Annessione israeliana: se questa volta Abbas fa sul serio, i palestinesi dovrebbero appoggiare la reazione dell’ANP

Ghada Karmi

18 giugno 2020 – Middle East Eye

Se Israele procederà con la prevista annessione il presidente dell’ANP ha redatto una tabella di marcia per riportare la Cisgiordania occupata ai giorni pre-Oslo

Il mese scorso il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha tenuto un duro discorso a Ramallah, denunciando la prevista annessione di Israele e minacciando ritorsioni.

Abbas ha presentato un piano di ritorsioni, ma come nel caso del ragazzo che gridava al lupo, nessuno gli crederà fino a quando non accadrà davvero.

A prima vista, il piano non contiene molto che non sia già stato minacciato, ma che non è mai stato messo in pratica, nemmeno in momenti di gravi provocazioni, come nel 2017, quando Israele ha installato dei metal detector agli ingressi dell’area della moschea di al-Aqsa, o nel 2018, quando l’ambasciata americana fu trasferita a Gerusalemme in violazione del diritto internazionale. Questa volta sarà diverso?

Fine delle relazioni

C’è ragione di crederlo. Il piano di Abbas è più dettagliato delle minacce precedenti, e stabilisce le misure che riporterebbero la Cisgiordania occupata ai giorni precedenti [rispetto agli accordi di] Oslo se Israele procedesse con la progettata annessione.

Prima che nel 1993, con gli accordi di Oslo, fosse creata l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), era Israele, in quanto potenza occupante, ad essere responsabile del benessere quotidiano, dei servizi, degli stipendi e della polizia per la popolazione palestinese. Dopo Oslo, [Israele] è stato in grado di scaricare questi oneri sull’ANP, e questa è da allora la situazione. 

Il piano di Abbas prevede di porre fine a quegli accordi, interrompendo tutte le relazioni con Israele, compreso il coordinamento per la sicurezza, chiamandosi fuori da Oslo. Ciò potrebbe includere lo scioglimento dell’ANP, con il suo ruolo ridotto a funzioni civili come la gestione di scuole, ospedali e stazioni di polizia. La soluzione a due Stati, annientata dall’annessione israeliana, non sarebbe più un’opzione.

Ne dovrebbero seguire drastici tagli al bilancio dell’ANP, riducendo gli stipendi di migliaia di persone, impiegate nella sicurezza e altro. Il pagamento mensile di 105 milioni di dollari a Gaza verrebbe tagliato e il trasferimento delle tasse finora raccolte da Israele per conto della ANP si interromperebbe, causando gravi perdite finanziarie e forse addirittura la chiusura totale delle attività del governo.

In altri ambiti, l’ANP cesserebbe di pagare per le cure mediche dei palestinesi ricoverati negli ospedali israeliani. Le autorizzazioni per l’ingresso dei lavoratori palestinesi in Israele non verrebbero più trattate dall’ANP, che significherebbe la non ammissione e una conseguente perdita di redditi. I lavoratori disperati dovrebbero quindi richiedere i permessi direttamente all’amministrazione militare israeliana dei territori occupati.

Fine al coordinamento per la sicurezza

L’aspetto più significativo del piano, tuttavia, è la minaccia di porre fine al coordinamento per la sicurezza con Israele e gli Stati Uniti. Abbas questa volta sembra fare sul serio, e secondo fonti israeliane il processo è già iniziato.

Secondo quanto riferito, la CIA è stata informata dell’intenzione dell’Autorità Nazionale Palestinese che i suoi 30.000 agenti armati della polizia e dell’intelligence cessino di comunicare con le loro controparti israeliane e statunitensi già all’inizio del mese prossimo, essendo l’annessione prevista a partire dal 1 ° luglio. È stato riferito che le forze di sicurezza dell’ANP hanno iniziato a ritirarsi dall’area B, per la maggior parte controllata da Israele ma con un ruolo ridotto dell’ANP.

Se Abbas decide di continuare su questa strada, il prezzo per i palestinesi sarà alto: 80.000 impiegati dell’ANP – il 44 % di tutto il settore pubblico – che lavorano nel settore della sicurezza rimarranno senza stipendio, con tagli di bilancio di circa un terzo del totale delle uscite dell’ANP. La fine del coordinamento per la sicurezza sarà anche un duro colpo per Israele, che per decenni ha fatto affidamento sul subappalto all’ANP delle attività di polizia in Cisgiordania.

Il calcolo di Abbas è che sicuramente la violenza, premeditata o spontanea, sarà fomentata da queste difficoltà e inevitabilmente esploderà nella Cisgiordania occupata, costringendo Israele a controllare nuovamente la popolazione palestinese. Rimane senza risposta il dubbio se ciò accadrà veramente.

Hamas e molti all’interno di Fatah hanno manifestato il proprio appoggio al piano di Abbas, ma esso ha suscitato uno scarso interesse nella società civile palestinese nel suo complesso, che si ricorda di minacce simili in precedenza finite nel nulla. C’è una generale disillusione nei confronti della dirigenza palestinese, vista come incompetente e corrotta. Di conseguenza, nella stampa palestinese ci sono stati pochi commenti e analisi sul piano di Abbas.

Evitare il collasso

Il fatto che le precedenti minacce dell’ANP di porre fine alla cooperazione per la sicurezza con Israele siano state vane è comprensibile. Israele ha il controllo totale sul movimento di persone e beni all’interno dei territori occupati. Lo stesso Abbas deve chiedere il permesso a Israele per viaggiare e le competenze essenziali dell’ANP dipendono dall’autorizzazione di Israele. Senza di essa l’attività economica nella Cisgiordania occupata collasserebbe, paralizzando l’ANP.

Eppure Abbas non ha alternative. Se Israele procede all’annessione, ciò porrà fine alla ragione di esistere dell’ANP. L’Autorità è nata per costruire uno Stato palestinese; l’annessione renderebbe obsoleto questo progetto. In questo contesto la risposta dell’ANP è razionale e l’unico modo per salvare sé stessa dal crollo.

Questo triste ciclo di eventi risale ad Oslo, e prima di questo, all’inesplicabile autorizzazione concessa dal 1967 ad Israele dalla comunità internazionale di colonizzare i territori palestinesi e di imporre il controllo su ogni aspetto della vita dei palestinesi. In questo senso, l’ultima spinta verso l’annessione da parte di Israele non è una sorpresa – e il contro-progetto palestinese arriva semmai troppo tardi.

Ciò lascia aperta una serie di questioni fondamentali: come saranno affrontate le pesanti conseguenze per la popolazione? Che tipo di piano esiste per affrontare la risposta israeliana, che sarà brutale?

Anche con tutto questo, e nonostante tutte le sue lacune, il piano di Abbas merita che i palestinesi mettano da parte il loro scetticismo e lo appoggino, come dovrebbe fare chiunque sia solidale con loro.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Ghada Karmi è un’ex-assegnista di ricerca all’Istituto per gli Studi Arabi e Islamici dell’università di Exeter. È nata a Gerusalemme ed è stata obbligata a lasciare la sua casa con la sua famiglia in seguito alla creazione di Israele nel 1948. La famiglia andò in Inghilterra, dove lei è cresciuta ed ha studiato. Per molti anni Karmi ha esercitato la professione medica lavorando come specialista nella cura di migranti e rifugiati. Dal 1999 al 2001 Karmi è stata membro del Royal Institute of International Affairs [Istituto Reale di Affari Internazionali], dove ha guidato un importante progetto sulla riconciliazione tra israeliani e palestinesi.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Israelizzare la politica americana, palestinizzare il popolo americano

Jeff Halper

19 giugno 2020 – Mondoweiss

Israele non ha influenzato le forze dell’ordine USA addestrandole ad essere più violente, ma piuttosto è stato un modello per la creazione dello Stato securitario americano.

Recentemente si è dedicata molta attenzione all’“addestramento” che la polizia americana ha ricevuto da Israele. È esteso e pervasivo. Tuttavia il punto non è che Israele abbia reso la polizia USA più violenta. Già oltre un secolo fa, prima ancora che venisse creato lo Stato di Israele, era violenta e repressiva. Non è neanche che Israele abbia contribuito alla militarizzazione della polizia USA. Lo fa, ovviamente, ma in risposta ai cambiamenti fondamentali sulla scena politica ed economica americana.

L’“israelizzazione” della polizia americana è iniziata in seguito all’11 settembre, ma tre sviluppi fondamentali negli USA spiegano il perché. Primo, dall’11 settembre gli effetti depressivi del neoliberismo, a iniziare dalla presidenza Reagan, ma che già avevano determinato gravissime disparità sociali e salariali negli anni di Bush e Clinton. Hanno iniziato a invocare “legge ed ordine”, guerre interne (alla droga, alla delinquenza, agli “estremisti di sinistra”) con la necessità di controllare e pacificare un precariato, una classe sottoccupata e sottopagata in costante aumento, i “lavoratori poveri” [working poor] e i molto poveri in buona parte razzializzati [cioè definiti e discriminati su base razziale, ndtr.]. I poliziotti sono gli scagnozzi del capitalismo.

In secondo luogo, dall’11 settembre gli USA hanno perso l’Unione Sovietica e il comunismo come minaccia esterna/interna che potesse essere sfruttata per giustificare politiche repressive e antidemocratiche in patria. Dato che la minaccia “terroristica” era diventata una questione poco importante ai tempi di Clinton, essa non era strettamente legata al livello nazionale. Questo legame, la terza causa dell’“israelizzazione” della polizia, è iniziato con l’11 settembre.

Il Patriot Act [legge antiterrorismo che ha rafforzato i sistemi di sicurezza e repressivi, ndtr.], che fino ad oggi limita i diritti civili e il giusto processo in America, è stato emanato meno di due mesi dopo. Esso era chiaramente già pronto nel cassetto in attesa dell’occasione buona. E di nuovo, il mantenimento dell’ordine pubblico diventa il veicolo per un complessivo nuovo compito paramilitare: la “sicurezza nazionale”.

Questo è lo scenario. Non è stato una creazione di Israele. Ma Israele è uno Stato securitario fin dalla sua fondazione nel 1948 – ed avrebbe persino messo le sue radici come società altamente militarizzata fin dall’inizio del Ventesimo secolo. È stato durante gli ultimi 125 anni di colonialismo d’insediamento che si è sviluppato lo Stato securitario israeliano. La continua guerra di Israele contro il popolo/nemico palestinese all’interno ed all’estero, con tutta l’intrinseca insicurezza e la preoccupazione securitaria che ne consegue, lo ha posto esattamente dove l’America post 11 settembre voleva trovarsi. Israele ha fornito agli USA – e in particolare alla polizia ed alle agenzie della sicurezza degli Stati Uniti – politiche, insegnamenti, strutture paramilitari ed armamenti già pronti di cui [gli USA] erano privi ma di cui avevano bisogno per costruire uno Stato securitario americano. Israele ha fornito il modello e l’armamentario.

Ma qual è stato il problema? Perché gli USA non avrebbero potuto semplicemente mettere in atto le politiche, creare la struttura e produrre le armi favorevoli a uno Stato securitario, soprattutto ora che ha la giustificazione per la “sicurezza nazionale”? La risposta è analoga al concetto di “color-blindness” [secondo il quale i cittadini non devono essere giudicati in base al colore della pelle, ndtr.]. In “The New Jim Crow” [La Nuova Jim Crow, in riferimento alle norme segregazioniste e razziste degli Stati del Sud prima della fine formale della segregazione razziale, ndtr.] Michelle Alexander descrive il dilemma di imporre politiche di repressione razziale in un momento in cui (gli anni ’60 e ’70) manifestazioni esplicite di razzismo non erano più accettabili. Documenta come la guerra contro la droga abbia accolto il programma razzista ma sotto l’etichetta della lotta alle droghe, contro cui pochi avrebbero potuto obiettare. Gli USA hanno avuto lo stesso problema nella transizione allo Stato securitario. Come avrebbero potuto subordinare le libertà civili a favore della repressione poliziesca conservando al contempo la loro immagine in quanto democrazia?

In particolare il problema che gli USA dovevano affrontare nel rafforzare la loro polizia perché si dedicasse alla sicurezza nazionale era il muro rappresentato dal Posse Comitatus Act [legge che pone dei limiti all’uso della forza militare all’interno del territorio USA, ndtr.] del 1878. Come leggi e norme simili in altri Stati europei, il Posse Act separa rigidamente l’applicazione della legge all’interno (sicurezza interna) dall’impiego dell’esercito (sicurezza esterna). È più o meno così:

Ciò non significa che l’esercito non possa essere utilizzato all’interno [del Paese]. La Guardia Nazionale gioca occasionalmente questo ruolo. Ma perché venga chiamato ad intervenire l’esercito vero e proprio, come ha cercato di fare Trump a Washington, doveva essere invocato un poco chiaro Insurrection Act [Legge contro l’insurrezione] e il Pentagono si è rifiutato [di farlo].

Quindi, benché le imprese USA abbiano la possibilità di produrre armi da guerra, il “muro” ha posto loro dei limiti nello sviluppo di armamenti di tipo militare per la polizia. Ciò apre un ampio mercato per Israele, non solo per l’armamento bellico per le forze dell’ordine su misura per il cliente, ma anche per il mercato civile. L’Israeli Weapons Industry [Industria Israeliana degli Armamenti] (IWI) ha aperto un fabbrica a Middletown, Pennsylania, in cui produce, per esempio, un mitra Uzi delle dimensioni di una pistola per la polizia. Questa fabbrica produce un’ampia gamma di armi da guerra per le forze dell’ordine, compresi modelli di fucili automatici Galil e Tavor e un fucile tattico [cioè per le forze di polizia, ndtr.] chiamato Zion-15. Israele è anche il leader mondiale per i droni, che produce al 60% per il mercato estero. I droni sono diventati fondamentali per i dipartimenti di polizia negli USA, ma anche in questo caso il “muro” rappresenta un intralcio: i droni sono in genere utilizzati per la sorveglianza, ma quelli armati sono ancora vietati alla polizia USA.

Una seconda fonte della militarizzazione israeliana della polizia USA viene dalla stessa esperienza israeliana. Il sionismo, come il “destino manifesto” degli USA, è un movimento di colonialismo d’insediamento. Poiché ogni popolo colonizzato resiste alla propria espulsione ed eliminazione, la comunità dei colonizzatori vive in una condizione di continua insicurezza, di permanente emergenza, in cui ogni aspetto della vita è militarizzato.

Buona parte della violenza nella cultura americana deriva dalle campagne di genocidio contro i nativi americani (Andrew Jackson [noto per la sua spietatezza nei confronti dei nativi americani, ndtr.] è il presidente preferito da Trump), e molti film western ruotano attorno a sceriffi e capi della polizia, mostrando proprio come polizia e colonizzazione violenta siano strettamente legati. Tuttavia dagli anni ’80 del XIX secolo il regime colonialista americano aveva complessivamente pacificato i nativi americani. Ciò gli rese possibile trasformarsi in un regime più civile: la promulgazione del Posse Act del 1878 servì a “rendere civile” la polizia. Ciò in Israele non è mai avvenuto. I palestinesi continuano ad essere una potente fonte di resistenza alla colonizzazione e quindi Israele è l’unico Paese dell’Occidente a non separare le forze dell’ordine civili dall’esercito. Al contrario, criminalizzando la resistenza palestinese come “terrorismo”, Israele associa il mantenimento dell’ordine pubblico all’esercito. Quindi in Israele la polizia non è separata dall’esercito ma è legata a un insieme di unità paramilitari che svolgono le due funzioni, come illustrato qui:

Questo è il tipo di ristrutturazione delle forze di polizia degli USA che Israele promuove. La polizia israeliana, lungi dall’essere solo un ente civile incaricato di mantenere la legge e l’ordine, è un’organizzazione paramilitare che risponde al ministero della Sicurezza Interna, integrata nei più complessivi organismi militari e per la sicurezza in base al regime di “emergenza permanente”. Israele vede come “nemico” la maggioranza della popolazione del Paese, i cittadini palestinesi di Israele e i non cittadini dei Territori Occupati, oltre ad altri segmenti della società israeliana, dai richiedenti asilo africani ai progressisti e alle persone di sinistra “filo-arabe”. La principale linea di condotta della polizia israeliana non è quindi principalmente di carattere civile – proteggere la società come un tutto unico – ma riguarda contro-insurrezione e controterrorismo.

A questo riguardo la polizia israeliana è all’avanguardia. Il suo sito ufficiate definisce il suo ruolo come “prevenzione di atti di terrorismo, smantellamento di ordigni esplosivi e impiego contro azioni terroristiche”, solo questi si allontanano da questioni tradizionalmente relative alla polizia come il mantenimento della legge e dell’ordine, la lotta contro il crimine e il controllo del traffico. Il controterrorismo è la “mentalità”, con una notevole sovrapposizione tra “mantenimento dell’ordine ad alta intensità” e “guerra a bassa intensità” che sono uno “spazio di intervento” securocratico. L’ex-direttore dello Shin Bet e all’epoca ministro della Sicurezza interna, Avi Dicher, parlando davanti a 10.000 agenti di polizia che partecipavano all’ [incontro dell’] Associazione Internazionale dei Capi della Polizia a Boston, ha utilizzato il termine “crimiterrorismo” per sottolineare “l’intimo rapporto tra la lotta contro la criminalità e contro il terrorismo”. “Crimine e terrorismo sono due facce della stessa medaglia,” ha affermato.

La mitica reputazione di Israele come principale potenza antiterrorista al mondo gli conferisce un grande potere al Congresso, al Pentagono, nei circoli della sicurezza nazionale e nella polizia. La polizia paramilitare israeliana rientra bene nelle tendenze paramilitari già presenti nei dipartimenti di polizia americani. Già a metà degli anni ’60 Filadelfia e Los Angeles organizzarono squadre SWAT – SWAT significava originariamente “Special Weapons Attack Team” [Squadra di Attacco con Armi Speciali], non proprio un concetto civile. Ciò diede inizio a quella che Radley Balko chiama “la nascita del poliziotto guerriero”. Oggi l’80% delle forze di polizia hanno squadre SWAT.

Diamo una breve occhiata a come le forze di polizia americane applicano i principi del manuale di antiterrorismo di Israele al controterrorismo nelle città americane. Accogliendo il concetto israeliano secondo cui l’intelligence è la chiave per la prevenzione e l’interdizione, all’inizio degli anni 2000 il NYPD [New York City Police Department, il più grande dipartimento di polizia urbano degli Stati Uniti, ndtr.] ha formato l’”Unità Demografica” che invia agenti in borghese, noti come “rastrelli”, per mappare il “terreno umano” dei quartieri delle minoranze prese di mira – “modellati”, secondo una fonte del NYPD, “su come le autorità israeliane operano in Cisgiordania.” Gli informatori, noti come “pulci delle moschee”, hanno monitorato sermoni e attività delle moschee. Un’“unità di interdizione del terrorismo” ha fatto indagini sui loro dirigenti, e un’altra squadra, l’Unità per i Servizi Speciali, conduce un lavoro sotto copertura – in qualche caso illegale – fuori da New York.

Nel 2012 il NYPD ha persino aperto un ufficio in Israele, situato nel quartier generale della polizia del distretto di Sharon a Kfar Saba, per “cooperare quotidianamente con la polizia israeliana”. “Se un attentatore suicida si fa esplodere a Gerusalemme, il NYPD accorre sul posto,” ha affermato Michael Dzikansky, un poliziotto del NYPD che presta servizio in Israele. “Sono stato lì per fare la domanda di New York: ‘Perché qui? C’era qualcosa di unico in quello che ha fatto l’attentatore suicida? C’era stato un qualche preavviso? Una falla nella sicurezza?’ In seguito Dzilansky è stato co-autore di un libro, Terrorist Suicide Bombings: Attack Interdiction, Mitigation, and Response [Attentati terroristici suicidi: blocco dell’attacco, riduzione del danno e risposta], un altro esempio di come le prassi securitarie israeliane entrino nelle forze dell’ordine negli Stati Uniti.

Cathy Lanier, capo della polizia di Washington, che una volta ha affermato che “nessun’altra esperienza della mia vita ha avuto tanto impatto sul modo di fare il mio lavoro quanto andare in Israele,” ha autorizzato posti di controllo nel quartiere difficile di Trinidad, nel nordest della capitale, per monitorare e controllare la violenza di strada e l’illegale traffico di droga.

Ovviamente “guerra” è stato a lungo un concetto politico americano, soprattutto per quanto riguarda le relazioni razziali. L’ordine pubblico americano diventò apertamente militarizzato quando Reagan dichiarò la “guerra alla droga”, che, a sua volta, venne accentuata ulteriormente fino a una vera e propria guerra da Bush [padre]. All’inizio degli anni ’90 egli inaugurò un programma che consentiva che ulteriori equipaggiamenti, armi e veicoli tattici militari venissero trasferiti alle forze dell’ordine per essere utilizzati nella “repressione della droga”. L’amministrazione Clinton militarizzò ulteriormente l’attività della polizia con l’approvazione del Violent Crime Control and Law Enforcement Act [Legge per il Controllo della Criminalità Violenta e Ordine Pubblico] del 1994 (redatto da Joe Biden). Secondo Alexander ciò pose le basi giuridiche per il sistema di caste su base razziale degli Stati Uniti, in quanto ebbe come risultato l’incarcerazione di massa e la privazione dei diritti civili di milioni di persone di colore. Nel 1997 l’amministrazione Clinton istituì il programma 1033, che estese il trasferimento di equipaggiamento militare alla polizia. Oggi la polizia ad Oxford, Alabama, ha un cellulare blindato e a Lebanon, Tennessee, ha un carro armato.

Ora in seguito all’11 settembre si aggiunge a tutto ciò la vera e propria “guerra contro il terrorismo” e in pratica ogni americano è sottoposto a un controllo dell’ordine pubblico e a una privazione dei diritti di tipo militare, soprattutto attraverso il Patriot Act, un’aggressione alle libertà civili che sottopone gli USA a uno stato di emergenza permanente. Esso concede alle autorità il potere di un giusto processo abbreviato– e ciò più di ogni altra cosa se non altro descrive il comportamento della polizia americana oggi. (Il Patriot Act è stato confermato dal Congresso sotto ogni amministrazione). Il modo militarizzato in cui sono stati smantellati i campi di Occupy [movimento internazionale contro il potere finanziario iniziato negli Usa nel 2011, ndtr.]. ha evidenziato che i giovani bianchi di classe media scontenti del neoliberismo possono essere repressi altrettanto facilmente della comunità nera.

In conseguenza di tutto ciò la polizia, che a lungo ha mal sopportato il “muro” che frenava la sua propensione alla violenza e alla repressione – che, di fatto, è stata in primo luogo l’intenzione originaria per la creazione della polizia – ora ha una giustificazione giuridica e ideologica per intaccarlo. Quindi il massimo “contributo di Israele alla polizia USA è il concetto di Stato securitario, il suo stesso modello di democrazia militarizzata. Lo Stato securitario spacciato da Israele è in realtà un sofisticato Stato di polizia la cui popolazione è facilmente manipolabile da un’ossessione per la “sicurezza”. È uno Stato guidato da una logica di guerra permanente, in cui la richiesta di “sicurezza” ha la meglio su ogni difesa della democrazia. La seguente figura mostra la logica circolare dell’evoluzione dello Stato securitario. 

In generale, il lavoro della polizia, con nomi diversi, è garantire l’ordine pubblico dell’endemica insicurezza del capitalismo predatorio. Guerra contro la droga, guerra contro il crimine, guerra globale contro il terrorismo, “guerre securitarie”, “guerre contro il popolo”, “guerre per le risorse,” repressione delle rivolte, campagne per la legge e l’ordine e altri eufemismi. Ciò che unisce comunità di colore povere e discriminate su base razziale, lavoratori in generale, precari della classe media e giovani che cercano solo di entrare nel mondo del lavoro è che l’economia neoliberista non ha posto per loro oltre il lavoro a tempo determinato, e che tutti voi, se minacciate il sistema che vi sta distruggendo, dovrete affrontare la polizia – gli scagnozzi del capitalismo. Questo è il vero atteggiamento della tolleranza zero circolare trasferito alla polizia dallo Stato securitario. Ciò corrisponde perfettamente nel corso della storia al ruolo della polizia, da cui proviene la sua cultura violenta. Se gli USA possono essere spronati lungo il loro percorso per diventare uno Stato securitario (non difficile da vendere), allora Israele non solo si guadagnerà un enorme mercato per le tecnologie repressive, ma un sicuro alleato nella sua lotta contro la resistenza palestinese. Addestramento della polizia e hasbara [propaganda in ebraico] sono intimamente legati.

E quindi ecco l’addestramento della polizia americana da parte di Israele. All’inizio del 2002, poco dopo l’11 settembre, iniziò una sfilza di programmi di addestramento. L’American Jewish Institute for National Security Affairs [Istituto Ebraico Americano per le Questioni di Sicurezza Pubblica] (JINSA), un’organizzazione che sostiene che non c’è differenza tra gli interessi della sicurezza nazionale di USA e di Israele, inaugurò il suo Law Enforcement Exchange Program [Programma di Scambi sull’Ordine Pubblico] (LEEP). Esso collabora con la polizia nazionale israeliana, il ministero della Sicurezza Interna israeliano e l’agenzia della sicurezza israeliana (Shin Bet), ed è appoggiato dall’Associazione Internazionale dei Capi della Polizia, dall’Associazione degli Sceriffi delle Principali Contee, dall’Associazione dei Capi delle Principali Città e dal Forum di Ricerca Esecutiva della Polizia per portare in Israele capi della polizia, sceriffi, importanti quadri delle forze dell’ordine, direttori della sicurezza nazionale a livello statale, commissari di polizia statali e dirigenti delle forze dell’ordine federali per la “formazione”. Finora oltre 9.500 funzionari delle forze dell’ordine hanno partecipato a dodici conferenze. “Le competenze raccolte dall’osservazione e dall’ addestramento durante il viaggio dell’LEEP,” ha proclamato il colonnello Joseph R. (Rick) Fuentes, sovrintendente della polizia dello Stato del New Jersey, sul sito del JINSA “hanno suggerito importanti cambiamenti della struttura organizzativa della polizia statale del New Jersey ed hanno portato alla creazione della sezione per la sicurezza nazionale.”

L’ Anti-Defamation League [organizzazione della lobby filoisraeliana negli USA, ndtr.] (ADL) ospita due volte all’anno una Scuola Avanzata di Addestramento a Washington. La sua “scuola” ha addestrato più di 1.000 professionisti dell’ordine pubblico USA, che rappresentavano 245 organismi federali, statali e locali. L’ADL gestisce anche un seminario nazionale di contro-terrorismo (NCTS) in Israele, portando funzionari di pubblica sicurezza da tutti gli USA in Israele per una settimana di intenso addestramento sull’antiterrorismo, mettendoli in rapporto con la polizia nazionale israeliana, l’IDF [esercito israeliano, ndtr.], l’intelligence e i servizi di sicurezza di Israele.

E ricordate l’IWI, il produttore dell’israeliana Uzi? Gestisce un’accademia di polizia a Pauldon, Arizona, aperta al pubblico come alla polizia. E poi c’è il Georgia International Law Enforcement Exchange [Scambio Internazionale delle Forze dell’Ordine della Georgia] (GILEE), situato in un cubo nero nell’edificio dello Stato della Georgia ad Atlanta, un altro importante centro israeliano di addestramento della polizia.

Quindi la questione non è l’uso della “violenza” nell’addestramento della polizia israeliana e statunitense. Paradossalmente la violenza interpersonale così caratteristica della polizia americana in situazioni di conflitto è assente in Israele. Raramente la polizia israeliana ammanetta persone o tira fuori le armi, la prima reazione dei poliziotti americani. La “violenza” nel controllo dell’ordine pubblico in Israele è più controllata, come lo è in combattimento. È meno un tipo di violenza da macho, e penso che sia una lezione fondamentale che Israele cerca di impartire alla polizia americana: colpisci ancora più in fretta di come fai. Giacché Israele non deve rispettare tutte le futili formalità di leggere ai sospettati i loro diritti o di interagire con loro, come abbiamo visto nell’uccisione di Rayshard Brooks ad Atlanta la scorsa settimana. Dato che i diritti civili continuano a condizionare la sicurezza nazionale negli USA, ciò può essere ancora più possibile. Ma al contempo la polizia israeliana non passa così improvvisamente dall’arrestare a sparare. Preferisce reagire solo con il controllo della situazione.

Ma quando c’è la necessità di sparare, la polizia israeliana passa rapidamente alla modalità militare. Un funzionario di polizia americano racconta quello che ha appreso durante il suo periodo in Israele con un’unità speciale di polizia “Yaman”, simile a una squadra SWAT:

Quando si tratta di sparare la principale differenza tra l’addestramento israeliano e quello americano è la nostra filosofia sulla distanza ravvicinata o il combattimento urbano. La maggior differenza tra quello che fanno gli israeliani e quello a cui siamo addestrati a fare noi americani è che loro spesso consiglierebbero di andare quasi a capofitto verso una postazione del nemico sparando all’impazzata. Ciò in genere dura una manciata di secondi, quindi ricaricare rapidamente ha un’importanza notevole nel successo dell’azione. Nell’addestramento avremmo avanzato di 40 o 50 metri alla volta in un contesto urbano, sparando nel contempo all’impazzata. Negli USA l’attacco è più controllato. Ci hanno insegnato di sparare eventualmente raffiche in colpi di tre secondi e poi cercare un posto per metterci al riparo. Non è così che fa il sistema di sicurezza israeliano, e sebbene possa essere troppo audace in qualunque circostanza, nel giusto contesto non posso pensare a un modo più efficace per conquistare terreno.”

Tutto ciò rientra in quello che chiamo Palestina Globale. Non penso che Israele stia sviluppando tutto il suo armamento sofisticato, le tecnologie di repressione, le tattiche di controllo della popolazione e il suo contesto di Stato securitario solo per il controllo dei palestinesi. Loro sono le cavie, i Territori Occupati solo un laboratorio. Questa parte del complesso militare-industriale israeliano è orientata all’esportazione, e la vostra polizia la sta comprando. Steven Graham conclude: “É in corso l’integrazione tra i complessi securitari – industriali e quelli militari-industriali di Israele e Stati Uniti. Ancor più di questo: i complessi securitari-militari-industriali delle due Nazioni sono diventati indissolubilmente connessi, al punto che ora sarebbe ragionevole considerarli come un’unica entità diversificata e transnazionale.” Perciò mettete insieme i pezzi. Come la polizia USA si è “israelizzata”, voi, il popolo americano, vi siete “palestinizzati”.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




L’UE arricchisce le ricompense per i crimini di Israele

Ali Abunimah

18 giugno 2020 – Electronic Intifada

Dei membri del Parlamento europeo stanno manifestando una forte opposizione contro le ultime iniziative dell’Unione Europea volte ad accrescere il sostegno a Israele anche nel caso esso dovesse portare avanti i piani di annessione di una buona parte della Cisgiordania occupata, una flagrante violazione del diritto internazionale.

Sono, comunque, una minoranza poiché la Commissione, l’esecutivo dell’UE, e la maggioranza dei membri del Parlamento europeo sembrano propensi ad inviare a Israele un messaggio di sostegno incondizionato.

Lunedì la Banca Europea per gli Investimenti ha assegnato a Israele un prestito di 170 milioni di dollari per il finanziamento di un impianto di dissalazione.

E mercoledì il Parlamento europeo ha ratificato, con 437 voti contro 102, un nuovo accordo sul trasporto aereo che garantirà alle compagnie aeree israeliane un accesso ancora più esteso alle destinazioni europee e un ulteriore impulso all’economia israeliana.

Una precedente proposta di rinvio della ratifica è stata sconfitta con 388 voti contro 278.

Alcuni membri dell’UE stanno inoltre per elargire ad Israele delle ricompense.

Ad esempio, la Svezia, che gode dell’immeritato riconoscimento di aver additato le responsabilità di Israele, sta finanziando una nuova iniziativa per incoraggiare gli affari con le “startup” hi-tech di Israele, un settore indissolubilmente legato alla sua industria della guerra informatica e della sorveglianza.

L’ECCP, una coalizione europea di organizzazioni a favore dei diritti dei palestinesi, condanna le misure dell’UE.

Fatin Al Tamimi, presidente della campagna di solidarietà Irlanda-Palestina e membro dell’ECCP, ha detto che i membri del Parlamento europeo “hanno avuto l’opportunità di difendere la giustizia a favore del popolo palestinese e mostrare all’apartheid israeliana che verranno messe in luce le sue responsabilità per le violazioni del diritto internazionale.

Purtroppo, scegliendo di continuare gli affari con Israele come sempre, anche di fronte ad un piano di annessione ampiamente condannato, gli eurodeputati hanno dimostrato ancora una volta quanto l’UE non sia disposta ad agire in difesa dei diritti umani e dello stato di diritto”.

“Che si vergognino”

L’UE ha manifestato una forte opposizione al piano israeliano di annettere i territori palestinesi occupati, anche attraverso un’ammonizione, a febbraio, secondo cui l’’accaparramento dei territori”, se Israele lo portasse a termine, non potrebbe rimanere impunito”.

Tuttavia, sottoposta alle pressioni della lobby israeliana, l’UE ha fatto marcia indietro rispetto all’ammonizione ed è tornata alle sue solite vuote espressioni di “preoccupazione”.

Ma l’UE, in sostanza, non sta facendo nulla per fermare Israele. Sta alacremente premiando e incentivando i suoi crimini.

Manu Pineda, un parlamentare di sinistra spagnolo e presidente della delegazione per le relazioni con la Palestina del Parlamento europeo, ha presentato alla Commissione una domanda sul finanziamento dell’UE dell’impianto di dissalazione israeliano.

Ha definito l’iniziativa “inspiegabile” alla luce delle recenti azioni di Israele contro i palestinesi.

L’irlandese Clare Daly ha dichiarato che i suoi colleghi europarlamentari che hanno scelto col voto di “normalizzare i crimini israeliani” attraverso la ratifica dell’accordo sul trasporto aereo “hanno toccato il fondo”.

“Si vergognino”, ha aggiunto.

Appena un’ora dopo la ratifica del trattato sul trasporto aereo, gli eurodeputati hanno tenuto un dibattito sull’annessione a cui ha partecipato Josep Borrell, responsabile della politica estera dell’UE.

“Quegli stessi gruppi politici che abbiamo sentito esprimere preoccupazione per l’annessione avevano poco prima reso possibile l’annessione votando a favore dell’accordo UE-Israele sull’aviazione”, ha affermato la coordinatrice dell’ECCP Aneta Jerska.

“Questo è a tutti gli effetti il colmo dell’ipocrisia dell’UE.”

Borrell ha ribadito al parlamento che l’annessione “costituirebbe una grave violazione del diritto internazionale”.

Ha avvertito che “Dal punto di vista dell’Unione Europea, l’annessione avrebbe inevitabilmente conseguenze significative per le strette relazioni di cui attualmente godiamo con Israele”

Nell’ascoltare queste parole i funzionari israeliani si faranno quattro risate mentre si recano alla Banca Europea per gli investimenti.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Rapporto OCHA del periodo 2 – 15 giugno

In Cisgiordania, a motivo della mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, sono state demolite o sequestrate 70 strutture di proprietà palestinese, sfollando 90 persone e creando ripercussioni su almeno oltre 280.

Ciò rappresenta un aumento del 250% rispetto alla media settimanale di strutture prese di mira dall’inizio dell’anno (10). 61 delle strutture colpite erano situate in Area C, e 9 [delle 61] erano state fornite come assistenza umanitaria. Tra le aree più colpite c’è Massafer Yatta, nel sud di Hebron, dove le autorità israeliane hanno demolito 17 abitazioni, cisterne e strutture collegate al sostentamento. Questa zona è designata da Israele come “Zona di tiro” per le esercitazioni militari israeliane, ed i suoi 1.300 residenti devono affrontare un contesto coercitivo che li mette a rischio di trasferimento forzato. Nove delle 70 strutture colpite si trovavano a Gerusalemme Est; quattro di queste sono state demolite dai medesimi proprietari palestinesi, al fine di evitare oneri imposti dalla municipalità e possibili danni ad altre strutture adiacenti o ad effetti personali. Nel contesto della pandemia in corso, l’aumento delle demolizioni e degli sfollamenti desta serie preoccupazioni.

In Cisgiordania, 25 palestinesi, tra cui nove minori, sono rimasti feriti in scontri con forze israeliane. Dei 25 feriti, 22 sono stati registrati durante le ormai consuete dimostrazioni settimanali a Kafr Qaddum (Qalqiliya), tenute per protestare contro le restrizioni di accesso e l’espansione degli insediamenti. Dei tre rimanenti, uno è rimasto ferito nei pressi di Tubas, durante una protesta contro la prevista annessione ad Israele di parti della Cisgiordania, e due durante operazioni di ricerca-arresto svolte nel quartiere Al Isawiya di Gerusalemme Est e nella città di Qabatiya (Jenin). Rispetto alle cause delle lesioni, dodici dei feriti sono stati colpiti da proiettili di metallo rivestiti di gomma; dieci hanno inalato gas lacrimogeno (e sono stati sottoposti a trattamento medico); due sono stati aggrediti fisicamente ed uno è stato colpito da una bomboletta di gas lacrimogeno.

Durante il periodo in esame [2-15 giugno], le forze israeliane hanno effettuato 120 operazioni di ricerca-arresto, arrestando circa 190 palestinesi. Di queste operazioni, 28 sono state svolte a Gerusalemme Est, 26 nel governatorato di Hebron, 15 nel governatorato di Ramallah e le rimanenti in altre località della Cisgiordania.

Nella Striscia di Gaza, in aree adiacenti alla recinzione perimetrale israeliana ed al largo della costa, le forze israeliane hanno aperto il fuoco in almeno 35 occasioni, presumibilmente per imporre le restrizioni di accesso. Non sono stati segnalati feriti. In altre cinque occasioni, le forze israeliane sono entrate nella Striscia, ad est di Gaza, Beit Lahiya, Jabaliya e Rafah ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo vicino alla recinzione perimetrale.

Un gruppo armato palestinese ha lanciato un missile verso Israele, a seguito del quale le forze israeliane hanno bombardato alcuni siti militari ed aree aperte vicine alla recinzione perimetrale. Questi attacchi reciproci non hanno causato feriti, ma i siti di Gaza bombardati hanno subito danni. Inoltre, per la prima volta dopo diversi mesi, da Gaza sono stati lanciati un certo numero di palloncini incendiari verso il sud di Israele; non sono stati segnalati danni.

L’uscita di pazienti palestinesi da Gaza attraverso il valico di Erez è pregiudicata dalla sospensione, attuata dall’Autorità Palestinese (PA), di ogni forma di coordinamento con le Autorità israeliane. Quest’ultima misura è stata adottata [dalla PA] in risposta all’intento di Israele di annettersi parti della Cisgiordania. A partire dal 21 maggio, l’Autorità Palestinese concorda con Israele solo l’uscita di casi eccezionali di pronto soccorso. In qualche caso, richieste di uscita di pazienti sono state inoltrate alle Autorità israeliane da Organizzazioni per i Diritti Umani. Dall’11 marzo, nel contesto delle restrizioni imposte per contenere la pandemia di COVID-19, il valico di Rafah con l’Egitto è stato completamente chiuso per chi voleva uscire da Gaza, compresi i pazienti.

Dieci palestinesi sono rimasti feriti e almeno 90 alberi di ulivo e dieci veicoli sono stati vandalizzati da aggressori ritenuti coloni israeliani [segue dettaglio]. Tra i feriti c’è una bambina di dieci anni che, nella Città Vecchia di Gerusalemme, spinta da un colono, è rimasta ferita ad un occhio. I rimanenti nove feriti palestinesi sono stati colpiti da pietre o malmenati in varie località: vicino agli insediamenti di Asfar (Hebron) e Homesh (Nablus); vicino alla Comunità di pastori di Khirbet Tana (Nablus), nella zona del Mar Morto e nell’Area (H2) controllata da Israele della città di Hebron. In quest’ultimo caso, ripreso da una telecamera, un soldato israeliano ha fermato l’aggressione, aiutando il palestinese a fuggire. In due episodi verificatisi nei villaggi di Burin (Nablus) e Kafr ad Dik (Salfit), coloni hanno dato fuoco o abbattuto almeno 90 alberi. Inoltre, nei villaggi di Jamma’in, As Sawiya e Lifjim (tutti a Nablus), Al Mughayyir (Ramallah) e Kifl Hares (Salfit), nonché in Area H2 di Hebron, aggressori (si presume si tratti di coloni) hanno vandalizzato veicoli, tende e strutture idriche. In altri sei casi, coloni hanno pascolato le loro pecore su terreni appartenenti agli agricoltori della Comunità di Qawawis (Hebron), danneggiando almeno 2 ettari di colture stagionali.

Secondo una ONG israeliana, tre israeliani sono rimasti feriti e 17 veicoli hanno subito danni a seguito del lancio di pietre e bottiglie incendiarie da parte di palestinesi contro veicoli israeliani che percorrevano strade della Cisgiordania.

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nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Comunicato Relatori speciali ONU contro l’annessione,l’apartheid e l’occupazione

Ginevra 16 giugno 2020

Comunicato Esperti Onu

L’annessione israeliana di parti della Cisgiordania palestinese violerebbe il diritto internazionale – gli esperti dell’ONU chiedono alla comunità internazionale che ne paghi le conseguenze.

GINEVRA (16 giugno 2020) – Oggi esperti dell’Onu hanno detto che l’accordo del nuovo governo di coalizione di Israele per annettere dopo il 1° luglio ampie zone della Cisgiordania palestinese occupata violerebbe un principio fondamentale del diritto internazionale e deve essere contrastato in modo efficace dalla comunità internazionale. Quarantasette degli inviati indipendenti per le procedure speciali nominati dalla Commissione per i diritti umani hanno rilasciato la seguente dichiarazione:

L’annessione dei territori occupati è una grave violazione della Carta delle Nazioni Unite e delle Convenzioni di Ginevra ed è contraria alle norme fondamentali più volte affermate dal Consiglio di Sicurezza e dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, secondo cui l’acquisizione di territori con la guerra o con la forza è inammissibile.

La comunità internazionale ha vietato l’annessione proprio perché incita a guerre, devastazioni economiche, instabilità politica, sistematiche violazioni dei diritti umani e diffuse sofferenze.

I piani dichiarati da Israele per l’annessione estenderebbero la sovranità su gran parte della Valle del Giordano e su tutti gli oltre 235 insediamenti israeliani illegali in Cisgiordania. Ciò equivarrebbe a circa il 30% della Cisgiordania. L’annessione di questo territorio è stata approvata dal Piano Americano di Pace per la Prosperità, reso noto alla fine di gennaio 2020.

Le Nazioni Unite hanno dichiarato in molte occasioni che l’occupazione israeliana, che risale a 53 anni fa, è fonte di gravissime violazioni dei diritti umani contro il popolo palestinese. Queste violazioni includono confisca di terre, violenza dei coloni, leggi di pianificazione urbanistica discriminatorie, confisca delle risorse naturali, demolizione delle case, trasferimento forzato della popolazione, uso eccessivo della forza e tortura, sfruttamento del lavoro, violazioni estese dei diritti alla privacy, restrizioni sui media e sulla libertà di espressione, prendere di mira le donne attiviste e i giornalisti, detenzione di minorenni, avvelenamento da esposizione a rifiuti tossici, sfratti ed espulsioni forzate, deprivazione economica e povertà estrema, detenzione arbitraria, mancanza di libertà di movimento, insicurezza alimentare, applicazione discriminatoria delle leggi e imposizione di un sistema a due livelli di diritti politici, legali, sociali, culturali ed economici diversi in base all’etnia ed alla nazionalità. I difensori dei diritti umani palestinesi e israeliani, che portano pacificamente l’attenzione dell’opinione pubblica su queste violazioni, sono calunniati, criminalizzati o etichettati come terroristi. Soprattutto, l’occupazione israeliana ha significato la negazione del diritto all’ autodeterminazione dei palestinesi.

Dopo l’annessione queste violazioni dei diritti umani non farebbero che intensificarsi. Ciò che rimarrebbe della Cisgiordania sarebbe un Bantustan palestinese, isole di territorio completamente scollegate, circondate da Israele e senza alcun legame territoriale con il mondo esterno. Recentemente Israele ha promesso che manterrà il controllo permanente della sicurezza tra il Mediterraneo e il fiume Giordano. Quindi il giorno dopo l’annessione sarebbe la cristallizzazione di una realtà già di per sé ingiusta: due popoli che vivono nello stesso spazio, governati dallo stesso Stato, ma con diritti profondamente disuguali. Questa è la visione di un’apartheid del XXI secolo.

Già per due volte in precedenza Israele ha annesso territori occupati – Gerusalemme Est nel 1980 e le Alture del Golan siriane nel 1981. In entrambe le occasioni il Consiglio di sicurezza dell’ONU ha immediatamente condannato le annessioni come illegali, ma non ha preso alcuna contromisura significativa per opporsi alle azioni di Israele.

Allo stesso modo, il Consiglio di Sicurezza ha ripetutamente criticato le colonie israeliane in quanto flagrante violazione del diritto internazionale. Tuttavia, la sfida di Israele a queste risoluzioni e il suo continuo rafforzamento delle colonie è rimasto senza risposta da parte della comunità internazionale.

Questa volta deve essere diverso. La comunità internazionale ha la grave responsabilità giuridica e politica di difendere un ordine internazionale basato su regole, di opporsi alle violazioni dei diritti umani e dei principi fondamentali del diritto internazionale e di dare attuazione alle sue numerose risoluzioni che criticano la condotta da parte di Israele durante questa prolungata occupazione. In particolare, gli Stati hanno il dovere di non riconoscere, aiutare o assistere un altro Stato in qualsiasi forma di attività illegale, come l’annessione o la creazione di insediamenti civili in territorio occupato. Le lezioni del passato sono chiare: le critiche senza conseguenze non impediranno l’annessione né porranno fine all’occupazione.

La responsabilizzazione e la fine dell’impunità devono diventare una priorità immediata per la comunità internazionale. Essa ha a sua disposizione un’ampia gamma di misure di responsabilizzazione che sono state ampiamente applicate e con successo dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU in altre crisi internazionali negli ultimi 60 anni. Le misure di responsabilizzazione che vengono selezionate devono essere prese in piena conformità con il diritto internazionale, essere proporzionate, efficaci, soggette a revisione periodica, coerenti con i diritti umani, umanitari e con il diritto dei rifugiati, progettate per annullare le annessioni e por fine all’occupazione e al conflitto in modo giusto e duraturo. I palestinesi e gli israeliani non meritano di meno.

Esprimiamo grande rammarico per il ruolo degli Stati Uniti d’America nel sostenere e incoraggiare i piani illegali di Israele per l’ulteriore annessione dei territori occupati. Negli ultimi 75 anni in molte occasioni gli Stati Uniti hanno svolto un ruolo importante nel promuovere i diritti umani a livello mondiale. In questa occasione dovrebbero opporsi decisamente all’imminente violazione di un principio fondamentale del diritto internazionale, piuttosto che favorirne concretamente la violazione”.

(*) Gli esperti:

Mr. Michael Lynk, Special Rapporteur on the situation of human rights in the Palestinian Territory occupied since 1967; Ms. Agnès Callamard, Special Rapporteur on extrajudicial, summary or arbitrary executions; Mr. Ahmed Reid (Chair), Ms. Dominique Day, Mr. Michal Balcerzak, Mr. Ricardo A. Sunga III, and Mr. Sabelo Gumedze, Working Group of experts on people of African descent;Ms. Alena Douhan, Special Rapporteur on the negative impact of the unilateral coercive measures on the enjoyment of human rights; Ms Alice Cruz, Special Rapporteur on the elimination of discrimination against persons affected by leprosy and their family members, Ms. Anaïs Marin, Special Rapporteur on the situation of human rights in Belarus; Mr. Aristide NONONSI, Independent Expert on the situation of human rights in the Sudan; Mr. Alioune Tine,Independent Expert on the situation of human rights in Mali; Mr. Balakrishnan Rajagopal, Special Rapporteur on adequate housing as a component of the right to an adequate standard of living, and on the right to non-discrimination in this context; Mr. Baskut Tuncak, Special Rapporteur on human rights and hazardous substances and wastes; Ms. Catalina Devandas-Aguilar, Special Rapporteur on the rights of persons with disabilities; Ms. Cecilia Jimenez-Damary, Special rapporteur on the human rights of internally displaced persons; Mr. Chris Kwaja (Chair), Ms. Jelena Aparac, Ms. Lilian Bobea, Mr. Saeed Mokbil,Ms. Sorcha MacLeod, Working Group on the use of mercenaries as a means of violating human rights and impeding the exercise of the right of peoples to self-determination; Ms. Claudia Mahler, Independent Expert on the enjoyment of all human rights by older persons; Mr. Clément Nyaletsossi Voule, Special Rapporteur on the right to peaceful assembly and association; Mr. Dainius Pūras, Special Rapporteur on the right to physical and mental health; Mr. David Kaye, Special Rapporteur on the promotion and protection of the right to freedom of expression; Mr. David R. Boyd, Special Rapporteur on human rights and the environment; Mr. Diego García-Sayán, UN Special Rapporteur on the independence of judges and lawyers; Ms. Dubravka Šimonovic, Special Rapporteur on violence against women, its causes and consequences; (Chair) Ms. Elizabeth Broderick (Vice Chair) Ms. Melissa Upreti, Ms. Alda Facio, Ms. Ivana Radačić, Ms. Meskerem Geset Techane, Working Group on discrimination against women and girls; Mr. Fernand de Varennes, Special Rapporteur on minority issues; Ms. Fionnuala D. Ní Aoláin, Special Rapporteur on the promotion and protection of human rights and fundamental freedoms while countering terrorism; Mr. Githu Muigai (Chair), Ms. Anita Ramasastry (Vice-chair), Mr. Dante Pesce, Ms. Elżbieta Karska, and Mr. Surya Deva, UN Working Group on Business and Human Rights; Ms. Isha Dyfan, Independent Expert on the situation of human rights in Somalia; Mr. Joe Cannataci, Special Rapporteur on the right to privacy; Mr. José Francisco Calí Tzay, Special Rapporteur on the rights of indigenous peoples;Mr. José Antonio Guevara Bermúdez (Chair), Ms. Elina Steinerte (Vice-Chair), Ms. Leigh Toomey (Vice-Chair), Mr. Seong-Phil Hong, and Mr. Sètondji Adjovi, Working Group on Arbitrary Detention; Ms. Karima Bennoune, Special Rapporteur in the field of cultural rights; Ms. Kombou Boly Barry, Special Rapporteur on the right to education; Mr. Léo Heller,Special Rapporteur on the human rights to water and sanitation; Mr. Livingstone Sewanyana, Independent Expert on the promotion of a democratic and equitable international order; Ms. Mama Fatima Singhateh, Special Rapporteur on sale and sexual exploitation of children; Ms Maria Grazia Giammarinaro, Special Rapporteur on trafficking in persons, especially women and children; Ms. Mary Lawlor, Special Rapporteur on the situation of human rights defenders; Mr. Michael Fakhri, Special Rapporteur on the right to food; Mr. Nils Melzer, Special Rapporteur on torture and other cruel, inhuman or degrading treatment or punishment; Mr. Obiora C. Okafor, Independent Expert on human rights and international solidarity,Mr. Olivier De Schutter, Special Rapporteur on extreme poverty and human rights; Mr. Saad Alfarargi, Special Rapporteur on the right to development; Ms. E. Tendayi Achiume, Special Rapporteur on Contemporary Forms of Racism; Mr. Thomas Andrews. Special Rapporteur on the situation of human rights in Myanmar; Mr. Tomás Ojea Quintana, Special Rapporteur on the situation of human rights in the Democratic People’s Republic of Korea; Mr. Tomoya Obokata, Special Rapporteur on contemporary forms of slavery, including its causes and consequences; Mr. Victor Madrigal-Borloz, Independent Expert on protection against violence and discrimination based on sexual orientation and gender identity; Ms. Yuefen LI, Independent Expert on the effects of foreign debt and other related international financial obligations of States on the full enjoyment of all human rights, particularly economic, social and cultural rights; Mr. Yao Agbetse, Independent Expert on the situation of human rights in Central African Republic

Gli osservatoti speciali fanno parte di quelle che sono note come le Procedure Speciali della Commissione per i Diritti Umani. Procedure Speciali, l’ente più grande di esperti indipendenti nel sistema dell’ONU per i Diritti Umani, è il nome complessivo del sistema di accertamento dei fatti e dei meccanismi di controllo che si occupano sia della situazione di Paesi specifici sia di questioni tematiche in ogni parte del mondo. Gli esperti delle Procedure Speciali lavorano su base volontaria: non fanno parte del personale dell’ONU e non ricevono uno stipendio per il loro lavoro. Non dipendono da nessun governo o organizzazione e prestano servizio nell’ambito delle loro competenze individuali.

(Traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il piano di annessione israeliano pregiudicherà la normalizzazione arabo-israeliana?

Yousef Alhelou

17 giugno 2020 – Middle East Monitor

La posizione adottata dagli Stati Arabi sul piano israeliano di annettere dal prossimo mese aree della Cisgiordania occupata, compresa la Valle del Giordano, può essere scomposta in linea di massima in tre orientamenti: i Paesi come Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Oman, Bahrain, Qatar, Marocco ed Egitto offrono un esplicito sostegno all’ “accordo del secolo” degli Stati Uniti, che comprende l’annessione e lo scambio di territori; alcuni Paesi, come Palestina, Giordania, Algeria, Iraq e Tunisia respingono totalmente il piano; e altri hanno delle riserve e non hanno espresso un parere in un senso o nell’altro.

L’annessione implica il controllo della terra e il trasferimento degli attuali abitanti. In Palestina, si tratta di una continuazione della pulizia etnica israeliana dei territori iniziata nel 1948 che non sarebbe nemmeno all’ordine del giorno senza il sostegno degli Stati Uniti. L’attuale amministrazione di Washington guidata dal presidente Donald Trump ha già riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele, ha spostato l’ambasciata americana da Tel Aviv alla Città Santa e ha affermato che gli insediamenti israeliani costruiti sulla terra palestinese “non necessariamente” sarebbero illegali. Ha anche bloccato tutti gli aiuti statunitensi ai palestinesi.

Tuttavia, con una mossa insolita, l’ambasciatore degli Emirati Arabi Uniti a Washington, Yousef Al-Otaiba, ha scritto un commento su Yedioth Ahronoth, il più diffuso quotidiano in lingua ebraica d’ Israele. “Annessione o Normalizzazione” si rivolge principalmente all’ala destra israeliana e invia un velato avvertimento ai funzionari e all’opinione pubblica in generale. Ha anche twittato un video in inglese per enfatizzare il suo messaggio. Al-Otaiba ha messo in guardia contro la prospettiva dell’annessione e ha menzionato le sue probabili conseguenze. L’ambasciatore desidera proteggere la normalizzazione formale dei legami con Israele, legami diplomatici, economici, culturali e sulla sicurezza.

Mentre i critici affermano che il suo messaggio è più un consiglio amichevole che un avvertimento formale, altri credono che Al-Otaiba stia cercando di salvare la faccia dopo che gli Emirati Arabi Uniti si sono viste respinte due diverse spedizioni di aiuti medici per i palestinesi perché non si sarebbero coordinati in anticipo con l’Autorità Nazionale Palestinese. Inoltre, gli Emirati Arabi Uniti ospitano anche l’ex funzionario di Fatah Mohammed Dahlan, espulso dal movimento da Mahmoud Abbas. Tuttavia, gli Emirati Arabi Uniti rimangono un grande sostenitore dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione (UNRWA) che fornisce i beni di prima necessità a milioni di rifugiati palestinesi.

È chiaro che qualsiasi instabilità che facesse seguito all’annessione potrebbe ravvivare nella coscienza araba lo spirito della lotta armata in tutta la regione. Se esplodesse, in aperta solidarietà con i palestinesi oppressi, la rabbia popolare, potrebbe anche danneggiare i rapporti diplomatici in fase di sviluppo, mettendo a repentaglio la piena e pubblica normalizzazione dei legami tra gli Stati arabi e Israele.

L’Iran e i suoi alleati nello Yemen, nel Libano meridionale e a Gaza non possono essere ignorati, poiché Teheran è il nemico comune di Israele e di alcuni Stati musulmani sunniti. Qualsiasi destabilizzazione dello status quo in Cisgiordania o Gerusalemme potrebbe incoraggiare la mobilitazione di gruppi filo-iraniani e attacchi contro obiettivi nel Golfo. La Turchia, nel frattempo, potrebbe sostituire il sostegno arabo alla legittima causa palestinese e fornire sostegno finanziario a coloro che vivono sotto l’occupazione militare di Israele. Inoltre, le industrie petrolifere e del turismo potrebbero soffrirne se, ad esempio, gli Houthi filo iraniani cercassero di vendicarsi contro la coalizione araba guidata dai sauditi che combattono nello Yemen e sostengono i palestinesi e i loro diritti. Hamas e altri gruppi di resistenza palestinese hanno anche avvertito delle gravi conseguenze se l’annessione dovesse procedere. Tutte le opzioni, a quanto pare, sono sul tavolo.

Quando a gennaio Trump ha annunciato i dettagli del suo “piano di pace”, gli ambasciatori degli Emirati Arabi Uniti, del Bahrain e dell’Oman si trovavano alla Casa Bianca in piedi accanto al Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu . Trump li ha ringraziati per il loro supporto. Nessun funzionario palestinese era presente. L'”accordo” è stato una pugnalata alle spalle; un piano pro-Israele; un matrimonio forzato della “sposa” israeliana con un “sposo” palestinese riluttante. Gli stati arabi intenzionati a normalizzare i legami con Israele hanno bisogno di pace e coesistenza tra palestinesi e israeliani, per porre fine alla loro imbarazzante diplomazia sotto copertura e consentire loro di avere un rapporto economico aperto con lo Stato occupante.

Sorprendentemente, gli unici due Paesi arabi che hanno firmato trattati di pace con Israele – Egitto e Giordania, rispettivamente nel 1979 e nel 1994 – non hanno partecipato alla cerimonia della Casa Bianca. Entrambi hanno intense relazioni con l’Autorità Nazionale Palestinese e condividono più o meno la stessa visione su come porre fine al conflitto Israele-Palestina: piena normalizzazione in cambio della fine dell’occupazione militare israeliana in Cisgiordania, Striscia di Gaza e Gerusalemme, e un ritorno ai confini del 1967. Questa è la base dell’iniziativa di pace araba approvata dalla Lega araba nel 2002 al suo vertice di Beirut.

Gli accordi di Oslo firmati nel 1993 dovevano portare alla costituzione di uno Stato palestinese entro cinque anni. Quasi tre decenni dopo centinaia di migliaia di coloni ebrei vivono in enormi blocchi di insediamenti costruiti da Israele nonostante gli Accordi. Ancora altri territori palestinesi sono stati rubati per costruire il muro dell’apartheid lungo 708 chilometri che si snoda lungo il confine della Cisgiordania [in prevalenza il muro si trova nel territorio cisgiordano, n.d.tr.]; ci sono più di 600 posti di blocco militari fissi e mobili; e le comunità palestinesi sono state isolate, creando bantustan separati. Inoltre, le case e gli altri edifici palestinesi vengono regolarmente demoliti dagli israeliani e i palestinesi nativi di Gerusalemme si vedono revocare i loro permessi di residenza mentre la giudaizzazione della Città Santa continua. Sotto i governi consecutivi di estrema destra di Netanyahu, la più estremista della storia di Israele, Israele ha fatto fuori la cosiddetta “soluzione a due Stati”.

La Giordania ha respinto il piano di annessione perché la valle del Giordano occupata si estende lungo il confine del Regno Hascemita [la dinastia hashemita, fondata nel 1916, dominò prima nel igiāz (regione comprendente La Mecca e Medina) in Arabia, poi in Iraq e Transgiordania, e infine nel Regno hashemita di Giordania, n.d.tr.] L’area costituisce circa il 30% della Cisgiordania, con una popolazione di circa 65.000 palestinesi e 11.000 coloni illegali. In realtà, Israele ha quasi il controllo totale di quello che è già di fatto un territorio annesso.

Tutto ciò suggerisce che l’avvertimento di Al-Otaiba potrebbe essere ascoltato, perché Netanyahu non vorrà perdere alleati nel mondo arabo, non ultimi nuovi amici come il Sudan, nel caso che la situazione si dovesse deteriorare nei territori palestinesi occupati. Il leader israeliano è il più consapevole di tutti del fatto che il presidente dell’ANP Abbas ha annunciato il mese scorso che sta ponendo fine a tutti gli accordi con Israele e gli Stati Uniti, inclusa la cooperazione in materia di sicurezza con le forze di occupazione.

È vero che la causa palestinese è diventata un grattacapo per alcuni regimi arabi, in particolare nel Golfo, ma per altri è ancora la “questione centrale” che unisce tutti gli arabi e i musulmani. Senza una giusta soluzione in Palestina, non ci sarà mai stabilità in Medio Oriente. Sebbene l’ANP sotto Abbas sia accusata di aver aperto per prima le porte alla normalizzazione, i palestinesi insistono sul fatto che i legami con Israele non devono procedere a spese del popolo palestinese che ha lottato per decenni per la libertà e l’autodeterminazione .

Israele ha investito molto nella normalizzazione dei legami con gli Stati del Golfo. Sono stati fatti molti incontri reciproci segreti e sono state utilizzate molte applicazioni di social media per colmare le lacune culturali e politiche esistenti, nell’incoraggiare gli arabi del Golfo a rivoltarsi contro i palestinesi demonizzandoli come ostacolo alla pace con Israele.

Al momento, tuttavia, tutto ciò che conta per Netanyahu è la luce verde di Trump. È stato in grado di mettere insieme un governo di “unità” che condivide il potere e rimanere al potere significa tutto per lui. L’annessione faceva parte della sua campagna elettorale ed è tempo di adempiere al suo impegno. Le posizioni palestinesi e arabe non gli interessano molto, ma è un politico esperto e scaltro, che prenderà in considerazione i pro e i contro con attenzione.

Il velato avvertimento del capo ambasciatore degli Emirati Arabi Uniti a Washington, Al-Otaiba, sarà sufficiente per fermare o ritardare il piano di annessione? O Israele andrà avanti a prescindere e quindi pregiudicherà la normalizzazione con gli Stati arabi che temono disordini popolari nei loro paesi? Solo il tempo lo dirà, ma ci sono rischi per tutti i soggetti coinvolti, in particolare per i palestinesi, indipendentemente dal modo in cui si guardi la cosa.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Aldo lotta)




Mentre lo Stato ebraico si lancia in un baratro, la temibile lobby dell’AIPAC non fa assolutamente niente

PHILIP WEISS e JAMES NORTH

17 giugno 2020 – Mondoweiss

Di tutti i drammi che stanno avvenendo nel contesto del piano del governo israeliano di annettere grandi aree della Cisgiordania a partire da luglio, è passato in buona misura sotto silenzio un prodigio politico: l’American Israel Public Affairs Committee [Comitato Americano per le Questioni Pubbliche di Israele] (AIPAC), la temibile lobby israeliana a Washington, non ha avuto niente da dire e di conseguenza con il suo silenzio potrebbe avere preannunciato il suo stesso declino.

Ciò in quanto l’iniziativa israeliana è senza dubbio una grande minaccia per il futuro dello “Stato ebraico”, sicuramente la maggiore crisi che Israele abbia affrontato almeno negli ultimi 10 anni, e ciononostante l’organizzazione, il cui unico scopo è garantire il futuro di Israele, è stata assolutamente silenziosa. Il sito tweet dell’AIPAC è pieno di pubblicità del genere camera di commercio (“L’innovazione israeliana ci rende più sicuri e più sani”), e neppure una parola sull’annessione.

Ma se ci si mette in contatto con singoli importanti sionisti negli Stati Uniti, progressisti o conservatori, sono tutti contrari all’annessione. Persone come Jeremy Burton, Dennis Ross, Robert Satloff, Martin Indyk, Jeremy Ben-Ami, Jeffrey Goldberg, persino Daniel Pipes. Essi si rendono conto della minaccia rappresentata dall’annessione per il futuro dello Stato ebraico. La minaccia è molteplice e ovvia: l’annessione isolerà Israele nel mondo e farà sì che gli europei impongano sanzioni contro Israele; l’annessione minaccia il trattato di pace con la Giordania; l’annessione minerà così tanto il movimento palestinese da rendere possibile una terza Intifada, tanto che persino i sionisti laburisti prevedono una “rivolta” come risposta naturale di un popolo messo all’angolo; l’annessione frammenterà e inizierà a dissolvere il sostegno del partito Democratico a Israele; l’annessione renderà l’apartheid ufficiale e innegabile, persino agli occhi di molti ebrei americani che hanno resistito a rendersene conto per anni; l’annessione darà forza alla campagna per il boicottaggio.

L’unica obiezione a questa sfilza di argomenti è l’illusione messianica: dio (o i britannici) hanno promesso la terra agli ebrei, perciò, di cosa vi preoccupate? Se sei una persona seria che crede nella necessità di uno Stato ebraico, questo è davvero un periodo veramente pericoloso. Un governo israeliano con un limitato appoggio dell’opinione pubblica sta per lanciare una nuova era che potrebbe produrre anni e anni di isolamento e di violenza in Israele. Persino uno dei beniamini dell’AIPAC, che fa parte del movimento dei coloni, è contrario!

Ancora una volta la domanda è: dov’è l’AIPAC? È la maggiore organizzazione filoisraeliana, che in una notte può avere 76 firme del Senato su un tovagliolo e riunire ogni anno in un centro congressi di Washington 20.000 sostenitori di Israele. È talmente famoso che chiunque lo conosce anche solo dalle sue iniziali. E oggi tutta questa potenza di fuoco è silenziosa. Durante una vera e propria crisi per lo Stato ebraico, l’AIPAC non ha niente da dire.

Ci sono un paio di spiegazioni plausibili per questo silenzio. Primo, l’AIPAC, per sua stessa politica, non ha mai criticato il governo israeliano. Va bene, ma cosa succede se questo governo sta per spingere lo Stato ebraico in un baratro? L’AIPAC è talmente condizionato da un ragionamento tattico da non poter vedere una reale minaccia quando si presenta? Forse.

Ma in questo caso la lobby ha dimostrato di aver esaurito la sua utilità per Israele ed è una vittima della sua stessa irresponsabilità. Per decenni ha affermato che non avrebbe mai criticato Israele mentre colonizzava la terra di un altro popolo ed ora, quando Israele è sul punto di fare un enorme passo in quella direzione, non si può smentire.

O forse l’AIPAC pensa di non poter criticare un presidente USA, di non poter danneggiare il suo accesso alla carica più alta del Paese. Trump è assolutamente pronto all’annessione. Pensa che ciò possa fargli avere i milioni di Sheldon Adelson [miliardario americano che finanzia Trump, Israele e le colonie, ndtr.] e forse la Florida in novembre, e l’AIPAC non può essere minimamente critico con un presidente o potrebbe perdere la possibilità di avervi accesso.

Ma di nuovo: il portabandiera della lobby israeliana ha sacrificato la sua stessa missione a una tattica burocratica. Ha costruito una potenza mostruosa e malefica a Washington per appoggiare Israele ed ora, in un momento di crisi, non dice niente.

Il fallimento dell’AIPAC ha chiaramente rafforzato altre organizzazioni sioniste. J Street [associazione di sionisti progressisti contrari all’occupazione, ndtr.] sta conducendo la lotta contro l’annessione insieme ad “Americans for Peace Now [Americani per la pace adesso, organizzazione sionista statunitense a favore della soluzione dei due Stati, ndtr.]. La graduale conquista della lobby israeliana da parte di J Street che abbiamo visto più o meno nell’ultimo anno sembra ormai inevitabile, data l’abdicazione dell’AIPAC. Di fatto l’unico commentatore ad evidenziarlo è il nuovo presidente di APN, Hadar Suskind, che ha scritto su Haaretz [quotidiano israeliano di centro sinistra, ndtr.] che le principali organizzazioni della lobby israeliana hanno consentito a Israele di sacrificare il suo futuro “sull’altare dell’etno-nazionalismo”.

Con una disperata richiesta di aiuto, Suskind ha scritto che è a rischio nientemeno che lo Stato ebraico: “Quando questo futuro sarà minacciato, noi ci esprimeremo a voce alta, denunceremo apertamente e lotteremo per una prospettiva che rifletta l’opinione sia dei fondatori di Israele che della grande maggioranza degli ebrei americani. Chiediamo a tutti i nostri colleghi di unirsi a noi per proteggere un Israele ebraico e democratico opponendoci chiaramente e fortemente all’annessione. Non aspettate che sia troppo tardi.”

Qualunque cosa si pensi del progetto sionista – e noi siamo contrari – da una prospettiva politica, l’abdicazione dell’AIPAC è sia mistificatoria che patetica, e potrebbe portare a una caotica lotta generazionale all’interno della lobby israeliana in cui i giovani ebrei di IfNotNow [SeNonOra, organizzazione di ebrei statunitensi contraria alle politiche israeliane, ndtr.] e Open Hillel [Hillel Aperto, associazione universitaria ebraica con posizioni critiche, ndtr.] stanno improvvisamente contendendo la leadership all’American Jewish Committee [Comitato Ebraico Americano, storica organizzazione ebraica statunitense filosionista, ndtr.].

Come in un atto di spontanea autodistruzione politica, il silenzio dell’AIPAC è un prodigio, proprio come in primo luogo l’accumulazione di potere della lobby.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La pandemia da coronavirus e il fallimento della strategia di disimpegno dell’ANP

Ihab Maharmeh

16 giugno 2020 – Al Jazeera

È tempo che l’Autorità Nazionale Palestinese adotti una strategia radicalmente nuova

Lo scorso anno, quando il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha ribadito il suo impegno ad annettere parti della Cisgiordania occupata e l’amministrazione USA ha insistito sull’unilaterale “accordo del secolo”, l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) si è arrabattata per mettere insieme una nuova strategia politica.

Nell’aprile 2019 il primo ministro palestinese Mohammad Shtayyeh, nominato da poco, ha annunciato che il governo avrebbe proceduto con un “disimpegno economico” dall’occupazione. Durante l’estate alcuni politici palestinesi hanno continuato a parlare di questa nuova strategia e in settembre l’ANP finalmente ha preso l’iniziativa, dichiarando che avrebbe posto fine alle importazioni dirette di bovini da Israele.

Nei mesi successivi i tentativi del governo dell’ANP di mettere in atto questa strategia ha dato come risultato una piccola guerra commerciale con Israele, terminata repentinamente in marzo quando le autorità palestinesi hanno dovuto affrontare la prospettiva di una grave epidemia del nuovo coronavirus.

La pandemia è subito diventata la prova decisiva della nuova strategia, sgretolatasi quando l’ANP si è cimentata nel controllo della diffusione della malattia e nella gestione dell’economia palestinese già in difficoltà. Dato che le ultime dichiarazioni del presidente palestinese Mahmoud Abbas riguardo alla fine degli accordi e del coordinamento per la sicurezza con Israele dimostrano ancora una volta di essere una vuota minaccia, è tempo che la dirigenza palestinese cambi radicalmente la sua strategia.

La “strategia del disimpegno”

Per anni l’idea di un “disimpegno economico” da Israele è circolata nei circoli politici palestinesi. Nel passato ci sono stati anche tentativi di imporre vari boicottaggi sui prodotti israeliani che non hanno avuto alcun successo.

Quando gli USA hanno spostato la loro ambasciata a Gerusalemme, riconoscendo le rivendicazioni israeliane sulla città, e inquietanti particolari dell’“accordo del secolo” dell’amministrazione Trump sono stati resi noti, è ricomparsa l’idea di un disimpegno palestinese.

Quando nell’aprile 2019 è entrato in carica, Shtayyeh ne ha fatto una priorità del suo nuovo governo. Il primo ministro palestinese ha parlato di rafforzare l’indipendenza economica palestinese promuovendo la produzione locale, le esportazioni e le importazioni dirette dall’estero e incoraggiando i palestinesi che lavorano in Israele a cercare piuttosto lavoro nei territori palestinesi.

Ha anche affermato che il suo governo avrebbe perseguito una strategia di “sviluppo a grappolo”, stimolando alcuni settori economici nelle diverse regioni: agricoltura a Jenin, industria a Nablus, turismo a Betlemme e fornitura di servizi medici nella Gerusalemme est occupata.

La strategia si basava sul fatto che l’ANP continuasse a ricevere gli introiti fiscali che, secondo il protocollo di Parigi del 1994, vengono raccolti per suo conto dalle autorità israeliane. Tuttavia negli ultimi 25 anni Israele ha regolarmente trattenuto parte delle risorse fiscali del governo palestinese con vari pretesti, compreso, più di recente, che l’ANP sta pagando sussidi alle famiglie di prigionieri politici palestinesi che gli israeliani considerano “terroristi”.

Trattenere questi fondi è solo una delle molte tattiche coercitive a disposizione del governo israeliano per contrastare qualunque politica palestinese ritenga minacci i suoi interessi economico-politici. E quello che è successo dopo il bando palestinese sull’importazione di bestiame l’ha illustrato alla perfezione.

Nel gennaio 2020 il governo israeliano ha emanato un bando sull’importazione di prodotti agricoli palestinesi. All’inizio di febbraio l’ANP ha vietato l’importazione di alcuni prodotti israeliani, a cui gli israeliani hanno risposto impedendo a quelli palestinesi di attraversare il territorio israeliano per l’esportazione in Giordania.

Due settimane dopo, quando si è profilata un’epidemia di COVID-19 che minacciava la già disastrata economia palestinese, l’ANP ha ceduto ed ha tolto il bando sui prodotti israeliani. La dirigenza palestinese ha affermato di aver raggiunto un accordo con gli israeliani per l’importazione di bestiame direttamente dal mercato internazionale attraverso Israele.

L’annuncio è stato fatto solo un giorno prima che Israele dichiarasse ufficialmente di aver registrato il primo caso di COVID-19. La diffusione del virus nei territori palestinesi occupati era solo questione di tempo. Il 5 marzo l’ANP ha annunciato il suo primo test positivo al COVID-19 ed ha decretato lo stato d’emergenza di un mese.

La pandemia di coronavirus non ha solo accelerato la fine dei tentativi palestinesi di mettere in pratica il “disimpegno economico”, ma ha anche dimostrato proprio quanto impotente sia l’ANP nel prendere una qualunque decisione importante riguardo al popolo palestinese, persino quando si tratti di salute pubblica.

Il fallimento dell’ANP nel combattere il COVID-19

Dall’inizio di marzo l’ANP ha cercato di mettere in atto una serie di misure per arginare la diffusione del nuovo coronavirus. Fin da subito è risultato chiaro che il contagio si sarebbe esteso da Israele ai lavoratori palestinesi che lavorano nelle città israeliane e nelle colonie illegali. Ciò è stato confermato in seguito dalle statistiche: in aprile il 79% dei casi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza era dovuto a lavoratori in Israele o a loro familiari.

Così, il 17 marzo Shtayyeh ha annunciato che gli spostamenti tra il territorio israeliano e quello palestinese sarebbero stati interrotti e che, se volevano continuare a lavorare, i lavoratori avrebbero avuto tre giorni per trovarsi una sistemazione in territorio israeliano.

Dopo una settimana, e dopo che molti lavoratori malati sono stati maltrattati dalle autorità israeliane, Shtayyeh ha chiesto ai palestinesi di lasciare il proprio lavoro in Israele e di rimanere a casa, in quanto correvano il serio rischio di contrarre il virus. Ciò ha minacciato l’economia israeliana, soprattutto nel settore dell’edilizia, per cui il governo israeliano ha agito rapidamente ed ha iniziato a concedere permessi ai palestinesi perché rimanessero in territorio israeliano.

L’ANP voleva che le autorità israeliane iniziassero a fare controlli medici sui lavoratori palestinesi, ma gli è stato rifiutato. Quindi il movimento dei palestinesi dentro e fuori Israele è continuato, vanificando gli sforzi del governo palestinese di frenare la diffusione del virus.

L’ANP ha anche cercato di combattere la diffusione del virus nelle aree B e C della Cisgiordania occupata, che sono sotto diretto controllo della sicurezza israeliana. Shtayyeh ha chiesto alle comunità locali di formare commissioni d’emergenza e di impegnarsi nell’erogazione di servizi sanitari e di sicurezza in quelle zone.

Ma le forze di occupazione israeliane hanno sistematicamente minato questi tentativi. Hanno attaccato le barriere palestinesi predisposte dalle comunità locali agli ingressi dei loro villaggi per controllare il passaggio dei lavoratori palestinesi di ritorno a casa da Israele.

Le autorità di occupazione hanno anche sabotato i tentativi di funzionari palestinesi che cercavano di mettere in atto misure preventive nelle cittadine e nei quartieri palestinesi all’interno dei confini amministrativi della Gerusalemme est occupata.

Il 3 aprile le autorità di occupazione hanno arrestato il ministro degli Affari di Gerusalemme, Fadi al-Hadami, per attività “illegali”. Due giorni dopo hanno arrestato anche Adnan Ghaith, il governatore di Gerusalemme dell’ANP. Entrambi erano impegnati nella lotta contro l’epidemia.

Inoltre Israele ha negato al governo palestinese il permesso di operare a Gerusalemme e di testare i palestinesi al virus.

É tempo di una nuova strategia

Il 19 maggio, in risposta al piano israeliano per annettere parti della Cisgiordania in luglio e al tacito consenso degli USA a questo proposito, Abbas ha dichiarato “nullo” ogni accordo con Israele e gli USA. Ciò è avvenuto circa un anno dopo che aveva annunciato la sospensione di ogni accordo con Israele.

Il presidente ha affermato che quest’ultima dichiarazione mette fine alla cooperazione per la sicurezza con le forze israeliane e trasferisce ogni responsabilità per i territori palestinesi occupati al governo israeliano. Ma l’annuncio era scarso di dettagli e finora non sembra aver dato come risultato alcun mutamento significativo nei rapporti con Israele.

Di fatto alcuni politici palestinesi hanno inviato messaggi per rassicurare Israele che i servizi di sicurezza palestinesi continueranno il proprio lavoro nel bloccare ogni forma di resistenza contro Israele in Cisgiordania. Sembra che questa sarà l’ennesima delle decine di dichiarazioni dell’ANP sull’interruzione del coordinamento per la sicurezza con Israele che non hanno comportato nessuna seria azione.

É davvero incomprensibile perché l’ANP continui ad insistere nell’utilizzare lo stesso strumentario di misure inefficaci che, nel corso dell’ultimo quarto di secolo, non ha bloccato la costante colonizzazione israeliana della terra palestinese né lo sfruttamento delle risorse palestinesi. Con l’imminente annessione di fino al 30% della Cisgiordania in luglio, è ormai il momento per l’ANP di abbandonare questi triti tatticismi.

La dirigenza palestinese deve smettere di parlare di uno Stato palestinese sui confini del 1967 e ammettere che la Palestina storica è governata da un sistema di apartheid. Ciò aprirebbe la strada all’estensione della resistenza contro il colonialismo e l’oppressione israeliani per tutti i palestinesi all’interno e fuori dalla Palestina.

Nella Palestina storica definire Israele una potenza che pratica l’apartheid consentirebbe a tutti i palestinesi (quelli che vivono in Cisgiordania, a Gaza e nelle terre occupate nel 1948) di intraprendere una resistenza decentralizzata contro l’apartheid utilizzando ogni possibile strategia e strumento. Anche la dirigenza palestinese ne farebbe parte.

Fuori dalla Palestina riconoscere l’apartheid aiuterebbe i palestinesi della diaspora a convincere la comunità internazionale ad accettare la lotta dei palestinesi in quanto lotta contro l’apartheid e il razzismo.

In questo modo i palestinesi passeranno dal sogno irraggiungibile dei due Stati alla realtà della resistenza contro l’apartheid e ciò aiuterà ad attirare il supporto di chiunque nel mondo creda nella giustizia, nell’uguaglianza e nella libertà.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Ihab Maharmeh è un ricercatore presso il Centro Arabo per la Ricerca e gli Studi Politici.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Un’israeliana ricercata per crimini di guerra riceve un premio tedesco per la pace

Ali Abunimah

17 giugno 2020 – Electronic Intifada

I difensori dei diritti umani stanno invitando il Brückepreis tedesco a ritirare l’assegnazione del premio del 2020 a Tzipi Livni, politica israeliana che si è vantata del suo ruolo in crimini di guerra contro i palestinesi.

La motivazione del Bridge Prize [premio Ponte], com’è conosciuto in inglese, afferma che Livni viene premiata per aver promosso “la libertà di pensiero, la democrazia, l’apertura e l’umanità” e per “la sua politica di pace orientata alla libertà”.

Il premio viene assegnato a personaggi che abbiano dedicato il proprio operato alla democrazia e a una comprensione pacifica tra i popoli ed è accompagnato da un premio in denaro pari a 2.800 dollari [circa 2.500 euro].

Ma, lungi dal promuovere la pace, Livni è accusata di essere coinvolta in “crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi nella Striscia di Gaza assediata” quando era ministra degli Esteri di Israele durante l’attacco del 2008-09 contro Gaza, come ha scritto martedì l’associazione per i diritti umani Euro-Med Monitor in una lettera al presidente del Brückepreis Willi Xylander.

Livni “durante l’operazione, condannata a livello internazionale, operò incessantemente per mascherare l’aggressione di Israele contro la popolazione civile di Gaza,” aggiunge la lettera, sottolineando che l’attacco israeliano costò la vita a 1.400 palestinesi, in grande maggioranza civili.

Vero teppismo”

Livni non si è neppure mai vergognata del suo ruolo e del suo appoggio al massacro di Gaza. Nel gennaio 2009 dichiarò ai media israeliani: “Come auspicavo, nel corso delle recenti operazioni Israele ha dimostrato un vero teppismo.”

Anche il rapporto Goldstone, la commissione d’inchiesta indipendente dell’ONU sull’attacco, cita le affermazioni di Livni: “Israele non è un Paese su cui puoi sparare missili senza che reagisca. È un Paese che, quando spari ai suoi cittadini, risponde scatenandosi, e ciò è positivo.”

E invece di promuovere la democrazia, Livni ha appoggiato la pulizia etnica dei cittadini palestinesi di Israele per rendere la popolazione di Israele ancor più esclusivamente ebraica. Ex-ministra della Giustizia, Livni ha anche detto ai negoziatori palestinesi: “Io sono contraria alle leggi – in particolare a quelle internazionali. Contro le leggi in generale.”

Non pare proprio che queste siano le credenziali di una persona che meriti riconoscimenti per aver contribuito alla pace e la comprensione a livello internazionale.

Perseguita per crimini di guerra

In parecchie occasioni Livni ha dovuto sfuggire all’arresto o agli interrogatori da parte di autorità giudiziarie che cercavano di inquisirla per crimini di guerra nel Regno Unito, in Svizzera e in Belgio.

Assegnare il Brückepreis a una politica israeliana accusata di crimini di guerra “contribuirebbe a ripulire l’immagine dei crimini dell’occupazione israeliana a danno dei palestinesi e incentiverebbe ulteriormente i politici israeliani ad accentuare le atrocità contro i palestinesi, sapendo che tali brutalità non danneggerebbero la loro posizione internazionale,” aggiunge Euro-Med Monitor.

Eppure tristemente in Germania la classe dirigente continua a credere che offrire un appoggio incondizionato a Israele indipendentemente da quali crimini commetta ed elogiare i criminali di guerra israeliani sia un modo per espiare l’uccisione da parte del governo tedesco di milioni di ebrei europei. La vera lezione da trarre dai crimini della Germania dovrebbe essere che nessuno possa sfuggire al dover rendere conto dei crimini di guerra, compresa Tzipi Livni.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Docenti di studi ebraici: “Rifiutiamo l’apartheid, l’annessione e l’occupazione”

Oren Ziv

16 giugno 2020 – +972

Oltre 500 docenti di studi ebraici firmano una petizione contro i piani di annessione di Israele che, affermano, consolideranno la “situazione di apartheid” nei territori occupati.

Oltre 500 docenti di studi ebraici di tutto il mondo hanno firmato una petizione contro i piani del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu di annettere una buona parte della Cisgiordania occupata.

Secondo la petizione, che è stata pubblicata in inglese, ebraico e arabo, “la prosecuzione del l’occupazione e l’intenzione dichiarata dell’attuale governo israeliano di annettere parti della Cisgiordania, determineranno formalmente (de jure) la creazione di condizioni di apartheid in Israele e Palestina “.

“In questo momento storico di svolta, ancora incerto e pericoloso”, afferma la petizione, “rifiutiamo l’annessione e l’apartheid, il razzismo e l’odio, l’occupazione e la discriminazione. Ci impegniamo per una cultura aperta di studio, cooperazione e critica sulla questione israelo-palestinese. “

Non è chiaro quanto della Cisgiordania occupata, se non di tutta, Netanyahu annuncerà formalmente l’annessione. Il primo ministro ha ripetutamente dichiarato la sua intenzione di annettere almeno il 30 % del territorio a partire dal 1 ° luglio.

Tra i firmatari vi sono importanti accademici del settore degli studi ebraici negli Stati Uniti, tra cui il rabbino Chaim Seidler-Feller dell’UCLA [Università della California di Los Angeles, ndtr.], il professore di Yale Samuel Moyn e Chana Kronfeld dell’UC Berkeley.

La petizione afferma inoltre che il governo israeliano ha chiarito che i palestinesi della Cisgiordania che sarà annessa a Israele non riceveranno la cittadinanza e che “i risultati più probabili … saranno un’ulteriore disparità di distribuzione delle risorse territoriali e idriche a vantaggio delle illegali colonie israeliane, una più estesa violenza di stato e [l’esistenza di] enclavi palestinesi parcellizzate sotto il completo controllo israeliano.”

In tali circostanze, prosegue la petizione, l’annessione “consoliderà un sistema antidemocratico giuridico separato e diseguale e una discriminazione sistematica contro la popolazione palestinese”, che secondo i firmatari equivarrà a una “situazione di apartheid”. Un tale passo, avvertono, porterà a un “inevitabile picco di antisemitismo e islamofobia, con una polarizzazione tra comunità minoritarie”.

Secondo Mira Sucharov, docente associata di Scienze politiche alla Carleton University di Ottawa, in Canada, i passi di Israele verso l’annessione segnalano una “ulteriore pericolosa tendenza verso l’ apartheid totale. I diritti territoriali e umani dei palestinesi sono a rischio. La democrazia in Israele sta subendo un ulteriore degrado.”

“L’annessione è la prosecuzione di processi di lungo periodo, ma rappresenta comunque una svolta molto pericolosa”, afferma il prof. Nitzan Lebovic della Lehigh University in Pennsylvania, uno degli accademici autori la petizione. “Siamo rimasti sorpresi dalla risposta immediata di molti firmatari”, afferma. “Non ci sono state obiezioni sulla parola ‘apartheid’. Questa è stata una risposta alla svolta a destra di Israele negli ultimi anni”.

“La questione non è solo la dichiarazione di annessione di Netanyahu, ma ciò che sta succedendo dal 1948, e in particolare dal 1967, con l’annessione di 64 km2 intorno a Gerusalemme insieme a decine di migliaia di palestinesi. L’annessione creerà due regimi politici e civili – uno per gli ebrei e uno per gli arabi. In termini di diritto internazionale, questo è stato definito come una prosecuzione del concetto di apartheid “.

Secondo Lebovic, l’annessione contribuirà a un incremento dell’antisemitismo, nonché dell’islamofobia e del razzismo contro altri gruppi minoritari. “L’annessione è vista come un passo unilaterale da parte dello Stato di Israele, ma avrà implicazioni per ogni ebreo nel mondo. Come docenti universitari, siamo ripetutamente chiamati a spiegare le azioni di Israele. L’annessione ci metterà in una posizione in cui non saremo in grado di spiegare perché Israele abbia deciso di istituzionalizzare il suo attacco al diritto internazionale. La comunità ebraica si trova nella posizione di dover dichiarare [di essere] un’identità distinta da Israele. Israele deve decidere se questo sarebbe un risultato desiderabile “.

Nel frattempo, 240 giuristi di tutto il mondo, incluso Israele, hanno firmato una petizione diversa contro l’annessione, affermando che costituirebbe una “flagrante violazione delle regole fondamentali del diritto internazionale e determinerebbe anche una grave minaccia alla stabilità internazionale in una regione instabile “.

Oren Ziv è fotoreporter, membro fondatore del collettivo di fotografia Activestills [collettivo di fotografi impegnato nel sostegno dei diritti dei popoli oppressi con particolare riguardo ai palestinesi, ndtr.] e redattore dello staff di Local Call [versione in lingua ebraica di +972 , ndtr.]. Dal 2003 ha documentato una serie di questioni sociali e politiche in Israele e nei territori palestinesi occupati, con particolare attenzione alle comunità di attivisti e alle loro lotte. I suoi reportage si sono concentrati sulle proteste popolari contro il muro e le colonie, sulle case popolari e altre questioni socio-economiche, sulle lotte contro il razzismo e la discriminazione e sulla battaglia a favore della libertà degli animali.

(traduzione dall’inglese di Aldo lotta)