La falsa concordia del ricordare insieme i morti israeliani e palestinesi

Lana Tatour

6 maggio 2020 – Middle East Eye

La cerimonia del Giorno del Ricordo può risultare catartica per i sensi di colpa dei progressisti, ma fa ben poco per i palestinesi colonizzati

Alla fine dello scorso mese il Giorno del Ricordo è stato celebrato con una cerimonia unitaria tra israeliani e palestinesi, descritta come alternativa rispetto alle commemorazioni ufficiali nazionali israeliane della ricorrenza.

Buma Inbar, il cui figlio, un soldato israeliano, è stato ucciso in Libano nel 1995, ha istituito questa cerimonia nel 2005. Da allora è stata organizzata congiuntamente da “Combatants for Peace”, un’associazione di ex-combattenti israeliani e palestinesi, e da “Parents Circle Families Forum”, composto da famiglie israeliane e palestinesi di persone decedute.

L’appello per un futuro senza guerre e violenza delle famiglie israeliane e palestinesi in lutto ha avuto ampia risonanza. La prima cerimonia ha visto la presenza solo di qualche decina di persone, ma da allora il numero è aumentato fino a migliaia di persone.

Quest’anno, a causa della pandemia da coronavirus, la cerimonia si è tenuta in rete, consentendo agli organizzatori di raggiungere un pubblico molto maggiore, con circa 200.000 visualizzazioni in tutto il mondo.

Falsa narrazione

Eppure l’etichetta unitaria della cerimonia è una narrazione falsa. La cerimonia è un’iniziativa israeliana. Si tiene a Tel Aviv insieme agli eventi ufficiali israeliani per il Giorno del Ricordo, e i partecipanti sono prevalentemente israeliani.

Allo sparuto gruppo di palestinesi che arriva dalla Cisgiordania occupata viene imposto l’obbligo di richiedere al governo israeliano permessi di ingresso in genere ottenuti dopo un ricorso in tribunale. Per esempio, nel 2019 alla cerimonia che si è tenuta a Tel Aviv ci sono stati 10.000 partecipanti e sono stati concessi permessi per prendervi parte solo a 100 palestinesi provenienti dalla Cisgiordania.

La cerimonia di quest’anno è stata sponsorizzata, tra gli altri, da associazioni per la pace israeliane ed ebraiche come Peace Now, J Street, The Union for Reform Judaism, the New Israel Fund [gruppi sionisti contrari all’occupazione della Cisgiordania, ndtr.] e gruppi interconfessionali. La lista delle organizzazioni sioniste progressiste che l’hanno appoggiata dice molto della posizione politica che la sostiene.

La cerimonia si basa su una simmetria tra i morti israeliani e palestinesi, tra gli occupanti e le loro vittime. Per esempio in quella di quest’anno fra gli oratori israeliani c’era il fratello di un soldato israeliano ucciso durante l’invasione israeliana di Jenin nel 2002, in cui sono stati uccisi decine di palestinesi. Da parte palestinese ha parlato anche la madre di un ragazzino di 14 anni colpito a morte da un soldato israeliano.

Al cuore della cerimonia c’è l’idea che noi, palestinesi e israeliani, siamo tutti vittime di un conflitto tra due movimenti nazionalisti. Le famiglie israeliane e palestinesi in lutto sono invitate a condividere le proprie storie di cordoglio come messaggio di speranza. Questa esperienza, ci viene detto, è condivisa: tutti noi piangiamo i nostri cari e viviamo la pena della loro perdita.

Come ha detto l’attivista israeliana Leah Shakdiel nel suo discorso: “Condividiamo con l’altra parte il nostro lutto, prestiamo ascolto al loro cordoglio, per poter condividere anche la gioia della vita e della crescita e della pace, di esseri umani e cittadini uguali, di due popoli su una sola terra, orgogliosi del loro retaggio nazionale differente e determinati a realizzare insieme il loro sogno.”

Regime colonialista omicida

La violenza colonialista che genera morte e cordoglio è ignorata a favore di ciò che viene visto come la potente presentazione di una visione umanista. È indubbio che tutti noi piangiamo i nostri morti. Anche quelli che occupano, colonizzano o commettono crimini di guerra hanno una famiglia e dei cari da commemorare.

Ma la morte di un soldato israeliano e quella della sua vittima palestinese sono identiche solo perché entrambi vengono pianti dalle loro famiglie? E cosa significa, politicamente, chiedere ai palestinesi di piangere la morte dei soldati israeliani?

La cerimonia può risultare catartica per i sensi di colpa progressisti, ma fa ben poco per gli oppressi. Il lutto e la sofferenza non accadono in uno spazio vuoto, sono eventi politici.

Mettere sullo stesso piano le morti di quelli che occupano, colonizzano e opprimono con quelle di quanti sono occupati, colonizzati ed oppressi è di per sé una forma di violenza. La morte e il senso di perdita commemorati in questa cerimonia non sono il tragico risultato di un incidente mortale o di una malattia, sono il prodotto della violenza coloniale omicida.

Anche se alcune famiglie palestinesi in lutto partecipano alla cerimonia nel tentativo di dare senso e visibilità al proprio lutto e alla propria sofferenza, la cerimonia unitaria è guidata da un programma israeliano ed è intesa a soddisfare esigenze israeliane.

Fornisce una risposta agli israeliani che non vogliono abbandonare la politica nazionalista di Israele, né rifiutare l’idea stessa di un Giorno del Ricordo nazionale per uno Stato colonialista che continua quotidianamente ad occupare, spogliare, espellere ed uccidere i palestinesi.

Decenni di lutto

I partecipanti non rinunciano necessariamente al proprio impegno a favore del nazionalismo colonialista. Molti dei partecipanti israeliani che assistono alla cerimonia unitaria il giorno dopo festeggiano l’indipendenza di Israele.

La cerimonia consente agli israeliani di sinistra di soddisfare appieno le proprie necessità. Inquadrandola in un discorso inclusivo e riconciliatorio, possono rimanere a modo loro parte dell’ethos nazionale colonialista israeliano, anche se quel modo viene rifiutato dalla maggioranza degli israeliani. Con questo processo si appropriano del lutto e della sofferenza dei palestinesi e lo inseriscono nel contesto della politica nazionalista di Israele.

Tuttavia le nostre vittime non sono parte della storia e del ricordo israeliani, ma della storia palestinese di decenni di lutti, di oppressione e di resistenza che continua fino ad oggi.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Lana Tatour è titolare della borsa di studio Ibrahim Abu-Lughod di post-dottorato presso il Centro di Studi Palestinesi alla Columbia University.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)