L’amministrazione statunitense uscente definisce il BDS “antisemita”

Tamara Nassar

19 novembre 2020 – ELECTRONIC INTIFADA

Giovedì il segretario di Stato Mike Pompeo ha formalmente etichettato il movimento per il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS) a favore dei diritti dei palestinesi come “antisemita” e ha promesso che l’amministrazione statunitense uscente lo combatterà.

Questa è l’ultima violazione della libertà di parola da parte del governo degli Stati Uniti nel suo tentativo di reprimere il sostegno ai diritti dei palestinesi.

“Come abbiamo chiarito, l’antisionismo è antisemitismo”, ha detto Pompeo, equiparando la critica nei confronti di Israele e della sua ideologia politica razzista al sionismo da un lato, al fanatismo contro gli ebrei dall’altro.

Gli Stati Uniti sono “impegnati a contrastare la campagna globale del BDS in quanto manifestazione di antisemitismo”, ha affermato Pompeo.

Giovedì, a Gerusalemme, in una conferenza stampa congiunta con il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, egli ha inoltre definito il BDS un “cancro”.

Pompeo ha affermato che l’inviato del Dipartimento di Stato per l’antisemitismo avrebbe “identificato le organizzazioni che si impegnano o in altro modo sostengono” il BDS per consentire al Dipartimento di Stato di interrompere qualsiasi finanziamento governativo.

Giovedì Amnesty International ha dichiarato che gli attacchi mirati di Pompeo contro i gruppi “che, in quanto antisemiti, utilizzano strumenti pacifici, come il boicottaggio, per porre fine alle violazioni dei diritti umani contro i palestinesi, violano la libertà di espressione e sono un regalo per chi cerca di mettere a tacere, perseguitare, intimidire e opprimere coloro che difendono i diritti umani in tutto il mondo”.

Le organizzazioni della società civile palestinese hanno lanciato la campagna BDS nel 2005 per fare pressione su Israele affinché rispettasse i diritti dei palestinesi e si attenesse al diritto internazionale. Si basa sul modello della campagna che ha contribuito a porre fine all’apartheid in Sud Africa.

Il movimento BDS si oppone a tutte le forme di razzismo e fanatismo, compreso l’antisemitismo, e sostiene l’uguaglianza come questione di principio.

Il Comitato nazionale palestinese per il boicottaggio, il gruppo direttivo della campagna globale del BDS, ha denunciato il verificarsi della “fanatica alleanza Trump-Netanyahu” che “continua a consentire e normalizzare la supremazia bianca e l’antisemitismo negli Stati Uniti e nel mondo, diffamando contemporaneamente il BDS.”

Omar Shakir di Human Rights Watch ha affermato che l’amministrazione Trump “sta compromettendo la lotta contro l’antisemitismo equiparando quest’ultimo alle forme di boicottaggio pacifico”.

Vendita delle merci dei coloni

Pompeo ha anche dichiarato che le merci prodotte nelle colonie insediate sulla terra palestinese occupata devono essere etichettate come “Made in Israel” – nascondendo che sono state prodotte in colonie costruite nel territorio occupato in violazione del diritto internazionale.

Ciò verrà applicato a tutti i prodotti dell’Area C – il 60% della Cisgiordania sotto il pieno controllo militare israeliano secondo gli accordi di Oslo degli anni ’90. È l’area in cui si trova la maggior parte delle colonie israeliane.

Questo avviene nel momento in cui quattro senatori repubblicani hanno scritto questa settimana una lettera al presidente Donald Trump chiedendogli di cambiare la politica doganale degli Stati Uniti per consentire alle merci prodotte nelle colonie di essere etichettate come “Made in Israel”.

Pompeo ha aggiunto che le merci prodotte nelle aree della Cisgiordania occupata nominalmente sotto il controllo dell’Autorità Palestinese saranno etichettate come prodotte in “Cisgiordania”.

Pompeo ha anche affermato che gli Stati Uniti “non accetteranno più” l’etichettatura congiunta dei prodotti della Cisgiordania occupata e di Gaza, poiché i due territori “sono separati politicamente e amministrativamente e devono essere trattati di conseguenza”.

Queste misure possono essere interpretate come un ulteriore riconoscimento da parte degli Stati Uniti dell’annessione de facto del territorio palestinese da parte di Israele, mentre negano ai palestinesi qualsiasi riconoscimento che la Cisgiordania e la Striscia di Gaza costituiscano un’unica entità politica.

Il Comitato nazionale del BDS ha definito la fusione intenzionale di antisionismo e antisemitismo da parte del Dipartimento di Stato un tentativo “revisionista e fraudolento” di mettere a tacere non solo i sostenitori del BDS, ma anche le organizzazioni per i diritti umani – come Human Rights Watch – che non sostengono il BDS ma si oppongono al commercio dei prodotti delle colonie.

Il vino delle colonie

Giovedì in un tweet Pompeo ha anche attaccato la politica della UE, scarsamente applicata, volta a richiedere che le merci delle colonie israeliane siano etichettate come tali.

A quanto pare Pompeo avrebbe poco dopo cancellato il tweet per poi ripubblicarlo senza l’immagine, originariamente inclusa, di quello che sembrava il villaggio palestinese di Mukhmas [a nord-est di Gerusalemme, nella Cisgiordania centrale, ndtr.]

Ciò è avvenuto quando Pompeo e l’ambasciatore statunitense David Friedman hanno visitato le Cantine Psagot, un’azienda coloniale che opera su terre palestinesi occupate e rubate.

“Oggi ho pranzato nella pittoresca cantina Psagot”, ha scritto Pompeo.

“Sfortunatamente, Psagot e altre aziende sono state prese di mira dalle dannose iniziative della UE riguardo l’etichettatura, le quali agevolano il boicottaggio delle aziende israeliane”.

Funzionari statunitensi avevano già visitato, nel corso dell’amministrazione Trump, i territori occupati.

La sosta di Pompeo presso le cantine Psagot era tuttavia chiaramente intesa a fornire un sostegno di alto profilo alle colonie illegali di Israele.

Il vino prodotto dalle Cantine Psagot è ottenuto da uve provenienti da diverse colonie della Cisgiordania.

Le cantine sono costruite su un terreno di proprietà dei palestinesi della vicina città di al-Bireh [adiacente a Ramallah, in Cisgiordania, ndtr.], i cui abitanti hanno protestato contro la visita di Pompeo.

Alla stregua di altri colonizzatori europei Israele ha cercato a lungo di vendere all’interno del mercato vinicolo internazionale vini prodotti su terreni palestinesi e siriani rubati, come ha scritto recentemente il professore della Columbia University Joseph Massad [docente di politica araba moderna e storia intellettuale, ndtr.].

Il vino prodotto sulle alture del Golan siriano occupate sarà presto in vendita anche negli Emirati Arabi Uniti.

Durante la sua visita Pompeo ha anche esaltato la costruzione della cosiddetta Città di David, un parco a tema costruito nel quartiere di Silwan, nella Gerusalemme est occupata, da dove Israele sta espellendo con la forza i residenti palestinesi.

Giovedì Pompeo ha inoltre visitato il sito battesimale vicino al fiume Giordano, al confine della Cisgiordania occupata con la Giordania.

Pompeo aveva anche in programma una sosta sulle alture del Golan. Trump ha riconosciuto la sovranità di Israele sull’area nel marzo 2019, in barba al diritto internazionale.

Rafforzamento dell’alleanza anti-Iran

La visita di Pompeo ha coinciso con quella del ministro degli Esteri del Bahrein Abdullatif bin Rashid Al Zayani, arrivato mercoledì a Tel Aviv per la sua prima visita ufficiale da quando, a settembre, il suo paese ha accettato di normalizzare i rapporti con Israele.

Al Zayani si è unito a Pompeo e Netanyahu a Gerusalemme per una conferenza stampa congiunta.

Al Zayani ha annunciato che Israele e Bahrein si scambieranno presto le ambasciate. Dal prossimo mese, ha aggiunto, israeliani e bahreiniti potranno ottenere visti elettronici e presto potranno viaggiare con voli regolari tra i due paesi.

Gli accordi di normalizzazione tra gli stati arabi e Israele fanno parte degli sforzi degli Stati Uniti per costruire un’alleanza anti-Iran tra Israele e gli stati del Golfo sotto la supervisione americana.

Pompeo si è vantato del fatto che i recenti accordi tra Israele e gli Stati arabi abbiano reso l’Iran “sempre più isolato”, con la sua influenza “in declino”.

Ciò avviene mentre l’amministrazione Trump intensifica le sanzioni economiche contro l’Iran nel tentativo di rendere irreversibile, dopo che Joe Biden lo avrà sostituito come presidente, il ritiro di Trump dall’accordo nucleare del 2015.

Trump, ha riferito il New York Times martedì, ha persino preso in considerazione di bombardare il principale impianto nucleare iraniano nel corso delle ultime settimane della sua presidenza.

Secondo quanto riferito, dei consiglieri, tra cui Pompeo e il vicepresidente Mike Pence, lo avrebbero dissuaso da ciò.

L’accordo del 2015 raggiunto dall’amministrazione Obama e da altri stati ha visto l’Iran limitare volontariamente il suo programma di produzione di energia nucleare in cambio della revoca delle sanzioni economiche.

Israele ha incessantemente fatto pressioni per intensificare la guerra economica contro l’Iran, che causa sofferenza ai normali cittadini iraniani e devasta l’economia del paese nel corso di una pandemia.

Mercoledì Pompeo ha strombazzato la campagna dell’amministrazione contro l’Iran “Massima pressione”.

“Oggi l’economia iraniana deve affrontare una crisi valutaria, un aumento del debito pubblico e un aumento dell’inflazione”, ha affermato Pompeo. Ha ammonito sulle “conseguenze dolorose” per gli stati e le società che sfidano le sanzioni statunitensi.

Lettera del Congresso

Prima dell’arrivo di Pompeo in Israele, il membro del Congresso Mark Pocan si è fatto promotore di una lettera con la richiesta al Segretario di Stato di condanna delle recenti demolizioni di case palestinesi da parte di Israele.

Co-firmata da altri 40 membri del Congresso, la lettera si riferisce alla demolizione, il 3 novembre, della comunità di Khirbet Humsa [villaggio nella parte settentrionale della valle del Giordano, ndtr.] nella Cisgiordania occupata.

La distruzione ha lasciato più di 70 palestinesi senza casa, inclusi 41 bambini – la più grande demolizione di questo tipo da molti anni.

Il membro del Congresso Ilhan Omar, una dei cofirmatari, ha definito la demolizione “un crimine grave” e ha affermato che gli Stati Uniti “non dovrebbero finanziare la pulizia etnica”.

La lettera chiede se siano stati utilizzati per la demolizione strumenti forniti dagli americani – il che Omar aveva precedentemente ammonito sarebbe stato illegale.

Chiede inoltre con forza che negli ultimi due mesi del mandato di Pompeo, “le violazioni dei diritti umani e le violazioni del diritto internazionale continuino ad essere respinte con la forza dal governo americano”.

È molto chiaro, tuttavia, che Pompeo è determinato a utilizzare il suo tempo restante per incoraggiare e premiare il maggior numero possibile di violazioni da parte di Israele.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Prevenire il terrorismo

Amira Hass

17 novembre 2020 – Haaretz

Non si tratta solo di Givat Hamatos [colonia israeliana nei pressi di Gerusalemme in cui il governo israeliano ha annunciato di voler costruire 1.200 nuove unità immobiliari, ndtr.]: Israele sta continuamente pianificando e costruendo infrastrutture e attività immobiliari su vasta scala a Gerusalemme est e in tutta la Cisgiordania, tutte intese a sabotare la possibilità di uno Stato palestinese. Ma per nostra gioia questa gara d’appalto per la costruzione di unità residenziali sulle riserve di terra di Beit Safafa e Betlemme sta facendo molto chiasso, perché è stata interpretata come una subdola manovra prima che il presidente eletto Joe Biden entri alla Casa Bianca.

Ieri diplomatici europei hanno visitato il luogo della colonia. Le condanne, o per essere più precisi le riserve riguardo alla gara d’appalto, verranno probabilmente presto rese pubbliche dai ministri degli Esteri dell’UE e da vari Stati europei. Il coordinatore speciale dell’ONU Nickolay Mladenov ha già manifestato la sua preoccupazione. sottolineando per la milionesima volta che la costruzione di colonie viola le leggi internazionali.

Non è stato solo il presidente USA Trump ad incoraggiare il progetto di furto di terra da parte di Israele. In due decenni di negoziati con l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina le espressioni rituali di deplorazione e condanna da parte dell’Unione Europea e dei Paesi che ne fanno parte hanno insegnato a Israele che non ha niente da temere. Se questi Paesi, che appoggiano il percorso degli accordi di Oslo come nessun altro, non fanno passi concreti contro la criminalità seriale di Israele, perché esso dovrebbe preoccuparsene? Può continuare a derubare e calpestare, e se necessario a tirare fuori l’arma dell’“antisemitismo” e dell’“Olocausto” per contrastare qualunque iniziativa per porre fine all’orgia israeliana di spoliazione immobiliare.

Perciò, per favore, “Givat Hamatos” è un’opportunità perché questi Paesi trasformino questo rituale in azioni concrete, che possono e devono adottare. Innanzitutto, devono rendere pubbliche le seguenti precisazioni:

• Costruire insediamenti su un territorio occupato è vietato dal diritto internazionale.

• L’apartheid è un crimine per il quale i responsabili, gli esecutori e quanti vi partecipano consapevolmente devono essere puniti.

• Una dichiarazione di “terra statale” supportata da armi e ordini militari e il trasferimento di questa terra a un gruppo etnico a spese di un altro sono una forma di terrorismo.

• Costruire colonie sul territorio palestinese occupato deriva dalla visione del mondo e dalle prassi di un regime di apartheid che considera superiori gli ebrei, e di conseguenza potrebbe ancora una volta mettere in atto azioni di espulsione di massa di palestinesi.

In base a queste precisazioni, i Paesi che si oppongono al terrorismo di stato e all’apartheid renderanno pubblici i seguenti avvertimenti:

• A qualunque impresa partecipi alla gara di appalto di Givat Hamatos non verrà consentito di partecipare a progetti in cui siano coinvolte imprese europee e ai suoi proprietari e dirigenti non verrà consentito di entrare in Europa.

• Se proprietari e dirigenti sono cittadini europei, essi verranno perseguiti nei loro Paesi per complicità con il crimine di apartheid.

• Il divieto di ingresso e di svolgere attività economica e il perseguimento dei colpevoli riguarda anche i progettisti e gli architetti.

• Tutto ciò riguarda gli altri dirigenti dell’Autorità Israeliana per la Terra e gli acquirenti delle unità abitative.

• Proprietari e dirigenti delle imprese operanti in Europa che concludano affari con questi sub-contrattisti e architetti verranno perseguiti per aver favorito la perpetrazione di un reato.

• Come vengono confiscati i conti bancari di chi viene sospettato di essere coinvolto in attività terroristiche, così lo saranno i conti bancari di tutti i summenzionati.

• La vendita di abitazioni a palestinesi come “foglia di fico” non renderà legale il progetto, a meno che non vi vadano ad abitare anche i palestinesi residenti in Cisgiordania.

Questo sarà l’inizio. In seguito gli stessi ammonimenti si applicheranno ad altri progetti di costruzione meno pubblicizzati e alle colonie già esistenti. Se vi opponete all’apartheid e se vi rendete conto che i suoi progettisti e beneficiari vogliono e sono in grado di espellere altri palestinesi dalla loro patria, non definite ciò “delirante”.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Israele procede con una nuova colonia a Gerusalemme prima della presidenza Biden

15 novembre 2020 MiddleEastEye and agencies

Voci critiche segnalano che le autorità stanno deliberatamente pubblicando bandi per costruire a Givat Hamatos prima che Trump lasci la Casa Bianca

Israele è andato avanti con il progetto di costruzione di una nuova colonia nella Gerusalemme est occupata, ha affermato domenica un gruppo di monitoraggio, avvertendo che questi sforzi sono stati incrementati prima che il presidente Donald Trump lasci la Casa Bianca a gennaio. 

L’amministrazione Trump ha infranto una prassi decennale bipartisan non opponendosi all’attività coloniale israeliana a Gerusalemme est e nella Cisgiordania occupate. Il presidente eletto Joe Biden ha affermato che la sua amministrazione ripristinerà la politica USA di opposizione alle colonie, che sono illegali in base al diritto internazionale e che molti governi considerano un ostacolo alla pace.

Nel dicembre 2017 l’amministrazione Trump ha rotto con la comunità internazionale ed ha riconosciuto l’intera città di Gerusalemme come capitale di Israele. Nel novembre 2019 ha affermato che non avrebbe più considerato le colonie israeliane nella Cisgiordania occupata come una violazione del diritto internazionale, ancora una volta andando contro l’ampio consenso diplomatico. 

L’attuale Segretario di Stato Mike Pompeo visiterà nei prossimi giorni una colonia israeliana illegale nella Cisgiordania palestinese e sulle Alture del Golan siriane, compiendo la prima visita di un segretario di Stato USA nelle zone occupate palestinesi e siriane. In particolare si recherà a Psagot Winery, che a febbraio ha intitolato un vino in suo onore.

L’ultima iniziativa ha visto l’Autorità Israeliana per la Terra emettere bandi di costruzione a Givat Hamatos, un’area attualmente disabitata di Gerusalemme est, vicina al quartiere a maggioranza palestinese di Beit Safafa.

A febbraio il Primo Ministro israeliano di destra Benjamin Netanyahu ha annunciato l’approvazione di 3.000 abitazioni nell’area.

Ha detto che 2.000 sarebbero state destinate ad ebrei e 1.000 a residenti palestinesi di Beit Safafa.

La settimana scorsa l’Autorità (israeliana) per la Terra ha emesso bandi per la costruzione di oltre 1,200 unità per la maggior parte residenziali a Givat Hamatos.

Ir Amim, un’organizzazione israeliana della società civile che monitora le colonie a Gerusalemme e che domenica ha richiamato l’attenzione sui bandi ha avvertito che i prossimi due mesi che precedono il cambio a Washington DC “saranno un periodo critico”.

Pensiamo che Israele cercherà di sfruttare questo tempo per portare avanti dei passi che l’amministrazione entrante potrebbe ostacolare”, ha affermato in una dichiarazione, sottolineando che la scadenza del bando sarà il 18 gennaio 2021, due giorni prima dell’insediamento di Biden.

Ir Amim ha ribadito la preoccupazione che la costruzione di una colonia a Givat Hamatos sarebbe un colpo devastante ad una possibile risoluzione dell’occupazione israeliana delle terre palestinesi, in quanto isolerebbe Gerusalemme est dalla città cisgiordana di Betlemme, interrompendo la continuità territoriale di un futuro Stato palestinese con Gerusalemme est come capitale nel contesto di una soluzione di due Stati.

Se realizzata, Givat Hamatos diventerebbe la prima nuova colonia a Gerusalemme est in 20 anni”, ha detto l’organizzazione in una dichiarazione.

Nabil Abu Rudeina, un portavoce del presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) Mahmoud Abbas, ha detto che i bandi per Givat Hamatos rappresentano un tentativo di Israele “di uccidere la soluzione di due Stati sostenuta a livello internazionale”.

I critici della soluzione dei due Stati sostengono che non sia più percorribile a causa della continua colonizzazione israeliana, che vede circa 400.000 coloni che vivono in Cisgiordania sotto la legge israeliana che utilizza sistemi educativi e di trasporto separati, in ciò che esperti giuridici sostengono configuri una politica di apartheid.

I bandi per Gerusalemme est fanno seguito all’approvazione, la settimana scorsa, di 96 nuove abitazioni per coloni a Gerusalemme est nel quartiere di Ramat Shlomo.

L’approvazione di costruzioni di colonie a Ramat Shlomo nel 2010 aveva provocato un grave contrasto tra Netanyahu e l’ex presidente USA Barack Obama e l’allora vicepresidente Biden.

Israele ha preso il controllo di Gerusalemme est nel corso della guerra dei sei giorni del 1967, prima di annetterla con una mossa non riconosciuta dalla maggior parte della comunità internazionale.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




I registi boicottano il TLVFest del pinkwashing israeliano

Tamara Nassar

14 novembre 2020 – The Electronic Intifada

La schermata del sito web del TLVFest del 2 novembre mostra il ministero degli Affari Strategici israeliano elencato come uno dei principali sponsor del Festival internazionale del film LGBTQ di Tel Aviv, sostenuto dal governo.

Più di una decina di registi hanno seguito l’invito palestinese a boicottare il TLVFest, il Festival Internazionale del Film LGBTQ di Tel Aviv, sostenuto dal governo.

Sei di questi si sono anche uniti ad altri 170 artisti da tutto il mondo i quali hanno firmato un impegno lanciato all’inizio di quest’anno per boicottare il festival.

Il TLVFest, che si terrà questo mese, ha rafforzato quest’anno la sua intesa col governo israeliano di estrema destra, in particolare col ministero degli Affari Strategici.

Il ministero è l’organismo che guida l’impegno globale di Israele nel diffamare e sabotare in tutto il mondo il movimento per i diritti dei palestinesi.

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TLVFest è una pietra miliare della strategia di propaganda israeliana nota come pinkwashing [copertura di atteggiamenti e pratiche impopolari o illegali con la tolleranza e ospitalità nei confronti degli omosessuali, ndtr.].

Ciò spiega il presunto atteggiamento di disponibilità di Israele verso le questioni LGBTQ coll’intento di deviare le critiche dai suoi abusi riguardo i diritti umani e dai crimini di guerra contro i palestinesi.

Il pinkwashing mira anche a presentare falsamente Tel Aviv come un luogo sicuro per i palestinesi alla ricerca di relazioni omosessuali, mentre si esagera o si mente sui pericoli che essi affronterebbero all’interno della propria comunità.

La strategia è tipicamente rivolta ad un pubblico progressista occidentale.

Sponsorizzazione del ministero

Il multimilionario ministero degli Affari Strategici è uno dei principali sponsor del festival.

Formato da funzionari delle agenzie di spionaggio israeliane, conduce una guerra globale contro il BDS – il movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni.

Quando i primi registi hanno iniziato a ritirarsi, il TLVFest ha cercato di nascondere la sua collaborazione con il ministero oscurando il suo logo sul sito web del festival.

“Ha prima sostituito la versione inglese del logo del ministero con una versione ebraica, poi l’ha rimosso del tutto solo per sostituirlo di nuovo con un logo senza marchio”, ha riferito la Campagna Palestinese per il Boicottaggio Accademico e Culturale di Israele (PACBI).

Ma, nonostante gli sforzi per nasconderlo, il sostegno al festival da parte del ministero persiste.

Il ministero, ad esempio, sta ancora caricando sul suo canale YouTube i video di presentazione del festival.

Partenariati

Anche diversi governi europei stanno sponsorizzando il festival.

Le ambasciate europee partecipano spesso all’altro grande evento di pinkwashing di Israele, il gay pride annuale di Tel Aviv.

Il TLVFest collabora anche con Creative Community for Peace, un gruppo di facciata

dell’ organizzazione della lobby israeliana di estrema destra StandWithUs.

Il suo scopo è screditare l’appello della società civile palestinese a favore del BDS, soprattutto tra coloro che si identificano come LGBTQ.

In un’e-mail rilevata da The Electronic Intifada, Creative Community for Peace ringrazia i registi che partecipano al festival.

Il direttore del gruppo, Ari Ingel, sostiene che il movimento BDS “sta diffondendo menzogne su di noi”.

“Posso assicurarvi che non siamo allineati con nessuna di quelle organizzazioni citate”, ha aggiunto Ingel, senza nominare le organizzazioni a cui si riferiva.

“Siamo più che felici di chattare e rispondere a qualsiasi dubbio possiate avere”, ha detto Ingel agli artisti.

Questo atteggiamento amichevole, tuttavia, non viene dimostrato nei confronti degli artisti che si sono ritirati dal festival.

Gli organizzatori del TLVFest hanno rifiutato di rispettare le richieste di sette registi che hanno chiesto il ritiro dei loro film.

L’email di Ingel rileva che un film che il festival ha in programma è The Polygraph, realizzato da Samira Saraya, una cittadina palestinese di Israele.

Questa non è la prima volta che Saraya partecipa al TLVFest e ad altri festival cinematografici israeliani.

Saraya si descrive come “una palestinese-israeliana che vive in un luogo che nega la mia esistenza e una donna lesbica araba in una società conservatrice e omofoba”.

Saraya contribuisce alla falsa narrazione israeliana secondo cui la società palestinese sarebbe particolarmente intollerante nei confronti delle relazioni omosessuali o LGBTQ molto più di quanto lo sia la società israeliana.

Al di fuori della Tel Aviv, presuntamente progressista, gran parte della società ebraica israeliana considera l’omosessualità un tabù. È condannata anche dai più rispettati rabbini israeliani.

Anche la comunità LGBTQ israeliana è stata bersaglio di attacchi violenti.

Nel 2014, alcuni riservisti della famigerata unità militare israeliana di spionaggio 8200 hanno ammesso di aver utilizzato i dati privati più intimi dei palestinesi, comprese le informazioni sulle loro attività sessuali, per ricattarli e farli diventare informatori su conoscenti e familiari ricercati da Israele.

È anche degno di nota il fatto che la stragrande maggioranza dei palestinesi e degli arabi che intrattengono relazioni omosessuali non si identifichino in base al binomio euro-americano omosessuale-eterosessuale, come ha ampiamente descritto il docente della Columbia University Joseph Massad.

Inoltre per la legge palestinese i rapporti sessuali tra persone dello stesso sesso non sono illegali.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




L’ANP deve chiarire il proprio concetto di ‘negoziati’ nella Palestina abbandonata

Ramona Wadi

14 novembre 2020, Palestine Chronicle

L’ “accordo del secolo” promosso dagli USA potrebbe essere accantonato quando a gennaio si insedierà il presidente eletto Joe Biden, ma le sue ripercussioni non saranno necessariamente una maledizione per l’amministrazione entrante. Proprio come il presidente uscente Donald Trump ha utilizzato decenni di politica estera internazionale e USA per fare una serie di concessioni a Israele, lo stesso succederà quando Biden riporterà gli USA all’ovile del consenso per la soluzione dei due Stati.

Trump ha lasciato in eredità al popolo palestinese un disastro che la comunità internazionale ha allegramente ignorato, limitandosi a mettere in ridicolo la sua inadeguatezza.

Prevedibilmente, l’Autorità Nazionale Palestinese è finita dritta dentro la trappola: ha rifiutato — giustamente — di negoziare con gli USA, ma ha erroneamente rappresentato una comunità internazionale, nel suo complesso, alleata. Gli accordi di normalizzazione fra Israele e i Paesi arabi, mediati dagli USA e approvati da parecchi leader, hanno messo a nudo la farsa del “supporto” internazionale alla Palestina.

Gli USA hanno preso una via diretta che ha ribaltato decenni di diplomazia basata sulla soluzione dei due Stati, in base alla propria agenda e hanno portato l’oggetto delle trattative a un nuovo livello. Che l’ANP lo ammetta o no, il panorama politico è cambiato e la “soluzione” dei due Stati è ora offuscata dagli intrighi USA-Israele sotto Trump.

Il portavoce Nabil Abu Rudeineh ha dimostrato che l’ANP non sembra rendersene conto. “I leader palestinesi sono pronti a ritornare ai negoziati [con Israele], o basandosi sulla legittimità internazionale o ripartendo dal punto dove si erano bloccati o puntando al rispetto israeliano di tutti gli accordi firmati,” ha dichiarato. A parte il fatto che Israele non ha interesse a impegnarsi in alcun accordo, firmato o no, Abu Rudeineh sta dimenticando quello che è successo nel frattempo, dalle trattative interrotte ai piani di annessione rimandati, ma non cancellati, che hanno fatto seguito alla normalizzazione.

L’ANP ovvierà a questa discrepanza? O sta aspettando un ritorno agli accordi mediati dagli USA travestiti dal compromesso dei due Stati, senza essere ritenuta responsabile per aver ignorato i cambiamenti della Palestina sotto Trump e per i suoi regali a Israele?

La soluzione dei due Stati è morta e sepolta e tutti lo sanno. Israele è arrivato allo stadio dell’annessione con scarsa opposizione internazionale e quindi l’ANP deve spiegare qual è la sua idea di negoziato, dalla sua attuale posizione senza speranza nella Palestina abbandonata e frammentata che la comunità internazionale ha contribuito a creare.

Gli accordi di normalizzazione sono stati ben accolti dal resto del mondo; dopo tutto Trump ha usato una forma di diplomazia che l’Onu ha perfezionato fin dal riconoscimento dello Stato di Israele. Fin dal suo insediamento, la comunità internazionale non ha fatto nulla per opporsi alle politiche USA che hanno accelerato la colonizzazione della Palestina da parte di Israele.

Il mondo ha osservato, criticato e condannato, assecondando l’ANP e Mahmoud Abbas con conferenze di pace internazionali e risoluzioni che non hanno portato a nulla. Il motivo dell’accondiscendenza dell’Onu è che gli USA non hanno mai operato in opposizione ai piani della comunità internazionale per la Palestina.

La soluzione dei due Stati è un eufemismo per coprire decenni di attesa, diligentemente praticata dall’ANP, e mantenere l’illusione di legittimità, finanziata dalla comunità internazionale. Forse l’ANP dovrebbe chiarire se, con il termine “negoziati, si riferisce a un altro periodo di umiliazioni per poi ricevere poche briciole gettate dalla comunità internazionale. Con Washington ora riaccolta nel consesso internazionale dopo la missione compiuta a favore di Israele per conto dell’Onu, la Palestina si trova sull’orlo del precipizio.

Ramona Wadi è una cronista per il Middle East Monitor dove originalmente ha pubblicato questo articolo, con cui ora contribuisce al Palestine Chronicle.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Dopo Trump non basta ripristinare la “normale” politica statunitense sulla Palestina

Omar Baddar 

13 novembre 2020 – 972mag

Biden può essere un convinto filo-israeliano, ma gli attivisti e i rappresentanti progressisti possono spingere ad una politica estera che rispetti i diritti dei palestinesi.

La sconfitta di Donald Trump alle elezioni presidenziali statunitensi la scorsa settimana ha generato un collettivo sospiro di sollievo fra i progressisti e le comunità vulnerabili negli Stati Uniti e in tutto il mondo, compresi i palestinesi e coloro che lottano per i diritti dei palestinesi. Il motivo è ovvio: la politica di Trump su Palestina / Israele era guidata dalla sua simpatia per l’autoritarismo e dal desiderio di assecondare la base evangelica di estrema destra. Di conseguenza, era gestita da ideologi incompetenti come Jared Kushner e David Friedman, che hanno abbozzato un tentativo fallito di liquidare una volta per tutte la lotta palestinese per la libertà.

Tale fallimento, tuttavia, non ha lasciato indenni i palestinesi, che negli ultimi quattro anni hanno subito danni devastanti e senza precedenti, tra cui la chiusura della missione diplomatica palestinese a Washington, il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele, l’approvazione dei piani di annessione e la fine dei finanziamenti statunitensi all’UNRWA [agenzia delle Nazioni Unite per i profughi palestinesi, ndtr.] e agli ospedali palestinesi. Ma al di là dell’innegabile riduzione del danno che ci sarà con questo cambiamento dell’amministrazione statunitense, quali sono le prospettive per la libertà dei palestinesi nell’era Biden?

Il presidente eletto Joe Biden fa parte di una problematica tendenza della politica degli Stati Uniti su Palestina / Israele, che a parole appoggia l’indipendenza palestinese ma in pratica sostiene Israele nella negazione di quella libertà attraverso finanziamenti militari illimitati e protezione diplomatica. Anche in questa ultima stagione elettorale, quando l’ala progressista del Partito Democratico chiedeva chiaramente di riconoscere le responsabilità di Israele, Biden si è distinto come il candidato che ha respinto con più veemenza qualsiasi discorso sul condizionare gli aiuti militari a Israele al rispetto dei diritti umani palestinesi.

In breve, la politica di Biden probabilmente promuoverà ancora una volta la vuota farsa dei “negoziati di pace”, semplicemente chiedendo a Israele di rispettare i diritti dei palestinesi ben sapendo che non lo farà, per poi fornirgli le armi con cui le forze israeliane brutalizzano i palestinesi. Se Biden si atterrà a questo approccio crudele e controproducente, per i palestinesi la transizione da Trump a Biden sarà come passare dalla padella alla brace.

Per decenni, il problema della politica statunitense in Palestina è stata la discrepanza – o l’ipocrisia, per dirla più chiaramente – tra il dire e il fare. Se la politica dichiarata è di promuovere l’indipendenza dei palestinesi, perché gli Stati Uniti stanno in realtà sostenendo l’occupazione e l’oppressione?

Donald Trump ha posto fine a questa ipocrisia, ma nella direzione sbagliata: la sua politica è stata di favorire l’oppressione. Ora che l’approccio degli Stati Uniti sta per tornare alla “normalità”, ciò di cui abbiamo bisogno è risolvere l’ipocrisia nella giusta direzione e cambiare radicalmente l’azione politica. Allora, come la mettiamo con Biden?

La sfida principale con Biden è che, come si suol dire, “non si possono insegnare nuovi trucchi a un vecchio cane”. Come la vicepresidente eletta Kamala Harris, Biden ha trascorso la sua carriera politica flirtando con l’AIPAC [American Israel Public Affairs Committee, la più potente lobby americana di sostegno a Israele, ndtr.] e assecondando i gruppi filo-israeliani, ribadendo l’idea che Israele sia al di sopra di ogni colpa.

Ci vorrà quindi un grosso sforzo per convincere Biden a riesaminare i suoi profondi pregiudizi sul tema, e per fargli riconoscere quanto l’opinione pubblica tra gli elettori del Partito Democratico si sia spostata in merito a Palestina / Israele. Dopo tutto, il 64% dei Democratici sostiene la riduzione degli aiuti militari a Israele a causa delle sue violazioni dei diritti umani. È vero che i gruppi di pressione israeliani continuano a esercitare un significativo potere finanziario su candidati e politici, ma affermare che Israele dovrebbe essere chiamato a rispondere di come utilizza la sbalorditiva cifra di 38 miliardi di dollari che riceve ogni dieci anni dagli Stati Uniti non è più impopolare.

Per fortuna, la narrazione progressista sulla Palestina, che giudica le ingiustizie dell’occupazione e dell’apartheid israeliani per quello che sono e chiede alla politica statunitense un approccio più etico sta guadagnando un’inedita forza negli Stati Uniti. Le cose stanno cambiando a Washington, dalla presentazione di progetti di legge da parte delle parlamentari Betty McCollum e Alexandria Ocasio-Cortez per limitare la complicità degli Stati Uniti nell’aggressione israeliana ai palestinesi, alla sconfitta di sostenitori filo-israeliani come Eliot Engel da parte di nuovi eletti progressisti come Jamaal Bowman [il preside di scuola media che ha sconfitto Engel, presidente della commissione Affari Esteri della Camera, nelle primarie democratiche di New York, ndtr.] Il 117° Congresso avrà anche un maggior numero di membri in carica che parlano apertamente dei diritti dei palestinesi.

Questa ondata di rappresentanti progressisti può spingere l’amministrazione Biden a cambiare la politica degli Stati Uniti su Palestina / Israele. Ma potrà farlo solo se continuiamo a costruire un variegato movimento di base che si allei con altre lotte progressiste nel paese e che renda socialmente e politicamente inaccettabile il fatto di essere “progressisti tranne che sulla Palestina” (PEP).

Vale anche la pena riflettere sul ruolo della leadership palestinese nella Cisgiordania occupata, che si è fatta in quattro per accogliere le richieste degli Stati Uniti negli ultimi 30 anni nella speranza di avvicinarsi gradualmente all’indipendenza palestinese. Dopo decenni di fallimento, questo approccio è insostenibile. La leadership palestinese deve cambiare, deve diventare più democratica e smettere di reprimere e soffocare il dissenso. Fondamentalmente, deve smetterla di stare a guardare in attesa che gli Stati Uniti procurino la libertà ai palestinesi. In qualità di leader, è loro compito cercare giustizia attraverso ogni possibile via, comprese le istituzioni internazionali e la Corte Penale Internazionale, indipendentemente dalle obiezioni degli Stati Uniti.

In definitiva, tuttavia, il compito di porre fine alla complicità degli Stati Uniti con l’oppressione israeliana dei palestinesi grava sulle spalle di coloro che vivono negli Stati Uniti, e dobbiamo continuare a impegnarci su questo compito. Facendo crescere una campagna multiforme di pressione progressista dal basso, che a sua volta influenzi il dibattito politico, la copertura mediatica e il comportamento dei responsabili politici, il consenso sul cieco sostegno degli Stati Uniti a Israele può davvero incrinarsi. Questa crepa renderà possibile una politica estera più giusta ed etica che sostenga – o almeno smetta di ostacolare – la ricerca della libertà da parte dei palestinesi.

Omar Baddar è un analista politico palestinese-americano che risiede a Washington, DC. È stato vicedirettore dell’Arab American Institute [organizzazione che si occupa di difendere gli interessi degli statunitensi di origine araba, ndtr.] (AAI) e direttore esecutivo dell’American Arab Anti-Discrimination Committee [associazione che lotta contro le discriminazioni a danno della comunità arabo-americana, ndtr.] del Massachusetts.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Militari israeliani uccidono ufficiale dell’Autorità Nazionale Palestinese e sparano a un insegnante

Tamara Nassar

9 novembre 2020 – The Electronic Intifada

Domenica scorsa le forze di occupazione israeliane hanno sparato ad un palestinese all’ingresso del campo profughi di al-Fawwar, vicino alla città di Hebron in Cisgiordania.

L’esercito israeliano ha affermato che quando hanno aperto il fuoco Ali Suleiman Amro, 40 anni, stava tentando di aggredirli con un coltello.

Come in molti casi precedenti di uccisione di un presunto aggressore palestinese, nel corso dell’accaduto nessun soldato israeliano è rimasto ferito.

L’esercito ha dichiarato che Amro è stato ricoverato in ospedale, ma i media israeliani hanno riferito che le sue condizioni erano ignote.

Dei testimoni palestinesi hanno filmato la sparatoria dal loro veicolo.

È possibile scorgere Amro mentre viene circondato da almeno tre soldati quando si sentono due colpi di arma da fuoco.

I media palestinesi hanno riferito che Amro era un insegnante di una scuola superiore nella città di Dura, vicino a Hebron, nella Cisgiordania occupata.

Questo è il secondo episodio nel corso di questo mese in cui i soldati israeliani sparano a dei palestinesi asserendo di essere stati attaccati.

Il precedente è stato fatale.

Ucciso un capitano dell’Autorità Nazionale Palestinese

Mercoledì scorso dei militari israeliani hanno sparato e ucciso un uomo palestinese vicino al posto di blocco militare di Huwwara, principale punto di transito in entrata e in uscita della città di Nablus, in Cisgiordania.

L’uomo è stato identificato come Bilal Adnan Rawajba, 29 anni. Era un consulente legale con il grado di capitano delle forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese.

L’esercito israeliano ha affermato che Rawajba aveva aperto il fuoco contro i militari israeliani “mentre usciva dalla città“.

L’esercito ha affermato che i soldati lo hanno “neutralizzato”.

La famiglia di Rawajba avrebbe sostenuto che egli si stava recando per lavoro nella città di Tubas, nel nord della Cisgiordania.

Dei palestinesi in un veicolo vicino hanno filmato la sparatoria. Il video diffuso sui social media mostra un soldato israeliano che spara più volte contro l’auto di Rawajba a distanza ravvicinata.

I filmati di sorveglianza diffusi dai media locali mostrano un’auto bianca che si avvicina ad una postazione militare dove si trovano due soldati. I soldati inizialmente correndo si allontanano  dal veicolo.

Da una barriera di cemento sembra levarsi della polvere, probabilmente originata da un colpo di arma da fuoco. In nessuno dei due video è visibile Rawajba o qualsiasi arma potesse avere con sé.

I media locali hanno anche diffuso un’immagine grafica che mostra Rawajba ucciso all’interno della sua auto.

Nessun soldato israeliano è rimasto ferito durante il fatto.

“Coordinamento della sicurezza”

Mercoledì l’Organizzazione per la liberazione della Palestina in un tweet ha ritenuto Israele “pienamente responsabile” di quella che ha definito “l’esecuzione extragiudiziale” di Rawajba.

L’OLP ha anche accusato Israele di “aver impedito agli equipaggi delle ambulanze di raggiungerlo, lasciandolo morire dissanguato”.

“Chiediamo alla Corte Penale Internazionale di accelerare le sue indagini”, ha aggiunto.

A maggio l’Autorità Nazionale Palestinese ha sospeso il suo coordinamento “civile” e relativo alla “sicurezza” con Israele per protestare contro i piani israeliani di annettere vaste aree della Cisgiordania occupata.

Ciò si è ripercosso sui pazienti palestinesi che richiedono cure mediche fuori Gaza, i quali si affidano al coordinamento dell’ANP con l’esercito israeliano per ottenere i permessi.

L’ Autorità Nazionale Palestinese ha anche rifiutato di accettare le entrate fiscali che Israele raccoglie dai palestinesi per conto della stessa ANP. Ciò per protestare contro la sottrazione da parte di Israele del denaro pari agli importi che l’ANP versa alle famiglie dei prigionieri palestinesi.

Questo ha danneggiato i funzionari dell’ANP come Rawajba, che a causa della controversia ricevono solo metà dei loro stipendi.

Il quotidiano di Tel Aviv Haaretz [quotidiano israeliano di orientamento progressista, ndtr.] ha affermato che la sospensione del coordinamento ha “danneggiato l’apparato di sicurezza palestinese più di quanto abbia fatto leva su Israele”.

La resistenza palestinese e le fazioni politiche Hamas e Jihad islamica hanno entrambe condannato l’uccisione di Rawajba.

Il partito politico di sinistra Fronte popolare per la liberazione della Palestina ha definito l’uccisione di Rawajba all’interno della sua auto “un altro crimine di guerra sionista da aggiungere all’elenco dei crimini contro il nostro popolo”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Cancellando i palestinesi, le reti sociali diffondono un segnale inquietante per il nostro avvenire

Jonathan Cook

sabato 7 novembre 2020 – Middle East Eye

Facebook, Google e Twitter non sono piattaforme neutrali. Controllano lo spazio pubblico informatico per aiutare i potenti e possono cancellare da un giorno all’altro chiunque di noi

Si può percepire un crescente malessere nei confronti dell’impatto nefasto che possono avere sulle nostre vite le decisioni prese dalle imprese che guidano le reti sociali. Benché godano di un monopolio effettivo sullo spazio pubblico virtuale, queste piattaforme sfuggono da molto tempo ad ogni serio controllo e ad ogni responsabilità.

In un nuovo documentario Netflix, The Social Dilemma [Il dilemma del social], ex-dirigenti della Silicon Valley mettono in guardia contro un avvenire distopico. Google, Facebook e Twitter hanno raccolto una grande quantità di dati che ci riguardano per prevedere e manipolare meglio i nostri desideri. I loro prodotti riformulano progressivamente le connessioni dei nostri cervelli per renderci dipendenti dagli schermi e più docili alle pubblicità. Poiché siamo chiusi dentro camere digitali di risonanza ideologica, ne conseguono una polarizzazione e una confusione sociale e politica sempre maggiori.

Come a sottolineare la presa sempre più forte che queste società tecnologiche esercitano sulle nostre vite, il mese scorso Facebook e Twitter hanno deciso di interferire apertamente sulle elezioni presidenziali americane più esplosive a memoria d’uomo censurando un articolo che avrebbe potuto nuocere alle prospettive elettorali di Joe Biden, lo sfidante democratico del presidente uscente Donald Trump.

Dato che quasi la metà degli americani si informa principalmente su Facebook, le conseguenze di una simile decisione sulla nostra vita politica non sono difficili da interpretare. Scartando ogni dibattito sulle presunte pratiche di corruzione e traffico di influenze da parte del figlio di Joe Biden, Hunter, in nome di suo padre, queste reti sociali hanno giocato un ruolo di arbitro autoritario decidendo quello che siamo autorizzati a dire e a sapere.

Il “guardiano di un monopolio” 

Il pubblico occidentale si sveglia molto in ritardo di fronte al potere antidemocratico che le reti sociali esercitano su di lui. Ma se vogliamo capire dove alla fine questo ci porta, non c’è uno studio di caso migliore del trattamento molto differenziato riservato dai giganti tecnologici agli israeliani e ai palestinesi.

Il modo in cui i palestinesi sono in rete serve da avvertimento, perché sarebbe in effetti insensato considerare queste imprese mondiali come piattaforme politicamente neutrali e le loro decisioni come puramente commerciali. Sarebbe come interpretare il loro ruolo in modo doppiamente sbagliato.

Di fatto le compagnie che guidano le reti sociali sono oggi delle reti di comunicazione monopolistiche, alla stregua delle reti elettriche, idriche o telefoniche di una ventina di anni fa. Le loro decisioni non sono quindi più delle questioni private, ma hanno enormi conseguenze sociali, economiche e politiche. È in parte la ragione per la quale il dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha recentemente avviato un’azione legale contro Google, accusandolo di essere il “guardiano di un monopolio su internet”.

Google, Facebook e Twitter non hanno più diritto di decidere arbitrariamente le persone e i contenuti che ospitano sui loro siti di quanto una volta le imprese di telecomunicazioni avessero il diritto di decidere se un cliente doveva essere autorizzato a disporre di una linea telefonica.

Tuttavia, contrariamente alle compagnie telefoniche, le società alla testa delle reti sociali controllano non solo i mezzi di comunicazione, ma anche il loro contenuto. Come dimostra l’esempio dell’articolo su Hunter Biden, possono decidere se i loro clienti possono partecipare a delle discussioni pubbliche fondamentali su quelli che li governano.

Agendo in questo modo nei confronti di Hunter Biden, è come se un’azienda telefonica di una volta non solo ascoltasse le conversazioni, ma potesse anche interromperle se non le piacesse la posizione politica di un determinato cliente.

In realtà è persino peggio. Le reti sociali informano ormai gran parte della popolazione. La censura di un articolo da parte loro è simile piuttosto all’azione di una compagnia elettrica che tolga la corrente a tutti durante una trasmissione televisiva per essere sicura che nessuno la veda.

Una censura occulta

I giganti della tecnologia sono le imprese più ricche e potenti nella storia dell’umanità, la loro ricchezza si misura in centinaia, ormai migliaia, di miliardi di dollari. Ma l’argomento secondo cui sono apolitiche e hanno come solo scopo massimizzare i profitti non ha mai retto.

Hanno tutto l’interesse a promuovere responsabili politici che si schierino dalla loro parte impegnandosi a non infrangere il loro monopolio né a regolamentare le loro attività, o, meglio ancora, promettendo di indebolire gli strumenti che potrebbero impedire loro di diventare ancora più ricche e potenti.

Al contrario, i giganti della tecnologia hanno anche tutto l’interesse ad utilizzare lo spazio informatico per penalizzare e marginalizzare gli attivisti politici che rivendicano una maggiore regolamentazione delle loro attività o del mercato in generale.

A prescindere dalla spudorata eliminazione dell’articolo su Hunter Biden, che ha suscitato la collera dell’amministrazione Trump, le società alla testa delle reti sociali censurano più spesso in modo occulto. Questo potere è esercitato per mezzo di algoritmi, questi codici segreti che decidono se qualcosa o qualcuno compare nei risultati di una ricerca o sulle reti sociali. Se lo desiderano, questi titani tecnologici possono cancellare chiunque di noi da un giorno all’altro.

Non è solo paranoia politica. L’impatto sproporzionato dei cambiamenti di algoritmo sui siti “di sinistra” sul web, i più critici verso il sistema neoliberale che ha arricchito le imprese che guidano le reti sociali, è stato recentemente sottolineato dal Wall Street Journal [quotidiano USA più venduto e che si occupa principalmente di economia, ndtr.].

Il tipo sbagliato di discorso

I responsabili politici capiscono sempre di più il potere delle reti sociali, ragione per cui possono sfruttarlo al meglio per i propri fini. Dopo lo choc della vittoria elettorale di Trump alla fine del 2016, negli Stati Uniti e nel Regno Unito i dirigenti di Facebook, Google e Twitter sono stati regolarmente portati davanti a commissioni parlamentari di sorveglianza.

Queste reti sociali si vedono regolarmente rimproverare dai responsabili politici di essere all’origine di una crisi di “notizie false”, una crisi in realtà molto precedente alle reti sociali, come testimonia anche troppo chiaramente la truffa da parte dei responsabili politici americani e britannici che ha messo Saddam Hussein in relazione con l’11 settembre ed affermato che l’Iraq possedeva “armi di distruzione di massa”.

I responsabili politici hanno allo stesso modo cominciato ad accusare le società di internet di “ingerenza straniera” nelle elezioni in Occidente, rimproveri in genere rivolti alla Russia, nonostante la mancanza di prove serie che confermino la maggior parte delle loro affermazioni.

Pressioni politiche vengono esercitate non per rendere le imprese più trasparenti e responsabili, ma per spingerle ad applicare in modo ancora più assiduo restrizioni contro i discorsi sbagliati, che si tratti di razzisti violenti a destra o di detrattori del capitalismo e delle politiche dei governi occidentali a sinistra.

È per questo che diventa sempre più vuota l’immagine originale delle reti sociali come luoghi neutrali di condivisione delle informazioni, come strumenti che permettono di diffondere il dibattito pubblico e incrementare l’impegno civico, o ancora di sviluppare un discorso orizzontale tra ricchi e potenti da una parte e deboli ed emarginati dall’altra.

Diritti informatici differenti

È in Israele che i rapporti tra il settore delle tecnologie e i responsabili statali sono più evidenti. Ciò ha determinato una notevole differenza nel trattamento riservato ai diritti informatici degli israeliani e dei palestinesi. La sorte dei palestinesi in rete lascia presagire un futuro in cui quelli che sono già potenti eserciteranno un controllo sempre maggiore su ciò che dobbiamo sapere e siamo autorizzati a pensare, su chi può continuare ad essere visibile e chi deve essere cancellato dalla vita pubblica.

Israele era già in buona posizione nell’utilizzo delle reti sociali prima che la maggioranza degli altri Stati avesse riconosciuto la loro importanza in materia di manipolazione degli atteggiamenti e delle percezioni della gente. Per decenni Israele ha subappaltato un programma ufficiale di hasbara, o propaganda di Stato, ai propri cittadini e ai propri sostenitori all’estero. Con l’apparizione di nuove piattaforme informatiche, questi sostenitori non vedevano l’ora di espandere il proprio ruolo.

Israele ne poteva trarre un altro beneficio. Dopo l’occupazione della Cisgiordania, di Gerusalemme e di Gaza nel 1967, ha iniziato ad elaborare un discorso sulla vittimizzazione dello Stato, ridefinendo l’antisemitismo per far intendere che ormai questo male affliggesse in particolare la sinistra, e non la destra. Questo “nuovo antisemitismo” non prendeva di mira gli ebrei ma riguardava piuttosto le critiche nei confronti di Israele e il sostegno a favore dei diritti dei palestinesi.

Questo discorso molto discutibile si è dimostrato facile da sintetizzare in piccole frasi adatte alle reti sociali.

Israele definisce ancora correntemente “terrorismo” qualunque resistenza palestinese alla sua violenta occupazione o alle sue colonie illegali, descrivendo le dimostrazioni di sostegno da parte di altri palestinesi come “incitamento all’odio”. La solidarietà internazionale nei confronti dei palestinesi è definita “delegittimazione” ed equiparata all’antisemitismo.

Inondare internet”

Già nel 2008 si è scoperto che una lobby mediatica filo-israeliana, Camera, architettava iniziative segrete da parte di sostenitori di Israele per infiltrarsi nell’enciclopedia in rete Wikipedia per modificare delle voci e “riscrivere la storia” da un punto di vista favorevole a Israele. Poco dopo l’uomo politico Naftali Bennett [estrema destra dei coloni, ndtr.] ha contribuito a organizzare corsi di “revisione sionista” di Wikipedia.

Nel 2011 l’esercito israeliano ha dichiarato che le reti sociali costituiscono un nuovo “campo di battaglia” e ha incaricato dei “cyber-guerrieri” di condurre la battaglia in rete. Nel 2015 il ministero degli Affari Esteri israeliano ha organizzato un centro di comando supplementare per reclutare giovani ex-soldati ed esperti tecnologici all’interno dell’Unità 8200, unità di sorveglianza informatica dell’esercito, per condurre la battaglia in rete. Molti di loro hanno in seguito creato imprese di tecnologia avanzata, per cui informatici dello spionaggio hanno fatto parte integrante del funzionamento delle reti sociali.

Act.IL, un’applicazione lanciata nel 2017, ha permesso di mobilitare i sostenitori di Israele perché si “annidassero” in siti che ospitavano critiche verso Israele o sostegno per i palestinesi. Sostenuta dal ministero degli Affari Strategici di Israele, questa iniziativa era diretta da veterani dei servizi di informazione israeliani.

Secondo Forward, rivista ebrea americana, i servizi di informazione israeliani sono in stretto rapporto con Act.IL e chiedono aiuto per ottenere che le reti sociali ritirino alcuni contenuti, in particolare dei video. “Il suo lavoro offre finora un quadro impressionante del modo in cui potrebbero plasmare delle conversazioni in rete riguardo ad Israele senza mai farsi vedere”, ha osservato Forward poco tempo dopo l’implementazione dell’applicazione. Sima Vaknin-Gil, un’ex- censore dell’esercito israeliano che all’epoca era di stanza al ministero degli Affari Strategici di Israele, ha dichiarato che l’obiettivo era di “creare una comunità di combattenti” la cui missione consisteva nell’ “inondare internet” di propaganda israeliana.

Alleati volenterosi

Grazie a vantaggi in termini di effettivi e di zelo ideologico, di esperienza tecnologica e di propaganda, di influenze nelle alte sfere a Washington e nella Silicon Valley, Israele ha rapidamente potuto trasformare le reti sociali in alleati volonterosi nella sua lotta per emarginare i palestinesi in rete.

Nel 2016 il ministero della Giustizia israeliano si vantava che Facebook, Google e YouTube “si adeguano per il 95% alle richieste israeliane di eliminazione di contenuti,” questi ultimi provenienti quasi tutti da palestinesi. Le società che dirigono le reti sociali non hanno confermato questo dato.

L’Anti-Difamation League, un’associazione della lobby filo-israeliana che è solita calunniare le organizzazioni palestinesi e i gruppi ebraici critici con Israele, nel 2017 ha creato un “centro di comando” nella Silicon Valley per sorvegliare quelli che definisce “discorsi di odio in rete”. Lo stesso anno la lobby è diventata un “Trusted Flagger ” [lett. fidato segnalatore, persona o ente di cui una rete sociale accoglie le indicazioni, ndtr.] per YouTube, cosa che significa che le sue segnalazioni su contenuti da ritirare sono diventate prioritarie.

Durante una conferenza organizzata a Ramallah nel 2018 da 7amleh, un gruppo palestinese di difesa dei diritti in rete, i rappresentanti locali di Google e Facebook non hanno affatto nascosto le rispettive priorità. Per loro era importante evitare di contrariare i governi che hanno il potere di limitare le loro attività commerciali, anche se questi governi si dedicano a sistematiche violazioni del diritto internazionale e dei diritti dell’uomo. In questa battaglia l’Autorità Nazionale Palestinese non ha alcun peso. Israele ha messo le mani sulle infrastrutture della comunicazione e internet dei palestinesi, ne controlla l’economia e le principali risorse.

Dal 2016 il ministero della Giustizia israeliano avrebbe eliminato decine di migliaia di post da parte di palestinesi. Attraverso un processo assolutamente oscuro, Israele individua con i propri algoritmi i contenuti che ritiene “estremisti” e poi ne chiede la cancellazione. Centinaia di palestinesi sono stati arrestati da Israele dopo che avevano pubblicato commenti sulle reti sociali, con la conseguenza di limitare l’attività in rete.

Alla fine dello scorso anno Human Rights Watch [nota Ong britannica che si occupa di diritti umani, ndtr.] ha informato che Israele e Facebook spesso non fanno alcuna differenza tra critiche legittime a Israele e istigazione all’odio. Al contrario, mentre Israele svolta sempre più a destra, il governo Netanyahu e le reti sociali non hanno bloccato l’ondata di messaggi in ebraico che incitano all’odio e alla violenza contro i palestinesi. Come ha rilevato 7anleh, contenuti razzisti o che incitano alla violenza contro i palestinesi sono pubblicati da israeliani quasi ogni minuto.

Account di agenzie di stampa chiusi

Oltre a cancellare decine di migliaia di post di palestinesi, Israele ha convinto Facebook a ritirare gli account delle agenzie di stampa e di giornalisti palestinesi di spicco.

Nel 2018 l’opinione pubblica palestinese si è talmente indignata che, con l’hashtag #FBcensorsPalestine, è stata lanciata una campagna di proteste in rete e di appelli al boicottaggio di Facebook.

Nello stesso modo negli Stati Uniti e in Europa è stato preso di mira l’attivismo solidale con i palestinesi. Le pubblicità di film, come i film stessi, sono stati ritirati ed eliminati dai siti web.

In settembre Zoom, un sito di videoconferenze che ha conosciuto un boom durante la pandemia di COVID-19, si è unito a YouTube e Facebook per censurare un webinar organizzato dall’università statale di San Francisco con la partecipazione di Leila Khaled, icona del movimento della resistenza palestinese, che oggi ha 76 anni.

A fine ottobre Zoom ha bloccato una seconda apparizione prevista di Khaled, questa volta in un webinar dell’università delle Hawaii e dedicato alla censura, come una serie di altri eventi organizzati negli Stati Uniti per protestare contro la sua cancellazione da parte del sito. Con un comunicato pubblicato riguardo alla giornata di lotta, i campus “si sono uniti alla campagna per resistere al soffocamento dei discorsi e delle voci palestinesi nelle imprese e nelle università.”

Questa decisione, che costituisce un attacco flagrante alla libertà accademica, sarebbe stata presa in seguito a forti pressioni esercitate sulle reti sociali dal governo israeliano e da gruppi di pressione antipalestinesi, che hanno giudicato “antisemita” il webinar.

Villaggi cancellati dalla mappa

Il livello in cui la discriminazione dei giganti tecnologici contro i palestinesi è strutturale e radicato è stato messo in evidenza dalla lotta condotta da molti anni dagli attivisti per includere i villaggi palestinesi nelle mappe in rete e sui GPS, ma anche per attribuire ai territori palestinesi il nome di “Palestina”, in base al riconoscimento della Palestina da parte delle Nazioni Unite.

Questa campagna segna notevolmente il passo, anche se più di un milione di persone ha firmato una petizione di protesta. Sia Google che Apple resistono strenuamente a queste richieste: centinaia di villaggi palestinesi non compaiono sulle loro mappe della Cisgiordania occupata, mentre le illegali colonie israeliane sono identificate nel dettaglio e viene loro accordato lo stesso status delle comunità palestinesi che vi si trovano.

I territori palestinesi occupati sono indicati sotto il nome di “Israele”, mentre Gerusalemme est viene presentata come la capitale unificata e indiscussa di Israele, come esso pretende, cosa che rende invisibile l’occupazione della parte palestinese della città.

Queste decisioni sono tutt’altro che neutrali sul piano politico. Da molto tempo i governi israeliani perseguono un’ideologia del “Grande Israele” che esige di cacciare i palestinesi dalle loro terre. Questo programma di spoliazione, inteso ad annettere intere parti della Cisgiordania, quest’anno è stato formalizzato dai progetti sostenuti dall’amministrazione Trump.

Nei fatti Google ed Apple sono conniventi con questa politica, contribuendo a cancellare la presenza visibile dei palestinesi nella loro patria. Come di recente hanno evidenziato George Zeidan ed Haya Haddad, due accademici palestinesi, “quando Google ed Apple cancellano dei villaggi palestinesi dal loro sistema di navigazione identificando in evidenza le colonie, si rendono complici del discorso nazionalista israeliano.”

Rapporti usciti dall’ombra

I rapporti sempre più stretti tra Israele e le imprese delle reti sociali si giocano in gran parte dietro le quinte. Ma questi legami sono usciti dall’ombra in modo decisivo lo scorso maggio, quando Facebook ha annunciato che il suo nuovo organo di vigilanza include Emi Palmor, una degli architetti della politica repressiva in rete condotta da Israele contro i palestinesi.

Questo organo di vigilanza prenderà decisioni che faranno giurisprudenza e contribuiranno a forgiare le politiche di Facebook e di Instagram in tema di censura e di libertà d’espressione. Ma in quanto ex-direttrice generale del ministero della Giustizia [israeliano], Emi Palmor non ha dimostrato alcun impegno in favore della libertà d’espressione in rete.

Al contrario: ha lavorato mano nella mano con i giganti della tecnología per censurare i post dei palestinesi e chiudere i siti d’informazione palestinesi. Ha supervisionato la trasformazione del suo dipartimento in quello che l’organizzazione per la difesa dei diritti dell’uomo Adalah ha paragonato al “ministero della Verità” orwelliano.

Le imprese tecnologiche sono ormai arbitre non dichiarate della nostra libertà d’espressione, motivate dal profitto. Non si impegnano a favore di un dibattito pubblico aperto e vivace, di una trasparenza in rete o di una maggiore partecipazione civica. Il loro unico impegno consiste nel mantenere un contesto commerciale che permetta loro di evitare che le norme decise dai principali governi danneggino il loro diritto a guadagnare dei soldi.

La nomina di Palmor evidenzia perfettamente il rapporto inficiato dalla corruzione tra il governo e le reti sociali. I palestinesi sanno benissimo come sia facile per l’industria tecnologica attenuare e far sparire le voci dei deboli e degli oppressi amplificando nel contempo quelle dei potenti.

Molti di noi potrebbero presto conoscere in rete la stessa sorte dei palestinesi.

– Jonathan Cook è un giornalista inglese che vive a Nazareth dal 2001. Ha scritto tre opere sul conflitto israelo-palestinese ed ha ottenuto il premio speciale del giornalismo Martha Gellhorn.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Dopo il voto negli Stati Uniti, tutti gli occhi sono puntati sulle elezioni israeliane

Jamal Zahalka

6 novembre 2020 – MIDDLE EAST EYE

Una quarta elezione israeliana nell’arco di due anni porterebbe sicuramente ad un governo più estremista. I palestinesi devono abbandonare la loro “politica di attesa” e contrastare questo percorso

I partiti politici israeliani stanno aspettando la fine delle elezioni americane per decidere le loro posizioni su una data potenziale per delle elezioni anticipate in Israele. Mentre il primo ministro Benjamin Netanyahu vorrebbe elezioni veloci nel caso in cui Donald Trump rimanesse presidente, il primo ministro supplente Benny Gantz le vorrebbe più tempestive se dovesse vincere lo sfidante democratico statunitense Joe Biden.

In Israele, una volta definiti i risultati delle elezioni statunitensi, inizierà la rapida corsa verso una nuova competizione elettorale – la quarta in meno di due anni.

Non c’è dubbio che l’esito del voto statunitense avrà un importante impatto sul Medio Oriente e sul mondo arabo, con questioni spinose in Palestina, Yemen, Libia, Siria, Iraq, Golfo, Iran e Turchia. Tutte le parti hanno iniziato a attrezzarsi per sfruttare le opportunità e prevenire possibili danni.

Anche le elezioni israeliane avranno un grande impatto, soprattutto dopo che un certo numero di paesi arabi hanno cementato legami con Israele che vanno oltre le relazioni diplomatiche – verso la cooperazione, l’alleanza e il partenariato. La parola “normalizzazione” sminuisce la natura di questo legame.

Alcuni paesi arabi preferirebbero che Netanyahu restasse al potere, per garantire la continuazione della sua linea dura sul dossier iraniano e per preservare la “divisione” palestinese. Da parte palestinese ci sarà molta attesa, come se i leader palestinesi fossero spettatori, piuttosto che attori, del processo.

Mentre molteplici scenari potrebbero verificarsi nelle elezioni israeliane, sappiamo già che il risultato sarà una vittoria della destra e la formazione di un governo più estremista e razzista. Tuttavia, sebbene questo processo abbia un impatto enorme sul destino dei palestinesi, la leadership sembra soddisfatta di continuare ad attendere. Ormai possiamo facilmente desumere che Israele non può aprire la strada verso una pace giusta, quindi perché aspettare?

Perché il movimento nazionale palestinese non sta facendo ciò che sarebbe necessario attraverso l’unificazione delle istituzioni, compresa l’azione politica e l’attivazione della resistenza popolare? Purtroppo più se ne parla meno si passa alla sua attuazione. Coloro che persistono nella “politica di attesa” dicono che le azioni congiunte da parte dei palestinesi contro l’occupazione hanno contrariato gli Stati Uniti e rafforzato la destra israeliana, mentre hanno indebolito il centro e la sinistra.

Tuttavia in realtà una delle ragioni principali della crescita del potere della destra è che la società israeliana non paga un prezzo per l’occupazione e le sue pratiche repressive. Netanyahu si vanta che la forza e il pugno di ferro di Israele garantiscono calma, sicurezza e stabilità mentre l’occupazione e le sue colonie rimangono in piedi.

Destra contro estrema destra

La sinistra sionista è scomparsa come forza politica significativa. Non è più in competizione con la destra, e anche le forze di centrodestra rappresentate da Yair Lapid, leader del partito Yesh Atid, e Gantz [a capo dell’alleanza centrista Blu e Bianco, ndtr.] non rappresentano più un’alternativa al governo della destra.

La competizione per il potere in Israele si è trasformata in una lotta tra la destra e l’estrema destra; tra il Likud di Netanyahu e l’alleanza di estrema destra Yamina di Naftali Bennett. Ciò rende impossibile l’idea di negoziati seri e di una pace giusta.

Sondaggi recenti indicano che alle prossime elezioni il Likud rimarrà il più grande partito, con 30 seggi, seguito da Yamina con 22 seggi. Così la competizione tra questi due [partiti] è diventata l’unica opzione possibile, e il risultato sarà una vittoria certa per la destra.

Netanyahu vuole che le elezioni si svolgano il prossimo luglio, sperando che, per allora, avrà sotto controllo l’attuale crisi economica e sanitaria. Il piano di Netanyahu include la normalizzazione con più paesi arabi, una politica che aumenta la sua popolarità in Israele: ciò è la prova che egli ha messo ai margini la causa palestinese e ottenuto una vittoria pacifica sugli arabi.

Nessuno crede che Netanyahu renderà effettivo l’accordo sull’alternanza della carica di primo ministro con Gantz prevista per novembre 2021. Dopo aver compreso ciò, e aver capito che Netanyahu sta cercando una finestra temporale per proclamare le elezioni anticipate, l’alleanza Blu e Bianca di Gantz ha chiesto lo scioglimento della partnership e elezioni anticipate, per impedire a Netanyahu di programmarle a proprio vantaggio.

Aggressività crescente

Tutti i segnali politici indicano che Israele si stia rapidamente avviando verso una quarta elezione nell’arco di due anni. Netanyahu ha iniziato la sua campagna per indebolire Bennett, con l’obiettivo di bloccare un governo alternativo o un altro accordo di alternanza della carica di primo ministro. L’istituzione di un governo guidato da Bennett non è uno scenario impossibile, soprattutto perché altri partiti sono pronti ad allearsi con lui contro Netanyahu.

Una stagione di elezioni in Israele comporterebbe il rischio di ulteriori attacchi aerei, sia per scopi militari che elettorali. Nei prossimi mesi potremmo assistere a un’escalation di aggressioni israeliane contro Iran, Libano, Siria e Palestina, e forse altre operazioni in coordinamento con i suoi “nuovi” e vecchi alleati arabi.

Forse una delle più importanti sarebbe un’operazione militare su larga scala per “disarmare” la Striscia di Gaza, già preparata dai servizi di sicurezza israeliani e dalle loro controparti statunitensi. Se si presenterà l’occasione, Netanyahu colpirà prima delle elezioni.

In generale, Israele è rivolto verso un maggior estremismo di destra, e ciò non sarà modificato dall’imminenza delle elezioni. Non dovremmo aspettare l’ ‘“evento” israeliano; quello che è necessario è un “evento” palestinese e arabo, nonostante le difficoltà, le complicazioni e gli ostacoli. Ciò comporta l’unità palestinese e una forte lotta di massa contro l’occupazione, con un serio impegno rivolto a fermare il processo di normalizzazione.

Il popolo palestinese non ha nulla da perdere tranne le proprie catene, e non ha niente da aspettare, tranne l’appuntamento con una battaglia per la libertà e la dignità.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Jamal Zahalka è un cittadino palestinese di Israele membro della Knesset in rappresentanza del partito Balad [partito arabo israeliano, ndtr.].

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Rapporto OCHA del periodo 20 ottobre – 2 novembre

Il 25 ottobre, durante un’operazione israeliana di ricerca-arresto, condotta nel villaggio di Turmus’ayya (Ramallah), un ragazzo palestinese di 16 anni è morto.

Secondo le autorità israeliane, il ragazzo è caduto, sbattendo la testa a terra, mentre veniva inseguito dai soldati, insieme ad altri palestinesi che avevano lanciato pietre. Testimoni oculari palestinesi hanno segnalato che il ragazzo era stato duramente picchiato dalle forze israeliane; secondo il direttore dell’ospedale dove è stato ricoverato, il suo corpo mostrava segni di violenza.

Il 31 ottobre, nel Campo profughi di Balata (Nablus), durante una disputa familiare che ha innescato diffusi scontri con le forze palestinesi, un palestinese è rimasto ucciso e altri sei sono rimasti feriti. La morte è stata provocata dalla esplosione di un ordigno che l’uomo ucciso stava trasportando. Gli scontri hanno portato alla chiusura di scuole e negozi del Campo, fino alla fine del periodo considerato [da questo Rapporto].

La stagione della raccolta delle olive, iniziata il 7 ottobre, ha continuato a essere turbata da persone note o ritenute coloni israeliani. In nove casi (nel precedente periodo di riferimento erano stati 19), sono rimasti feriti palestinesi, sono stati danneggiati alberi e sono stati rubati prodotti. Cinque degli episodi hanno avuto luogo nel governatorato di Nablus, vicino al villaggio di Burin, dove due raccoglitori di olive sono stati colpiti con pietre e feriti; a Burin, Deir al Hatab e Jalud sono stati rubati raccolti e attrezzi agricoli; a Qaryut è stato vandalizzato un trattore usato per il raccolto. Vicino a Turmus’ayya (Ramallah) sono stati vandalizzati circa 130 ulivi e, a Kafr Qaddum (Qalqiliya), sono stati rubati i frutti di circa 200 ulivi.

Nell’area chiusa dietro la Barriera, in numerosi casi, agli agricoltori è stato impedito l’accesso ai propri oliveti. Le forze israeliane hanno ritardato l’apertura di alcuni accessi agricoli e in alcuni casi hanno impedito agli agricoltori l’attraversamento con veicoli, inducendo alcuni ad astenersi dall’accedere ai loro oliveti, molti dei quali si trovano lontano dall’ingresso.

Nel governatorato di Nablus, altri due episodi correlati a coloni hanno provocato lesioni o danni. Un palestinese è rimasto ferito da una pietra nel corso di scontri scoppiati tra palestinesi di ‘Asira al Qibliya e coloni israeliani che erano entrati nel loro villaggio; le forze israeliane sono intervenute sparando lacrimogeni contro i palestinesi. Nel villaggio palestinese di As Sawiya, aggressori, ritenuti coloni, hanno tagliato pali dell’elettricità e condutture dell’acqua.

In Cisgiordania, in diversi scontri, sono rimasti feriti venticinque palestinesi e un soldato israeliano [seguono dettagli]. Diciotto di questi feriti sono stati registrati a Kafr Qaddum (Qalqiliya), durante le proteste settimanali contro le restrizioni di accesso e le attività di insediamento; altri quattro durante una protesta contro i tentativi di coloni di stabilire un avamposto vicino a Beit Dajan (Nablus). Un ragazzo è rimasto ferito, durante scontri, nella città di Hebron e, nel governatorato di Tulkarm, un altro palestinese è stato aggredito fisicamente mentre cercava di entrare in Israele attraverso una breccia nella Barriera. Ad Al ‘Isawiya (Gerusalemme Est), un palestinese è stato aggredito fisicamente e ferito durante un’operazione di ricerca-arresto. Non sono stati registrati feriti da arma da fuoco, ma quattro palestinesi sono stati colpiti da proiettili di gomma e due sono stati aggrediti fisicamente, mentre i restanti sono stati trattati medicalmente per inalazione di gas lacrimogeni. All’ingresso del Campo profughi di Al ‘Arrub (Hebron), nel corso di scontri, un soldato israeliano è stato ferito dal lancio di una pietra.

Il 30 ottobre, soldati israeliani hanno aperto il fuoco contro un veicolo palestinese che viaggiava vicino al villaggio di Qabatiya (Jenin): tre minori di 13, 15 e 16 anni, sono rimasti feriti da schegge. Le circostanze dell’episodio non sono ancora chiare.

In Cisgiordania, le forze israeliane hanno effettuato 161 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 126 palestinesi. 37 di queste operazioni sono state registrate a Gerusalemme Est, 23 a Hebron e 21 a Tulkarm.

Il 20 e 22 ottobre, un gruppo armato palestinese di Gaza, ha lanciato tre razzi contro il sud di Israele; successivamente le forze israeliane hanno preso di mira siti militari e aree aperte a Gaza. I razzi [palestinesi] sono caduti in aree aperte o sono stati intercettati. Vicino alla recinzione perimetrale di Israele con Gaza e al largo della sua costa, presumibilmente per far rispettare le restrizioni di accesso, le forze israeliane hanno aperto il fuoco in almeno 19 occasioni. In nessuno di questi episodi sono stati registrati feriti.

A causa della mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, sono state demolite o sequestrate 41 strutture, sfollando 19 persone e creando ripercussioni su oltre 1.200 (escluso l’episodio evidenziato in “ultimi sviluppi”). Tutti gli sfollati e 37 delle strutture prese di mira si trovavano in 15 Comunità dell’Area C, mentre le altre quattro strutture demolite [delle 41] si trovavano a Gerusalemme Est. Il 28 ottobre, le autorità israeliane hanno tagliato una conduttura, finanziata da donatori, che forniva acqua a 14 Comunità di pastori nell’area Massafer Yatta di Hebron, che ospita circa 1.400 persone, tra cui oltre 600 minori. Tra le altre conseguenze, si prevede che ciò comprometterà le pratiche igieniche e la capacità delle persone di far fronte alla pandemia in corso. Nel governatorato di Gerusalemme, in due delle 18 Comunità beduine, situate all’interno o in prossimità dell’area E1, sono state demolite tre strutture; in quest’area è previsto l’ampliamento dell’insediamento colonico.

Una abitazione è stata demolita e una stanza in un’altra casa è stata sigillata per “motivi punitivi”, provocando lo sfollamento di 18 persone, tra cui 11 minori [seguono dettagli]. Nella casa demolita, a Rujeib (Area B di Nablus), abitava un palestinese accusato di aver accoltellato a morte, lo scorso agosto, un civile israeliano. La sigillatura [della stanza] è stata eseguita a Ya’abad (Area A di Jenin), nella casa di un palestinese accusato dell’uccisione di un soldato israeliano durante un’operazione di ricerca-arresto avvenuta lo scorso maggio.

Un israeliano è rimasto ferito e 11 veicoli israeliani che viaggiavano all’interno della Cisgiordania sono stati danneggiati, secondo fonti israeliane, dal lancio di pietre da parte di aggressori ritenuti palestinesi.

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Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Il 3 novembre è stata registrata la più vasta demolizione degli ultimi anni: nella Comunità di Humsa Al Bqai’a, le autorità israeliane hanno demolito 83 strutture, sfollando 73 persone, tra cui 41 minori. Il Coordinatore Umanitario [ONU] ha chiesto la fine delle demolizioni illegali.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it