La responsabile UE per la lotta all’antisemitismo non ha l’incarico di ripetere a pappagallo le menzogne di Israele

David Cronin  

2 giugno 2020 – Electronic Intifada

 

Katharina von Schnurbein, ccordinatrice dell’Unione europea contro l’antisemitismo, si è confrontata con le sfide poste dal confinamento di COVID-19.

Non potendo coltivare di persona i rapporti con i lobbisti filo-israeliani, si è invece mantenuta in contatto con loro online.

Sembra che da quando nel dicembre 2015 è stata nominata all’attuale carica, von Schnurbein abbia mantenuto buoni rapporti con i sostenitori di Israele. Ma, come funzionaria pubblica, è questo che prevede il suo mandato?

Dopo molte insistenze, ho finalmente ottenuto il mansionario redatto per von Schnurbein dall’amministrazione UE.

Il documento – che delinea i suoi principali compiti e responsabilità – non nomina Israele nemmeno una volta.

L’omissione è strana visto che vi sono forti ragioni per sospettare che la carica di von Schnurbein sia stata creata con l’unico obiettivo – o almeno l’obiettivo principale – di compiacere Israele e i suoi sostenitori.

L’idea stessa che l’UE nominasse un coordinatore contro l’antisemitismo è stata proposta durante un evento ospitato dal Ministero degli Esteri israeliano all’inizio del 2015.

Mentalità distorta

La descrizione del lavoro di Von Schnurbein la impegna a “collaborare strettamente con la comunità ebraica” e ad avvisare i responsabili politici dell’UE delle preoccupazioni di quella comunità.

L’espressione “comunità ebraica” non è sinonimo di Israele.

Anzi, ritenere “comunità ebraica” sinonimo di Israele sarebbe antisemita. Considererebbe gli ebrei europei responsabili dell’oppressione dei palestinesi da parte di Israele.

E se la burocrazia di Bruxelles utilizza effettivamente i termini “comunità ebraica” e “Israele” come intercambiabili, allora è colpevole dello stesso pensiero distorto che pervade l’élite americana.

Sia Joe Biden che Donald Trump hanno lasciato intendere che gli ebrei negli Stati Uniti siano indistinguibili da Israele.

Ma le comunità ebraiche non sono monolitiche, da nessuna delle due sponde dell’Atlantico.

Gli ebrei in Europa hanno una vasta gamma di opinioni su Israele, ma von Schnurbein e i suoi colleghi cercano di alterare questa realtà. Gli ebrei critici di Israele e della sua ideologia di stato sionista sono stati esclusi dalle deliberazioni dell’UE sull’antisemitismo.

Von Schnurbein lavora nel dipartimento di giustizia della Commissione europea – l’esecutivo dell’UE. Il suo lavoro è presumibilmente regolato da una carta dei diritti.

Quella carta difende il diritto di avere ed esprimere opinioni e idee “senza interferenze da parte dell’autorità pubblica”.

Lungi dal rispettare questo diritto, von Schnurbein ha cercato di mettere sotto controllo le opinioni critiche su Israele.

Una menzogna oltraggiosa

Ha mosso accuse false e calunniose contro attivisti della solidarietà con i palestinesi, in particolare quelli che spronano a boicottaggio, disinvestimento e sanzioni.

L’anno scorso, all’incontro inaugurale a Bruxelles, von Schnurbein ha parlato di uno “studio” del governo israeliano sul movimento BDS.

Nelle sue dichiarazioni, ha accusato gli attivisti del BDS di aver criticato il cantante Matisyahu perché è ebreo. Una menzogna oltraggiosa.

La verità è che Matisyahu è stato condannato dagli attivisti perché ha raccolto fondi per l’esercito israeliano e ha plaudito ad un attacco contro la flottiglia in viaggio verso Gaza, non per la sua religione o etnia.

E nel 2018 von Schnurbein ha disatteso la neutralità politica richiesta ai dipendenti pubblici dell’UE per ripetere a pappagallo gli argomenti della lobby israeliana, calunniando un membro eletto al Parlamento europeo come antisemita.

La parlamentare aveva presentato un evento con un oratore palestinese, nonostante le obiezioni dei gruppi di pressione israeliani.

Lo statuto del personale dell’UE proibisce ai suoi funzionari di seguire le istruzioni emanate da governi esteri.

Ripetendo macchinalmente bugie architettate da Israele e dalla sua rete di sostenitori, von Schnurbein ha infranto quella regola.

Come può uscirne indenne? La spiegazione più plausibile è che goda del sostegno della gerarchia dell’UE.

Per quasi cinque anni von Schnurbein sarebbe stata tenuta a rispondere a Vera Jourova, membro ceco della Commissione europea. Jourova ha calunniato il movimento di solidarietà palestinese, usando termini estremamente simili, se non identici, a quelli di von Schnurbein.

È dal 2018 che cercavo di ottenere il mansionario del lavoro di von Schnurbein. Quando ho presentato la mia prima richiesta in base alla libertà di informazione, la Commissione europea ha rifiutato di rilasciare il documento.

Alla fine, tuttavia, ha consentito a farlo – dopo che ho sottoposto la questione al difensore civico dell’UE, organismo formale di difesa del cittadino.

Sostenevo che quel mansionario avrebbe dovuto essere reso disponibile per valutare se von Schnurbein fosse stata ufficialmente incaricata di perseguire un programma a favore di Israele.

La risposta della Commissione europea alla questione dimostra disprezzo per la democrazia.

Ursula von der Leyen, presidentessa della Commissione, rispose che era compito della gerarchia dell’UE giudicare il lavoro di von Schnurbein. L’opinione pubblica, sottintendeva von der Leyen, non deve occuparsi di simili questioni.

Significativamente la Commissione europea non ha cercato di negare che von Schnurbein persegua quelli che sembrano essere gli interessi di Israele.

Potrebbe esserci una prova più evidente di così?

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Che cosa c’è dietro l’entusiastico appoggio alla soluzione dello Stato unico?

Saleh Al-Naami

2 giugno 2020 – Middle East Monitor

Parecchi organi di informazione, alcuni dei quali collegati all’Autorità Nazionale Palestinese, hanno deliberatamente minimizzato la decisione di Israele di annettere parti della Cisgiordania, ed hanno addirittura salutato con favore la proposta. Sostengono che la sua attuazione porterà ad una soluzione “di Stato unico”, che alla fine consentirà ai palestinesi di comandare in Israele, data la loro superiorità demografica. È una teoria piuttosto fantasiosa.

Le persone che sostengono ciò ritengono che Israele concederà la cittadinanza ai palestinesi dei territori annessi, in modo che essi potranno automaticamente godere degli stessi diritti politici dei sionisti. È una follia pensarla così, e coloro che hanno plaudito all’idea sono individui malvagi che lo fanno per scoraggiare i palestinesi dal contrastare i piani di annessione israeliani.

Inoltre queste dichiarazioni creano una situazione che consente alla leadership dell’ANP di non essere incisiva nel contrastare Israele sull’annessione e nel proseguire o meno il coordinamento per la sicurezza con l’entità sionista. Tel Aviv ha confermato che non è stato attuato alcun significativo cambiamento riguardo a tale coordinamento, nonostante che il presidente dell’ANP Mahmoud Abbas abbia annunciato che il suo governo ha annullato tutti gli accordi con Israele.

È chiaro che le voci palestinesi che si appigliano a questa fuorviante strategia riguardo alla questione dell’annessione sviliscono la consapevolezza collettiva del popolo, presentando una visione molto semplicistica che ignora del tutto la realtà.

Benché il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu abbia dichiarato a Israel Hayom che Israele non concederà la cittadinanza israeliana ai palestinesi delle aree annesse, coloro che sostengono che la forza potenziale dell’annessione possa essere utilizzata in positivo, nonostante la sua debolezza, perseverano ancora nella loro illusione. Pur se la leadership dell’ANP non ha adottato questa posizione pubblicamente, neppure la contrasta, né smaschera i suoi obbiettivi. “Lo Stato unico” non sarà condannato dall’ANP, in modo da evitare di dover prendere le misure necessarie per combattere l’annessione.

Le voci palestinesi che invocano l’utilizzo dell’annessione come una spinta verso una soluzione dello “Stato unico” insultano il popolo palestinese e la sua consapevolezza. La gente è perfettamente cosciente che il governo di estrema destra di Netanyahu andrà avanti con l’annessione per giudaizzare la terra palestinese e creare ulteriori situazioni di fatto. Non permetterà nulla che possa minacciare il carattere “ebreo” di Israele concedendo la cittadinanza israeliana ad altri palestinesi; ricordiamoci che gli arabo-palestinesi sono già il 20% degli israeliani.

Netanyahu ha reso il compito di queste posizioni molto difficile. Il suo rifiuto di concedere la cittadinanza israeliana ai palestinesi delle aree che saranno annesse significa che tale processo fornirà una cornice politica al regime di apartheid in Cisgiordania.

Ciò che solleva dei dubbi circa le ragioni che spingono le persone a fare appelli per lo “Stato unico”, in particolare coloro che sono legati all’ANP e ai suoi servizi di sicurezza, è il fatto che il lancio di tali idee avviene in un contesto in cui l’autorità di Ramallah manda messaggi rassicuranti allo Stato occupante riguardo alle sue reali motivazioni. Per esempio, i media sionisti hanno riferito che gli incontri per la cooperazione sulla sicurezza tra i leader dell’ANP e Israele sono tuttora in corso. Inoltre l’ANP sottolinea che non permetterà nessuno scoppio di “violenze”, intendendo le azioni di resistenza contro l’occupazione militare israeliana. È ovvio che contrastare azioni di resistenza richiede un qualche coordinamento di sicurezza con Israele.

Quindi questi messaggi ambigui stanno fondamentalmente invitando i palestinesi ad arrendersi e ad accettare l’annessione israeliana per consentire all’ANP di evitare un confronto che potrebbe costarle un prezzo molto alto. Devono essere fermati.

Questo articolo è stato pubblicato in arabo su ‘the New Khaleej’ il 1 giugno 2020

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Qual è il futuro della resistenza popolare palestinese a Gaza? Un colloquio con la giornalista Wafaa Aludaini

Ramzy Baroud e Romana Rubeo

2 giugno 2020 – Palestine Chronicle

Wafaa Aludaini è una testimone di molte delle recenti tragedie di Gaza ed anche della sua resistenza senza fine. Ha sperimentato la violenta occupazione israeliana, il successivo blocco dell’impoverita Striscia e varie guerre che hanno portato alla morte e al ferimento di decine di migliaia di palestinesi.

Ma nessuna delle guerre di Israele ha ha avuto un tale impatto sulla vita di Aludaini quanto il massacro del 2014 che Israele ha denominato “operazione Margine Protettivo”.

Tra le circa 18.000 case distrutte dalle bombe israeliane lo sono state anche una della famiglia di Wafaa e l’altra della famiglia di suo marito.

Durante i bombardamenti durati 51 giorni le infrastrutture di Gaza, già in rovina in seguito a precedenti guerre e a un lungo assedio, hanno subito un pesante colpo.

La perdita più insostituibile è stata quella di vite umane, in quanto 2.251 palestinesi sono stati uccisi e oltre 11.000 feriti, molti dei quali mutilati per sempre.

Tuttavia guerra e assedio hanno solo rafforzato la risolutezza di Wafaa in quanto si è impegnata ancor di più nell’informare da Gaza, sperando di svelare verità a lungo nascoste e sfidare la narrazione prevalente dei media e gli stereotipi più diffusi.

Durante la “Grande Marcia del Ritorno”, un movimento popolare iniziato il 30 marzo 2018, Wafaa si è unita ai manifestanti informando giornalmente dell’uccisione e del ferimento di giovani disarmati che accorrevano nei pressi della barriera che separa Gaza da Israele per chiedere la libertà e i propri diritti umani fondamentali.

Infuriati dai quotidiani slogan dei rifugiati di “Fine all’assedio” e “Palestina libera” e dall’insistenza risoluta sul loro “Diritto al Ritorno” ai villaggi d’origine in Palestina, che subirono la pulizia etnica durante la nascita violenta di Israele nel 1948, i cecchini israeliani hanno aperto il fuoco. Nei primi due anni della Marcia [del Ritorno] sarebbero stati uccisi oltre 300 palestinesi e migliaia feriti.

Aludaini era là durante tutta questa dura prova, informando su morti e feriti, consolando famiglie in lutto e partecipando anche a un momento storico, quando tutta Gaza si è sollevata e si è unita dietro a un unico canto di libertà.

Aludaini non è stata una tipica giornalista che corre dietro ad una storia nei pressi della barriera, in quanto è stata sia la storia che la narratrice.

Sono una giornalista, ma anche una rifugiata. I miei genitori furono espulsi dal loro villaggio in Palestina, che oggi è Israele,” afferma.

Non è facile essere giornalista a Gaza, perché ogni giorno rischi di essere uccisa, ferita o arrestata dalle forze di occupazione israeliane. Di fatto molti giornalisti sono stati uccisi dal fuoco israeliano in questo modo.”

Sul perché abbia scelto il giornalismo come professione benché abbia studiato letteratura inglese in un’università di Gaza, Aludaini sostiene che più ha compreso come i principali mezzi di informazione raccontano della Palestina più si è sentita frustrata dalla descrizione scorretta della Palestina e della lotta dei palestinesi.

I giornalisti che propongono la narrazione sulla Palestina nei principali media stanno in un certo modo aiutando l’occupazione israeliana a uccidere più persone innocenti in Palestina, e in particolare nella Striscia di Gaza. Stanno rafforzando la gente (gli israeliani) che ci espulse nel 1948, incoraggiandola a violare le leggi internazionali,” dice Aludaini.

Chiedo a loro di venire qui, in Palestina, a vedere con i propri occhi, a vedere il muro dell’apartheid, a vedere i checkpoint, a vedere quello che sta succedendo nelle carceri israeliane. Solo dopo che avranno visto con i propri occhi potranno dire la verità, perché i giornalisti dovrebbero dire la verità e stare dalla parte dell’umanità, indipendentemente dalla religione e di qualunque altra cosa.”

Allo stesso modo Aludaini sfida i “difensori dell’occupazione israeliana” a venire in Palestina e ad “ascoltare le persone a cui sono stati uccisi i figli; quelle che sono state espulse dalle proprie case. In ogni casa in Palestina c’è una storia di sofferenza, ma non troverai mai (queste storie) nei media più importanti.”

Riguardo alla Grande Marcia del Ritorno Aludaini afferma che è stata “una protesta popolare, in cui la gente di Gaza si è riunita presso la barriera di separazione tra Gaza e Israele” per manifestare varie forme di resistenza centrate soprattutto sulla resistenza culturale.

I manifestanti hanno portato avanti varie forme di “attività tradizionali, come ballare la dabka [ballo tipico palestinese, ndtr.], cantare vecchie canzoni, cucinare piatti palestinesi,” afferma Aludaini, notando che le scene più toccanti sono state quelle di “anziani palestinesi che portavano le chiavi delle case da cui vennero espulsi a forza nel 1948 durante la Nakba,” cioè la Grande Catastrofe.

Questa forma di resistenza popolare non è nuova per i palestinesi, in quanto essi hanno sempre usato tutti i mezzi a disposizione per lottare per i propri diritti, contro l’occupazione (militare israeliana), come le proteste settimanali (alla barriera di Gaza), o (l’atto simbolico di) lanciare pietre. Persino quando i gazawi hanno fatto ricorso alla resistenza armata la gente non ha mai smesso si mettere in atto anche forme di resistenza popolare.”

Ma questa è la fine della Marcia del Ritorno?

Aludaini dice che la Marcia non è finita, tuttavia la strategia verrà ridefinita per ridurre il numero di vittime.

Dopo circa tre anni di proteste l’Alto Comitato della Grande Marcia del Ritorno ha deciso di cambiare l’approccio delle proteste. D’ora in avanti le marce si terranno solo in occasioni nazionali invece che ogni settimana, perché Israele usa forze letali contro manifestanti pacifici e disarmati.”

Secondo Aludaini il ministero della Salute di Gaza, già in crisi per la mancanza di materiale sanitario, elettricità e acqua potabile, non può più sostenere la pressione di morti e feriti quotidiani.

La stessa Aludaini ha passato molte ore negli ospedali di Gaza, a intervistare e confortare i feriti. Ci ha detto di una madre di Gaza con quattro figli che ha partecipato ogni venerdì senza mai mancare alla Marcia. “Un giorno è stata colpita a una gamba, e faceva fatica a camminare. Ma il venerdì seguente è tornata alla barriera. Quando le ho chiesto perché fosse tornata nonostante la ferita mi ha detto: ‘Non permetterò mai agli israeliani di rubare la mia terra. Questa è la mia terra, questi sono i miei diritti e tornerò continuamente (a difenderli).’”

Per Aludaini è la resilienza di quelle persone apparentemente ordinarie che la ispira e le dà speranza.

Un’altra storia riguarda una diciannovenne che implorava continuamente i suoi genitori di unirsi alle proteste. Quando finalmente hanno ceduto, la giovane è stata colpita a un occhio da un cecchino. Aludaini e i suoi compagni sono corsi all’ospedale per dimostrare solidarietà alla manifestante che aveva perso un occhio per poi trovarla con il morale alto, più forte e determinata che mai.

Ci ha detto che appena avesse lasciato l’ospedale pensava di tornare alla barriera.”

Aludaina smentisce la “propaganda israeliana” secondo cui le sue guerre e la continua violenza a Gaza sono motivate dall’autodifesa. Se così fosse “perché Israele prende di mira la Cisgiordania, anch’essa sottoposta all’annessione e all’apartheid?” chiede.

(In genere) non c’è resistenza armata (in Cisgiordania), ma nonostante ciò (l’esercito israeliano di occupazione) continua ogni giorno ad uccidere persone.”

Aludaini, frustrata dalla scarsa importanza data agli studi mediatici nelle università di Gaza, è determinata a continuare il suo lavoro come giornalista e come attivista perché, quando i media non denunciano i crimini di Israele a Gaza, sono persone come Wafa Aludaini che fanno la differenza.

Ramzy Baroud è giornalista ed editore di The Palestine Chronicle. È autore di cinque libri. Il suo ultimo è “Queste catene saranno spezzate: storie palestinesi di lotta e sfida nelle carceri israeliane” (Clarity Press, Atlanta). Baroud è ricercatore senior non residente presso il Center for Islam and Global Affairs (CIGA), Istanbul Zaim University (IZU).

Romana Rubeo è una giornalista italiana e caporedattrice di The Palestine Chronicle. I suoi articoli sono apparsi su molti giornali online e riviste accademiche. Ha conseguito un Master in Lingue e letterature straniere ed è specializzata nella traduzione audiovisiva e giornalistica.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Un cameraman palestinese è stato licenziato dall’Associated Press in seguito a un diverbio con l’Autorità Nazionale Palestinese

YUMNA PATEL  

29 maggio 2020 Mondoweiss

Il licenziamento di un cameraman da tempo in servizio alla AP (Associated Press) sta suscitando scalpore in Palestina per via delle accuse secondo cui l’ANP (Autorità Nazionale Palestinese) vi avrebbe avuto una parte.

Eyad Hamad, un giornalista di Betlemme che lavora con Associated Press da 20 anni, è stato licenziato dal suo incarico questa settimana dopo che la polizia dell’Autorità Nazionale Palestinese avrebbe presentato una denuncia all’Associated Press accusando Hamad di “istigazione, maltrattamenti e minacce di violenza”.

Sebbene l’Autorità Nazionale Palestinese abbia negato pubblicamente qualsiasi coinvolgimento, l’agenzia ha addotto il reclamo dell’Autorità Nazionale Palestinese come la goccia che ha portato al licenziamento di Hamad.

Nella lettera inviata ad Hamad dall’agenzia di stampa, che Mondoweiss ha potuto vedere, Josef Federman, capo dell’ufficio di Associated Press per Israele e i territori palestinesi, elenca una serie di “violazioni” della politica aziendale commesse da Hamad nell’ultimo anno.

La maggior parte delle violazioni elencate da Federman riguardano post “inappropriati” di Hamad che commentano i leader politici palestinesi sui social media, e il suo coinvolgimento nelle proteste contro Israele e contro le violazioni dell’Autorità Nazionale Palestinese nei riguardi dei giornalisti palestinesi, tra cui la sua partecipazione a una manifestazione per il giornalista palestinese Muath Amarneth accecato all’occhio destro da una pallottola israeliana.

“Come sa, la Associated Press richiede ai suoi dipendenti di mostrare una rigorosa neutralità nel loro lavoro professionale e nell’attività pubblica”, recita la lettera.

“Tuttavia, nonostante i numerosi avvertimenti degli anni passati, lei ha continuato a violare questo principio di base del nostro lavoro”, scrive Federman.

Un litigio personale finito male

La lettera di Associated Press sostiene che il licenziamento sarebbe dovuto a svariati casi, tra cui uno in cui Hamad avrebbe minacciato uno dei suoi colleghi, ma Hamad e suoi colleghi giornalisti affermano che il motivo del licenziamento sia stato un litigio personale tra Hamad e il portavoce della polizia dell’Autorità Nazionale Palestinese Luay Irzeiqat .

Secondo numerosi giornalisti del posto, i problemi per Hamad sono iniziati quando ha escluso Irzeiqat da un gruppo Whatsapp di giornalisti di zona, presumibilmente a causa del fatto che Hamad non voleva funzionari governativi nel gruppo.

“Dopo essere stato escluso dal gruppo, Irzeiqat ha iniziato a minacciare Hamad, dicendo che avrebbe chiamato l’Associated Press per farlo licenziare” ha detto a Mondoweiss Thaer Fakhouri, 31 anni, giornalista freelance di Hebron e membro del gruppo Whatsapp in questione.

Nella stessa settimana, le autorità palestinesi hanno arrestato Anas Hawari, un giovane giornalista che ha lavorato con la rete di notizie Quds, affiliata ad Hamas.

La brutale detenzione di Hawari, che a quanto si dice è stato picchiato e ha dovuto essere ricoverato in ospedale a seguito del suo arresto, ha causato tumulti all’interno della comunità dei giornalisti in Cisgiordania, spesso oggetto di censura da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese e di campagne di arresti se ritenuti critici nei confronti del governo di Mahmoud Abbas.

Alcune fonti sostengono che a seguito dell’arresto di Hawari, Hamad avrebbe inviato una serie di messaggi vocali ai funzionari della sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese, tra cui Irzeiqat, condannando le loro azioni e minacciando di bruciare pneumatici di fronte al tribunale locale per protestare contro la detenzione di Hawari.

Hamad ha poi partecipato a una manifestazione contro l’arresto di Hawari davanti ad un edificio governativo dell’Autorità Nazionale Palestinese, mostrando un poster con su scritto: “Presidente Mahmoud Abbas, chiedo protezione dalle agenzie di sicurezza [palestinesi]”.

Nella lettera di licenziamento inviata da Associated Press, Federman fa cenno al fatto che la denuncia dell’Autorità Nazionale Palestinese contro Hamad includesse la presunta minaccia di bruciare pneumatici. Federman rimprovera Hamad anche per il suo ruolo nella protesta e le sue accuse contro l’Autorità Nazionale Palestinese di corruzione “insinuando che siano dei collaborazionisti”.

“Eyad [Hamad] non stava cercando di porre in discussione solo l’arresto di Anas [Hawari], ma anche la violenza usata dalla polizia palestinese”, ha detto Fakhouri a Mondoweiss, aggiungendo che Hamad ha parlato a lungo delle violazioni dei diritti dei giornalisti palestinesi, sia da parte delle amministrazioni israeliane che di quelle palestinesi.

“La stessa cosa vale per Muath”, ha continuato Fakhouri, riferendosi al caso di Muath Amarneh. “Eyad non voleva difenderlo solo come giornalista, ma come un essere umano ingiustamente accecato”.

“Non credo che difendere i diritti umani, anche come giornalista, dovrebbe essere considerato un crimine. Soprattutto non tale da farti perdere il lavoro”, ha detto Fakhouri.

Due pesi e due misure

La risposta locale al licenziamento di Hamad è stata di rabbia e shock: sia nei confronti di Associated Press per aver licenziato Hamad in quelle che molti considerano circostanze ingiuste, sia per l’evidente coinvolgimento dei funzionari dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Per quanto riguarda il licenziamento di Hamad, l’Associated Press ha dichiarato ai media che non avrebbe rilasciato dichiarazioni su “fatti personali”. Nel frattempo, l’Autorità Nazionale Palestinese ha continuato a negare di essere a conoscenza di una qualche denuncia presentata all’agenzia contro Hamad.

I giornalisti e gli attivisti locali si sono rivolti ai social media per chiedere che Hamad riavesse il suo posto, mentre il Sindacato Palestinese dei Giornalisti (PJS) ha condannato il “licenziamento arbitrario” di Hamad e ha invitato Associated Press a tornare indietro rispetto alla sua “decisione faziosa e ingiusta”.

“Come giornalista palestinese, sono preoccupato per le ripercussioni”, ha detto Fakhouri a Mondoweiss, affermando che molti dei suoi colleghi hanno espresso il timore che l’Autorità Nazionale Palestinese possa esercitare il proprio potere per indurre le agenzie di stampa locali e internazionali a licenziare chiunque la critichi apertamente.

“Sono stato arrestato sette volte dal governo palestinese a causa del mio lavoro con agenzie legate a fazioni politiche rivali”, ha detto Fakhouri.

Tutto ciò che vogliamo come giornalisti è di poter di mostrare al mondo ciò che sta accadendo qui sul campo senza paura di essere imprigionati dall’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania o da Hamas a Gaza.”

Un tema ricorrente nelle molte critiche alla decisione di Associated Press è stata la sensazione che se nella posizione di Hamad ci fosse stato un giornalista israeliano, la situazione sarebbe potuta andare diversamente.

Quando gli è stato chiesto se concordasse con quella sensazione, Fakhouri ha detto “Sì, credo che sarebbe stato diverso se non fosse stato un palestinese”.

“Molti giornalisti israeliani erano in precedenza soldati israeliani, che tutti i giorni sparavano e uccidevano i palestinesi”, ha detto Fakhouri, aggiungendo che “alcuni di loro servono ancora nelle riserve militari”.

“Come può essere che si faccia parte di un apparato militare che commette crimini di guerra ed essere un giornalista ‘imparziale’ come si vanta di essere l’Associated Press?” si chiede Fakhouri.

“Perché difendere i diritti umani e la libertà di stampa è motivo di licenziamento e le violazioni israeliane dei diritti umani no?”

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Gli attivisti palestinesi hanno 2 miliardi di opportunità per insistere sul disinvestimento

Asa Winstansley

30 maggio 2020 – Middle East Monitor

La campagna di solidarietà con la Palestina (PSC) ha pubblicato venerdì una nuova banca dati che documenta i molti modi in cui i contributi pensionistici degli impiegati delle amministrazioni locali sono impropriamente utilizzati in investimenti a favore dell’occupazione israeliana.

Il nuovo studio elenca una lunga lista di società israeliane e internazionali coinvolte nell’occupazione israeliana in cui sistemi pensionistici investono i propri capitali.

Sono incluse HSBC, la banca Barclays, General Electric, Microsoft e Serco [azienda di trasporti, controllo traffico aereo, prigioni, armi ecc. ndtr].

Il coinvolgimento di queste aziende nell’occupazione della Cisgiordania è ben documentato. Si può controllare il proprio fondo per vedere quali di queste ditte complici abbiano degli investimenti.

Il database è semplice da usare e offre dettagli chiari e concisi su quanto il fondo e le società siano complici.

Molti di questi fondi hanno “politiche di investimento etico” ma, come avviene spesso, si tratta semplicemente di un’operazione pubblicitaria e di facciata.

Ora gli attivisti hanno un’occasione d’oro per far pressione sui loro fondi affinché disinvestano.

Campagne di successo potrebbero facilmente condurre a lungo termine queste società al disinvestimento di queste società dall’occupazione israeliana.

Il movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) ha avuto, nel corso degli anni, molte vittorie simili, un fenomeno così preoccupante che negli ultimi cinque anni il governo israeliano ha destinato un intero ministero (quello degli “Affari Strategici”) a una guerra globale semi-clandestina contro il movimento.

Il nuovo database della PSC fa seguito alla sua più recente vittoria. La Corte Suprema [della Gran Bretagna, ndtr.] ha deliberato in aprile contro il regolamento del governo conservatore del 2016 che vieta alle autorità locali di disinvestire da Israele (tecnicamente contro ogni governo estero, ma, in realtà, il provvedimento mirava a proteggere solo Israele).

Il movimento PSC aveva pubblicato a novembre un database simile relativo agli investimenti di università inglesi in società complici con l’occupazione israeliana.

Si ricordi che in base al diritto internazionale le colonie israeliane in Cisgiordania costituiscono un crimine di guerra.

Eppure i manager di università e fondi pensionistici inglesi sono felici di investire in istituzioni israeliane e internazionali fortemente coinvolte nell’edificare, attrezzare e finanziare questi insediamenti illegali costruiti su terra sottratta ai palestinesi.

Dopo questa recente vittoria, sostenitori e attivisti hanno ora una grande opportunità di far pressione su queste istituzioni.

Società senza etica (e spesso immorali) come HSBC, Microsoft e simili, molto raramente sostengono il sionismo, l’ideologia ufficiale dello Stato di Israele. Guidate da capitalisti senza scrupoli si preoccupano solo dei propri bilanci.

Con pressioni sufficienti e costanti da parte di attivisti si potrebbe arrivare a una vittoria, perché spesso non vogliono la scocciatura della pubblicità dannosa derivante dall’essere associati in regimi coinvolti in abusi dei diritti umani, specie quando sono una piccola parte del totale dei loro investimenti.

Sebbene le somme coinvolte siano notevoli, per le società miliardarie si tratta di briciole.

È così che si è giunti alla vittoria all’Università di Leeds nel 2018 quando un piccolo gruppo di attivisti, sostenuto da una rete più ampia, è riuscito a fare sufficientemente pressione da far sì che l’università cedesse e disinvestisse da tre su quattro delle aziende prese di mira.

Dopo, naturalmente, i dirigenti dell’università hanno negato di aver accolto le richieste del BDS, ma è quasi sempre così. Corporazioni e grandi istituzioni non amano creare il precedente di aver ceduto ad alcuna forma di potere del popolo.

Nonostante ciò, i fatti sono i fatti e gli obiettivi sono stati in gran parte raggiunti.

Queste vittorie concrete, strategiche e tattiche sono l’essenza dei successi del movimento BDS.

La portata degli investimenti dei fondi delle amministrazioni locali in aziende complici che sono coinvolte nell’occupazione israeliana potrebbe far paura, ma si dovrebbe invece vedere come un’opportunità, anzi due miliardi di opportunità, per ottenere risultati concreti per i palestinesi, proprio qui, nel ventre del mostro, del Paese le cui macchinazioni coloniali hanno portato alla spogliazione e, in ultimo, alla pulizia etnica dei palestinesi.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Sono trascorsi dieci anni, ma il massacro della Mavi Marmara, a cui ho assistito, ancora mi segna

Jamal Elshayyal

30 maggio 2020 – Al Jazeera

Quando, nel 2010, i commando israeliani presero d’assalto la nave Mavi Marmara, vennero uccise nove persone mentre un’altra morì in seguito alle ferite.

Fu una notte che non dimenticherò mai. Un’esperienza che ha consolidato in me la missione fondamentale di essere un giornalista, ma mi ha anche ricordato in che mondo ingiusto viviamo. Dieci anni dopo, la necessità di una stampa libera è ancora più grande e l’ingiustizia del mondo è ancora più evidente.

Ero a bordo della Mavi Marmara, la nave ammiraglia di una flottiglia di natanti che trasportavano aiuti umanitari alla Striscia di Gaza sotto assedio illegale (sulla base del diritto internazionale). Era un grande evento, oltre 600 attivisti umanitari, politici e medici di 40 diverse Nazioni avevano messo insieme questa flotta per consegnare oggetti come incubatrici per bambini e medicine per la gente di Gaza.

I precedenti tentativi di rompere l’assedio marittimo imposto da Israele erano falliti, ma erano stati portati avanti con piccole imbarcazioni che trasportavano una manciata di passeggeri. Questo era diverso. Una campagna coordinata a livello internazionale per far luce sulla difficile situazione dei palestinesi a Gaza, che le Nazioni Unite avevano descritto come “la più grande prigione a cielo aperto del mondo”. La domanda che tutti si ponevano era: Israele avrebbe ceduto alle pressioni internazionali e avrebbe permesso agli aiuti di entrare, o avrebbe messo in pratica la sua minaccia e fermato le navi “ad ogni costo”, come aveva annunciato sfacciatamente l’allora ministro degli Esteri Avigdor Lieberman.

Un’alba mortale

Verso le 4 del mattino del 31 maggio 2010 ricevemmo la risposta. Nonostante gli attivisti per la pace presenti nella flottiglia avessero cambiato la rotta delle navi e fossero rimasti in acque internazionali, i commando israeliani, a bordo di elicotteri e motoscafi e supportati a distanza da un’enorme nave da guerra, attaccarono. Mentre molti passeggeri pregavano, forti esplosioni di granate assordanti e candelotti lacrimogeni e poi il fragore degli spari di proiettili veri riempirono l’aria. In un attimo, quella che era una notte pacifica nel mezzo del Mar Mediterraneo si trasformò in un’alba di morte e orrore.

Otto cittadini turchi e un cittadino turco americano furono colpiti e uccisi durante l’assalto alla nave, e un altro cittadino turco morì in seguito per le ferite. Altre decine di persone rimasero ferite.

È stato il mio primo reportage importante per Al Jazeera, la prima volta in cui vidi colpire a morte qualcuno di fronte a me: era un collega giornalista. Ucciso da un proiettile alla testa mentre impugnava la macchina fotografica per scattare foto dell’attacco, cercando di documentare ciò che stava accadendo. Quando cadde a terra, parte del suo sangue mi ricoprì le scarpe. Fu un momento vividamente surreale; sono ancora scioccato da come fui allora in grado di girargli intorno puntando su di lui la telecamera per riprendere la sua morte. La testimonianza sulla sua morte venne registrata solo un paio di giorni dopo, mentre ero seduto dentro una cella israeliana dopo essere stato illegalmente arrestato insieme agli altri giornalisti.

Scrissi un breve resoconto, centrato sulla cronologia degli avvenimenti di quella notte, dopo il nostro rilascio dal carcere. Ma 10 anni dopo, mi ritrovo a raccontare alcuni degli avvenimenti più sconvolgenti a cui ho assistito. Come l’impotenza sui volti dei medici mentre lottavano invano per salvare la vita di tre passeggeri che erano stati colpiti dagli israeliani, ma sapendo benissimo che non sarebbero stati in grado di farlo perché non avevano gli strumenti necessari . O l’altruismo dell’organizzatore della flottiglia nel togliersi la camicia bianca e usarla come una bandiera, in piedi di fronte al commando israeliano, per esortarli a smettere di uccidere i passeggeri. O l’anziano palestinese che era stato espulso da casa sua nel 1948 da bambino e sognava di tornare in patria, per poi vederlo piangere nel momento in cui si rese conto che il suo sogno non avrebbe mai potuto diventare realtà.

Sostenere la forza della testimonianza

Il mio lavoro all’epoca era quello di raccontare questa storia in modo onesto e preciso, ed era ciò in cui credo, cosa che ha fatto infuriare le autorità israeliane che durante la mia detenzione hanno finito per trattarmi peggio rispetto agli altri giornalisti. All’epoca il governo israeliano cercò di giustificare il suo attacco alla flotta umanitaria disarmata sostenendo che i passeggeri fossero in possesso di armi e affermando persino che la nave fosse entrata nelle acque territoriali israeliane. Probabilmente sarebbero riusciti a convincere il mondo di tale versione, se non fosse per il fatto che giornalisti come me erano a bordo ed in grado di trasmettere in video le prove che non solo non esistevano armi a bordo, ma anche che al momento dell’attacco ci trovavamo in acque internazionali. Questa è la parte che ha rafforzato in me [la consapevolezza, ndtr.] del potere del giornalismo: garantire che la testimonianza sia sempre chiara e che i potenti non riescano a riscrivere i libri di storia.

Tuttavia la questione è: a che serve mettere le cose in chiaro se le persone innocenti vengono comunque uccise, gli assassini non vengono puniti e i giornalisti che le documentano sono presi di mira?

Non sono sicuro di avere una risposta convincente, perché negli ultimi 10 anni gli alleati di Israele hanno usato il loro potere di veto alle Nazioni Unite per proteggere la potenza occupante dall’affrontare la giustizia, la Corte Penale Internazionale non ha perseguito coloro che hanno ordinato o perpetrato omicidi in alto mare e governi che affermano di sostenere gli ideali di libertà e i diritti umani non hanno fatto nulla per far sì che venga fatta giustizia. Di conseguenza, dal punto di vista di un giornalista, ciò ha portato i miei colleghi non solo ad essere illegalmente detenuti da Israele, come me, ma da allora ha provocato la morte di sette di loro.

Mentre ripenso a quella notte storica e rifletto su cosa è cambiato da allora, mentre sono infuriato perché non è stata fatta giustizia e, per molti aspetti, il mondo si è ancora di più abituato all’assassinio di persone innocenti, sono convinto nel mio intimo che se vogliamo avere qualche possibilità di rendere la nostra realtà un po’ meno ingiusta, dobbiamo proteggere i giornalisti e l’idea di una stampa libera. Perché, mentre le vittime potrebbero non avere mai giustizia, l’opinione pubblica possa almeno essere in grado di avere le idee chiare dopo aver riscontrato delle prove concrete sui suoi schermi e nelle sue fonti di informazione.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)