestina occupata la pandemia di Covid-19 ha già colpito le diverse comunità palestinesi, ciascuna delle quali dispone di un sistema sanitario fragile, non integrato nel sistema nazionale. Al tempo stesso è documentato il fatto che i palestinesi di Gerusalemme e quelli del 1948 [cioè con cittadinanza israeliana, ndtr.], che sono in carico al sistema sanitario israeliano, soffrono da tempo di disuguaglianze nelle cure.

Tali disuguaglianze hanno già un impatto sulle patologie croniche, sulla speranza di vita e sui tassi di mortalità. La risposta del sistema sanitario israeliano al Covid-19 ha accentuato il divario tra la maggioranza ebrea (80% della popolazione) e la minoranza palestinese (20%), servite dallo stesso sistema.

Nonostante che la minoranza palestinese sia sovra-rappresentata tra gli operatori sanitari all’interno del sistema sanitario israeliano, le loro comunità sono state tuttavia insufficientemente servite durante questa pandemia. Le forniture di materiale informativo in lingua araba sono state tardive, l’accesso ai servizi Covid-19 nelle città arabe è stato difficoltoso. Non vi è stata una rappresentanza araba nel Comitato di salute d’ emergenza e vi è stata una enorme carenza nei test.

Tutti questi elementi hanno contribuito all’aumento dei casi che attualmente osserviamo nelle comunità arabe. Mentre mobilitava la maggioranza ebrea per affrontare la pandemia, il Primo Ministro israeliano si è impegnato in una odiosa campagna discriminatoria contro la partecipazione araba nel governo ed ha criticato ingiustamente i palestinesi affermando che non rispettavano le regole di isolamento – forse per fornire in anticipo una falsa spiegazione nel caso di un aumento del numero di palestinesi contagiati.

In realtà i quartieri palestinesi hanno aderito alle regole relative alla pandemia più scrupolosamente di quelli ebrei, benché fossero trattati peggio. Il sovrintendente della polizia Yaniv Miller, incaricato di assistere le pattuglie nelle zone ebraiche che non rispettavano l’isolamento, ha dichiarato alle reclute dell’esercito: “Vi ricordo, ragazzi, che non ci troviamo nei territori (occupati) della Cisgiordania, né sul confine. Un poliziotto ci mette molto a sparare. Un poliziotto spara solo come ultima risorsa dopo che hanno sparato su di lui,” (riportato da Haaretz il 3 aprile 2020).

Con un altro tentativo di mascherare le ineguaglianze nella prestazione di servizi sanitari, la ministra israeliana della Cultura Miri Regev [del partito di destra Likud, ndtr.] è persino riuscita a scovare due cittadini arabi, Ahmad Balawneh, un infermiere, e Yasmine Mazzawi, un’ addetta alle ambulanze, per far loro accettare il suo invito ad accendere una torcia durante le commemorazioni del Giorno dell’Indipendenza [israeliana] il 29 aprile, che è anche il giorno della Nakba [lett. catastrofe, la pulizia etnica operata dalle milizie sioniste, ndtr.] palestinese…Un insulto collettivo, camuffato da premio!

La situazione in Cisgiordania e a Gaza riflette i differenti livelli di oppressione politica cui sono sottoposte le due regioni. Recentemente ho descritto le misure prese dal Ministero della Salute in Cisgiordania in un’intervista, che spiega che le rigide misure riguardo all’isolamento, con tutti i loro devastanti effetti economici, sono la miglior linea di condotta che l’Autorità Nazionale Palestinese potesse adottare, stante la nostra mancanza di risorse a livello di cure sanitarie specialistiche e l’assenza di sovranità sui nostri confini.

Gaza è ancor meno preparata e più svantaggiata: lì la situazione potrebbe essere molto pericolosa a causa dell’impatto assai negativo dell’assedio e delle condizioni socio-economiche devastanti. La popolazione di Gaza sopravvive con una densità di 5.000 abitanti per km2 e una forte incidenza di anemia, malnutrizione e insicurezza alimentare.

Gli abitanti di Gaza soffrono di una serie altrettanto rilevante di patologie croniche e di problemi di salute mentale; sono alla mercé di una vasta gamma di poteri oppressivi che decidono su qualunque cosa e su chiunque entri e fugga dalla sua gabbia. L’interruzione degli aiuti americani – una punizione politica – ha compromesso l’UNRWA (agenzia dell’ONU per i rifugiati palestinesi, ndtr.), gli ospedali palestinesi di Gerusalemme e molti altri ambiti del sistema sanitario in Palestina.

Malgrado questa realtà, Israele intende vantarsi del suo sostegno, della sua generosità e del suo aiuto all’Autorità Nazionale Palestinese. Le Nazioni Unite hanno lodato Israele per la sua “eccellente” collaborazione con l’Autorità Nazionale Palestinese nella lotta contro il Covid-19 attraverso diverse fasi: il trasferimento di 25 milioni di dollari all’Autorità Nazionale Palestinese (a partire dai soldi delle imposte precedentemente trattenuti!), l’invio di attrezzature mediche in Cisgiordania e a Gaza – tra cui 20 apparecchi respiratori da aggiungersi agli 80 già esistenti – , 300 kit per i test e 50.000 mascherine.

Israele ha lasciato passare verso i territori palestinesi i materiali ordinati dall’OMS ed ha consentito a Gaza di ricevere denaro dal Qatar. Quelli che sono impressionati dalla bontà di Israele sembrano ignorare l’articolo 56 dellaquarta Convenzione di Ginevra che stabilisce: “Con tutti i mezzi di cui dispone, la potenza occupante ha il dovere di assicurare e  di mantenere, con la collaborazione delle autorità nazionali e locali, i presidi e i servizi medici e ospedalieri, la sanità pubblica e l’igiene nel territorio occupato, in particolare per ciò che riguarda l’adozione e l’applicazione delle misure profilattiche e preventive necessarie a lottare contro la diffusione delle malattie contagiose e delle epidemie. Il personale medico di tutte le categorie è autorizzato a svolgere le proprie funzioni.”

Coloro che fanno gli elogi di Israele sembrano anche ignorare che l’epidemia dell’occupazione continua ad infierire come sempre, con le demolizioni di case – mentre tutti sono esortati a “restare a casa” – le uccisioni e gli arresti, mentre si pianifica l’annessione della Valle del Giordano.

Passa inosservata l’unica prescrizione specifica per la pandemia: che i soldati israeliani devono indossare un equipaggiamento di protezione individuale quando entrano a Betlemme per arrestare delle persone. E passa inosservato il fatto che le forze israeliane letteralmente scaricano gli operai palestinesi ai posti di controllo della Cisgiordania ogni volta che sospettano che questi lavoratori siano contagiati.

Non si nota neanche il tentativo del governo israeliano di scambiare prigionieri israeliani con gli aiuti sanitari a Gaza! La verità è che Israele è responsabile della malattia dei palestinesi e del deterioramento del loro benessere, cosa che avrà ripercussioni sulla nostra epigenetica (*) per le future generazioni.

In queste circostanze i palestinesi si uniscono a tutti coloro che oggi sulla Terra lottano contro la pandemia. Facendolo, intendiamo affermare il nostro desiderio di sovranità e ci sentiamo anche meglio preparati ad affrontare la chiusura e l’incertezza di molte altre comunità in cui si litiga per acquistare armi da fuoco o stoccare le merci dei supermercati, o procurarsi materiale sanitario al mercato nero.

In Palestina cerchiamo di accettare questa sfida con spirito di collaborazione sociale e di altruismo. I nostri risultati ci permettono di dire che “fin qui va tutto bene” e ci rendiamo conto che questa non è la tappa più difficile nella nostra lunga lotta per l’autodeterminazione e per la libertà.

L’urgenza dovuta alla pandemia infatti contribuisce a rafforzare la fiducia dei palestinesi nelle nostre capacità di essere indipendenti e non ci sentiamo soli in questa battaglia. Al di là di ciò, crescono le nostre speranze di poter utilizzare l’ambito della medicina come una forma di diplomazia in tempi di crisi, creando dei canali per collaborare con altri Paesi che ci avevano lasciati soli nella nostra lotta nazionale….

L’attuale crisi non deve impedirci di lavorare per i nostri obbiettivi a lungo termine. È ora più urgente che mai mettere fine all’assedio di Gaza e al sistema di apartheid che riduce la Palestina ad un incubatore di epidemie sanitarie e sociali.

Nota :

(*) Meccanismo che modifica la fisionomia dei geni.

La dottoressa Samah Jabr è una psichiatra che lavora a Gerusalemme est e in Cisgiordania. Attualmente è responsabile dell’Unità di salute mentale del Ministero della Sanità palestinese. Ha insegnato in università palestinesi e internazionali. La dottoressa Jabr funge spesso da consulente delle organizzazioni internazionali in materia di sviluppo della salute mentale. È anche una prolifica scrittrice. Il suo ultimo libro è stato tradotto in francese: ‘Dietro i fronti – cronache di una psichiatra psicoterapeuta palestinese sotto occupazione’ [ed. italiana: “Dietro i fronti”, Sensibili alle foglie, 2019].

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)

Inizio modulo

Fine modulo




Un suicidio a Gaza

Sarah Helm

26 aprile 2020Chronique de Palestine

La morte di un giovane e talentuoso scrittore palestinese ha messo in luce un forte aumento del numero di suicidi.

**

Nota redazionale : questo articolo è stato scritto nel maggio 2018, quindi quasi due anni fa. Riteniamo comunque interessante proporlo ai lettori in quanto rappresenta una intensa descrizione della situazione drammatica vissuta a Gaza, in particolare dai giovani, e dei problemi anche di carattere psichiatrico derivante dall’assedio israeliano, a cui negli ultimi tempi si è aggiunto il problema della pandemia da coronavirus, di cui naturalmente questo articolo non parla.

Una notte d’agosto 2017 Mohammed Younis, uno studente di 22 anni, quando è tornato a casa in un quartiere relativamente benestante di Gaza era agitato. Era depresso, ricorda sua madre, Asma. Ma non si è troppo preoccupata quando lui si è chiuso nella sua stanza.

Scrittore talentuoso i cui racconti, per molto tempo pubblicati sulla sua pagina Facebook, avevano conquistato un ampio pubblico, Mohammed stava per conseguire la laurea in farmacia e si era garantito un voto eccellente. Nei suoi scritti esprimeva il dolore e la disperazione della sua generazione. Solo i libri gli permettevano di evadere. Spesso si isolava per leggere e scrivere o per fare esercizio con il sacco da boxe.

La mattina seguente Mohammed non si è svegliato. Quando Asma, con l’aiuto di suo fratello Assad, ha forzato la porta della stanza, lo ha trovato morto. Si era soffocato.

La popolarità di Mohammed sulle reti sociali era tale che l’annuncio della sua morte ha suscitato un’ondata di choc, tristezza e ammirazione, a Gaza e al di fuori. “Era un combattente che aveva come armi solo le sue storie tristi”, si poteva leggere tra i numerosi commenti postati su Facebook. Ma questo cordoglio pubblico seguito alla morte di un giovane scrittore di talento segnalava che il suicidio di Mohammed non era che una tragedia in più in un territorio in cui migliaia di giovani abbreviano la propria esistenza. Era ormai impossibile negare una realtà sulla bocca di molti: la sofferenza provocata dall’assedio e la disperazione riguardo al futuro, soprattutto tra i giovani talenti gazawi, comportano una preoccupante recrudescenza dei suicidi.

I terribili eventi che si sono verificati la scorsa settimana nella zona cuscinetto di Gaza hanno attirato l’attenzione di tutto il mondo sulle sofferenze e la disperazione dei palestinesi di Gaza, quando decine di migliaia di persone hanno rischiato la vita per protestare contro il loro imprigionamento dietro le barriere e i muri di Gaza. Dall’inizio della Grande Marcia del Ritorno, una serie di manifestazioni che sono cominciate a fine marzo 2018, sono state uccise più di 100 persone, soprattutto per mano dei cecchini israeliani schierati dietro la barriera di recinzione.

Spesso si sarebbe detto che questi manifestanti si lanciassero letteralmente contro i proiettili israeliani. All’inizio delle proteste ho discusso della zona cuscinetto con dei ragazzi che hanno confidato che non gli importava di morire. “Noi moriamo a Gaza comunque. Possiamo ugualmente essere uccisi dai proiettili”, ha affermato un adolescente accanto alla frontiera vicino alla città di Khan Younis. Era con degli amici che la pensavano allo stesso modo; uno di loro era già stato colpito ad una gamba ed era in sedia a rotelle.

Se le cineprese di tutto il mondo si avventurassero un po’ più dentro a Gaza, nelle strade e dietro le porte delle case, vedrebbero la disperazione in quasi tutte le famiglie. Dopo dieci anni di assedio, i due milioni di abitanti di Gaza che vivono ammassati in una minuscola striscia di terra si ritrovano senza lavoro, con un’economia distrutta, privati del minimo indispensabile per vivere decentemente – elettricità o acqua corrente – e senza alcuna speranza di libertà né alcun indizio che la loro situazione possa cambiare. L’assedio spezza gli animi, spingendo i più vulnerabili al suicidio, in proporzioni mai viste prima.

Fino a poco tempo fa i suicidi erano rari, in parte a causa della resilienza dei palestinesi, acquisita nel corso di 70 anni di conflitto, e anche per via di sistemi di clan solidi, ma soprattutto perché darsi la morte è proibito nelle società musulmane tradizionali. È solo quando il suicidio diventa un atto di jihad [guerra santa, anche in senso spirituale, ndtr.] che i morti vengono considerati martiri destinati al paradiso, mentre gli altri vanno all’inferno.

In quasi 30 anni di reportage da Gaza, prima del 2016 non ho quasi mai sentito parlare di suicidi. All’inizio di quell’anno, nove anni dopo l’inizio dell’assedio, una chirurga ortopedica inglese che lavorava come volontaria all’ospedale al-Shifa di Gaza mi ha informato che lei e i suoi colleghi stavano constatando un certo numero di ferite inspiegabili, provocate secondo loro da cadute o da salti da edifici alti.

Alla fine del 2016 i suicidi erano diventati così frequenti che il fenomeno ha cominciato ad essere di dominio pubblico. I dati forniti dai giornalisti locali lasciano intendere che il numero dei suicidi nel 2016 è stato almeno tre volte superiore a quello del 2015. Ma secondo gli esperti sanitari di Gaza, se i numeri riportati dai media indicano senz’altro un sostanziale aumento, essi sottostimano ampiamente il tasso reale. I suicidi sono “mascherati” da cadute o altri incidenti e le false dichiarazioni e la censura sono moneta corrente, a causa della stigmatizzazione del suicidio.

Comunque dal 2016 Gaza ha anche conosciuto un’ondata di atti di immolazione durante i quali degli uomini si sono dati fuoco in pubblico.

Non assistevamo a questo genere di eventi catastrofici da dieci anni”, afferma il dottor Youssef Awadallah, psichiatra a Rafah, città situata al confine tra Gaza e l’Egitto. I professionisti della salute mentale e i parenti dei defunti accusano gli effetti dell’assedio che, secondo loro, è molto più dannoso per il benessere – mentale e fisico – della popolazione delle continue guerre. I medici di Gaza avvertono che il prolungato assedio del territorio ha provocato un’“epidemia” di problemi mentali di cui il crescente numero di suicidi non è che un aspetto – in particolare si riferiscono all’aumento dei casi di schizofrenia, di sindrome da stress post-traumatico, di tossicodipendenza e di depressione. Per la prima volta l’UNRWA, l’agenzia dell’ONU che si occupa dei rifugiati palestinesi, ha cominciato a verificare eventuali tendenze suicidarie in tutti i pazienti sottoposti a cure sanitarie primarie, in seguito a ciò che viene descritto come “un aumento senza precedenti” di decessi.

Uomini e donne di tutte le età e di tutti gli strati sociali sono vulnerabili alle pulsioni suicide, affermano alcuni medici di Gaza. In uno stesso giorno di marzo, una ragazzina di15 anni e un ragazzo di 16 si sono impiccati. Tra le vittime ci sono uomini disperati perché non possono sopperire alle necessità della famiglia, donne e bambini vittime di maltrattamenti, spesso in situazioni di povertà estrema e di sovraffollamento ed anche donne incinte che affermano di non voler mettere al mondo figli a Gaza. In aprile una donna incinta di sette mesi si è tagliata le vene.

Tra i maggiormente vulnerabili si trovano gli studenti più brillanti di Gaza, alcuni dei quali si sono suicidati appena prima o poco dopo aver conseguito il diploma. In marzo, mentre intervistavo a casa sua un uomo d’affari fallito, ho visto la fotografia di un uomo dall’aspetto intelligente, con gli occhiali, messa ben in evidenza – al punto che ho creduto che si trattasse di un “martire” ucciso durante un conflitto. Ma il suo ritratto non presentava nessuna delle iconografie simili ai poster dei martiri che si possono vedere dovunque a Gaza. Avevo un interprete con me e lui ha riconosciuto la foto: il figlio dell’uomo d’affari era uno dei suoi amici più brillanti all’università. “Si è impiccato, ha confidato l’uomo d’affari. Non vedeva futuro a Gaza.”

Qualche mese prima delle impressionanti scene di massacri che hanno accompagnato la Grande Marcia del Ritorno, la storia di Mohmmed Younis aveva particolarmente catturato l’attenzione. Non solo perché la sua scrittura, con le sue rappresentazioni creative della vita a metà dei gazawi, suscitava ammirazione, ma anche perché dopo la sua morte alcuni hanno iniziato a descriverlo come un martire. “È più che un martire”, ha affermato sua madre.

Secondo alcuni suoi amici ha combattuto il nemico con la penna ed è morto in quanto vittima dell’assedio. Alla sua morte, Mohammed è stato anche affettuosamente onorato per il suo coraggio ed i suoi scritti da parte di molti suoi fan sulle reti sociali e anche dal Ministro della Cultura palestinese Ehab Bseiso in un elogio funebre. Membro dell’Autorità Nazionale Palestinese laica al potere in Cisgiordania, Bseiso è parso lasciar intendere di considerare Mohammed come un martire, affermando che non aveva “bisogno di scusarsi per la sua precoce dipartita”. Le sue storie non saranno mai dimenticate, ha aggiunto: “Tu resterai uno dei giganti del nostro tempo, Mohammed.”

Ma questa discussione sul “martirio” di Mohammed ha diffuso la paura a Gaza, soprattutto tra i genitori che temono che i loro figli facciano lo stesso, se pensano di poter evitare l’inferno. “Vediamo i nostri figli a scuola e all’università impegnarsi duramente ed essere impazienti di entrare nel mondo, trovare un lavoro ed essere normali – poi più niente”, mi ha confidato il padre di due laureati. “Se il suicidio deve essere considerato una morte “nobile”, altri potrebbero intraprendere questa strada. È molto pericoloso.”

Forse lo stesso Mohammed si è chiesto se potesse essere considerato un martire. In “Il martire sconosciuto”, un racconto pubblicato postumo in una raccolta intitolata “Foglie d’Autunno”, parla di un corpo non identificato portato all’ospedale al-Shifa, dove delle famiglie cercano di identificarlo. “Mi riconosceranno?” si chiede il narratore.

Uno dei luoghi di lettura preferiti da Mohammed era il caffè del giardino dell’hotel Mama House, in un angolo tranquillo del quartiere alberato di Remal a Gaza. Mama House è da tempo uno degli hotel preferiti dai visitatori stranieri che spesso regalano dei libri alla sua biblioteca – un’altra attrattiva per Mohammed che, con l’assedio di Gaza, faticava a trovare libri per soddisfare la sua sete di lettura.

Quando studiava all’università al-Azhar che si trova nei pressi, si poteva scorgere Mohammed con il suo fisico alto e magro tra la folla di studenti che si riversavano nelle strade di Gaza dopo i corsi. Evitando le automobili, i cavalli e i carri, si allontanava dalla folla – a volte per andare nella farmacia dove lavorava a tempo parziale, o in un bar, spesso quello del Mama House. Ordinando un caffè, si sedeva in un angolo tranquillo, si accendeva una sigaretta, ricaricava il suo cellulare e cominciava a scrivere delle storie.

Con due ore di elettricità al giorno, collegare un apparecchio [alla rete elettrica] è un lusso a Gaza. Però Mama House dispone di un generatore, come la maggior parte dei luoghi che hanno una clientela di professionisti. Medici, giornalisti e insegnanti ci vanno per socializzare, fare un tiro di narghilè o guardare il Barcellona sul grande schermo.

Pochi studenti avevano i mezzi per poter andare al Mama House; figlio unico, Mohammed era “viziato” da sua madre, gli dicevano gli amici per prenderlo in giro. Ma i suoi amici, i suoi professori e i clienti della farmacia avevano tutti di lui l’immagine di “un bravo ragazzo, un ragazzo gentile” e di “un ragazzo triste”.

Alcuni hanno anche visto le cicatrici sui suoi polsi, segni di precedenti tentativi di suicidio. Le sue storie indicavano che era come tutti gli altri ragazzi di Gaza, in quanto descriveva i loro sentimenti con tanta eloquenza. In una di queste ha scritto: “Quando si vive in una casa che si ama e che non si lascia, non ci sono problemi, ma se si è rinchiusi in casa contro la propria volontà, ci si sente paralizzati e disperati.”

Ha scritto della propria tristezza. I suoi genitori hanno divorziato quando era un bambino e Mohammed si è sentito rifiutato dal padre. I suoi lettori potevano ben comprendere questo dolore, perché tutte le famiglie di Gaza sono spezzate: per la maggior parte hanno avuto dei membri uccisi nel conflitto e molte sono state separate da anni di esilio o smembrate dal carcere. Migliaia di palestinesi sono oggi rinchiusi nelle prigioni israeliane.

Gran parte dei lettori era femminile: le donne erano attratte dalla sua malinconia particolare. “Poteva scrivere dell’assurdità della vita di tutti noi – l’umiliazione come la tragedia. Sapeva che questo posto era sbagliato”, ha detto una ragazza che conosco, che è fuggita in Egitto attraverso i tunnel per ottenere una borsa di studio americana. “È normale”, ha detto ridendo.

È così”, lamenta Mustafa alAssar, un gazawi di 17 anni che vuole studiare diritto internazionale, cosa impossibile perché non ci sono corsi di questo tipo a Gaza e lui non può andarsene. “Ci si rende improvvisamente conto che non si può essere la persona che si vorrebbe, a Gaza. E non si può far vedere chi si è a nessuno fuori, perché non si può uscire. Dunque non si può essere la persona che si vuole essere.”

Mohammed non era arrabbiato: piuttosto, era caduto nel comune stato di disperazione. Non avrebbe mai lanciato pietre, non più della maggior parte dei suoi coetanei. “Perché farlo? Per farsi sparare addosso? A chi importerebbe?”, si chiederebbero.

L’eroe di Mohammed era Bassel al-Araj, un leader del movimento della gioventù in Cisgiordania, che promuoveva la protesta pacifica, portava in visita i suoi compagni in luoghi simbolici della resistenza palestinese e parlava loro della storia della resistenza. Come Mohammed, al-Araj era scrittore e farmacista. “Andava pazzo per al-Araj”, mi ha detto un amico di Mohammed.

Prima di tornare a casa, Mohammed andava a vedere i nuovi doni fatti alla biblioteca di Mama House, sfogliando ‘Una lunga strada verso la libertà’ di Nelson Mandela, o un volume usurato di Agatha Christie.

In mezzo ai titoli di romanzi polizieschi c’erano alcune opere meno letterarie: copie polverose di rapporti dell’ONU su Gaza. Se Mohammed ne avesse preso uno, avrebbe trovato un’analisi del 2002 su un’ondata di attentati suicidi con le bombe avvenuti nei mesi più sanguinosi della seconda Intifada. Secondo Eyd Sarraj, un carismatico psichiatra di Gaza che nel 1990 ha fondato il programma comunitario di salute mentale di Gaza, gli attentati suicidi proliferavano per via della sensazione che la disperazione non smetteva di peggiorare, il che produceva “una situazione di sofferenza in cui la vita non è diversa dalla morte.”

Da bambino adorava ascoltare delle storie”, racconta Asma, la madre di Mohammed, seduta nel salotto della casa di famiglia. Tra le case in fondo alla strada si poteva scorgere appena un lembo di mare a forma di triangolo. I suoi nonni gli raccontavano le storie più belle su Jura, un vecchio e prospero villaggio di pescatori dove la famiglia aveva vissuto per secoli.

Durante la guerra arabo-israeliana del 1948 che ha portato alla creazione dello Stato di Israele, la famiglia di Mohammed, come più di 750.000 altri palestinesi, è stata cacciata dalla sua casa e non è mai stata autorizzata a tornare. Il villaggio di Jura, da tempo distrutto da Israele, si trova oggi sotto l’enorme porto di Ashkelon, che si può vedere dalla spiaggia sottostante la casa di Mohammed.

Io gli parlavo dei nostri aranceti, della nostra festa, di quando io correvo e nuotavo tra le onde”, racconta Modalala, la nonna di 88 anni, che indossa un foulard giallo vivo. Asma è seduta accanto a lei, vestita di nero. Il nonno di Mohammed gli parlava del proprio padre, che è cresciuto quando la Palestina faceva ancora parte dell’impero ottomano – gli ha raccontato che era molto colto, lavorava alla corte del sultano e viaggiava all’estero. “Ha detto a Mohammed che voleva tornare al suo villaggio prima di morire, ma è morto a Gaza e questo ha molto rattristato Mohammed.” In seguito Mohammed ha scritto di Jura e di “un ragazzo dai capelli d’oro che faceva dei salti per arrivare alla finestra e vedere il mare.”

Penso che il fatto di ascoltare delle storie e più tardi scriverle fosse il suo modo di sopportare la tristezza”, afferma sua madre. Suo zio Assad, che ha contribuito alla sua educazione, aggiunge che era altrettanto bravo in matematica: “Gli piaceva risolvere i problemi. Ha sempre voluto fare le cose da sé, sperimentare.”

Nei primi anni della vita di Mohammed la Palestina viveva una grande esperienza. È nato nel 1994, quando si sono visti i primi frutti degli accordi di pace di Oslo. Questi, firmati in pompa magna nel 1993, intendevano porre fine progressivamente all’occupazione da parte di Israele delle terre conquistate nel 1967 – Gaza, la Cisgiordania e Gerusalemme est –, sulle quali i palestinesi avrebbero dovuto costruire una specie di Stato.

Ma Oslo non pose rimedio alle ingiustizie del 1948. È uno dei motivi per cui l’accordo non ricevette un’accoglienza unanimemente positiva, soprattutto a Gaza, dove si trova la maggior concentrazione di rifugiati del 1948. Quasi tutti erano agricoltori le cui terre e case furono confiscate da Israele durante la guerra o appena dopo, mentre i loro raccolti e altre proprietà furono depredati. I villaggi arabi furono ripopolati da immigrati ebrei o distrutti. Su due milioni di palestinesi che vivono oggi a Gaza, 1,3 milioni sono rifugiati o discendenti di coloro che fuggirono qui nel 1948, il cui diritto al ritorno è sancito dalla Risoluzione 194 delle Nazioni Unite.

Nonostante le sue lacune, Oslo offriva qualche speranza di pace. In gran parte per il bene della generazione successiva, l’accordo venne recepito anche a Gaza, dove sui muri apparvero delle colombe al posto dei ritratti dei martiri. Nel 1998 a Rafah, nel sud, dove viveva allora la famiglia di Mohammed, venne aperto un aeroporto con la cupola dorata, una meraviglia agli occhi di un bambino. Ma nel giro di tre anni le cupole vennero sepolte sotto le macerie, distrutte dalle bombe israeliane. Quando Mohammed aveva 5 anni l’esperienza di Oslo si stava sgretolando, perché si era concretizzata una parte minima dei cambiamenti promessi. Questo tradimento alimentò il sostegno all’organizzazione militante islamica di Hamas, rivale del movimento laico di Fatah, che aveva appoggiato Oslo.

Recandosi a piedi a scuola, Mohammed passava davanti ai manifesti di una nuova generazione di “martiri”. Si trattava di kamikaze, molti dei quali erano stati reclutati a Rafah, su ordine del fondatore e ideologo di Hamas Ahmed Yassin, nato a Jura come i nonni di Mohammed. Yassin sosteneva che i kamikaze sarebbero andati in paradiso. Ma quando Israele si vendicò, una gran parte di Rafah venne rasa al suolo.

Quando chiedo alla madre di Mohammed come spiega Gaza ad un bambino, lei risponde che non c’è niente da spiegare: “I bambini lo vedono da soli. I posti di controllo, i bombardamenti, le incursioni nelle case – imparano che è così per tutti noi.”

Nel 2004, quando aveva 10 anni, molti membri della generazione post-Oslo tiravano nuovamente le pietre, come avevano fatto i loro padri. Ma Mohammed preferiva i suoi studi alla strada. Nel 2005, con l’intensificarsi dell’attività militante di Hamas, Israele ritirò il suo esercito e i suoi coloni da Gaza e ridispiegò le sue forze ai confini, dove era in costruzione un muro di separazione perché il nemico fosse più difficile da vedere. C’erano droni in cielo e cannoniere al largo del mare.

Nel 2006, quando le speranze di pace continuavano a indebolirsi, Hamas vinse le elezioni legislative per un autogoverno limitato in Cisgiordania e a Gaza. I suoi avversari di Fatah rifiutarono di riconoscere la vittoria di Hamas, dando luogo ad una guerra civile tra Hamas e Fatah durante la quale vennero uccisi centinaia di palestinesi. Quando Hamas infine prese il potere nel 2007 – mentre Fatah restava al governo in Cisgiordania – Israele definì Gaza “un’ entità terrorista”. Nei mesi seguenti impose un assedio che devastò la già debole economia di Gaza. Gli Stati Uniti e l’Unione Europea appoggiarono Israele con un boicottaggio politico di Hamas.

Gaza è ormai isolata dal mondo esterno mentre Israele blocca la circolazione delle persone, del carburante e dei viveri – tutto, tranne un minimo aiuto umanitario – attraverso le frontiere. Anche il valico a sud verso l’Egitto a Rafah venne chiuso quando il presidente egiziano Hosni Mubarak, anch’egli desideroso di arginare i radicali islamici, si alleò con Israele. E’ dentro questo soffocamento che Mohammed Younis, ancora adolescente, ha trovato la voce per raccontare al mondo che cosa sia la vita dietro muri di prigione sempre più alti.

Mohammed aveva 13 anni quando iniziò l’assedio. La sua famiglia lasciò Rafah, alla frontiera sud di Gaza, per sistemarsi a Gaza City, che sua madre riteneva più sicura e con maggiori alternative in termini di scelta della scuola per Mohammed, che leggeva e scriveva sempre di più. Il suo talento venne scoperto per la prima volta al Centro Qattan, un’organizzazione benefica per i ragazzi di Gaza, dove vinse il primo premio in un concorso di scrittura.

Molti dei suoi primi racconti evocano un luogo strano e sinistro, che lui nomina raramente, ma che riconosciamo come Gaza. In un racconto intitolato “Geografia” il narratore si descrive come un animale in gabbia, che “perlustra ogni centimetro delle frontiere di Gaza.” A volte compaiono dei fantasmi e lui si chiede se la morte li abbia liberati o se “anche la morte li abbia incatenati.”

Le voci narranti di Mohammed sono consapevoli di essere imprigionate non soltanto dai muri, ma anche dalla sorveglianza. In un racconto, delle spie israeliane con nomi di copertura come ‘Abu Saleh’ convincono adolescenti a tradire persone che verranno poi uccise. “Volete che io denunci mio fratello?”, chiede un ragazzo ad un agente israeliano che lo ha chiamato al telefonino. “Il telefono suona di nuovo, lo schermo non smette di lampeggiare. Viene voglia di gettarlo a terra perché si rompa in mille pezzi, ma non ci si può impedire di raccoglierlo.”

Un’altra voce narrante arriva ad un posto di controllo dove “cadono dal cielo ghigliottine”, un’immagine che evoca le bombe israeliane lanciate durante l’attacco militare del 2008-2009, che uccise 1.400 palestinesi. Fu probabilmente dopo questo attacco che i dirigenti di Hamas nella locale moschea chiesero a Mohammed di partecipare ad un seminario. Hamas ha sempre ottenuto un appoggio popolare grazie alla sua azione di assistenza, venendo in aiuto alle necessità e attraverso programmi sociali, come anche istituendo scuole e seminari.  

Da adolescente Mohammed non era particolarmente religioso, spiega sua madre. Ma credeva in dio e voleva saperne sempre di più su che cosa ciò significhi, sulla vita dopo la morte.” Un ragazzo con uno spirito così vivace e curioso doveva rappresentare una recluta ideale e la sua famiglia era nota ai dirigenti di Hamas. Oltre al suo fondatore, lo sceicco Yassin, anche la famiglia del dirigente politico di Hamas Ismail Haniyeh è originaria di Jura. Secondo un amico, il motivo principale per cui questi militanti volevano che Mohammed si unisse a loro era che lui era “intelligente e curioso”. “Volevano che diventasse uno di loro – uno dei loro eroi, costruttore di armi come Yahia Ayache.” Soprannominato ‘l’ingegnere’, Ayache fabbricava bombe per Hamas e venne assassinato da Israele nel 1996.

Mohammed un giorno tornava con la barba e diceva : ‘Sono di Hamas’, racconta suo zio Assad. Ma un altro giorno diceva: ‘Sono della Jihad islamica’. Stava solo sperimentando. Si faceva le sue idee per conto suo, poi le abbandonava.”

Parecchi abitanti di Gaza che avevano votato Hamas nel 2006 cominciarono presto ad avere dei dubbi. I lanci di razzi degli islamisti contro Israele erano sempre ampiamente approvati a Gaza, come anche la rete di tunnel che avevano costruito sotto il confine sud con l’Egitto e che ha consentito al commercio clandestino di attenuare i peggiori effetti del blocco.

Ciononostante, qualche anno dopo, per molti risultò evidente che gli odiosi attentati suicidi perpetrati durante la seconda Intifada, tra il 2000 e il 2005, avevano pregiudicato la causa palestinese. E sotto Hamas la vita a Gaza tornò rapidamente all’ oscurantismo culturale. Vennero imposti rigidi codici islamici, in particolare la chiusura di teatri e cinema, la privazione delle libertà per le donne conquistate a caro prezzo – l’uso del velo venne reso quasi obbligatorio – ed altre restrizioni sociali repressive. Per alcuni il governo di Hamas iniziò ad apparire come un assedio all’interno di un assedio.

Quando Mohammed si preparava all’università trovò la sua libertà nella lettura e nella scrittura. Imparò l’inglese da solo nella speranza di studiare letteratura inglese, e benché sua madre lo avesse convinto a studiare invece farmacia – essendo migliori le prospettive di lavoro – la letteratura rimase il suo primo amore.

Trovare dei libri era difficile; spesso il modo migliore era farli entrare clandestinamente attraverso i tunnel. “Era molto riservato riguardo ai suoi libri e li conservava nella sua stanza”, racconta Asma, che ci propone di farci vedere la stanza dove Mohammed passava il tempo e che lo ha visto morire.

Non è cambiato nulla dopo la sua morte”, dice Asma aprendo la porta di una cameretta con un letto e una scrivania sulla quale troneggiano trofei di scrittura che aveva vinto. Ci sono dei peluche su una sedia, un guantone da boxe. Asma prende dall’armadio una toga: ha presenziato alla cerimonia di consegna della laurea a Mohammed in vece sua, due mesi dopo la sua morte.

Quando apriamo un armadio a muro ne esce una cascata di libri. Ci sono dei romanzi – Dostoevskij, Dickens – e libri di filosofia – un’introduzione a Wittgenstein, Hegel, ‘La magia della realtà’ di Richard Dawkins. Tra i drammaturghi troviamo Euripide, Eugène Ionesco, Terence Rattigan e Arthur Miller. Si scorge la ‘Storia del sionismo’, posata sopra libri di Che Guevara e Charles Darwin. Per la maggior parte sono delle traduzioni in arabo, altre in inglese. Può darsi che Mohammed abbia letto ogni pagina di questa ampia raccolta, o forse gli piaceva semplicemente possederla, difficile saperlo. Resta comunque il fatto che, seduto tra queste quattro mura in compagnia di George Bernard Shaw, Sofocle e Mahmoud Darwish [il più importante poeta della letteratura palestinese, ndtr.], riusciva ad uscire dai muri di Gaza e a mettersi in contatto con un mondo più vasto.

Quando entra nella stanza sua nonna Modalala cominciamo a guardare i libri sull’altro scaffale, in particolare ‘Umiliati e offesi’ di Dostojevsky. Modalala prende una foto di suo nipote.

Torniamo nel salone illuminato dal sole, di fronte al mare, quando Asma inizia a pregare. Chiedo a Modalala perché secondo lei Mohammed si sia suicidato. “Non ci sono spiegazioni,  risponde. “Gli avevo detto: ‘Presto morirò’. E lui mi aveva risposto: ‘No, non farlo.’ Mi aveva confidato che voleva sposare una ragazza e io sapevo che era innamorato di lei. Quel giorno era gentile e bello. Gli avevo fatto da mangiare io, perché sua mamma stava digiunando. Gli avevo fatto un caffè, uno per me e uno per lui, avevo messo del miele nel suo e glielo avevo portato in camera. Lì si sentiva al sicuro.”

Vista da qui, anche la spiaggia di Gaza sembra un luogo sicuro per fare un picnic o organizzare una festa di matrimonio in un capanno dipinto e adornato con colori vivaci. Ma le cannoniere israeliane incrociano al largo delle coste e la sabbia di Gaza è imbevuta del sangue della famiglia Younis.

Mia nonna è stata uccisa proprio là, in groppa ad un asino”, racconta Modalala mostrando col dito la spiaggia dove da bambina lei e la sua famiglia vennero bersagliate dalle bombe israeliane mentre nel 1948 fuggivano da Jura verso il sud. Durante la guerra del 2014 quattro bambini di Gaza furono uccisi mentre giocavano sulla sabbia, non lontano di là.

La guerra del 2014 è stata la più devastante delle tre offensive israeliane che Mohammed ha conosciuto. Vennero uccisi più di 2.200 palestinesi ,di cui almeno 500 minori. Ormai lui scriveva sempre più di morti, riconoscendo a volte una certa sicurezza nella morte, e scriveva a proposito di “senso di perdita e di sicurezza, della fuga e della ricerca di un rifugio e della sopravvivenza nell’ annegamento, di semplici idee di suicidio”. Ma come molti altri, nello choc seguito al bombardamento, vide dei motivi di speranza.

La vastità delle distruzioni nel 2014 fu tale che il mondo iniziò a prestarvi attenzione. Gli avvocati palestinesi dei diritti umani speravano di poter perseguire Israele per crimini di guerra. Il Segretario Generale dell’ONU dell’epoca, Ban Ki-moon, dichiarò che l’assedio doveva cessare e che il mondo doveva pagare per la ricostruzione delle case, dei serbatoi e delle fabbriche di Gaza. Il popolo aveva già cominciato: vidi dei ragazzi arrampicarsi su muri di calcestruzzo pericolanti e riempire di pietre un carretto trainato da un asino. Dissodavano i loro frutteti per ripiantare alberi di clementine e ricostruivano la loro fabbrica di succhi bombardata.

Alla luce di questa attenzione mediatica mondiale, migliaia di apprendisti giornalisti di Gaza colsero l’occasione per diffondere al mondo esterno il loro racconto in diretta dalle macerie. Studenti che avevano ottenuto borse di studio in università straniere stavano agli angoli delle strade nella speranza di sapere se erano stati aperti i valichi per potersi affrettare a scappare e prendere il posto che spettava loro. Mohammed si iscrisse al centro culturale francese sperando di poter studiare letteratura a Parigi.

Ma un anno dopo le clementine erano morte e il proprietario della fabbrica di succhi sedeva accanto ad una scatola di cibo dell’ONU. Più dell’80% della popolazione dipende ormai dagli aiuti alimentari.

Dietro le porte chiuse, soprattutto laddove i bombardamenti del 2014 erano stati pesanti, vidi vite distrutte. Una giovane madre aprì un armadio di giochi colpito da una granata. Mi guardava mentre si rovesciavano dei pezzi rotti. Un giovane uomo stava seduto davanti ad uno schermo spento durante le lunghe ore senza elettricità. Ed il mondo aveva nuovamente voltato le spalle a Gaza.

Per la prima volta, dopo tutti questi anni di reportage da Gaza, incontrai ragazzini che chiedevano l’elemosina, sentii parlare di prostituzione e vidi tracce di tossicodipendenza e di violenze domestiche generalizzate, spesso in case dove in una stessa stanza vivevano fino a dieci persone. Dai bombardamenti del 2014 non sono state risistemate in altri alloggi. In mezzo a questa devastazione, ci sono prove che lo Stato islamico ottenga sempre maggior sostegno. Un gruppo di militanti islamici ha lanciò un ordigno esplosivo sul centro culturale francese dove studiava Mohammed.

I media internazionali si sono disinteressati della questione, a parte occasionali previsioni di una nuova Intifada. Quando ho chiesto a dei ragazzi del campo profughi di Jabaliya – dove è iniziata la prima Intifada – se questo fosse possibile, hanno fatto una gran risata, dicendo che il muro era più alto ed era stato prolungato fin sottoterra per bloccare i tunnel. Nessuno poteva più resistere. Ho chiesto se potesse apparire in Palestina un nuovo Mandela. “Se ci fosse, gli israeliani lo ucciderebbero”, ha risposto uno di loro.

Nel marzo 2017 l’eroe di Mohammed, Bassel al-Araj, scrittore e vecchio difensore della resistenza nonviolenta, è stato ucciso dalle truppe israeliane. È stato riconosciuto come “martire istruito”.

Sono tanti quelli che sono stati disgustati dall’incapacità dei dirigenti di Hamas e di Fatah di promuovere la causa palestinese, o almeno migliorare la vita dei comuni palestinesi – erano troppo occupati a litigare tra loro mentre l’assedio di Gaza si inaspriva. A proposito degli israeliani Mohammed ha scritto: “Almeno loro rispettano il proprio popolo, mentre noi, noi facciamo a pezzi il nostro. Ma loro ci hanno cacciati dalle nostre terre!” In uno dei suoi racconti, un ragazzo “lancia orgogliosamente una pietra contro un posto di controllo”, ma lascia perdere e torna a casa “per proseguire qui la sua eterna maledizione.”

Come i giovani tedeschi che sono morti scavalcando il muro di Berlino, i giovani palestinesi che sono morti cercando di fuggire in barca “tentavano di raggiungere delle città in cui la libertà è una scelta, non un regalo.”

Nella primavera ed estate del 2017 alcuni medici mi hanno riferito di altri suicidi camuffati da incidenti. I medici vedevano non soltanto persone che si buttavano giù dagli edifici, ma anche vittime di quelli che sembravano incidenti automobilistici deliberati e annegamenti che forse non erano accidentali. Pazienti che presentavano ferite da coltello dicevano di essere stati feriti nel corso di una “rissa”. Ho sentito testimoni parlare di individui disperati che erano entrati nella zona cuscinetto nella speranza di essere uccisi. Una ragazza che conosco mi spiega che si è fatta un’overdose perché non voleva sposarsi o crescere dei figli a Gaza.

Gli spiriti più resistenti vanno in pezzi. “Gli abitanti di Gaza vogliono vivere, ma non possono”, afferma il dottor Ghada al-Jadba, direttore dei servizi sanitari dell’UNRWA, l’agenzia dell’ONU che si occupa dei rifugiati palestinesi.

Youssef Awadallah, direttore del centro di salute mentale di Rafah, getta la testa all’indietro, fingendo di affogare. “Si soffoca. In realtà siamo in trappola, non in stato d’assedio”, butta lì, prima di battere le mani. “Come in Tom e Jerry”.

Ritiene che l’aumento del numero di suicidi si inserisca nel quadro di una crisi molto più vasta della salute mentale a Gaza. Secondo l’UNICEF circa 400.000 minori sono traumatizzati e necessitano di un sostegno psicosociale. La dipendenza dai farmaci, soprattutto da analgesici potenti, è diffusa. “Gli israeliani lo sanno”, dice Awadallah. “La guerra attuale mira a spezzare così la nostra resilienza, non la nostra resistenza.”

I servizi di salute mentale di Gaza, ancora precari, sono stati paralizzati dall’assedio. “L’altro giorno un uomo ha ucciso sua madre perché pensava che lo spiasse,” racconta Awadallah. “Un altro ha detto che gli israeliani gli avevano messo un dispositivo di sorveglianza nella testa. Ma noi che cosa possiamo fare? Non abbiamo né farmaci, né letti, né psichiatri.” Ricorda un altro caso in cui un uomo ha pugnalato i suoi figli prima di darsi fuoco: “Quando un uomo non può sopperire alle necessità della sua famiglia, soffre. Se arriva al punto di darsi fuoco, soffre talmente tanto che per lui non ha più importanza andare all’inferno.”

Allargando le mani, Awadallah spiega perché i giovani e i più intelligenti fanno parte degli individui più propensi a suicidarsi. “La distanza tra le loro aspirazioni e le reali possibilità è maggiore che per la maggior parte delle persone comuni e le aspettative nel futuro per cui si sono preparati ma che non potranno raggiungere diventano impossibili da sopportare.”

Durante l’estate del 2017 tutti a Gaza sembravano in attesa di qualcosa. I pazienti malati di cancro aspettavano di sapere se potessero partire per sottoporsi ad un intervento chirurgico d’urgenza “all’estero”. I luoghi per i matrimoni in riva al mare, dipinti con colori vivaci, aspettavano che le coppie avessero il denaro per sposarsi. Tutti aspettavano la corrente elettrica.

Raji Sourani, direttore del Centro palestinese per i diritti umani, aspettava di sapere se le accuse di crimini di guerra sarebbero state ascoltate, ma perdeva la speranza. “Nessuno parla dell’occupazione. Nessuno parla delle vittime che vivono sotto occupazione – è Israele che viene considerato la vittima e che bisogna proteggere contro di noi. È una situazione kafkiana”, ha affermato all’epoca.

Nella sua stanza, Mohammed aspettava dei nuovi libri. Nell’elenco c’erano ‘Il processo’ di Kafka e Amleto.

Mohammed parlava di suicidio. Tuttavia era chiaro che aveva ancora speranze, perché parlava anche di fidanzarsi. I fidanzamenti e i suicidi sembravano a volte andare in parallelo: il produttore tessile in fallimento il cui figlio si era impiccato mi ha confidato che quest’ultimo doveva sposarsi la settimana successiva. E Mohammed era sicuramente innamorato, afferma sua madre: “Si vedeva bene che lo era”. Ha scritto riguardo ad un matrimonio a Jura, una prosa impregnata di un senso di perdita sia per il suo vecchio villaggio che per il suo futuro matrimonio, forse perché non poteva più sopportare il dolore della “moltitudine di contraddizioni che esplodono nella testa.”

Nei suoi ultimi scritti Mohammed è attratto dal dolore degli altri, riscontrandolo laddove è più acuto o più nascosto. Parla di un padre la cui figlia sta morendo in un luogo lontano e il quale confida: “Il senso di impotenza adesso mi uccide ogni giorno”.

Si sofferma anche sull’umiliazione dei posti di controllo, dove un viaggiatore viene portato in “un posto segreto simile ad una cella di prigione, senza alcuna forma di vita (…) dove essi sono rinchiusi semplicemente perché sono palestinesi. Perché le capitali e gli aeroporti sono preclusi ai palestinesi?”

Uno degli ultimi scritti di Mohammed era una pièce teatrale intitolata ‘Fuga’. Poco prima della sua morte aveva fatto un ultimo tentativo di scappare. Sua madre spiega che era stato accettato per studiare letteratura alla prestigiosa università ebraica di Gerusalemme, ma aveva scoperto che a causa della politica israeliana poteva aspettarsi di vedersi rifiutare il permesso di uscire da Gaza.

Perciò Mohammed lottava contro la disperazione e “cercava la bellezza”, anche se aveva comunicato ai suoi lettori che ascoltava ‘Komm, suber Tod, komm selge Ruh’ (‘Vieni dolce morte, vieni felice riposo’) di Bach. Anche quando è entrato nella sua stanza l’ultima sera ed ha chiuso la porta a chiave, forse Mohammed non era sicuro di compiere quel gesto. La posizione del suo corpo ha indotto suo zio Assad a credere che Mohammed avesse cambiato idea all’ultimo istante, ma era troppo tardi.

Nelle settimane e nei mesi precedenti la morte di Mohammed la sua disperazione è stata probabilmente aggravata dalla presa di coscienza che i suoi scritti non avrebbero mai potuto cambiare niente: ai suoi occhi il discorso palestinese era gestito da stranieri. Il suo suicidio è avvenuto poco tempo prima che Donald Trump riconoscesse Gerusalemme come capitale di Israele e rimettesse in discussione il diritto dei rifugiati palestinesi al ritorno alle loro case.

Uno degli ultimi racconti di Mohammed si intitolava ‘La balena che ha bloccato la mia porta con la coda’. La voce narrante fa un sogno ricorrente nel quale delle balenottere lo vanno a trovare e tentano di suicidarsi. Si sveglia e si chiede perché le balene decidano di morire. Si risponde: “Sembra che le balene si suicidino quando perdono il senso dell’orientamento, quando non sanno più dove andare.”

Quando chiedo a Awadallah se considera Mohammed un martire, lui riflette un momento e sorride, spiegando che la disperazione di Mohammed gli ha provocato una grave malattia mentale e che è a causa di questa malattia che si è suicidato. A questo proposito, Awadallah spera che Allah si mostri benevolo verso Mohammed e gli permetta di andare in paradiso e non all’inferno.

Gli chiedo che cosa si sarebbe potuto fare per evitare il suicidio di Mohammed.

Niente,” risponde. “A parte nascere in un luogo diverso da Gaza.”

Questo articolo è stato modificato l’11 giugno 2018 per chiarire il riferimento all’impossibilità per Mohammed Younis di uscire da Gaza per studiare.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Come Israele sta usando l’emergenza da coronavirus per annettere la Cisgiordania

Fareed Taamallah

24 aprile 2020 – Middle East Eye

La formazione della coalizione governativa Gantz-Netanyahu non ha nulla a che fare con la pandemia, è una mossa puramente politica

Benjamin Netanyahu, il primo ministro di Israele, e Benny Gantz, il suo principale rivale, hanno firmato questa settimana un accordo per formare un governo di unità nazionale di “emergenza”. 

Secondo i media israeliani, il Likud, il partito di Netanyahu, e il Blu e Bianco, l’alleanza guidata da Gantz, si sono accordati per l’alternanza del premier. Inizialmente Netanyahu resterà primo ministro e Gantz sarà il suo vice e, dopo 18 mesi, si scambieranno i ruoli.

La prima reazione dall’amministrazione statunitense è arrivata mercoledì dal segretario di stato Mike Pompeo che ha detto che annettere parti della Cisgiordania ” spetta in ultima istanza a Israele”.  Questa brutale dichiarazione riflette la parzialità dell’amministrazione americana verso Israele. 

Da palestinese, nel corso dell’occupazione, ho assistito alla formazione di parecchi governi israeliani nessuno dei quali seriamente interessato a una soluzione pacifica del conflitto o a porre fine agli insediamenti illegali in Cisgiordania. 

Fissare la data per l’annessione

Quest’ultima coalizione non fa eccezione. La differenza è che per la prima volta un governo israeliano ha ufficialmente e sfrontatamente fissato una data precisa per l’annessione. 

Sulla base dell’accordo del secolo dell’amministrazione Trump, il primo luglio la Knesset potrà votare l’annessione di parti della Cisgiordania. Tale accordo era stato respinto preventivamente dai palestinesi perché dà ad Israele il totale controllo militare su di loro, sulla gran parte delle loro terre, sull’intera Gerusalemme e su tutti gli insediamenti israeliani.

L’accordo stabilisce che la votazione debba tenersi “il prima possibile”, senza ritardi in commissione. Sebbene i membri della coalizione possano votare come ritengono opportuno, è probabile che il fronte della Knesset a favore dell’annessione avrà la maggioranza.

Il cosiddetto governo di unità nazionale di “emergenza”, che durerà 36 mesi, è stato legittimato a gestire la pandemia in Israele. Ma perché l’implementazione dell’accordo del secolo deve essere considerata un’emergenza? 

Già prima di formare il nuovo governo. Netanyahu aveva dichiarato molte volte di voler annettere la Valle del Giordano e gli insediamenti della Cisgiordania. Gli americani e gli israeliani hanno già redatto mappe dei territori che hanno pianificato di annettere. 

Alcuni esperti predicono che Israele ingloberà almeno il 30% della Cisgiordania. Inutile dire che l’annessione non avverrà nel quadro di negoziati o di uno scambio concordato di territori, ma sarà piuttosto una decisione unilaterale che mina un futuro Stato palestinese, ponendo fine alla dottrina della “soluzione dei due Stati” per arrivare a un’entità palestinese segregata come bantustan in Sud Africa. 

Mossa propagandistica

Questa annessione avrebbe un impatto disastroso sulle aspirazioni di auto-determinazione del nostro popolo e su di me personalmente, un contadino palestinese che possiede della terra nell’Area C [sotto totale controllo israeliano e che in parte dovrebbe essere annessa, ndtr.].

Se il governo israeliano seguisse la mappa disegnata dai consiglieri di Trump, parte di Qira, il villaggio da dove vengo, situato nella zona cisgiordana di Salfit, e forse persino la mia fattoria verrebbero incorporate dall’insediamento coloniale illegale di Ariel.   

Il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha diffidato gli USA e i governi israeliani dall’annettere una qualsiasi parte dei territori palestinesi. “Non pensiate che, a causa del coronavirus, ci siamo dimenticati dell’annessione, delle misure di Netanyahu o dell’accordo del secolo,” ha detto questo mese, aggiungendo che i leader palestinesi avrebbero continuato a lavorare contro questi piani.

È chiaro che la formazione del governo di coalizione non ha niente a che fare con l’emergenza da pandemia, ma ha invece delle mire politiche. Netanyahu e ora anche Gantz vogliono approfittarne per implementare l’accordo trumpiano e annettere parti della Cisgiordania, mentre il mondo e i palestinesi sono esausti per la lotta contro il virus. 

Le elezioni presidenziali negli USA sono fissate per novembre e questa sarebbe anche una buona mossa propagandistica per facilitare la rielezione di Trump.

L’establishment politico israeliano si è unito su un programma permanente di colonizzazione e annessione, sfruttando la straordinaria situazione locale e internazionale per imporre lo status quo come realtà nei territori, con il pieno appoggio e sostegno da parte dell’amministrazione statunitense.

La necessità dell’unità palestinese

Secondo Hanan Ashrawi che fa parte del comitato esecutivo dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina, l’accordo di unità “rivela i partiti politici israeliani per quello che sono e prova, al di là di ogni ragionevole dubbio, la morte in Israele della cosiddetta sinistra”. Sono d’accordo e vorrei aggiungere che il governo di unità evoca più che mai la necessità di porre fine alla divisione fra la Cisgiordania e Gaza per cercare invece la riconciliazione fra tutte le fazioni politiche.

I palestinesi devono adottare una strategia nuova, chiara e più determinata per affrontare l’annessione della propria terra, dato che Israele e gli USA non hanno lasciato loro altra alternativa che resistere. 

È ora che i palestinesi smettano di inseguire la futile illusione dei “due Stati” e inizino a cercare una soluzione realistica di “uno Stato democratico” che offra, a tutti quelli che vivono fra il fiume Giordano e il mar Mediterraneo [cioè nella Palestina storica, che comprende l’attuale Israele, la Cisgiordania e Gaza, ndtr.], gli stessi diritti e obblighi in qualità di cittadini uguali indipendentemente dalla loro religione o razza.

Questa resta l’unica soluzione fattibile del conflitto del secolo.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Fareed Taamallah

Fareed Taamallah è un agricoltore palestinese e un attivista politico.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




L’UE recede da una presa di posizione nei confronti di Israele sull’annessione della Cisgiordania

Ali Abunimah

23 aprile 2020 – Electronic Intifada

A quanto pare l’Unione europea ha receduto dalla sua minaccia di imporre delle misure nei confronti di Israele nel caso metta in atto ulteriori annessioni di territori della Cisgiordania occupata.

Il primo ministro Benjamin Netanyahu e il leader del partito Blu e Bianco Benny Gantz, dopo un anno di stallo politico e tre elezioni generali, hanno raggiunto un accordo per formare una coalizione.

L’accordo di coalizione prevede l’impegno che da luglio il governo e il parlamento israeliani procedano alla votazione per l’annessione vaste aree della Cisgiordania.

Secondo il Times of Israel, tali misure probabilmente verrebbero approvate.

Giovedì, il responsabile della politica estera europea Josep Borrell ha ribadito la posizione del blocco delle 27 Nazioni secondo cui “qualsiasi annessione costituirebbe una grave violazione del diritto internazionale”.

“L’Unione Europea continuerà a monitorare attentamente la situazione e le sue più ampie implicazioni e agirà di conseguenza”, ha aggiunto Borrell.

Naturalmente “agire di conseguenza” potrebbe significare non fare nulla.

Un linguaggio annacquato

Considerando quanto i diplomatici dell’UE siano in sintonia con le sottigliezze linguistiche – e data la loro propensione a fare più o meno un copia-incolla di precedenti dichiarazioni – è degno di nota come Borrell non abbia ribadito una frase molto più incisiva di una dichiarazione fatta solo pochi mesi fa.

All’inizio di febbraio, Borrell ha reagito al piano del presidente Donald Trump, comunemente chiamato Accordo del Secolo, che sostiene l’annessione israeliana di gran parte della Cisgiordania, con un raro, se non inedito, avvertimento che Israele avrebbe dovuto affrontare delle conseguenze.

“Dei passi verso l’annessione, se attuati, non potrebbero passare incontrastati”, ha affermato Borrell nell’occasione.

Come avevo rilevato allora, ci sono poche possibilità che l’UE cambi effettivamente il suo approccio di lunga data di sostegno incondizionato a Israele, nonostante commetta violazioni su violazioni, crimini su crimini.

Avevo anche evidenziato come Israele avesse già annesso Gerusalemme est occupata nel 1967 e le alture del Golan in Siria nel 1981 – gravi violazioni del diritto internazionale che hanno avuto come unico riscontro decenni di elargizioni profuse dalla UE ad Israele.

Ciò è in netto contrasto con il modo in cui l’UE ha imposto sanzioni alla Russia per l’annessione della Crimea dall’Ucraina nel 2014. A gennaio l’UE ha aggiunto a tali misure punitive le sanzioni ai funzionari russi che hanno contribuito a organizzare le elezioni in Crimea.

Israele tiene regolarmente elezioni in Cisgiordania in cui possono votare solo i coloni israeliani. L’UE abitualmente elogia queste elezioni segregazioniste organizzate negli insediamenti coloniali costruiti illegalmente sui territorio occupato.

Borrell, recedendo dalla sua già debole dichiarazione di febbraio, ha inviato un altro segnale a Israele secondo cui non avrebbe nulla da temere da Bruxelles.

Nella sua ultima dichiarazione, Borrell promette che l’UE è “intenzionata a cooperare strettamente con il nuovo governo nella lotta contro il coronavirus”.

Aggiunge che “la cooperazione tecnica è in corso e sarà rafforzata su tutti gli aspetti della pandemia”.

Una “cooperazione” rafforzata con ogni probabilità significa maggiori elargizioni dell’UE all’industria bellica israeliana.

Semaforo verde di Washington

L’amministrazione Trump ha nel frattempo dato il via libera all’annessione.

Mercoledì il segretario di Stato Mike Pompeo ha confermato che gli Stati Uniti considerano la questione come una “decisione israeliana”.

Ciò rende particolarmente significativi i possibili passi da parte dell’UE per contrastare questo sostegno incondizionato degli Stati Uniti.

Ma l’UE, il principale partner commerciale di Israele, non ha la volontà e la credibilità per agire.

All’inizio di questa settimana è emerso che i funzionari dell’UE avevano avvertito Gantz di non sottoscrivere un accordo per un governo determinato a procedere all’annessione.

Secondo il Times of Israel, “si diceva che i funzionari avessero lanciato l’avvertimento che una tale mossa da parte di un potenziale governo di unità avrebbe danneggiato le relazioni di Israele con l’UE, suscitando una forte risposta”.

Gantz non gli ha dato retta, indubbiamente fiducioso che l’UE continuerà la sua politica di di sporadiche sfuriate riguardo alle azioni di Israele continuando a inondarla di regalini.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Il piano di annessione di Netanyahu è una minaccia alla sicurezza nazionale di Israele

 Ami Ayalon, Tamir Pardo, Gadi Shamni

23 aprile 2020– Foreing Policy

L’annessione della Cisgiordania incrinerebbe i trattati di pace di Israele con l’Egitto e la Giordania, susciterebbe la rabbia degli alleati nel Golfo, minerebbe l’Autorità Nazionale Palestinese e metterebbe in pericolo Israele come democrazia ebraica.

Quattro giorni dopo che la Casa Bianca ha ribadito la decisione di perseguire l'”accordo del secolo” del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, la lunga instabilità politica di Israele si è conclusa lunedì con un accordo di coalizione che potrebbe mettere tragicamente fine a qualunque prospettiva di israeliani e palestinesi di tornare al tavolo dei negoziati.

L’ accordo tra il partito Likud di Benjamin Netanyahu e il Blu e Bianco di Benny Gantz fissa il 1 ° luglio come data in cui mettere in atto l’annessione unilaterale israeliana di grandi porzioni del territorio della Cisgiordania, importante elemento del piano Trump. Se il governo congiunto procederà conformemente, le altre caratteristiche del piano diverranno irrilevanti. Questo sta accadendo nonostante 220 generali, ammiragli ed ex dirigenti israeliani di Mossad, Shin Bet e polizia, membri di Commanders for Israel’s Security (CIS) [movimento di ex alti funzionari fondato nel 2014, ndtr.], abbiano firmato una lettera aperta a tutta pagina sui giornali israeliani il 3 aprile esortando i loro ex colleghi nel governo – in particolare Gantz e Gabi Ashkenazi, entrambi ex capi di stato maggiore dell’esercito israeliano – a chiedere di bloccare l’annessione unilaterale dei territori della Cisgiordania. Pochi giorni dopo, 149 eminenti leader ebrei americani si sono uniti a Israel Policy Forum [organizzazione ebraica americana che lavora per una soluzione negoziata a due Stati, ndtr.] in un appello simile, e subito dopo, 11 membri del Congresso degli Stati Uniti hanno espresso un altro monito sulle conseguenze negative di una tale mossa.

A prescindere dalle loro – e nostre – serie riserve riguardo a molti elementi del piano Trump, tutti e tre quei gruppi hanno concordato sugli effetti negativi dell’annessione sulla prospettiva di un’eventuale soluzione a due Stati israeliano e palestinese, e sul rischio di minare un altro pilastro fondamentale della strategia degli Stati Uniti nella regione: i trattati di pace di Israele con Egitto e Giordania.

L’Egitto è un importante attore nella regione e funge da principale intermediario tra Israele e Hamas nel prevenire episodi di violenza o nel porvi fine una volta scoppiati. Il Cairo è anche un partner importante di Israele nella lotta contro lo Stato Islamico, gli affiliati di al Qaeda e altri terroristi che operano nella e dalla penisola del Sinai; l’annessione della Cisgiordania potrebbe scatenare proteste di popolo in Egitto che potrebbero costringere l’amministrazione di Abdel Fattah al-Sisi a riconsiderare quelle relazioni.

La situazione è ancora più precaria in Giordania. Il regno si trova appena oltre il fiume Giordano rispetto alla Cisgiordania e ha una consistente popolazione palestinese. Pertanto, è sempre stato molto sensibile a sviluppi sfavorevoli in Cisgiordania. Per decenni il confine di Israele con la Giordania è stato più sicuro di altre frontiere. Inoltre, il vasto territorio del regno ha fornito a Israele uno spazio strategico insostituibile per la deterrenza, il rilevamento e l’intercettazione – per terra e per aria – di forze ostili, principalmente dall’Iran.

A seguito di un’annessione unilaterale potrebbe fallire un altro obiettivo del piano Trump: la speranza di consolidare i primi risultati dell’amministrazione nell’incoraggiare una maggiore cooperazione tra Israele e i partner regionali statunitensi nel Golfo e altrove. Proprio come la pandemia di coronavirus e il crollo dei prezzi del petrolio hanno contribuito alle preoccupazioni sulla stabilità interna delle monarchie del Golfo, questi regimi saranno anche costretti a prevenire la rabbia popolare reagendo pubblicamente all’annessione israeliana nel timore che i loro avversari, principalmente Iran e Turchia, utilizzino la loro inazione per minarne la legittimità popolare.

Non ha senso rischiare tutto ciò per annettere un territorio su cui Israele ha già il pieno controllo riguardo alla sicurezza. Sia Israele che gli Stati Uniti devono riconsiderare la cosa prima che il danno sia fatto.

Questa mossa sconsiderata non avrebbe solo conseguenze negative per la sicurezza di Israele, ma anche ripercussioni sul futuro di Israele come democrazia ebraica.

I leader ebrei statunitensi e i membri del Congresso hanno sottolineato che sarebbe in pericolo il supporto bipartisan dagli Stati Uniti di cui Israele ha a lungo goduto, un altro importante pilastro nell’equilibrio della sua sicurezza nazionale.

Come la maggior parte degli israeliani, molti politici e opinionisti statunitensi non erano consapevoli, come è risultato dalle nostre discussioni, del rapido passaggio dell’annessione unilaterale da capriccio di una trascurabile minoranza messianica di destra a elemento d’azione fondamentale nell’agenda di Netanyahu nel governo di coalizione che è appena riuscito a formare. Ora ogni dubbio è cancellato.

Il drammatico appello pubblico dei 220 alti funzionari della sicurezza israeliani in pensione era stato pensato per rafforzare l’opposizione all’annessione da parte degli aspiranti partner nella coalizione di Netanyahu guidati da Gantz, proprio nel momento in cui Netanyahu era pressato dagli irriducibili sostenitori dell’annessione (o ne orchestrava la pressione) perché non cedesse in merito ad essa.

Prevedendo tale pressione, per oltre due anni il CIS ha condiviso i risultati riguardanti le molteplici conseguenze dell’annessione unilaterale con i membri della Knesset e il gabinetto israeliani, nonché con la popolazione israeliana. Inoltre è stato spesso chiamato a informare funzionari della Casa Bianca, membri del Congresso, diplomatici statunitensi e leader ebrei statunitensi.

In breve, questo passo irreversibile, una volta fatto, probabilmente scatenerà una reazione a catena fuori controllo in Israele. Il punto di svolta potrebbe essere la fine del coordinamento palestinese della sicurezza con Israele. Già accolte come simbolo delle aspirazioni ad uno Stato, le agenzie di sicurezza palestinesi hanno perso il sostegno popolare poiché lo Stato appariva sempre meno probabile. Peggio ancora, sia gli ufficiali giovani che quelli più anziani riferiscono di aver ricevuto accuse di tradimento, di non essere più al servizio delle aspirazioni nazionali palestinesi ma solo dell’occupazione israeliana.

Durante i momenti di tensione, con una crescente pressione popolare, l’assenteismo dal servizio nelle agenzie si avvicinava al 30%. È nostra opinione (così come di centinaia di altri generali in pensione) che un voto della Knesset sull’annessione potrebbe ridurre la residua legittimità del coordinamento per la sicurezza.

Potrebbe essere irrilevante se la stessa Autorità Nazionale Palestinese (ANP) sopravviverà o meno a questo, o se la sua leadership vorrà ancora che il coordinamento della sicurezza continui. Se quelli che attualmente prestano servizio nelle agenzie di sicurezza si rifiutano di presentarsi al lavoro, si può solo sperare che non partecipino armati alle proteste di massa contro l’annessione.

Se il coordinamento per la sicurezza da parte dei palestinesi cessasse di essere efficace, e con Hamas ben organizzato e pronto a sfruttare il conseguente vuoto nella sicurezza, Israele non avrà altra scelta che rioccupare l’intera Cisgiordania, compresi tutti i centri abitati dalla popolazione palestinese attualmente sotto l’amministrazione dell’ANP. Se questo scenario si materializzasse in Cisgiordania, si può presumere che sia improbabile che Hamas rispetti le sue intese sul cessate il fuoco con Israele a Gaza. Se Hamas dovesse entrare nello scontro, Israele potrebbe non avere altra scelta se non quella di rioccupare anche la Striscia di Gaza.

Di conseguenza, ciò che inizierebbe il 1° luglio con una votazione della Knesset per l’annessione parziale potrebbe presto sfuggire al controllo e portare a una completa acquisizione israeliana della Cisgiordania e di Gaza, il che significa che l’esercito israeliano sarebbe l’unica entità che controlla milioni di palestinesi – senza una strategia per risolvere il problema.

In una situazione del genere svanirebbe ogni speranza che il team di Trump potrebbe aver avuto che il suo ” accordo del secolo” unisse israeliani e palestinesi. Allo stesso modo, nessun altro sforzo diplomatico potrebbe riesumare la prospettiva di un accordo a due Stati. Salvare Israele dall’impossibile dilemma, tra rinunciare alla sua identità ebraica garantendo ai palestinesi annessi pari diritti o rinunciare alla sua democrazia privandoli di quei diritti, potrebbe rivelarsi una missione impossibile.

La presa di coscienza di molti qui in Israele e di alcuni negli Stati Uniti dell’imminenza di questo pericolo offre qualche speranza che nelle prossime 10 settimane si possano prendere provvedimenti in tempo per prevenire questo terribile risultato.

L’abbandono dell’annessione unilaterale è sia urgente che essenziale. Coloro che hanno a cuore il futuro di Israele come democrazia ebraica sicura, che sostiene i valori sanciti nella sua dichiarazione di indipendenza, devono agire ora.

Ami Ayalon, ammiraglio in pensione, è un ex direttore della Shin Bet, ex comandante in capo della Marina israeliana e autore del libro di prossima uscita Friendly Fire [Fuoco Amirco]. È membro del CIS.

Tamir Pardo è un ex direttore del Mossad. È membro del CIS.

Gadi Shamni, generale maggiore in pensione, è un ex comandante del comando centrale delle Forze di Difesa Israeliane [l’esercito israeliano, ndtr.], segretario militare dell’ex primo ministro Ariel Sharon e ex addetto militare [di Israele] negli Stati Uniti. È membro del CIS.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Cresce il numero dei minori palestinesi in prigione durante la pandemia da COVID-19

Yumna Patel

22 aprile 2020 – Mondoweiss

Da gennaio c’è stato un incremento del 6% del numero dei minorenni imprigionati

Secondo una recente inchiesta dell’associazione Defence for Children International – Palestine (DCIP) [Difesa internazionale dei bambini-Palestina, ente per la difesa e promozione dei diritti dei minori in Cisgiordania, Gerusalemme Est e Striscia di Gaza], nonostante la pandemia globale da coronavirus, Israele ha incrementato gli arresti dei minori palestinesi nelle zone occupate.

Stando al documento pubblicato martedì, 194 minorenni palestinesi si trovano nelle carceri e nei centri di detenzione israeliani, un aumento del 6% da gennaio.

Utilizzando i dati forniti dal Servizio Penitenziario Israeliano (IPS), DCIP ha rilevato che, in data 31 marzo, solo il 28% stava scontando una pena, mentre il rimanente 60%, cioè 117 su 194, erano in custodia cautelare preventiva. 

I dati indicano anche che la maggioranza aveva tra i 16 e i17 anni, mentre 30 avevano 14-15 anni. Sono stati documentati casi in cui forze armate israeliane hanno persino arrestato dei palestinesi di 12 anni. 

Inoltre, più del 70% dei minori è detenuto in carceri in Israele, in violazione dell’articolo 76 della quarta Convenzione di Ginevra che stabilisce che, in caso di detenzione da parte di una potenza occupante, il recluso ha il diritto di rimanere nella zona occupata durante tutte le fasi della detenzione. 

Data la pandemia, DCIP e parecchi altri gruppi di diritti umani avevano già chiesto l’immediata scarcerazione di tutti i minorenni palestinesi. 

Nel comunicato di martedì l’associazione ha reiterato le richieste insistendo che “il fatto che le forze israeliane continuino a mettere in prigione i minori palestinesi e a detenere la gran parte di quelli in custodia cautelare è immorale, dato che chi è privato della libertà corre un rischio maggiore di contrarre il COVID-19.”

Questi minorenni vivono a stretto contatto l’uno con l’altro, spesso in cattive condizioni sanitarie e con un accesso limitato ai prodotti per mantenere un minimo di igiene,” specifica il documento.  

L’impatto del COVID-19 è esacerbato da tali condizioni di vita che rendono i ragazzini ancora più vulnerabili.”

Secondo la DCIP, Israele arresta fra i 500 e i 700 minorenni palestinesi all’anno. 

Dal momento dell’arresto, che di solito avviene nel cuore della notte, fino al momento del processo in tribunale, i minorenni sono vittime di varie violazioni dei loro diritti, incluse violenze fisiche e verbali, anche negli interrogatori, durante i quali viene negata la presenza dei genitori o degli avvocati. 

DCIP stima che “circa 3 su 4 minori subiscano qualche forma di violenza”

I minorenni, come gli adulti, sono processati dai tribunali militari israeliani che si vantano di avere un tasso di condanne dei palestinesi del 99,7%. 

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)