Israele. Jonathan Pollard, la spia che venne dal caldo

Sylvain Cypel

27 novembre 2020 – Orient XXI

Incarcerato nel novembre 1985 per spionaggio a favore di Israele e condannato all’ergastolo negli Stati Uniti nel marzo 1987, Jonathan Pollard ha goduto nel 2015 della libertà condizionata. Le restrizioni alla sua libertà di movimento sono state tolte questo 20 novembre dall’amministrazione Trump e ora può andare a vivere in Israele. Le reali motivazioni della sua incriminazione non sono mai state divulgate dalle autorità americane.

Siamo nell’ottobre 1998. Cinque anni dopo la firma degli accordi di Oslo, il 13 settembre 1993, il presidente americano Bill Clinton sogna di terminare il suo secondo mandato con un successo: far firmare una pace definitiva a israeliani e palestinesi. Ma in Medio Oriente niente sembra muoversi. O forse sì. Dopo l’arrivo al potere in Israele di un giovane politico ultranazionalista, Benjamin Netanyahu, le cose sembrano regredire. Non si negozia più niente e la colonizzazione dei territori palestinesi si rafforza ogni giorno. Quindi nella località di Wye River, in Maryland, Clinton riunisce Yasser Arafat e quello stesso Netanyahu, con cui ha pessimi rapporti. Era avvenuto lo stesso con il suo predecessore, George Bush padre (presidente dal 1989 al 1993), il cui segretario di Stato James Baker aveva fatto di Netanyahu una persona non grata, non benaccetta negli uffici di Washington.

Arafat va a Wye River sperando di firmare un accordo che estenda il suo potere e di far passare la zona di autogoverno palestinese in Cisgiordania, detta Zona A, almeno dal 13% al 30% del territorio. Ma Netanyahu è inflessibile. Propone di concedere ai palestinesi… l’1% di territorio in più. “È troppo,” avrebbe ironizzato Arafat, “perché non lo 0,1%?” I negoziati vanno male. Alla fine viene firmato un testo che promette di continuare le discussioni senza nessun progresso sostanziale. Ma, dopo aver firmato, Netanyahu torna da Clinton. “Presidente”, gli dice in sostanza, “ho da chiederle una cosa. Ho fatto tali e tante concessioni ad Arafat che mi sento in obbligo di tornare dal mio popolo con un elemento positivo. Mi conceda di portare con me Jonathan Pollard.”

Un “eroe” dell’estrema destra israeliana

Dopo qualche anno Pollard è effettivamente diventato un “eroe” dell’estrema destra israeliana, che presenta la sua incarcerazione come una manifestazione di antisemitismo. Di fatto il suo caso non sembra giustificare un ergastolo. In più, sostiene questa estrema destra, Pollard ha agito con l’unico obiettivo di proteggere Israele, un alleato incondizionato degli Stati Uniti. In breve diventa una sorta di prigioniero di coscienza. Se riuscisse a riportare in Israele Pollard insieme ai suoi bagagli, spiega Netanyahu a Clinton, riuscirà a farsi perdonare dalla tendenza colonialista israeliana più radicale per aver accettato di stringere la mano ad Arafat, questo “capo terrorista”, a Wye River. Ma Clinton rifiuta.

Il capo della CIA e il capo di stato maggiore della marina minacciano di dare le dimissioni se acconsento a questa richiesta,” avrebbe risposto. Le cose rimarranno così. Nessuno ha mai saputo se Clinton avesse veramente consultato quei due responsabili della sicurezza americana o se si fosse nascosto dietro la loro nota posizione per mascherare il suo rifiuto.

Chi è quindi questo Pollard, che marcisce in carcere e che ci deve passare trent’anni?

Analista nei servizi di informazione della marina americana, ha 31 anni quando viene arrestato nel 1985. È processato due anni dopo per “spionaggio a favore di uno Stato straniero” (in questo caso Israele). L’essenza dei motivi dell’accusa non viene specificata, ufficialmente per non divulgare i segreti che Pollard avrebbe reso noti. Gli anni passano, circolano voci: l’uomo, lasceranno filtrare i servizi americani, avrebbe fornito agli israeliani delle foto satellitari americane dei locali dell’OLP a Tunisi, che avrebbero consentito loro di assassinare in seguito alti dirigenti di quest’organizzazione. Un’accusa in verità poco plausibile: in primo luogo, la semplice divulgazione di quelle immagini difficilmente avrebbe potuto giustificare l’ergastolo. Inoltre, se è effettivamente avvenuto un bombardamento israeliano dei locali dell’OLP un mese prima dell’incarcerazione di Pollard, l’azione più grave, l’assassinio a Tunisi di Abu Jihad, il numero 2 dell’OLP, da parte di un commando israeliano è avvenuta…tre anni dopo il suo arresto. Infine i servizi israeliani disponevano verosimilmente di tutte le foto necessarie e non avevano bisogno dei loro alleati americani per agire. In breve la questione dei motivi reali per cui gli Stati Uniti hanno rifiutato per trent’anni di liberare questo “prigioniero di coscienza” un po’ particolare restano da scoprire.

Una volta che Pollard ha riconquistato appieno la sua libertà di movimento, un ex-capo della sede della CIA in Israele, Stephen Slick, ha dichiarato al Washington Post che “l’affaire Pollard è servito per dissuadere efficacemente i nostri alleati che sarebbero tentati di approfittare del loro rapporto bilaterale relativo alla sicurezza con noi.” In altri termini l’amministrazione americana al potere all’epoca del suo processo (in cui si era dichiarato colpevole) e tutte quelle che si sono succedute fino a Trump avrebbero ritenuto che la sua pena, indipendentemente dalle dimensioni e dal valore reale delle informazioni fornite da Pollard agli israeliani, dovesse servire da esempio. Attraverso Pollard, non è stata la sua persona ad essere presa di mira, ma in primo luogo la politica di uno Stato: Israele. Sulla base di questa ipotesi, il messaggio subliminale dell’atteggiamento inflessibile degli americani per trent’anni sarebbe che un alleato non può agire in modo così subdolo, qualunque sia la gravità del reato. Ci crede chi vuole credere che gli alleati non si spiino tra loro…

Un agente profumatamente pagato

Ma ci potrebbe essere di più. In primo luogo l’atteggiamento di Pollard prima della sua incarcerazione non favorisce la tesi del “prigioniero di coscienza”. È stato lautamente remunerato dal Mossad [servizio di intelligence estera di Israele, ndtr.] (si parla di 540.000 dollari dell’epoca, cioè 1.307.000 dollari attuali (1.097,000 euro), in sei o sette anni di “lavoro”). Ma prima di farsi pagare i suoi servigi dagli israeliani – è lui che si è rivolto a loro, non il contrario – aveva anche testato il terreno presso altri attori che immaginava fossero potenzialmente interessati alle sue informazioni: il Sudafrica dell’apartheid, la Cina popolare, il Pakistan, ricorda oggi Gideon Levy su Haaretz [giornale israeliano di centro sinistra, ndtr.].

Pollard sostiene di non aver agito che per motivazioni sioniste, ma ecco quanto valeva allora la sua coscienza”, ironizza il giornalista israeliano. Nel 1976, sette anni prima di diventare uno spione a pagamento, Pollard, uscito dall’università, aveva tentato di entrare nella CIA. Ammissione negata per non aver superato con successo il test con la macchina della verità. Un chiacchierone (blabbermouth) che parla a vanvera, avevano ritenuto i suoi esaminatori.

In seguito, contrariamente a quello che sostengono da trent’anni i circoli sempre più ampi dell’opinione pubblica israeliana (nel 1995 Pollard si è visto concedere la cittadinanza israeliana), forse è stato tenuto in carcere senza pietà (fino a Trump) non perché ha fornito ai suoi committenti solo delle informazioni di scarsa importanza, ma altre molto più critiche. È la tesi che aveva approfondito nel 1999 sul New Yorker [importante rivista USA, ndtr.] il giornalista d’inchiesta Seymour Hersh in un articolo intitolato “Il traditore”. All’epoca Hersh era una stella del giornalismo. Era stato lui che nel 1969 aveva rivelato il massacro commesso da un battaglione americano contro 300 civili vietnamiti nel villaggio di My Lai. Spesso discusso, questo giornalista d’inchiesta in acque profonde tornerà a ripetersi 34 anni dopo, quando nel maggio 2004 rivelerà, in tre successivi articoli, con testimonianze e foto a supporto, le terribili torture inflitte dai soldati americani a prigionieri irakeni ad Abu Ghraib.

Durante la sua lunghissima carriera Hersh ha coltivato contatti di prim’ordine all’interno dei servizi di sicurezza americani, a cominciare dalla CIA. La tesi che ha sostenuto 22 anni fa non è stata né smentita né confermata da fonti ufficiali americane. Ha tuttavia come principale pregio il fatto di essere suffragata da numerose testimonianze e di fornire una spiegazione molto più plausibile della vendetta americana contro Pollard, ma anche contro l’atteggiamento generale dei dirigenti israeliani. In sintesi, questa tesi è la seguente: Pollard venne reclutato dagli israeliani nel momento in cui il regime sovietico cominciava a vacillare, poco prima dell’arrivo di Mikhail Gorbaciov al potere. È stato in grado di fornire al suo referente dell’Ufficio dei Contatti scientifici israeliani (Lakam in ebraico) Rafi Eitan (che in seguito diventerà capo del Mossad) informazioni di cruciale importanza, in particolare sui sistemi e codici della National Security Agency (NSA), la più grande agenzia americana di spionaggio e di intercettazioni.

Allora gli israeliani iniziarono negoziati per consentire l’uscita di ebrei sovietici verso il loro Paese. Hersh nota che in un primo tempo gli israeliani erano particolarmente interessati agli “scienziati ebrei che lavoravano sulle tecnologie missilistiche e sulle questioni nucleari,” un’informazione che gli era stata passata da “un alto grado che ha fatto una lunga carriera alla CIA come capo della sede in Medio Oriente.” Secondo questo responsabile dello spionaggio americano Israele avrebbe “barattato queste informazioni con l’uscita [dall’URSS] di persone che desiderava far arrivare.”

A favore dell’URSS?

Hersh cita le affermazioni di William Casey, capo della CIA all’epoca e personaggio fino ad allora molto vicino ai dirigenti israeliani. Un mese dopo l’arresto di Pollard, costui dichiarò stupefatto: “Gli israeliani hanno utilizzato Pollard per ottenere tutti i nostri piani di attacco contro l’URSS – le coordinate, le zone di tiro, le sequenze, tutto! E per darle a chi? Indovinate: ai sovietici!” Cita anche un ammiraglio in congedo che gli ha dichiarato: “Non c’è alcun dubbio che i russi siano entrati in possesso di molte delle informazioni che Pollard ha fornito. La sola domanda è: come hanno fatto?”

Secondo Hersh fu la NSA, l’agenzia delle intercettazioni, ad essere stata la più “saccheggiata” da Pollard. Il suo manuale di lavoro, il Rasin (acronimo in inglese di “notazione di radio-segnale”) è stato integralmente fotocopiato da Pollard, che l’ha fornito agli israeliani prima che finisse in un cassetto del KGB. Hersh sostiene che nella sua dichiarazione segreta consegnata ai giudici, il ministro della Difesa americano al momento del processo, Caspar Weinberger, evocò quest’ultimo fatto come l’elemento chiave per la richiesta del massimo della pena contro Pollard.

In fondo Hersh suggerisce non solo che Pollard non abbia agito solo per alti motivi morali, ma che il livello massimo di punizione che gli è toccato non fosse semplicemente dovuto alle sue azioni. Attraverso lui fu Israele ad essere preso di mira per aver rotto le regole usuali tra alleati e amici, come ha detto William Casey, con metodi inqualificabili persino agli occhi di agenti segreti professionali. Hersh racconta che, quando la Casa Bianca, sotto Clinton, chiese ai servizi di intelligence un rapporto sull’affare Pollard, tredici anni dopo il processo, uno degli estensori del rapporto dichiarò, “in modo un po’ scherzoso”: “Io avrei immediatamente tolto di mezzo ogni obiezione alla liberazione di Pollard se il governo israeliano avesse risposto a due richieste: primo, dateci la lista completa di tutto quello che avete ricevuto [da Pollard], poi diteci quello che ne avete fatto.” In altri termini: ammettete che l’avete dato ai sovietici.

E Mordechai Vanunu?

Oggi la destra nazionalista e colonialista israeliana festeggia la fine della libertà condizionata come se si trattasse di un atto di giustizia. Ma si levano alcune voci fuori dal coro. Gideon Levy nota che si fa di Pollard un “eroe di Sion”, quando si tiene in carcere in Israele persino uno che ha lanciato un allarme, Mordechai Vanunu, ex-tecnico della centrale atomica di Dimona, il cui unico reato è stato di aver rivelato la realtà delle ricerche nucleari militari israeliane. Condannato nel 1988 a 18 anni di carcere (ne passerà 11 in isolamento totale), dalla sua liberazione rimane sottoposto a molteplici divieti di esprimersi o di incontrare stranieri, motivo per cui è stato condannato di nuovo a varie riprese. Considerato un prigioniero d’opinione dalle associazioni per la difesa dei diritti umani, è costantemente perseguitato dalle forze di sicurezza israeliane.

Sylvain Cypel

È stato membro del comitato di redazione di Le Monde [principale giornale francese, ndtr.] e in precedenza direttore della redazione del Courrier international [settimanale francese simile ad Internazionale, ndtr.]. È autore de Les emmurés. La société israélienne dans l’impasse  [I murati vivi. La società israeliana a un punto morto] (La Découverte, 2006) e de L’État d’Israël contre les Juifs  [Lo Stato di Israele contro gli ebrei ](La Découverte, 2020).

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA del periodo 3 – 23 novembre 2020

Durante il periodo di riferimento (3-23 novembre), a motivo della mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, sono state demolite o sequestrate 129 strutture, sfollando 100 palestinesi e provocando ripercussioni su oltre 200

[seguono dettagli]. L’episodio più grave è avvenuto il 3 novembre, a Humsa Al Bqai’a, dove sono state distrutte 83 strutture, sfollando 73 persone, tra cui 41 minori. Trenta strutture sono state demolite presso 12 Comunità in Area C, mentre le rimanenti 16 strutture si trovavano in Gerusalemme Est, dove sono riprese le demolizioni dopo tre settimane di sospensione (il 1° ottobre, le autorità israeliane avevano annunciato che, a causa della pandemia, avrebbero interrotto la demolizione degli edifici abitati della Città). Secondo le rilevazioni di OCHA, da gennaio 2020 ad oggi [23.11.2020], sono state demolite o sequestrate più strutture che in qualsiasi altro anno completo del periodo 2009-2019, escluso solo l’anno 2016.

Il 4 novembre, a un checkpoint a sud della città di Nablus, le forze israeliane hanno sparato, uccidendo un membro delle forze di sicurezza palestinesi non in servizio; secondo quanto riferito, l’uomo avrebbe aperto il fuoco contro i soldati. Secondo la Mezzaluna Rossa Palestinese, i soldati hanno impedito alla loro equipe medica di raggiungere l’uomo, il cui corpo è ancora trattenuto dalle autorità israeliane. L’8 novembre, vicino al Campo profughi di Al Fawwar (Hebron), le forze israeliane hanno colpito e ferito un altro palestinese che, secondo quanto riferito, avrebbe tentato di accoltellare i soldati.

In Cisgiordania cinquantacinque palestinesi sono stati feriti dalle forze israeliane [seguono dettagli]. Diciotto sono rimasti feriti nel contesto di tre operazioni di ricerca-arresto condotte nel Campo profughi di Qalandiya (Gerusalemme) e nella città di Ramallah. Altri 17 sono rimasti feriti durante le proteste contro le restrizioni di accesso e le attività di insediamento [colonico] a Kafr Qaddum (Qalqiliya) e Ras at Tin (Ramallah). Cinque palestinesi sono rimasti feriti al checkpoint del Distretto di Coordinamento (DCO- Ramallah), durante una commemorazione della morte del Presidente palestinese, Yasser Arafat. Tre uomini sono stati aggrediti fisicamente ad un checkpoint volante vicino a Beit Fajjar (Betlemme). I rimanenti feriti sono stati registrati durante altri scontri, o nel tentativo di entrare in Israele attraverso brecce nella Barriera.

In Cisgiordania le forze israeliane hanno effettuato 230 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 227 palestinesi. Il maggior numero di operazioni è stato registrato a Gerusalemme Est (61) e nel governatorato di Hebron (50).

Sono stati segnalati cinque episodi con danni ad ulivi o furti di prodotti ad opera di persone ritenute coloni israeliani. In tre degli episodi sono stati vandalizzati 64 ulivi in prossimità dei villaggi di Jalud (Nablus), Kafr Qaddum (Qalqiliya) e Al Khadr (Betlemme). Negli altri due casi sono stati rubati i raccolti di circa 1.000 ulivi vicino a Sa’ir (Hebron), e di dieci alberi da frutto a Burin (Nablus), dove sono stati sottratti anche attrezzi per la raccolta. Dal 7 ottobre, inizio della stagione di raccolta delle olive, almeno 35 attacchi da parte di individui noti come coloni israeliani o ritenuti tali, hanno provocato feriti tra i palestinesi, danni agli alberi o furti di prodotti.

In contesti diversi dalla raccolta delle olive, altre aggressioni ad opera di individui ritenuti coloni israeliani, hanno provocato ulteriori ferimenti di palestinesi o danni alla proprietà [seguono dettagli]. Quattro palestinesi sono rimasti feriti nei pressi di Silat adh Dhahr (Jenin): le auto su cui viaggiavano si sono schiantate dopo essere state colpite da pietre. Nell’area H2 di Hebron, in episodi separati, un palestinese di 10 anni è stato ferito dal lancio di pietre, un altro di 12 anni è stato aggredito fisicamente e materiali da costruzione ed un veicolo sono stati vandalizzati. Nella Comunità beduina di East Tayba (Ramallah) sono state rubate una ventina di pecore, mentre vicino ad As Sawiya (Nablus) è stata sottratta una capra. Secondo gli agricoltori di Turmus’ayya (Ramallah), coloni hanno distrutto un sistema di irrigazione ed hanno rubato attrezzi agricoli nel loro villaggio. Contadini di Far’ata (Qalqiliya) hanno riferito che coloni hanno rubato le recinzioni che circondano le loro terre. A Burqa (Nablus) e At Tuwani (Hebron), coloni hanno lanciato pietre contro le abitazioni, danneggiandone quattro, mentre a Nablus hanno colpito auto palestinesi in transito, danneggiandone una. A ‘Urif (Nablus) hanno spianato 1,7 ettari di terreno agricolo di proprietà palestinese. Nella vicina Jalud, coloni hanno recintato terreni privati palestinesi, collocandovi una tenda e tre serbatoi d’acqua.

Vicino alla recinzione perimetrale di Israele con Gaza e al largo della sua costa, presumibilmente per far rispettare le restrizioni di accesso, le forze israeliane hanno aperto il fuoco in almeno 20 occasioni; un pescatore è rimasto ferito. In tre occasioni, bulldozer israeliani hanno spianato il terreno all’interno di Gaza.

A Rafah e Deir al Balah (Gaza), due palestinesi, di 14 e 16 anni, sono stati feriti dall’esplosione di residuati bellici. Dall’inizio dell’anno, due palestinesi (un minore e un adulto) sono stati uccisi e altri otto, tra cui cinque minori, sono rimasti feriti da ordigni inesplosi.

Il 15 e 21 novembre, gruppi armati palestinesi a Gaza hanno lanciato tre razzi contro Israele, uno dei quali ha causato danni ad un magazzino in Ashkelon. In entrambi i casi, sono seguiti attacchi aerei israeliani, che hanno colpito siti militari, aree aperte e terreni agricoli in Gaza, provocando danni a 5.000 m2 di serre a Khan Younis.

Secondo fonti israeliane, aggressori, ritenuti palestinesi, lanciando pietre o bottiglie incendiarie, hanno ferito tre israeliani e danneggiato 19 veicoli israeliani che percorrevano strade della Cisgiordania.

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Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Il 25 novembre, a motivo della mancanza di permessi edilizi, le autorità israeliane hanno demolito 11 strutture di proprietà palestinese nell’area di Massafer Yatta, nel sud di Hebron. Queste includevano abitazioni, strutture di sostentamento e strutture idriche ed igienico-sanitarie, alcune delle quali erano state fornite come assistenza umanitaria. Venticinque persone sono state sfollate e oltre 700 subiscono ripercussioni. Tutte le sette Comunità prese di mira, tranne una, si trovano in una zona designata [da Israele] “area chiusa” e destinata all’addestramento militare. Le Comunità ivi residenti sono a rischio di trasferimento forzato.

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nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina:https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

o

nota: questo rapporto copre tre settimane; il prossimo rapporto sarà pubblicato
il 10 dicembre e coprirà il normale periodo di due settimane.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




L’espulsione di palestinesi a Sheikh Jarrah è parte della politica israeliana

Linah Alsaafin

20 novembre 2020 – Al Jazeera

La minaccia di espulsione dalle proprie case incombe sulla testa di almeno una decina di famiglie palestinesi che vivono a Sheikh Jarrah, quartiere della Gerusalemme est occupata, paralizzando ogni progetto per il futuro.

Ad ottobre il tribunale israeliano di Gerusalemme ha sentenziato di espellere 12 delle 24 famiglie palestinesi di Sheikh Jarrah e di consegnare le loro case a coloni ebrei israeliani. Il tribunale ha anche stabilito che ogni famiglia deve pagare ai coloni 70.000 shekel (circa 17.000 euro) di spese processuali.

Alle famiglie sono stati concessi 30 giorni per presentare appello, ma la maggioranza ha espresso scarse speranze in una sentenza a proprio favore, affermando che il sistema giudiziario israeliano non è altro che uno strumento della politica di occupazione israeliana di espulsione forzata e cancellazione della presenza palestinese a Gerusalemme.

Dall’ordine di espulsione abbiamo vissuto con il timore giornaliero di non sapere quando l’esercito israeliano arriverà e ci caccerà dalle nostre case,” dice Ahmad Hammad, un abitante di Sheikh Jarrah.

Tutti i miei ricordi sono qui. Sono nato qui e mio padre, le mie zie e zii, i miei nonni hanno vissuto in questa casa.”

Una macchina coloniale ben oliata”

Sheikh Jarrah, che si trova alle falde del Monte Scopus, subito a nord della Città Vecchia, ospita 3.000 palestinesi, tutti rifugiati che erano stati espulsi dalle loro case in altre parti della Palestina storica durante la Nakba [la Catastrofe in arabo, la pulizia etnica ad opera delle forze sioniste, ndtr.] nel 1948.

Il quartiere è una giustapposizione di zone ricche e povere, sede della Colonia Americana [fondata nel 1881 da membri di una società utopica cristiana, ndtr.] e degli hotel Ambassador. Ma la parte in cui vivono i rifugiati e i loro discendenti è segnata da strade non asfaltate e da case che sono in rovina a causa del fatto che il Comune di Gerusalemme impedisce ogni tipo di lavoro di ristrutturazione.

I rifugiati, 28 famiglie cacciate dalle loro case da Israele, poterono risistemarsi a Sheikh Jarrah nel 1956, dopo che la Giordania, che aveva un mandato sulla parte orientale di Gerusalemme, vi costruì case popolari per loro. Un accordo tra le Nazioni Unite e la Giordania stabiliva che le famiglie avrebbero ricevuto le case in cambio della rinuncia alla loro condizione di rifugiati con l’agenzia ONU per i rifugiati e che dopo tre anni il governo giordano avrebbe trasferito il titolo di proprietà alle famiglie.

Tuttavia ciò non avvenne e nel 1967 Israele si impossessò di Gerusalemme est.

Secondo Fayrouz Sharqawi, direttore della mobilitazione globale di “Grassroots Jerusalem” [Gerusalemme di base, associazione della società civile gerosolimitana, ndtr.], è “assurdo” basarsi sul sistema giudiziario israeliano per proteggere i diritti dei palestinesi.

Questo sistema è parte integrante dello Stato colonialista sionista, definito ‘Stato ebraico’, e di conseguenza opprime, spoglia ed espelle sistematicamente i palestinesi,” dice ad Al Jazeera.

Sentenze che sospendono momentaneamente gli ordini di espulsione o di demolizione servono solo ad Israele, in quanto creano l’illusione che sia uno Stato democratico in cui i tribunali ritengono responsabili il governo o l’esercito e impediscono le violazioni dei diritti dei palestinesi,” aggiunge.

Sharqawi dice che persino nel migliore degli scenari più di 70 anni di occupazione dimostrano che le decisioni dei tribunali rimandano ma raramente annullano questi ordini, che prima o poi sono messi in pratica. “I palestinesi, soprattutto a Gerusalemme, devono affrontare una macchina colonialista ben oliata: l’esercito e il sistema burocratico e giudiziario israeliani, che lavorano congiuntamente per la spoliazione ed espulsione dei palestinesi,” afferma.

Le espulsioni sono parte dell’“equilibrio demografico” israeliano

Per quanto riguarda Hammad, egli conosce fin troppo bene la situazione.

Non sono ottimista riguardo all’appello,” afferma. “Sento che ci vorrà più tempo, ma solo perché accada l’inevitabile. Abbiamo tutti i documenti e le prove necessari,” aggiunge. “Ma la sensazione prevalente è di timore e di vedere le nostre case tolte e assegnate ai coloni.”

Dagli anni ’70 il governo israeliano ha lavorato per mettere in pratica a Gerusalemme un “equilibrio demografico” con un rapporto di 70 a 30, limitando la popolazione palestinese in città al 30% o meno.

Questo progetto urbano è stato messo in atto attraverso una serie di politiche come la confisca di terreni, le espulsioni e la colonizzazione dei quartieri palestinesi.

Il 26 novembre il tribunale distrettuale di Gerusalemme ha autorizzato l’espulsione di 87 palestinesi dalla zona di Batan al-Hawa, nel quartiere di Silwan di Gerusalemme est occupata, a favore dell’organizzazione di coloni israeliani “Ateret Cohanim”[organizzazione che intende creare una maggioranza ebraica nei quartieri arabi di Gerusalemme est, ndtr.].

Gli 87 abitanti palestinesi di Batan al-Hawa hanno vissuto nelle loro case dal 1963. Dopo aver iniziato un procedimento giudiziario contro gli abitanti, “Ateret Cohanim” ha insediato 23 famiglie israeliane, pesantemente protetti, tra gli 850 abitanti palestinesi.

Altre organizzazioni di coloni, alcune finanziate da singoli cittadini statunitensi, includono [quella del quartiere religioso ebraico di] Nahalat Shimon e l’Israel Land Fund [Fondo per la Terra di Israele, storica organizzazione sionista che si occupa dell’acquisto e dello sfruttamento a favore degli ebrei delle terre in Palestina, ndtr.].

Secondo l’Ufficio ONU per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA), nel solo 2020 nella Cisgiordania occupata, compresa Gerusalemme est, sono state demolite 689 strutture, più di ogni altro anno dal 2016, lasciando senza casa 869 palestinesi.

Indiscutibilmente politico”

Per Mohammed al-Kurd, poeta e scrittore di Sheikh Jarrah che attualmente studia a New York, le evizioni di palestinesi, che descrive come “espulsioni forzate”, non sono solo un evento isolato.

È il percorso di un movimento di spoliazione duratura,” dice ad Al Jazeera.

Dobbiamo sempre costantemente ricordare alla gente che non si tratta solo di qualche povera famiglia palestinese (che) per qualche bizzarra ragione giuridica perde la sua proprietà. Ciò riguarda centinaia di migliaia di palestinesi in tutta Gerusalemme e nelle città vicine, nella Palestina in generale, che devono affrontare le feroci zanne di un sistema giudiziario concepito intrinsecamente per cacciarli.”

Al-Kurd aveva solo 11 anni quando nel novembre 2009 alcuni coloni ebrei occuparono con la forza metà della sua casa e descrive il fatto di aver dovuto condividerla con “occupanti abusivi con accento di Brooklyn” come “insopportabile, intollerabile (e) terribile.”

Si sono piazzati nella nostra casa, tormentandoci, maltrattandoci, facendo il possibile non solo per obbligarci ad andarcene dalla nostra metà della casa ma spingendo anche i nostri vicini a lasciare le proprie case come parte di un tentativo di annullare totalmente la presenza palestinese a Gerusalemme,” dice.

Haddad, cresciuto con al-Kurd, afferma che è difficile pensare e pianificare il futuro.

Non so quello che succederà se ci cacciano,” dice. “Questa sentenza è arrivata in un momento in cui la vita è arrivata a un punto morto a causa della pandemia da coronavirus.

Andiamo avanti alla giornata,” continua. “Anche se decidessimo di piantare una tenda fuori dalla nostra casa e viverci, il governo israeliano non ce lo consentirebbe.”

Al-Kurd sostiene che la sua famiglia non può permettersi di affittare un posto a Gerusalemme e l’unica alternativa sarà andare nella Cisgiordania occupata, dove perderanno la residenza a Gerusalemme e non potranno ritornare in città.

Questo è il problema più generale qui,” spiega. “Sono le demolizioni di case, le espulsioni forzate, le evizioni, ma è anche un problema psicologico, perdere la possibilità di rientrare a Gerusalemme.

Israele ha fatto in modo che questo sembri una specie di problema giuridico, ma non lo è, è indiscutibilmente politico.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




ONU: nella Striscia di Gaza assediata oltre un milione di palestinesi sono sotto la soglia di povertà

Barbara Bibbo

25 novembre 2020, Al-Jazeera

Il rapporto delle Nazioni Unite chiede la fine dell’assedio israeliano che dura da 13 anni e ha paralizzato ogni attività economica nell’enclave costiera.

Ginevra, Svizzera – Secondo un nuovo rapporto delle Nazioni Unite il blocco imposto da Israele alla Striscia di Gaza è costato all’enclave palestinese più di 16 miliardi di dollari e in poco più di 10 anni ha ridotto più di un milione di persone sotto la soglia della povertà.

Il documento fornito mercoledì all’Assemblea Generale dell’ONU dalla Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo (UNCTAD) copre gli anni tra il 2007 e il 2018.

Vi si chiede la cessazione immediata del lungo assedio, che ha causato un crollo quasi totale delle attività economiche a Gaza e un tasso di povertà del 56%.

“La situazione è destinata a peggiorare se il blocco continua”, ha detto Mahmoud Elkhafif, coordinatore dell’Assistenza al Popolo Palestinese dell’UNCTAD.

Questo blocco ingiusto che tiene chiusi due milioni di palestinesi all’interno di Gaza dovrebbe essere immediatamente revocato. Dovrebbero essere autorizzati a muoversi liberamente, fare affari, commerciare con il mondo esterno e riconnettersi con le loro famiglie al di fuori della Striscia”, ha aggiunto Elkhafif.

Dal giugno 2007 gli abitanti di Gaza sono confinati nell’enclave di 365 chilometri quadrati della Striscia e soggetti ad embargo terrestre, aereo e marittimo. L’ingresso delle merci è stato ridotto al minimo, il commercio con l’estero e le esportazioni sono bloccati. Nel frattempo, la popolazione ha un accesso molto limitato all’acqua potabile e manca di una normale fornitura elettrica e anche di un sistema fognario adeguato.

“Fino a che i palestinesi della Striscia non avranno accesso al mondo esterno, per la società palestinese di Gaza è difficile vedere altro che un destino di sottosviluppo”, ha detto Richard Kozul-Wright, direttore della Divisione Globalizzazione e Strategie di Sviluppo dell’UNCTAD. “È davvero scioccante che nel XXI secolo due milioni di persone possano essere lasciate in quelle condizioni”.

Oltre al prolungato blocco e alle restrizioni da parte del vicino Egitto, l’enclave gestita da Hamas ha subito tre interventi militari israeliani, nel 2007, 2012 e 2014, che hanno gravemente danneggiato le infrastrutture civili e causato numerose vittime.

Secondo il rapporto dell’UNCTAD almeno 3.793 palestinesi sono stati uccisi, circa 18.000 feriti e più della metà della popolazione di Gaza è sfollata.

Più di 1.500 imprese commerciali e industriali sono state danneggiate, insieme a circa 150.000 unità domestiche e infrastrutture pubbliche tra cui quelle per energia, acqua, servizi igienico-sanitari, e poi strutture sanitarie e scolastiche ed edifici governativi.

Come risultato dell’assedio e delle guerre contro Gaza, il tasso di povertà è balzato dal 40 % nel 2007 al 56% nel 2017, il che significa che più di 1 milione di palestinesi non hanno mezzi di sopravvivenza. Il rapporto stima che portare questa parte della popolazione al di sopra della soglia di povertà richiederebbe un’iniezione di fondi per un importo di 838 milioni di dollari, quattro volte l’importo necessario nel 2007.

Tra il 2007 e il 2018 l’economia di Gaza è cresciuta meno del 5% e la sua quota nell’economia palestinese è diminuita dal 31% al 18% nel 2018. Di conseguenza, il PIL pro capite si è ridotto del 27%.

Nel frattempo, l’isolamento della Striscia non ha impedito alla pandemia di coronavirus di raggiungere Gaza, aggravando una situazione già critica. Allo scorso lunedì, 14.768 persone avevano contratto il COVID-19, con 65 morti.

Lunedì, le autorità sanitarie di Gaza avevano segnalato il pericolo di una catastrofe imminente se Israele avesse continuato a bloccare l’accesso agli aiuti umanitari, nonché l’ingresso delle attrezzature sanitarie e delle forniture mediche necessarie. Gli ospedali e il personale sanitario necessitano di indumenti protettivi, ventilatori e letti.

“La crisi sanitaria sta rendendo evidenti le condizioni di base, peggiorate da oltre un decennio”, ha detto Kozul-Wright.

Parlando a Ginevra agli inviati delle Nazioni Unite, il funzionario dell’UNCTAD si è detto fiducioso che sotto la nuova amministrazione statunitense del presidente eletto Joe Biden ci sarebbe stato un cambiamento nelle relazioni israelo-palestinesi.

Nel 2018, l’amministrazione Trump aveva sospeso i finanziamenti all’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite che sostiene cinque milioni di rifugiati palestinesi a Gaza, nella Cisgiordania occupata, in Libano, Siria e Giordania.

Il taglio di 200 milioni di dollari è stato un colpo enorme per l’economia palestinese. Sarà interessante vedere se la nuova amministrazione annullerà quella decisione nei confronti dell’UNRWA ”, ha detto Kozul-Wright. “Tuttavia, anche prima del 2016, i diritti umani dei palestinesi e il diritto internazionale codificati dalla risoluzione delle Nazioni Unite sono stati ignorati e le tensioni politiche erano alte”.

Il rapporto chiede la fine del blocco nel contesto della risoluzione 1860 del Consiglio di sicurezza (8 gennaio 2009) per consentire il reintegro dell’economia di Gaza con il resto del mondo e la ricostruzione di tutte le infrastrutture essenziali.

Chiede anche il ripristino dei diritti umani fondamentali per gli abitanti di Gaza, il loro diritto alla libera circolazione, all’assistenza sanitaria, allo studio e al lavoro e raccomanda che allo Stato Palestinese sia permesso di sfruttare i giacimenti di gas naturale scoperti negli anni ’90 nelle acque territoriali palestinesi al largo della costa di Gaza.

Queste entrate consentirebbero una tregua finanziaria e un finanziamento per la ricostruzione delle infrastrutture essenziali.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




L’incontro di Netanyahu con MBS segna un nuovo fronte contro il ritorno all’accordo con l’Iran da parte di Biden

Philip Weiss

23 novembre 2020 – Mondoweiss

La grande notizia di questa notte è che pare che Benjamin Netanyahu sia volato nella città dell’Arabia Saudita di NEOM sul Mar Rosso per incontrare il principe saudita Mohammed bin Salman su richiesta del Segretario di Stato USA Mike Pompeo.

Se confermato, questo sarebbe ovviamente un incontro di grande importanza storica – un leader israeliano non ha mai visitato l’Arabia Saudita. Pompeo ha segnalato ciò con un tweet criptico:

Costruttivo incontro oggi con il principe ereditario Mohammed bin Salman a NEOM. Gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita hanno percorso un lungo cammino da quando il Presidente Franklin Delano Roosevelt e il Re Abdul Aziz Al Saud hanno posto per la prima volta le basi per le nostre relazioni 75 anni fa.”

Pompeo si riferisce ad un famoso incontro in cui il re disse a Roosevelt che non ci doveva essere uno Stato sionista nella vicina Palestina e Roosevelt gli promise che gli USA non avrebbero appoggiato una simile ipotesi. Poi Roosevelt morì e Truman cambiò politica.

E guarda un po’, adesso anche i sauditi stanno cambiando idea sul sionismo, come va strombazzando la stampa israeliana.

Consideriamo la valenza politica di questa visita. È una triplice vittoria per Israele, Arabia Saudita e anche per Pompeo. Ma molti altri perdono!

Sicuramente Israele ne trae il maggior vantaggio. Un altro accordo di normalizzazione con un vicino arabo è in vista. Ancora una volta i palestinesi sono stati sacrificati; ehi, voi palestinesi dovete arrendervi. Jared Kushner [genero e consigliere di Trump per il Medio Oriente, ndtr.] vi ha detto che siete un popolo sconfitto.

Israele riesce a legare ancor di più le mani a Joe Biden riguardo alla ripresa dell’accordo con l’Iran, che odia. Ieri Netanyahu ha detto a Biden che non può rientrare nell’accordo prima di essere andato in Arabia Saudita. L’avvocato di Israele Dennis Ross ha inviato questo messaggio in un tweet stamattina.

L’incontro Netanyahu-MbS non è una mossa da poco in Medio Oriente. Si può scommettere che la loro discussione si è fortemente incentrata su come rapportarsi all’amministrazione Biden, con un occhio verso il coordinamento dei messaggi sull’Iran.

Il messaggio a Biden, proprio mentre sta costituendo la sua squadra di esperti di Washington sulla politica estera, è questo: dovrai usare tutte le tue capacità politiche per firmare un accordo con l’Iran, perché Israele con l’aiuto della Casa Bianca di Trump ha appena alzato il prezzo. Non ti conviene.

Martin Indyk, un lobbista filoisraeliano democratico di centro, capisce che il messaggio è questo e invita Israele ad essere cortese con Biden.

Se l’incontro tra Netanyahu e MbS è stato inteso come un tentativo di coordinare le posizioni contro ciò che entrambi potrebbero considerare una nuova minaccia comune da parte dell’entrante amministrazione Biden, questo è un grosso errore. Lavorare insieme a Biden piuttosto che contro di lui porterà a risultati molto migliori per tutti.

Bella mossa. Ma ad Israele non importa.

Passiamo al punto di vista della monarchia saudita. Nel 2015 l’Arabia Saudita non si era opposta all’accordo con l’Iran (guadagnando così l’appoggio di Obama nella guerra in Yemen), ma ovviamente condivide alcuni degli interessi di Israele nell’isolare l’Iran. Ora sta svendendo i palestinesi, ma non è un gran prezzo da pagare quando si pensa a cosa ci guadagna. Ora ha a Washington l’ambasciatore più potente di tutti: la lobby israeliana e Netanyahu, che aiuteranno a sostenere il regime corrotto e criminale nel momento in cui un’amministrazione democratica entra alla Casa Bianca parlando di diritti umani.

Organizzazioni ebraiche di centro come la Conferenza dei Presidenti e l’AIPAC stanno per prendere le difese dell’Arabia Saudita e diranno a Joe Biden di lasciar perdere l’assassinio di Jamal Khashoggi – la pace in Medio Oriente è più importante.

Scusate se ripeto uno vecchio discorso, ma l’Arabia Saudita sa che essere cortesi con Israele apre le porte a Washington. Gli uomini più potenti del mondo, come Putin, Modi e Obama, si sono tutti rivolti alla lobby israeliana per cercare di fare affari in Campidoglio. Obama nel 2008 ha concordato con la lobby la nomina del suo segretario di Stato; poi nel 2015 ha dovuto combattere con la lobby di destra per raggiungere l’accordo con l’Iran, ma almeno ha avuto al suo fianco i sionisti progressisti.

Infine c’è Pompeo. Ha fatto tutto quel che poteva per Israele negli ultimi giorni, alla fine dell’amministrazione Trump. Il BDS è “un cancro”, ha detto quando è partito per le colonie illegali in Cisgiordania. Il principale donatore repubblicano, Sheldon Adelson, concorda in pieno. Come ha detto Nick Schifrin [giornalista USA esperto di Medio Oriente, ndtr.] l’altra notte nel programma PBS News Hour [programma televisivo USA di approfondimento della rete radiotelevisiva pubblica, ndtr.] , Pompeo ha delle ottime carte per dimostrare la propria idoneità per una campagna presidenziale nel 2014. Anche Aaron David Miller [analista e negoziatore USA in Medio Oriente, ndtr.] lo ha detto:

Le gite di Pompeo all’azienda vitivinicola in Cisgiordania e nel Golan non hanno nulla a che fare con le ambizioni dell’America, bensì con le sue, in vista del 2024.”

Socializzare con la destra israeliana è ancora una buona politica negli USA. Durante le primarie democratiche Bernie Sanders e Pete Buttigieg hanno definito Netanyahu un razzista che ha perso la testa, ma questa consapevolezza deve ancora farsi strada a Washington.

Vediamola in questo modo: Joe Biden sta cercando un ambasciatore in Israele che vada bene a Netanyahu. I nomi in gioco sono Dan Shapiro, Michael Adler e Robert Wexler, tutti ebrei e sionisti. L’idea che un ambasciatore USA in Israele sia qualcuno che dia speranze ai palestinesi sotto apartheid è fuori questione. E pensate che Netanyahu abbia voluto fare una cortesia a Obama quando ha nominato Michael Oren e Ron Dermer come suoi ambasciatori a Washington? Neanche per un istante. Ha messo una spina nel fianco di Obama. “Se arrivasse un extraterrestre e vedesse i rapporti tra USA ed Israele avrebbe ragione di pensare che gli USA sono uno Stato vassallo di Israele”, dice un esperto.

In sostanza, Netanyahu esercita ancora un grande potere a Washington. E l’Arabia Saudita lo ha al suo fianco. Chiunque altro ha ulteriori motivi per preoccuparsi.

Philip Weiss è caporedattore di Mondoweiss.net e ha creato il sito nel 2005-06.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Gaza dichiara il disastro da COVID-19 con un sistema sanitario prossimo al collasso

Walid Mahmoud

23 novembre 2020 – ALJAZEERA

Con la mancanza di ventilatori, DPI e medicine, le autorità affermano che l’assedio di Israele rappresenta una “condanna a morte” per i malati di coronavirus di Gaza.

Gaza City – Le autorità sanitarie avvertono che un rapido incremento delle infezioni da coronavirus nella Striscia di Gaza ha raggiunto un “livello catastrofico” e che il sistema sanitario dell’enclave palestinese assediata rischia l’imminente collasso.

Il COVID si sta diffondendo in modo esponenziale a Gaza – uno dei luoghi più affollati della Terra – soprattutto nei campi profughi, e il ministero della Salute ha lanciato l’allarme sulle “disastrose” conseguenze.

Il dottor Fathi Abuwarda, consigliere del ministero della Salute, ha detto ad Al Jazeera che il recente picco di infezioni potrebbe presto diventare incontrollabile, con centinaia di persone che contraggono il virus ogni giorno e nessun posto dove curarle.

“Siamo entrati nella fase della catastrofe e se continuiamo in questo modo, il sistema sanitario crollerà“, ha detto Abuwarda. “La soluzione migliore è un blocco totale per 14 giorni, che consentirebbe alle squadre mediche di controllare e combattere il virus, tendendo aperti solo i negozi di alimentari“.

Abuwarda afferma che il ministero della Salute ha destinato l’ospedale europeo di Gaza per la cura dei pazienti da COVID-19, ma che la capacità dell’ospedale è insufficiente, dato che sono già occupati 300 dei suoi 360 posti letto.

Nella Striscia di Gaza – ha detto – ci sono circa 500 posti letto sparsi per l’enclave costiera…. Ma considerando che a Gaza per ogni chilometro quadrato vivono circa 5.000 palestinesi, questi ospedali non sono in grado di ospitare tutti i casi”.

Anche la mancanza di kit per il test del coronavirus e di dispositivi di protezione individuale (DPI) complica la lotta, poiché Israele continua a imporre restrizioni sulle forniture sanitarie che raggiungono Gaza.

Gaza si trova da più di 13 anni sotto uno stretto assedio di terra, aria e mare da parte di Israele ed Egitto, tagliata fuori dal resto del mondo. Le iniziali speranze che l’isolamento di Gaza l’avrebbe risparmiata dalla pandemia sono state deluse, dal momento che la sovrappopolata regione costiera si trova in grave pericolo a causa di un sistema sanitario fatiscente che non è in grado di gestire l’assalto dei pazienti.

Al 24 agosto nella Striscia di Gaza solo quattro palestinesi risultavano stati infettati dal virus. Fino a lunedì scorso 14.768 persone hanno contratto il COVID-19, con 65 morti. Il numero di casi critici si attesta a 79.

“Una catastrofe imminente”

Le autorità affermano che l’assedio di Israele è una condanna a morte per i malati di COVID-19 di Gaza.

“Nella Striscia di Gaza mancano macchinari per la generazione di ossigeno, ventilatori, equipaggiamento protettivo e materiali per l’igiene”, ha detto il dott. Basim Naim, responsabile delle relazioni internazionali nel governo guidato da Hamas.

“Il 32% dei farmaci di base e il 62% dei farmaci e dei materiali per i laboratori medici non sono disponibili”.

L’ex ministro della Salute ha chiesto alla comunità internazionale e alle agenzie umanitarie di intervenire immediatamente per fermare la “catastrofe imminente”, accusando Israele di limitare l’ingresso delle forniture sanitarie con “il pretesto della sicurezza”.

“La leadership di Hamas non accetterà la morte del popolo palestinese né per fame né consentendone la morte per la pandemia”, ha detto Naim. “Chiediamo alla comunità internazionale di fornirci le risorse finanziarie indispensabili per acquistare tutti gli strumenti necessari per combattere il virus”.

Salama Marouf, a capo dell’ufficio informazioni del governo, ha sottolineato l’esigenza di portare ventilatori salvavita a Gaza. Ha aggiunto che “tutte le misure sono ora sul tavolo, incluso un blocco completo” per tenere i contagi sotto controllo.

Le autorità affermano che, nonostante la mediazione egiziana, Israele si rifiuta ancora di consentire l’ingresso a Gaza dei ventilatori, subordinando la concessione di tale autorizzazione alla restituzione dei corpi dei soldati trattenuti da Hamas dalla guerra israeliana contro Gaza del 2014.

La Striscia di Gaza – un’area costiera lunga 100 km che ospita oltre 2,1 milioni di palestinesi – è stata una delle ultime regioni al mondo ad essere colpita dal COVID-19.

Ma molte persone qui hanno ignorato il consiglio di indossare le mascherine, hanno tenuto grandi feste di matrimonio e proteste contro l’occupazione israeliana e continuano ad interagire nel corso di riunioni di massa.

Abuwarda ha evidenziato lo “scarso impegno” dei palestinesi quando si tratta di indossare le mascherine, di praticare il distanziamento e un’igiene adeguata. “Dobbiamo contare sulla consapevolezza delle persone per fermare la diffusione del virus”, ha detto.

Misure drastiche

L’afflusso di pazienti affetti da coronavirus negli ospedali appropriati minaccia anche quelli destinati ad altre patologie.

“Questi ospedali non sono del tutto preparati per affrontare i pazienti da COVID-19 e ciò avrà un impatto negativo sul servizio sanitario fornito ai pazienti normali”, ha detto Naim.

Molti palestinesi erano favorevoli a che il governo adottasse misure drastiche per frenare la rapida diffusione del coronavirus.

Ma alcuni responsabili affermano di non poter imporre un blocco generale poiché i bisogni minimi essenziali delle persone rimarrebbero insoddisfatti a causa del deterioramento della situazione economica.

Ahmad Abu Mustapha, 35 anni, proprietario di un negozio di apparecchiature elettriche, chiede al governo di applicare un blocco totale per “consentire di salvare vite umane”, anche se ciò imporrebbe sofferenze sul piano economico.

Temiamo per noi stessi, per le nostre famiglie e per i bambini. Vogliamo un blocco totale anche se questo ci danneggierebbe economicamente”, ha detto Mustapha.

Il giornalista Hassan Islayih, 32 anni, concorda sulla necessità di interrompere gli spostamenti all’interno della Striscia di Gaza, sottolineando che “la presa di coscienza della gente non è come dovrebbe essere”.

Oggi – sostiene – la situazione è pericolosa. Alcune persone perderanno il lavoro, il che è triste, ma non c’è altra soluzione che un blocco totale”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Gli ultimi gesti di Trump verso Israele

Asa Winstanley

21 novembre 2020 – Middle East Monitor

All’inizio di quest’anno, in queste pagine, ho sostenuto che in un modo o nell’altro stesse per realizzarsi l’annessione della Cisgiordania.

La Cisgiordania e la Striscia di Gaza costituivano il restante 22% della Palestina storica lasciata ai palestinesi nel 1949, dopo il cessate il fuoco tra Israele e gli Stati arabi.

Tra il 1947 e il 1949 le milizie sioniste e poi l’appena costituito esercito israeliano (il precedente era confluito in quest’ultimo) espulsero con la forza circa 800.000 palestinesi.

Questo intervento massiccio di pulizia etnica – la Nakba – fu l’atto fondante dello Stato di Israele. Era l’unico modo per istituire uno Stato ebraico in un Paese la cui popolazione, solo due generazioni prima, era composta per il 95% da arabi palestinesi originari del luogo.

Il popolo ebraico è sempre stato una minoranza in Palestina. Fu solo dopo l’intervento dell’impero britannico, dal 1917 in poi, che nel Paese venne imposto il progetto coloniale del movimento sionista.

Un risultato dell’espulsione illegale dei palestinesi da parte di Israele nel 1948 fu che per la prima volta era stata illegalmente istituita nel Paese una maggioranza ebraica, attraverso l’utilizzo di una violenza estrema e dell’oppressione coloniale.

Oggi quella fugace maggioranza ebraica è scomparsa da tempo. I palestinesi rappresentano ancora una volta la maggioranza tra il fiume (Giordano) e il mare.

Nel 1967 Israele scatenò un’altra violenta guerra di aggressione contro il popolo palestinese e i vicini Stati arabi, occupando illegalmente il restante 22% del territorio della Palestina. E’ seguita un’altra ondata di espulsioni forzate di palestinesi.

Da allora, nei decenni successivi, Israele ha gradualmente annesso sempre più territori palestinesi. I centri abitati palestinesi vengono distrutti, rasi al suolo con i bulldozer e cancellati, in modo che sulle rovine possano essere costruite, per soli ebrei, colonie, “parchi naturali” e le strade dell’apartheid.

Israele ha sempre operato secondo il principio del “il massimo di terre, il minimo di arabi”.

È per questo motivo che Israele ha potuto annettere solo con gradualità la Cisgiordania.

Dal punto di vista sionista c’è poco da guadagnare nel rimuovere i palestinesi dalla loro terra a meno che non ci siano nuovi coloni israeliani pronti a prendere il loro posto. Altrimenti i palestinesi potrebbero gradualmente ritornare.

Nel corso di oltre 123 anni il popolo palestinese si è ostinatamente rifiutato di ammettere di essere un popolo sconfitto e quindi, grazie solo alla sua forza di volontà collettiva di resistere, è rimasto imbattuto. Vengono uccisi ed espulsi, ma continuano a tornare.

Anche la maggior parte delle comunità ebraiche del mondo si è ostinatamente rifiutata di piegarsi ai dettami del sionismo. I più si sono rifiutati di lasciare i propri paesi nativi per realizzare un illusorio “ritorno” nella Palestina, al fine di diventare coloni e mandar via, nell’operazione, le persone del luogo.

Il progetto sionista prospettava la famigerata doppia pratica della “conquista della terra” e della “conquista del lavoro”.

Non solo i lavoratori palestinesi furono espulsi dalle loro terre dalle milizie sioniste (anche nel periodo coloniale pre-Nakba), ma vennero loro anche negati i posti di lavoro – una delle ragioni principali per l’esplosione della rivolta araba palestinese iniziata nel 1936 contro l’occupazione britannica e i coloni europeo-sionisti.

“La conquista della terra” era coniugata all’interno dell’ideologia “laburista-sionista” con il concetto razzista del “lavoro ebraico” – il che significa che solo gli ebrei potevano lavorare e vivere nei nuovi insediamenti coloniali ebraici. La federazione sindacale razzista israeliana Histadrut escluse gli arabi palestinesi fino alla fine degli anni ’50.

Ma ci fu anche una terza “conquista” meno conosciuta – quella che Theodor Herzl [scrittore e uomo politico ungherese fondatore del sionismo, ndtr.] al secondo congresso sionista del 1898 chiamò “la conquista delle comunità“.

Ciò ha significato un percorso attraverso le istituzioni delle organizzazioni rappresentative delle comunità ebraiche europee, con l’obiettivo di rilevarle per conto del movimento sionista. Questo processo ha richiesto molti lunghi decenni, ma alla fine ha avuto un discreto successo.

Questo è il motivo per cui oggi nel Regno Unito il Consiglio dei deputati degli ebrei britannici (che era antisionista fino al 1939) si sente in grado di affermare senza vergogna di essere quasi l’unico rappresentante legittimo di un’entità apparentemente monolitica che ama definire “la comunità ebraica” – nonostante il fatto che consideri come suo ruolo primario nella vita pubblica quello di “fare spudoratamente pressioni a favore di Israele”.

Questo è il contesto storico di riferimento attraverso cui comprendere il cosiddetto piano di pace di Trump e il complotto israeliano per annettere gran parte della Cisgiordania.

All’inizio di quest’anno quei piani sembravano imminenti. Ma c’è stato un cambiamento di opinione e non sono stati ritenuti politicamente vantaggiosi, almeno per il momento.

Ma ora, negli ultimi mesi della presidenza Trump, sembra che Israele abbia un’altra finestra per portare avanti la sua visione massimalista ed espansionista.

Il segretario di Stato di Trump Mike Pompeo – un ex direttore della CIA – ha annunciato questa settimana che tutta una serie di organizzazioni di attivisti per i diritti umani, gruppi che organizzano campagne e sostengono i diritti umani palestinesi, sarebbero state decretate “antisemite”, semplicemente per il presunto crimine di opporsi agli abusi israeliani e al razzismo di Israele.

Sarebbe un grave ultimo saluto, anche se è improbabile che regga, né davanti al tribunale dell’opinione pubblica né di quello autentico.

Trump userà questa finestra anche per spingere Israele a mettere in atto i suoi piani per annettere gran parte della Cisgiordania? Alcuni analisti filo-israeliani pensano che sia una possibilità concreta.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Per lo Stato ebraico, l’Olocausto è uno strumento da manipolare

Orly Noy

20 novembre 2020 – +972 magazine

Se prima il sionismo ha giustificato i suoi crimini contro i palestinesi in nome dell’Olocausto, oggi lo usa come strumento per giustificare persino l’antisemitismo.

Nella stessa settimana in cui una commissione interna del governo israeliano ha approvato la nomina di Effi Eitam, ex-generale delle IDF [Forze di Difesa Israeliane, l’esercito israeliano, ndtr.] e politico di estrema destra, a presidente dello Yad Vashem, il museo israeliano dell’Olocausto, è successo qualcosa di significativo. In un incontro con il primo ministro Benjamin Netanyahu, il segretario di Stato USA uscente Mike Pompeo ha annunciato che il presidente Donald Trump intende dichiarare antisemita il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS).

La contiguità tra i due annunci simbolizza la fase finale della metamorfosi manipolatoria che l’antisemitismo e l’Olocausto hanno subito per mano del sionismo.

Effi Eitam, un falco di destra e un razzista, nel 2006, durante la cerimonia in commemorazione del tenente Amichai Merhavia, ucciso nella Seconda Guerra del Libano, ha fatto le seguenti dichiarazioni:

“Noi dovremo fare tre cose: espellere la maggior parte degli arabi di Giudea e Samaria (la Cisgiordania) da qui. È impossibile con tutti quegli arabi ed è impossibile lasciare il territorio, perché abbiamo già visto quello che stanno facendo là. Alcuni potrebbero essere in grado di rimanere in base a certe condizioni, ma la maggior parte dovrà andarsene. Dovremo prendere un’altra decisione, e cioè buttar fuori gli arabi israeliani dal sistema politico. Anche qui le cose sono lampanti: abbiamo creato una quinta colonna, un gruppo di traditori di primo livello, per cui non possiamo continuare a consentire una così vasta presenza ostile nel sistema politico israeliano. Terzo, di fronte alla minaccia iraniana, dovremo agire in modo diverso da tutto quanto abbiamo fatto finora. Queste sono tre cose che richiederanno un cambiamento della nostra etica di guerra.”[corsivo ndtr]

L’espulsione dalla propria terra di una popolazione nativa occupata da parte della potenza occupante è un crimine di guerra. Impedire la partecipazione di cittadini al sistema politico in base all’appartenenza etnica o nazionale è simile al fascismo. Il futuro presidente dello Yad Vashem non si vergogna di aver espresso opinioni che rappresentano crimini di guerra per portare avanti le sue ambizioni politiche.

Come ha scritto su queste pagine Libby Lenkinski [vice presidentessa per l’impegno pubblico del gruppo contrario all’occupazione New Israel Fund, ndtr.], Trump è l’uomo che ha riportato alla moda negli Stati Uniti l’antisemitismo classico, essendo nel contempo calorosamente accolto dal primo ministro dello Stato ebraico.

La predilezione dello Yad Vashem per i fascisti e i criminali di guerra non è certo un segreto. Da quando nel 1976 lo visitò il primo ministro del Sudafrica dell’apartheid John Worster, membro di un’organizzazione filo-nazista durante la II guerra mondiale, il museo ha ospitato una delegazione della giunta militare del Myanmar responsabile di crimini di guerra e contro l’umanità.

Ha aperto le sue porte al presidente brasiliano Jair Bolsonaro, l’uomo che ha lodato Hitler e appoggia apertamente lo sterminio fisico delle persone LGBTQ, della popolazione indigena brasiliana e una serie di altre atrocità, compresi lo stupro, la tortura e la dittatura militare. Ha ospitato persino il primo ministro ungherese Viktor Orban, che ha espresso appoggio per Miklós Horthy, il leader ungherese durante la II Guerra Mondiale, e Anthony Lino Makana del Sud Sudan, un importante esponente politico di un governo responsabile di crimini di guerra e contro l’umanità.

Se prima il sionismo ha giustificato i suoi crimini contro il popolo palestinese in nome dell’Olocausto, oggi lo utilizza come strumento per giustificare persino l’antisemitismo in cambio di vantaggi politici. Ancor peggio: consente a un antisemita di definire cosa sia l’antisemitismo. Questa è la peggiore verità che oggi ci troviamo davanti: per lo Stato di Israele ufficiale, i concetti di Olocausto e antisemitismo sono semplicemente mezzi politici, e come tali possono essere manipolati, distorti e travisati, come qualunque altro strumento politico.

Dopo aver spogliato i palestinesi con il pretesto dell’Olocausto, ora i dirigenti israeliani stanno adottando un antisemita come Trump che perseguiterà i discendenti di quegli stessi palestinesi spossessati in nome della lotta contro l’antisemitismo. E non solo loro, ma anche gli innumerevoli ebrei che mostrano solidarietà con la lotta palestinese per la giustizia. Tuttavia, finché ci saranno persone con una coscienza, che rabbrividiscono di fronte a questo orribile sfruttamento della memoria dell’Olocausto, sarà difficile farlo.

È per questo che Effi Eitam, un razzista e un fautore di crimini di guerra, è stato nominato per custodire la memoria della tragedia ebrea, in modo che l’Olocausto rimanga per sempre soggetto alla manipolazione politica utilitaristica. È così che Israele onora i morti nel 2020.

Orly Noy è editorialista di Local Call [edizione in ebraico di +972, ndtr.], attivista politica e traduttrice di poesie e prose dal farsi [lingua ufficiale in Iran, ndtr.]. Fa parte del comitato esecutivo di B’Tselem ed è un’attivista del partito politico Balad [partito politico israeliano a maggioranza araba, ndtr.]. I suoi scritti riguardano i percorsi che incrociano e definiscono la sua identità come mizrahi [ebrei di origine orientale, ndtr.], donna di sinistra, donna, migrante temporanea, che vive all’interno di una continua immigrazione, e il costante dialogo tra di esse.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




L’occupazione ai tempi del COVID-19: Israele va considerato responsabile della salute dei palestinesi

Yara Asi 

15 novembre 2020 – Al-Shabaka

Introduzione

A marzo e aprile 2020, mentre gran parte del mondo si adeguava alla nuova normalità di lockdown e coprifuoco, molti palestinesi hanno rivissuto circostanze familiari. Quando sono stati segnalati i primi casi di COVID-19 in Cisgiordania, vicino a Betlemme, l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha imposto il lockdown su quel governatorato. Gli spostamenti all’interno della Cisgiordania sono stati ridotti in modo simile ai peggiori periodi delle restrizioni di movimento sotto l’occupazione israeliana. 

Inoltre, la Giordania ha chiuso il valico di frontiera del ponte Re Hussein, il principale punto di entrata e uscita per i palestinesi della Cisgiordania, chi lavorava in Israele è stato mandato a casa o gli è stato detto di restare in Israele, e agli abitanti di Gaza che sono sottoposti ad un rigido assedio e hanno solo due punti di entrata e uscita, è stata imposta una quarantena obbligatoria per chiunque tornasse a casa a Gaza dall’estero. Infatti, agli inizi del lockdown, il blocco di Gaza è stato descritto come un vantaggio potenziale, dato che si pensava che la restrizione dei movimenti riducesse possibili focolai.

Questo editoriale tratta dei tre modi in cui il quadro giuridico dell’occupazione, come definito dal diritto internazionale umanitario (DIU), non ha fornito l’assistenza sanitaria pubblica ai palestinesi in tempi di COVID-19. Per prima cosa analizza il “de-sviluppo” attivo e passivo del sistema sanitario palestinese prima della pandemia. Secondo, esamina i modi in cui Israele non ha rispettato i suoi obblighi di legge verso i palestinesi sul COVID-19. E in conclusione analizza come, limitando le iniziative palestinesi, l’occupazione abbia peggiorato la situazione sanitaria.

Sebbene non ci sia dubbio che il DIU abbia probabilmente dei limiti nella protezione dei diritti delle popolazioni oppresse, il mio documento ne usa il linguaggio per ritenere Israele responsabile della salute dei palestinesi. In questo modo, anche in base ai criteri limitati previsti dalla comunità internazionale, in questo momento di crisi sanitaria Israele non sta adempiendo ai doveri giuridici minimi di una potenza occupante. Così facendo, ha contribuito attivamente al deterioramento della salute e del benessere dei palestinesi. Il documento propone parecchie raccomandazioni per affrontare la presente crisi. 

Il quadro giuridico dell’occupazione e i suoi limiti

Nel 1967, con la guerra dei Sei Giorni, lo Stato di Israele conquistò la Penisola del Sinai, la Striscia di Gaza, la Cisgiordania, Gerusalemme Est e le alture del Golan. Da allora, quasi tutti i governi e organismi internazionali, inclusi il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, la Corte internazionale di Giustizia, l’Assemblea generale dell’ONU, il Comitato internazionale della Croce Rossa, hanno riconosciuto Israele come potenza occupante. Eppure lo Stato di Israele non definisce come occupazione la propria presenza nei Territori Palestinesi Occupati (TPO), ma anzi la contesta attivamente. Israele e i suoi sostenitori hanno obiettato che la natura dello status o degli obblighi di Israele quale potenza occupante è cambiata con gli accordi di Oslo e che dopo il “disimpegno” del 2005 almeno Gaza non è occupata. Nonostante queste argomentazioni, quasi tutte le organizzazioni internazionali hanno continuato a riconoscere questi territori come occupati, inclusa la Striscia di Gaza. In risposta, Israele e i suoi alleati hanno combattuto per delegittimare le Nazioni Unite e trasformare il concetto di “occupazione” in un problema di intransigenza palestinese, basandosi sulla narrazione che tutti i palestinesi sono potenziali minacce alla sicurezza di Israele, giustificando di conseguenza la loro punizione collettiva. 

Il DIU fornisce un quadro solido delle responsabilità delle parti coinvolte in un conflitto armato e delle responsabilità di una potenza occupante verso la popolazione civile sotto il suo controllo. La convenzione dell’Aja del 1907 concernente le guerre terrestri rispecchiava le norme della fine del XIX secolo sulle dichiarazioni che regolavano gli atti di guerra e a tutt’oggi è critica verso le indagini del DIU sulle violazioni dei diritti umani. L’articolo 42 definisce un territorio come occupato “quando è effettivamente posto sotto l’autorità di un esercito ostile,” e altri articoli attribuiscono all’occupante una serie di responsabilità, inclusa quella di garantire la sicurezza pubblica e di prevenire il sequestro di proprietà private. A corollario della convenzione dell’Aja del 1907, le quattro Convenzioni di Ginevra firmate nel 1949 hanno ulteriormente rafforzato le protezioni e i diritti in guerra e sono considerate il cuore del DIU.

La quarta Convenzione di Ginevra, che protegge i civili, fu adottata dopo le atrocità della Seconda Guerra Mondiale. La sezione III descrive le protezioni a vasto raggio garantite ai civili nei territori occupati. Ci sono parecchi articoli rilevanti nella descrizione degli obblighi legali di Israele nei confronti della popolazione palestinese, specialmente durante questa pandemia. L’articolo 53, per esempio, vieta la distruzione di proprietà privata o pubblica. L’articolo 55 impone che la potenza occupante garantisca alla popolazione rifornimenti di cibo e medicinali, specialmente quando “le risorse dei territori occupati sono inadeguate.” L’articolo 56 richiede specificatamente alla potenza occupante di garantire e mantenere la sanità e l’igiene pubbliche, mentre l’articolo 59 chiede alla potenza occupante di facilitare gli sforzi di soccorso umanitario. 

Ma cosa più importante, l’articolo 60 dice chiaramente che gli invii di soccorso umanitario “non esonereranno affatto la potenza occupante dalle responsabilità che le incombono in virtù degli articoli 55, 56 e 59.” In altre parole, la presenza di aiuti da parti terze per soddisfare bisogni umanitari nei TPO non sostituisce il dovere dello Stato di Israele di soddisfare quei bisogni al meglio delle proprie capacità. In marzo l’ONU ha ribadito questa responsabilità quando Michael Lynk, il relatore speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani in Palestina, ha dichiarato che “il dovere legale, stabilito dall’articolo 56 della quarta Convenzione di Ginevra, richiede che Israele, la potenza occupante, debba garantire che tutte le necessarie misure preventive a sua disposizione siano utilizzate per ‘combattere la diffusione di malattie contagiose ed epidemie.’”

All’inizio l’ONU aveva lodato la cooperazione “eccellente” fra le autorità israeliane e quelle palestinesi nella gestione della pandemia. Tuttavia l’errore di interpretare questi sforzi come cooperazione serve solo a consolidare la percezione del quasi-Stato di Palestina e dello Stato di Israele come entità equiparabili. Inoltre è importante contestualizzare questa cooperazione. Michael Lynk “ha già notato in precedenza che Israele è in ‘grave violazione’ dei propri obblighi internazionali riguardanti il diritto alla salute dei palestinesi che vivono sotto occupazione.” Questa presunta cooperazione sul COVID-19 è più probabilmente da collegare a un atteggiamento pragmatico riguardo al rischio di diffusione di una malattia infettiva, considerando la presenza di centinaia di migliaia di coloni in Cisgiordania e il costante traffico transfrontaliero di lavoratori palestinesi in Israele e di soldati israeliani in Cisgiordania. Come detto così tante volte negli ultimi mesi, il COVID-19 “non fa differenze fra persone né si ferma ai confini.”

Il de-sviluppo del settore sanitario palestinese  

Oggi nessuna analisi del frammentato settore sanitario palestinese è completa senza una comprensione dei fattori che l’hanno portato al suo stato attuale. Fattori sociali e politici determinanti per la salute sono profondamente radicati nei modi in cui l’occupazione e le sue restrizioni si manifestano in tutti gli aspetti della vita quotidiana palestinese. Sicuramente il blocco e i continui attacchi alla Striscia di Gaza hanno portato a scarsità di cibo, elettricità e forniture mediche in un territorio con infrastrutture distrutte. La Cisgiordania ha anche sofferto continue perdite di territori e frammentazione, abbinate a finanziamenti assolutamente insufficienti al settore sociale sotto l’autorità di un’ANP in difficoltà. Le risorse sanitarie sono insufficienti, specialmente per salute mentale, condizione femminile e giovanile. Decenni di dipendenza dagli aiuti hanno diminuito lo sviluppo a lungo termine e accresciuto la dipendenza dagli aiuti.

La dipendenza dell’ANP dagli aiuti e dai prestiti si è rivelata particolarmente disastrosa nell’era del COVID-19, dato che le agenzie di finanziamento stanno fronteggiando necessità globali senza precedenti che hanno limitato la loro possibilità di soddisfare tutti gli aiuti necessari. Inoltre, Israele controlla tutte le importazioni ed esportazioni nei TPO e ha da tempo proibito o limitato le importazioni di materiali giudicati a “doppio uso,” che sono cioè percepiti come un rischio per la sicurezza. Sono elencati articoli come il cemento per costruire strutture sanitarie, i prodotti chimici, incluso il carburante per generatori negli ospedali, prodotti farmaceutici e molte apparecchiature mediche. Ciò continua a porre ostacoli significativi al sistema di assistenza sanitaria palestinese e alla sua possibilità di combattere il COVID-19. Solo durante il suo attacco a Gaza nel 2014 Israele ha distrutto migliaia di case e circa 73 strutture mediche, la maggior parte delle quali non può essere ricostruita a causa delle restrizioni sulle importazioni. Osservatori dell’ONU hanno duramente criticato Israele perché ostacola gli aiuti umanitari ai palestinesi e demolisce strutture finanziate da donatori.

Questo de-sviluppo economico e infrastrutturale della Palestina ha portato a precarie condizioni di salute per molti palestinesi, aumentando di conseguenza le probabilità che sviluppassero gravi sintomi di COVID-19. I TPO denunciano alti livelli di obesità e, allo stesso tempo, tassi di malnutrizione, anemia, e diabete di tipo 2 superiori a quelli auspicabili. I TPO hanno anche affrontato la scarsità di personale sanitario negli anni precedenti alla pandemia. Il personale medico, specialmente a Gaza, è stato ucciso nel corso di attacchi dell’esercito israeliano. Queste minacce, la pessima situazione economica in ulteriore peggioramento e la mancanza di risorse spingono alcuni studenti di medicina ad andare a lavorare altrove. 

Oltre all’occupazione, l’ANP non è riuscita a reagire in modo adeguato alla pandemia. Probabilmente c’era da aspettarselo anche prima del suo inizio a marzo 2020. Infatti, poco prima, i medici in tutta la Palestina avevano scioperato per un mese a causa dei ritardi nei pagamenti degli stipendi. Gli effetti distruttivi dei mancati investimenti a lungo termine dell’ANP nel settore sanitario sono aggravati dall’infrastruttura israeliana di apartheid: i checkpoint, i valichi di frontiera, il muro di separazione e il sistema di permessi che limita i movimenti delle persone e le forniture necessarie. 

Le condizioni scadenti del sistema sanitario costringono molti palestinesi che hanno bisogno di assistenza specialistica a far domanda per ottenere permessi sanitari rilasciati da Israele per essere curati in ospedali israeliani o a Gerusalemme Est. Tuttavia nel 2019 è stato approvato solo il 64% dei permessi medici di Gaza e l’81% della Cisgiordania. Inoltre, dopo che l’ANP ha interrotto il coordinamento civile con Israele in risposta al piano di annessione del 2020 e il rallentamento del piano dell’Onu per facilitare i permessi, Israele ha approvato solo la metà di quelli urgenti richiesti da Gaza alla fine della primavera. Perciò a molti palestinesi che hanno contratto il COVID-19 e che soffrivano di patologie pregresse è stato impedito di ricevere cure mediche adeguate, incluso l’accesso ai respiratori. 

Politicizzare la salute dei palestinesi durante il COVID-19

Mentre Israele ha dato all’ANP formazione e attrezzature, inclusi i kit per i test per tener sotto controllo la diffusione del virus, Yael Ravia-Zadok, vice direttore della Divisione economica del Ministero degli Esteri [israeliano], già agli inizi della pandemia aveva anche chiarito che “le necessità dei palestinesi sono maggiori di quelle che lo Stato di Israele possa soddisfare.” Allo stesso tempo, Danny Danon, l’ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite, ha così risposto alle critiche dell’ANP sulla gestione del COVID-19 da parte di Israele nei TPO: 

I palestinesi stanno ritornando al loro comportamento naturale: antisemitismo, anti-israelismo, infangare senza motivo e tentare di usare la situazione per ottenere vantaggi politici […] Il mio messaggio è molto chiaro: i palestinesi devono scegliere. Se vogliono continuare a ricevere aiuti per il coronavirus, devono smettere di istigare all’odio.”

Quindi i palestinesi devono dimostrare di meritarsi gli aiuti, senza criticare i comportamenti del governo israeliano, o rischiano di essere accusati di incitamento all’odio e di antisemitismo. Questo ricorda i tentativi di punire i palestinesi quando, nel 2012, hanno cercato il riconoscimento dello Stato da parte dell’Onu, e gli USA hanno bloccato 147 milioni di dollari in aiuti, o quando, l’anno scorso, Netanyahu ha definito “proclami antisemiti” le inchieste della Corte Penale Internazionale su potenziali crimini di guerra commessi nelle colonie. 

Già nel gennaio 2020, organizzazioni come l’UNRWA, l’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione dei profughi palestinesi, si sono mobilitati per proteggere dalla pandemia i rifugiati palestinesi che vivono nei campi. Inoltre alla fine di marzo l’OCHA, l’Ufficio per il Coordinamento degli Affari Umanitari, ha preparato un progetto anti- Covid nei TPO e il Comitato Ad Hoc ha chiesto ai donatori milioni di dollari in aiuti. Paesi come Turchia e Arabia Saudita hanno contribuito con denaro e forniture mediche. La Banca mondiale ha approvato un prestito di 30 milioni di dollari per ripristinare i redditi delle famiglie. Persino gli Stati Uniti, che avevano tagliato quasi tutti gli aiuti ai palestinesi, inclusi i fondi all’URNWA e quelli che andavano agli ospedali a Gerusalemme Est, hanno reso noto un modesto aiuto per aiutare la loro risposta al COVID-19. A maggio anche Israele ha destinato 800 milioni di shekel (circa 200 milioni di euro) per aiuti, ma sotto forma di un prestito garantito dai futuri introiti fiscali palestinesi che Israele riscuote.

Perciò parte di quello che va sotto il nome di cooperazione può essere considerato come l’allentamento di alcune delle restrizioni imposte da Israele sui palestinesi per permettere ad altri di fornire aiuti. Inoltre Israele ha agito in modo strategico con i suoi cosiddetti aiuti. Ad aprile 2020 il ministro della difesa Naftali Bennet aveva affermato che gli aiuti a Gaza sarebbero stati condizionati al recupero dei resti di due dei suoi soldati morti nella guerra del 2014. Bennett aveva persino collegato la crisi umanitaria a Gaza al recupero dei corpi dei soldati: “Se si parla di problemi umanitari a Gaza, anche Israele ha delle necessità umanitarie, che sono principalmente il recupero dei caduti.” E poi in agosto, in risposta agli attacchi con palloni incendiari da Gaza che avevano causato decine di incendi, Israele ha lanciato attacchi aerei, impedito l’importazione di combustibile, limitato l’accesso alle zone di pesca e bloccato 30 milioni di dollari di aiuti a Gaza provenienti dal Qatar. 

Blocco degli sforzi palestinesi per affrontare il COVID-19

L’ANP, dopo una risposta iniziale efficace con veloci lockdown e chiusure, è stata poi criticata per la sua scarsa leadership, ma le va riconosciuto che non aveva risorse sufficienti né il potere di fare di più. Oltre a mancare dell’autonomia necessaria per costruire un sistema sanitario pubblico funzionale, i palestinesi non hanno neppure autonomia per rispondere in tempo reale a crisi sanitarie. A Gerusalemme Est, dove Israele limita pesantemente le operazioni dell’ANP, le autorità israeliane hanno trascurato di costruire e promuovere strutture sufficienti per eseguire i test o fornire dati accurati, e le ONG sono dovute intervenire per garantire informazioni aggiornate in arabo. 

Inoltre l’esercito israeliano ha regolarmente bloccato le iniziative sanitarie palestinesi. Non solo Israele ha fatto un raid su un centro di test a Silwan, ha anche arrestato i suoi organizzatori per prevenire “ogni attività dell’Autorità Nazionale Palestinese a Gerusalemme.” Un altro esempio: le autorità israeliane non assistono aree come Kufr Aqab, che sono tecnicamente all’interno dei confini stabiliti da Israele, ma fuori dal muro di separazione. Ne risulta che, dato che Israele vieta attività dell’ANP in queste aree, i palestinesi sono lasciati senza servizi pubblici. Le autorità sanitarie si sono impegnate ad aprire cliniche e centri per i tamponi in queste aree, e solo quando l’ONG palestinese Adalah ha presentato una petizione alla Suprema Corte Israeliana. Israele ha inoltre respinto gli sforzi di volontari palestinesi per limitare i movimenti o chiudere attività commerciali, anche se alcuni abitanti palestinesi di queste aree hanno il permesso di viaggio e quindi avrebbero potuto diffondere il contagio in Israele e Cisgiordania.

La diffusione dell’infezione è una grande preoccupazione nelle prigioni israeliane, dove a giugno 2020 c’erano più di 4.000 prigionieri e detenuti palestinesi. Centinaia sono in detenzione amministrativa a tempo indeterminato senza processo o accusa. Mentre all’inizio della pandemia gli esperti di diritti umani dell’Onu chiedevano il rilascio in massa dei prigionieri, e centinaia di detenuti israeliani venivano rilasciati in anticipo, nessuna azione simile è stata presa per i palestinesi. Nonostante i vari resoconti di prigionieri e guardie carcerarie israeliane positive al virus, a luglio la Corte Suprema Israeliana ha deliberato che i prigionieri palestinesi non hanno diritto al distanziamento fisico.  

Dato che le politiche israeliane hanno soffocato la possibilità di sviluppare la loro economia da parte dei palestinesi, specialmente nel vitale settore agricolo, molti palestinesi in Cisgiordania sono costretti a lavori poco qualificati in Israele, mentre in genere agli abitanti di Gaza non vengono dati permessi di lavoro. Infatti in Israele quasi il 70% della manodopera nei cantieri edili è palestinese. Questi lavoratori non possono lavorare da casa e, data l’elevata disoccupazione, quelli che hanno un lavoro devono mantenerli. Molto di questo lavoro è continuato e infatti il ministero dei Transporti israeliano ha previsto un’ accelerazione dei progetti durante il lockdown. Ciò promuove il costante sviluppo dell’economia israeliana mentre quella palestinese è crollata, oltre ai salari bassissimi di questi lavoratori. 

A parte lo squilibrio economico, ciò aumenta il rischio sanitario di quelli in Cisgiordania dato che molti lavoratori sono stati rimandati a casa senza testarli. Alcune delle prime morti in Cisgiordania sono state ricondotte a palestinesi che lavoravano in Israele. Oltre alla riluttanza a fare i tamponi ai lavoratori, le condizioni di alloggio e lavoro di migliaia di lavoratori rimasti in Israele durante il lockdown sono state in gran parte ignorate dal governo israeliano, persino quelle di chi era costretto a dormire in una struttura per il deposito dei rifiuti a Gerusalemme, dove non c’erano alloggi per fermarsi la notte.

Come detto sopra, il blocco israeliano su Gaza e le restrizioni in Cisgiordania hanno causato la scarsità delle grandi dotazioni necessarie per cure complesse, come i ventilatori. All’inizio di aprile 2020, l’80-90% dei 256 ventilatori in Cisgiordania e gli 87 nella Striscia di Gaza erano già occupati. Mentre Israele temeva che la disponibilità di 40 ventilatori per 100.000 persone fosse insufficiente, la Striscia di Gaza ne aveva solo 3 per 100.000 persone. Anche dopo l’inizio della pandemia, i fornitori di attrezzature mediche che avevano lavorato direttamente con il ministero della Salute palestinese per importare prodotti avevano difficoltà a ottenere l’approvazione del Coordinatore israeliano delle Attività del Governo nei Territori (COGAT). Un fornitore ha cercato per tre anni senza successo di fare entrare apparecchiature mediche a Gaza. 

Per aggirare questi problemi, i palestinesi hanno trovato modi per produrre ventilatori con i materiali disponibili e dopo una richiesta di assistenza del ministero degli Esteri palestinese, un’Ong australiana ha donato all’ANP ventilatori e altre apparecchiature. Comunque anche queste donazioni urgentemente necessarie devono essere approvate e avallate dal governo israeliano e saranno mandate in Israele prima di essere distribuite a Ramallah.

Le autorità israeliane hanno anche confiscato materiali indispensabili per attrezzare cliniche e alloggi di emergenza nella valle del Giordano, inclusi materiali per installare tende e un generatore. Dopo una temporanea interruzione delle demolizioni all’inizio di aprile 2020, alla fine di quel mese Israele ha demolito 65 strutture a Gerico e al-Khalil (Hebron), lasciando senza casa decine di palestinesi, inclusi almeno 25 bambini. 

Nonostante l’aumento dei casi positivi in Israele e in Cisgiordania, durante la primavera e l’estate le demolizioni sono continuate e hanno incluso un centro indispensabile per fare i test nell’Area C [in base agli accordi di Oslo sotto totale ma temporaneo controllo israeliano, ndtr.] vicino ad al-Khalil, l’epicentro della pandemia in Cisgiordania. Inoltre le demolizioni a Gerusalemme Est stanno per superare i numeri degli anni precedenti, al settembre 2020 sono state distrutte approssimativamente 90 unità residenziali. 

Mentre la violenza strutturale dell’occupazione è particolarmente evidente in questi tempi di crisi globale, la violenza diretta non è cessata. Gaza è stata impegnata in un conflitto attivo per la maggior parte dell’estate, aerei e artiglieria israeliana hanno colpito aree nella Striscia in risposta ai palloni incendiari e ai razzi. In Cisgiordania, incursioni e raid dell’esercito israeliano sono continuati e la popolazione palestinese temeva che i soldati israeliani che entravano nelle loro case o lavoravano nei checkpoint potessero essere infettati.

Raccomandazioni

Come affermato dall’Onu in occasione del cinquantesimo anniversario dell’occupazione israeliana, “l’occupazione impedisce che il precedente flusso di aiuti si traduca in tangibili miglioramenti in termini di sviluppo. Molto del sostegno dei donatori è stato usato per limitare i danni, interventi umanitari e sostegno al budget.” Che siano l’interminabile e astratto dibattito su uno Stato o due o l’enorme industria degli aiuti che privilegia sorveglianza e governance a sanità ed agricoltura, molto di ciò che si fa “per” i palestinesi cambia molto poco la macabra realtà. Ciò nasconde semplicemente l’esistente crisi umanitaria, ora aggravata dalla crisi sanitaria globale che sta mettendo a dura prova persino gli Stati più stabili e ricchi. Definire “tranquillo” ogni periodo senza una guerra attiva è una falsità quando scoppia una crisi come quella del COVID-19 e nessun organismo vuole e può proteggere le vite dei palestinesi. 

Ecco quello che è disperatamente necessario per affrontare la crisi sanitaria in Palestina durante la pandemia da COVID-19: I leader palestinesi che fino a ora e per varie ragioni non sono stati all’altezza nell’ occuparsi dei palestinesi durante la pandemia, devono guardar oltre lo status quo e avere un “approccio forte e socialmente collaborativo” che vada incontro alle necessità dei palestinesi.

  • Israele deve liberare i prigionieri politici palestinesi, con la massima urgenza quelli anziani e i malati cronici, e allo stesso tempo deve migliorare le condizioni di quelli che stanno scontando una condanna.

  • Per proteggere questa popolazione marginalizzata, che è stata colpita in modo sproporzionato dalla pandemia, è necessaria una giusta definizione dello status dei rifugiati palestinesi in tutto il Medio Oriente, incluso il ritorno e l’implementazione dei diritti negli Stati ospiti. Fino all’inizio di tale implementazione, la comunità internazionale dovrebbe ripristinare la possibilità da parte dell’UNRWA di provvedere a servizi sanitari ed educativi nelle comunità dei rifugiati palestinesi invece di dover far affidamento ad appelli urgenti e altri tentativi di raccolta fondi ad hoc.

  • Israele deve togliere l’assedio a Gaza, specialmente per permettere l’ingresso di prodotti medici e materiali per costruire strutture sanitarie e di personale medico a sostegno di quello drammaticamente carente a Gaza. Allentare le restrizioni delle importazioni in Cisgiordania alleggerirebbe inoltre il peso sulle strutture mediche.

  • La comunità internazionale, inclusi Unione europea, Lega Araba e Consiglio di Sicurezza dell’ONU devono far pressione su Israele affinché faccia ogni sforzo per adempiere ai suoi obblighi di potenza occupante in in base alla Quarta Convenzione di Ginevra. Dovrebbero chiedere che Israele cessi tutte le incursioni in Cisgiordania, fermi tutte le demolizioni e metta in atto particolari sistemi di protezione per i lavoratori palestinesi in Israele.

  • Yara Asi è ricercatrice post-dottorato presso l’università della Florida centrale, dove per oltre 6 anni ha insegnato nel Dipartimento di Gestione sanitaria e informatica. È borsista Fulbright USA della Cisgiordania nel 2020-2021. Le sue ricerche si concentrano principalmente sulla salute globale e lo sviluppo in popolazioni fragili e colpite dalla guerra. 

Oltre ad aver lavorato in una delle prime organizzazioni di assistenza certificate negli Stati Uniti, ha anche collaborato con Amnesty International USA, con lArab Center Washington DC, il Palestinian American Research Center, [Centro Palestinese Americano di Ricerca] e con Al-Shabaka, un network per le politiche palestinesi su temi relativi alla sensibilizzazione. Ha tenuto conferenze su argomenti relativi alla salute globale, come sicurezza alimentare, informatica biomedica e donne nel sistema sanitario, e ha pubblicato le sue ricerche in molti articoli per riviste, capitoli di libri e altro. Il suo libro di prossima uscita con la Johns Hopkins University Press tratta delle minacce poste da guerre e conflitti a salute pubblica e sicurezza umana.

(tradotto dall’inglese da Mirella Alessio)




Il regalo dell’ANP a Biden è il ritorno a una strategia fallimentare

Omar Karmi

20 novembre 2020 – The Electronic Intifada

La notizia secondo cui l’Autorità Nazionale Palestinese ha deciso di riprendere il coordinamento con Israele dopo averlo sospeso per sei mesi non rappresenta una grande sorpresa.

Si tratta di un regalo di benvenuto a Joe Biden, il neoeletto presidente americano, che dimostra nel contempo la scarsità di idee della dirigenza dell’ANP.

In maggio la decisione di porre fine al coordinamento era stata presa di fronte alla minaccia di un’annessione formale da parte di Israele di circa il 30% della Cisgiordania occupata. Ma fin dall’inizio i politici palestinesi hanno fatto sapere che sarebbe stata una protesta per lo più simbolica.

Formalmente il coordinamento tra le forze di sicurezza palestinesi e l’esercito israeliano sarebbe dovuto finire. Ma le forze di sicurezza palestinesi hanno agito come se il coordinamento fosse ancora in atto. In altre parole nell’unico ambito che interessa ad Israele, la sicurezza, l’ANP ha subito fatto marcia indietro.

Il resto è stato solo atteggiarsi e farsi del male da soli.

È stata solo una posa perché, senza il coordinamento per la sicurezza, si è trattato di una mossa largamente priva di effetti concreti, rivolta più all’opinione pubblica interna – guardate, stiamo facendo qualcosa – che con la reale speranza di ottenere un qualunque effetto significativo.

È stata autolesionista perché tutto ciò che ne è derivato è stato che l’ANP ha finito per doversela cavare senza la riscossione delle tasse che Israele raccoglie a suo favore.

E, dato che ciò è avvenuto nel bel mezzo di una pandemia globale, ha anche comportato alcune conseguenze molto concrete, soprattutto a Gaza. Lì la fine del coordinamento ha voluto dire che una popolazione già imprigionata dal blocco israeliano ora non ha quasi nessuna possibilità di lasciare il territorio per cercare cure mediche.

Con un settore sanitario sull’orlo del collasso come diretta conseguenza delle sanzioni e dell’assedio israeliani, ciò ha provocato indicibili danni e sofferenze.

Il coordinamento tra l’ANP e Israele è il meccanismo attraverso il quale Israele impone il suo sistema di permessi ai palestinesi nei territori occupati, subìto in modo più pesante nella Striscia di Gaza isolata. Come potenza occupante, tuttavia, Israele conserva la responsabilità del benessere di tutte le persone sotto occupazione, indipendentemente dallo stato del coordinamento.

Una gloriosa vittoria

Ora si potrebbe sostenere, allo stesso modo degli EAU e del Bahrain, che il lavoro è stato fatto, la minaccia di un’annessione formale è superata e che non c’è bisogno di continuare a sospendere il coordinamento, soprattutto alla luce della sua natura autolesionista.

Tuttavia questo suggerirebbe che siano successe almeno due cose, entrambe palesemente false:

primo, che la mancanza del coordinamento tra Palestina e Israele abbia in un certo modo creato talmente tanti problemi ad Israele da fargli abbandonare l’annessione.

Secondo, che Israele abbia abbandonato l’annessione.

È vero che Israele ha accantonato il piano di annunciare formalmente l’annessione di altra terra occupata (ha già annesso formalmente le Alture del Golan e Gerusalemme est). Ma ha portato avanti la costruzione di colonie. Ogni insediamento edificato è un’annessione di fatto. Israele non sta spostando persone in un territorio che ha intenzione di evacuare a favore di uno Stato palestinese. Quindi porre fine al coordinamento con Israele non ha ottenuto assolutamente niente per i palestinesi. Tuttavia ciò non ha impedito a importanti politici dell’ANP di dichiarare che la ripresa del coordinamento è una “vittoria” per il popolo palestinese.

Senza dubbio in senso ironico.

Ci sono solo due ragioni per cui l’ANP ha ripreso il coordinamento e nessuna delle due ha qualcosa a che vedere con un successo diplomatico. La prima è la stretta finanziaria, che è reale. La seconda è stata l’elezione del presidente USA. L’ANP è desiderosa di presentare la (presumibilmente) entrante amministrazione Biden come un nuovo inizio.

Ma nella sua ansia di fare ciò l’ANP sta semplicemente per ristabilire la situazione precedente alla presidenza USA di Donald Trump e per ricominciare con la solita routine che per più di vent’anni non è servita a nessuno, se non a Israele.

Continuare a girare in tondo

Il primo segno delle intenzioni dell’ANP è la sua fretta di riprendere i rapporti diplomatici con gli EAU e il Bahrain, nonostante il loro “tradimento” con la normalizzazione delle relazioni con Israele.

Poi deve assicurarsi la riapertura della missione dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina a Washington e una ripresa dei rapporti con gli USA. Questo può sembrare un momento promettente per ottenere qualche concessione dall’amministrazione entrante, desiderosa di prendere le distanze da quella uscente.

Tuttavia una concessione è fuori discussione: Biden ha detto molto tempo fa che non sposterà l’ambasciata USA da Gerusalemme.Ma i palestinesi potrebbero chiedere che gli USA chiariscano la loro posizione su Gerusalemme est come territorio occupato e sulle colonie come illegali in base al diritto internazionale. Queste non sono posizioni controverse a livello internazionale.

Nel corso degli anni gli USA hanno progressivamente alleggerito la loro posizione sulle colonie, arrivando al colmo quando l’amministrazione Trump le ha definite “non…in contraddizione” con le leggi internazionali. Ciò potrebbe fornire a Biden la possibilità di rompere con gli anni di Trump.

Ma Biden è profondamente coinvolto nella cultura filoisraeliana di Washington e, in ogni caso, indipendentemente da quale partito controlli il Congresso USA, dovrà sempre affrontare ostilità quando si tratta di qualunque cosa riguardi Israele.

Qualunque concessione sarà difficile. Ciò è particolarmente vero dal momento che la dirigenza dell’Autorità Nazionale Palestinese difficilmente si troverà a resistere quando la Casa Bianca gli farà l’occhiolino. Quindi non ci si aspetti alcun concreto tentativo di ottenere qualcosa dagli Stati Uniti o da Israele quando l’amministrazione Biden si farà sentire, cosa che inevitabilmente succederà. Al contrario, se e quando l’amministrazione Biden inviterà di nuovo l’OLP a Washington, la dirigenza palestinese non ci penserà due volte.

Di conseguenza, aspettiamoci di vedere cestinati in sordina i tentativi di unità con Hamas, e con essi i colloqui per le elezioni, in quanto l’ANP cerca di evitare qualunque cosa possa mettere in difficolta il presidente Biden.

Il leader dell’ANP Mahmoud Abbas potrebbe consigliare di vedere un nuovo tipo di processo di pace, guidato da un insieme di attori internazionali piuttosto che solo dagli USA.

Nel corso degli ultimi anni ha espresso ripetutamente questa posizione.

Ma ci vorrà poco perché i funzionari di un’amministrazione USA “più amichevole” convincano la loro controparte palestinese ad accettare come primi passi un ritorno dei finanziamenti USA all’ANP o all’UNRWA, l’agenzia dell’ONU che si occupa dei rifugiati palestinesi, insieme alla riapertura della missione dell’OLP a Washington, e a lasciar perdere altre richieste.

Dopodiché sarà solo questione di tempo prima che i palestinesi possano celebrare un’altra “vittoria” diplomatica: il ritorno alla situazione precedente a Trump.

Ovviamente ciò ha dato davvero buoni risultati ai palestinesi.

In mancanza di un cambiamento radicale di strategia da parte della dirigenza dell’OLP, stiamo per assistere di nuovo allo stesso disastroso processo di pace.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)