Il piano di Israele per eliminare l’influenza turca a Gerusalemme a favore degli Stati del Golfo

Adnan Abu Amer

28 dicembre 2020 – Middle East Monitor

Alla luce dell’attuale serie di accordi di normalizzazione tra gli Stati arabi e l’occupante, Israele sta cercando di attirare i Paesi del Golfo, soprattutto gli Emirati Arabi Uniti (EAU) e l’Arabia Saudita, con un possibile ruolo nel controllo dei luoghi santi della Gerusalemme occupata, competendo così con la Giordania e i palestinesi per prendersi carico di questo importante compito.

L’iniziativa di Israele in questo senso ha provocato tensioni politiche tra le parti coinvolte, nascondendo nel contempo il proprio vero piano, che consiste nel dare a questi Paesi un nuovo ruolo e un’opportunità per ostacolare la crescente influenza turca tra i gerosolimitani, una manovra che pone domande sul successo o il fallimento dell’iniziativa israeliana.

Sembra che il piano di normalizzazione tra gli Emirati Arabi Uniti e l’occupazione sia in corsa contro il tempo per determinare una nuova situazione sul terreno, dato che il ministro israeliano per le questioni di Gerusalemme, il rabbino Rafi Peretz, ha annunciato un progetto per attirare migliaia di turisti emiratini che visitino Gerusalemme. Come egli ha affermato, il piano ha come obiettivo migliorare lo status della città come “capitale di Israele”.

È risultato evidente che il progetto israeliano di attrarre turisti degli Emirati Arabi Uniti, e due milioni di turisti musulmani a Gerusalemme ogni anno, è in sintonia con quanto l’occupazione ha cercato di ottenere negli ultimi dieci anni. Fa parte di un tentativo di sottomettere Gerusalemme e la moschea di Al –Aqsa alla sua asserita sovranità e di evacuarla per impedire che gli abitanti di Gerusalemme sviluppino un settore turistico religioso nazionale e controllino la santa moschea e la sua spianata.

Il piano israeliano deriva dal testo dell’accordo tra gli Emirati Arabi Uniti e Israele, dato che concede ai musulmani solo il diritto alla moschea di Al-Aqsa e nega loro il resto del Monte del Tempio nel suo complesso. Ciò è conseguenza di una condanna politica e religiosa palestinese che rifiuta di ricevere qualunque visitatore emiratino, arabo o persino musulmano perché preghi nella moschea di Al-Aqsa come parte dell’accordo summenzionato.

I gerosolimitani sono stati i primi ad annunciare il proprio rifiuto dell’accordo di normalizzazione tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti, dato che esso stabilisce il diritto di tutte le religioni monoteiste eliminando l’esclusività per i musulmani. Ciò ha provocato l’indignazione dei palestinesi, che hanno espresso il proprio ripudio attaccando grandi manifesti in tutta Gerusalemme.

Il progetto israeliano mette in evidenza la gravità dell’accordo di normalizzazione con gli Emirati Arabi Uniti. L’idea di patrocinare viaggi degli Emirati per pregare nella moschea di Al-Aqsa è un semplice occultamento del piano di normalizzazione, nonostante il fatto che pregare a Gerusalemme non necessiti di accordi. È un diritto religioso e giuridico sacro, così come la moschea di Al-Aqsa è un diritto esclusivo dei musulmani secondo tutte le religioni e i documenti internazionali, in particolare il riconoscimento da parte dell’UNESCO della moschea di Al-Aqsa come proprietà esclusiva dei musulmani, senza alcun legame con gli ebrei. Tuttavia gli Emirati Arabi Uniti hanno scelto di concedere agli israeliani questo accordo, un diritto che non gli compete.

I gerosolimitani si preparano a ricevere come si meritano quanti verranno a Gerusalemme con il pretesto della normalizzazione. Nessun palestinese permetterà che gli emiratini e altri violino la santità della moschea di Al-Aqsa usando le preghiere in quel luogo per legittimare il loro accordo nullo con Israele. Di conseguenza il popolo di Gerusalemme non accoglierà queste visite per via delle preoccupazioni a Gerusalemme e in Palestina, in generale, per un numero probabilmente crescente di turisti musulmani, soprattutto da Bahrein e Arabia Saudita, che possono venire a pregare a Gerusalemme sotto le pressioni e lusinghe degli Emirati.

Il nuovo piano va di pari passo con l’accordo tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti di accogliere annualmente nello Stato occupante due milioni di turisti musulmani, la maggior parte dei quali visiterà la moschea di Al-Aqsa nel quadro della cosiddetta “pace religiosa”. Nonostante il fatto che nel 2018 98.000 turisti musulmani hanno visitato Gerusalemme e la moschea di Al-Aqsa, Israele ha cominciato ad organizzare l’arrivo di turisti degli Emirati e di altri Stati del Golfo per pregare nella moschea di Al-Aqsa.

I palestinesi credono che il piano israeliano fallirà, in quanto gli emiratini non arriveranno in gran numero, forse a causa dello scontro negli Emirati Arabi Uniti tra la posizione ufficiale e quella del popolo riguardo alla normalizzazione. I turisti degli EAU non saranno centinaia o migliaia. Così la gestione degli emiratini a Gerusalemme è stata preceduta da un piano saudita per mettersi in comunicazione con le personalità di Gerusalemme al fine di garantire un punto di appoggio in città, ma gli abitanti di Gerusalemme si sono rifiutati di recarsi nel Regno.

Insieme all’annuncio del piano israeliano per portare turisti emiratini a Gerusalemme, l’Ong israeliana “Gerusalemme Terrestre” ha rivelato che gli Emirati Arabi Uniti si sono accordati per la prima volta per cambiare lo status quo nella moschea di Al-Aqsa, permettendo agli ebrei di pregare lì e limitando l’accesso dei musulmani solo alla moschea e non a tutto il Monte del Tempio. Di conseguenza il piano israeliano conferma il recente accordo degli Emirati Arabi Uniti riguardo alla moschea di Al-Aqsa, cosa che suscita preoccupazioni e timori in merito alle dotazioni giordane e palestinesi. Ciò è dovuto al fatto che l’accordo intende offrire agli Emirati Arabi Uniti un nuovo ruolo nella moschea di Al-Aqsa, che mette apertamente in discussione la presenza giordana e palestinese come principali supervisori dei luoghi santi della città.

Forse la principale preoccupazione degli abitanti di Gerusalemme riguarda la storia negativa degli Emirati Arabi Uniti, soprattutto dopo che gli emiratini hanno cercato di vendere alle associazioni per la colonizzazione ebraica le case ed i beni immobili comprati ai palestinesi. Ciò fa sì che i palestinesi temano che il prossimo passo possa segnare l’inizio della costruzione della presunta sinagoga con i contributi degli Emirati Arabi Uniti, che hanno già costruito un tempio indù a Dubai ed hanno aperto una sinagoga ad Abu Dhabi.

Nel contempo Israele non ha avuto dubbi nell’adottare tutti i mezzi necessari per sradicare le attività turche a Gerusalemme, sostenendo che i giorni dell’Impero ottomano sono finiti e che la Turchia non ha nulla a che vedere con Gerusalemme e nel contempo che la dichiarazione del presidente turco Erdogan secondo cui Gerusalemme appartiene a tutti i musulmani è esagerata e senza fondamento. Tuttavia ciò che fa infuriare i palestinesi è la notizia dell’appoggio saudita-giordano al piano orchestrato dall’occupante.

Benché i progetti turchi a Gerusalemme siano di carattere assistenziale ed economico, in quanto Israele proibisce ogni attività politica in città, la presenza della Turchia sul posto ha irritato gli israeliani ed i Paesi arabi che cercano di aumentare la propria influenza su Gerusalemme. Tra loro figurano la Giordania e l’Arabia Saudita, dato che qualunque aumento dell’influenza turca in città può ridurre il loro potere e la loro tutela religiosa sui luoghi santi che vi si trovano, benché Gerusalemme sia una causa comune per tutti i musulmani, non solo per gli arabi [i turchi non sono arabi, ndtr.] o i palestinesi.

Il piano di occupazione è motivato dal fatto che l’influenza turca tra gli abitanti di Gerusalemme ha preoccupato per anni i funzionari della sicurezza e i politici israeliani, dato che in molti luoghi della città si possono vedere bandiere e ristoranti turchi. D’altra parte negli ultimi anni la Turchia è diventata la destinazione favorita di decine di migliaia di cittadini di Gerusalemme.

L’informazione sul piano israeliano contro le attività turche a Gerusalemme indica che esiste un consenso tra i diversi decisori politici israeliani riguardo alla convinzione che la presenza della Turchia minacci la sicurezza nazionale di Israele. Quindi lo Stato di occupazione può prendersi il rischio di alimentare le tensioni già esistenti tra Ankara e Tel Aviv su vari dossier spinosi.

(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)




Il vaccino per il COVID-19: un’altra brutta faccia dell’apartheid israeliano

Yumna Patel

28 DICEMBRE 2020 – Mondoweiss

La distribuzione del vaccino per il COVID-19 illustra perfettamente il sistema dell’apartheid di Israele.

Quasi 400.000 israeliani sono già stati vaccinati contro il coronavirus e nelle prossime settimane altre decine di migliaia sono in procinto di esserlo.

Israele è stato uno dei primi Paesi al mondo ad iniziare a distribuire il vaccino per il COVID-19 alla sua popolazione e, secondo Our World in Data [Il nostro mondo in cifre, ndtr.], edito dall’Università di Oxford, è attualmente il secondo al mondo per numero di vaccinazioni pro capite.

Secondo i media israeliani il ministero della Sanità di Israele intende vaccinare già nel corso di questa settimana 100.000 israeliani al giorno e il primo ministro Benjamin Netanyahu si è spinto a sostenere che Israele sarà fuori pericolo “entro poche settimane”.

 

Il mese scorso Israele si è assicurato 8 milioni di dosi del vaccino Pfizer, sufficienti a coprire quasi la metà della popolazione di 9 milioni di israeliani, poiché ogni persona necessita di due dosi. Tra coloro che hanno il diritto di ricevere il vaccino dal governo israeliano ci sono i quasi 2 milioni di cittadini palestinesi di Israele.

Tuttavia, gli oltre 5 milioni di palestinesi che vivono sotto il controllo dell’occupazione israeliana nella Cisgiordania occupata, a Gerusalemme est e nella Striscia di Gaza, non sono autorizzati a ricevere il vaccino.

Le disparità tra i palestinesi che vivono sotto l’occupazione israeliana e i cittadini israeliani sono costanti, semplicemente un dato di fatto della vita quotidiana in Israele e Palestina – le leggi che favoriscono gli israeliani rispetto ai palestinesi e i sistemi che discriminano fortemente questi ultimi sono all’ordine del giorno e ampiamente documentati.

Il sistema di apartheid in base al quale Israele opera all’interno del territorio occupato, tuttavia, non potrebbe essere meglio dimostrato come nel caso del vaccino per il COVID-19: chi ottiene o no il vaccino è una semplice questione di nazionalità.

Dobbiamo in primo luogo essere molto chiari: con l’occupazione militare in Cisgiordania e con l’effettivo controllo israeliano di Gaza Israele è legalmente obbligato dal diritto internazionale a provvedere alla loro [dei palestinesi] assistenza sanitaria”, ha riferito a Mondoweiss la dott.ssa Yara Hawari, analista capo redattrice di Al -Shabaka: The Palestinian Policy Network [organo di informazione che sostiene il dibattito sui diritti e l’autodeterminazione dei palestinesi, ndtr.].

Israele è legalmente obbligato a fornire quel vaccino ai palestinesi sotto occupazione. Sappiamo che [Israele] non lo ha fatto”, dice, aggiungendo che Israele attribuisce tale responsabilità all’ANP [Autorità Nazionale Palestinese] quale fornitore dei servizi per i palestinesi.

Ciò costituisce una preoccupazione concreta“, riferisce Hawari a Mondoweiss. “Sappiamo che, se assegnato alla sola ANP, probabilmente sarà un processo molto lento.

Il “de-sviluppo” del sistema sanitario palestinese

A differenza del governo israeliano, l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) non è stata in grado di garantire la quantità di vaccini necessaria per trattare gli oltre 3 milioni di palestinesi che vivono in Cisgiordania e i 2 milioni di palestinesi che vivono nella Striscia di Gaza.

Mentre i funzionari dell’ANP hanno sostenuto di attendersi l’inizio dell’acquisizione dei vaccini nel corso delle prossime due settimane tramite l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), hanno [anche] affermato che potrebbero passare mesi prima che il vaccino venga distribuito alla popolazione.

Ancora non si conosce il tipo e la quantità di vaccini che i palestinesi riceveranno, poiché per la fornitura essi fanno molto affidamento sulle donazioni internazionali, e il governo palestinese non ha la capacità infrastrutturale per conservare vaccini come quello Pfizer alle basse temperature richieste.

Nel frattempo, i palestinesi continuano a vivere tra periodi interminabili di isolamento, mentre il virus imperversa in tutti i Territori Palestinesi Occupati, con tassi giornalieri di infezione dell’ordine delle migliaia e tassi di mortalità giornaliera a doppia cifra.

Hawari sostiene che l’incapacità dell’Autorità Palestinese di procurarsi e immagazzinare i vaccini, insieme al suo precario sistema sanitario, è una conseguenza dei decenni di danni che l’occupazione israeliana ha arrecato alle infrastrutture palestinesi.

“C’è questo ricorrente luogo comune secondo cui la ragione per cui il sistema sanitario palestinese o altri servizi come l’istruzione sono inefficienti e non stanno facendo il loro lavoro sarebbe legata all’incompetenza da parte del popolo palestinese o della sua cultura – questa opinione secondo cui essi sarebbero stupidi e non in grado di governare “, dice Hawari.

“Ovviamente non è così. Il regime israeliano ha sistematicamente preso di mira il sistema sanitario palestinese e ha contribuito al suo de-sviluppo“, afferma. “I palestinesi sono stati costretti a fare affidamento ad aiuti esterni e gli è stato impedito di essere autosufficienti da parte dell’occupazione [israeliana], con la compiacenza della comunità internazionale.

L’esempio più lampante di ciò, afferma Hawari, è Gaza, dove il sistema sanitario è da anni sull’orlo del collasso e non è stato in grado di resistere ad anni di bombardamenti e offensive israeliane.

Da anni gli ospedali di Gaza non sono in grado di occuparsi di ferimenti e malattie. Non potevano farcela prima del COVID, e ora il COVID ha esasperato la situazione rendendola dieci volte peggiore “.

L’apartheid in funzione

Mentre i palestinesi che vivono sotto l’occupazione israeliana in Cisgiordania e Gaza non riceveranno vaccini dal governo israeliano, le centinaia di migliaia di coloni israeliani che vivono illegalmente in Cisgiordania vengono vaccinati ogni giorno.

Gli attivisti palestinesi e i loro sostenitori hanno lanciato l’allarme per la forte disparità tra chi viene vaccinato e chi no, affermando che questo non è altro che apartheid.

Quando si parla di cose come il vaccino per il COVID-19, “sembra esserci una falsa distinzione tra Israele e Palestina”, dice Hawari. “In realtà si tratta di un’unica entità in cui le persone [che si trovano] all’interno di quello spazio vengono trattate in modo diseguale.”

“Esiste un’enorme quantità di rapporti reciproci tra le popolazioni, ma livelli di potere totalmente squilibrati”, prosegue Hawari, indicando le decine di migliaia di lavoratori palestinesi che lavorano ogni giorno all’interno di Israele e delle colonie.

“L’economia israeliana fa affidamento su quella [forza lavoro]. Riceveranno anche il vaccino?” domanda. “In caso contrario ciò rappresenterebbe un rischio per Israele. Siamo popolazioni totalmente interconnesse, come avviene nelle popolazioni coloniali “.

È necessario fornire il vaccino a tutti e non dovrebbe esserci un’eccezione per la Palestina. Qualcuno lo ha detto perfettamente: non saremo al sicuro finché tutti non avranno accesso al vaccino. Questo non è un virus che conosce confini”.

Per quanto alcuni funzionari israeliani abbiano ventilato la possibilità di fornire in caso di necessità alcuni vaccini all’Autorità Nazionale Palestinese, Hawari ammonisce di non lasciarsi ingannare dalle false manifestazioni di generosità di Israele, affermando: “Sappiamo che presenteranno tale mossa come un grande atto di benevolenza e di cooperazione internazionale, ma essi non soddisferanno nemmeno i requisiti minimi previsti dal diritto internazionale”.

Hawari sottolinea il fatto che nel bel mezzo della pandemia i palestinesi hanno “visto molto poco dal regime israeliano in termini di aiuti e sostegno ai palestinesi e alla loro lotta contro il virus. E quando finalmente si sono coordinati per consentire forniture provenienti da donazioni internazionali, ciò è stato elogiato come una meravigliosa forma di cooperazione, quando è il minimo che gli si possa chiedere”.

“Abbiamo visto Israele fare ciò per decenni – Israele viene costantemente elogiato per aver permesso ai malati di cancro di Gaza di recarsi a Tel Aviv per il trattamento, ma fondamentalmente – dice – essi stanno imponendo l’assedio che impedisce a centinaia di abitanti di Gaza di ottenere le cure necessarie”.

“È un girare intorno molto abile su qualcosa che dovrebbero fare, ma che non fanno.”

Oltre alle domande sul destino dei palestinesi dei TPO riguardo l’arrivo del vaccino, attivisti palestinesi e organizzazioni per i diritti hanno espresso preoccupazione per la potenziale emarginazione delle comunità palestinesi in Israele in occasione della pratica della vaccinazione.

All’inizio della pandemia organizzazioni come Adalah [Centro legale per i diritti delle minoranze arabe in Israele, ndtr.] hanno criticato il governo israeliano per aver emarginato le comunità palestinesi in luoghi come Gerusalemme est, dove gli ambulatori per i test sul coronavirus erano scarsi o addirittura inesistenti.

Hawari è certa che “assisteremo di nuovo a quei comportamenti” durante la procedura delle vaccinazioni.

“È ancora presto e il vaccino è appena uscito, ma se osserviamo la programmazione, [Israele] li distribuirà [i vaccini] negli ambulatori. E sappiamo che, naturalmente, nei villaggi e nelle città palestinesi del ’48 [cioè in territorio israeliano, ndtr.] il sistema sanitario è privato, quindi ci sono meno ambulatori e operatori sanitari, per cui – afferma – in quelle aree le procedure saranno più lente”.

“Sarà facile per il governo israeliano ignorarlo e dire ‘ogni cittadino israeliano è trattato allo stesso modo’, ma se guardiamo alla geografia, quelle comunità palestinesi sono state volontariamente ignorate riguardo le strutture sanitarie, gli ambulatori, e altre istituzioni essenziali”.

La Palestina e il sud del mondo

Mentre decine di Paesi in tutto il mondo, come Israele, Stati Uniti, Regno Unito e Paesi dell’UE iniziano a distribuire i loro vaccini alla popolazione, luoghi come la Palestina e altri Paesi del “Sud del mondo” sono rimasti indietro.

Anche prima che i vaccini arrivassero sul mercato, le Nazioni ricche hanno cominciato a fare scorta dei più promettenti vaccini contro il coronavirus. Secondo organizzazioni come Amnesty International e Oxfam si stima che, nonostante ospitino solo il 14% della popolazione mondiale, le Nazioni ricche abbiano già acquistato il 54% delle scorte totali dei vaccini più promettenti al mondo.

Amnesty International ha affermato che entro la fine del 2021 le Nazioni più ricche avranno acquistato dosi di vaccino sufficienti per “vaccinare l’intera popolazione tre volte”, mentre circa 70 Paesi poveri “saranno in grado di vaccinare contro il COVID-19 solo una persona su dieci”.

“Ciò che sta accadendo a livello globale è fortemente esplicativo delle disuguaglianze strutturali che esistono in tutto il mondo”, afferma Hawari. “Luoghi come Gaza, dove è persino difficile mantenere i requisiti sanitari di base e il distanziamento sociale, dovrebbero avere la priorità al fine di prevenire la diffusione. Ma ovviamente non avranno la priorità a causa del predominio delle strutture di oppressione”.

“Il COVID ha messo in evidenza in tutto il mondo sistemi di disuguaglianza“, continua Hawari, e afferma di ritenere “quasi impossibile avere all’interno di questi sistemi giustizia e parità in campo sanitario”.

“Un passo nella giusta direzione, in particolare per quanto riguarda la Palestina, sarebbe che i palestinesi ricevessero immediatamente il vaccino, perché vivono un’esistenza precaria e costituiscono una comunità vulnerabile”, sostiene Hawari. “Questa priorità non dovrebbe essere esclusiva dei palestinesi, ma anche di altri Paesi del Sud del mondo. L’accesso all’assistenza sanitaria non dovrebbe dipendere dal fatto che sia o meno possibile permetterselo”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Una delle migliori musiciste di Israele canta della guerra per liberare la Palestina

Ben Shalev

27 dicembre 2020 – Haaretz

La musica di Amal Murkus viene trasmessa di rado nelle radio israeliane. ‘Pago il prezzo di essere una persona libera’, dice a Haaretz prima dell’uscita di un nuovo album

È stata una giornata molto produttiva per Amal Murkus. Nel pomeriggio la cantante ha fatto un video di sé stessa mentre legge un libro per bambini nella sua casa a Kafr Yasif e lo ha inviato ad un’organizzazione tunisina che incoraggia i bambini alla lettura. Alla sera è andata in uno studio al Moshav [comunità agricola cooperativa sionista, ndtr.] Even Menahem per essere ripresa mentre canta la canzone popolare palestinese “Bahalilak”, che ha inviato in Cile per una serata in occasione della Giornata Internazionale di Solidarietà con il Popolo Palestinese del 29 novembre.

Murkus ha approfittato della sessione di registrazione per fare un’altra cosa: registrare nuovamente la traccia vocale di un singolo che ha prodotto, non a caso, quella stessa domenica 29 novembre.

Non ero soddisfatta della mia prestazione”, ha detto. “Sfumature: volevo migliorarla. Volevo che l’inizio fosse energico e al tempo stesso lento.”

Sembra una sfida quasi impossibile, ma Murkus è una cantante straordinaria, una delle migliori in Israele. Due dei suoi album, “Nana ya Nana”, (2007) e “Baghanni” (2011), secondo me sono tra i più belli usciti qui negli ultimi 15 anni.

La nuova canzone di Murkus, intitolata “Dola”, si basa su una poesia scritta da Samih al-Qasim all’ inizio anni ’70. La maggior parte delle sue poesie sono state scritte in arabo letterario. Murkus ne ha interpretata una nel suo album precedente, “Fattah al Ward”. “Dola” è stata scritta in dialetto.

C’è un motivo per questo. La poesia si basa su un gioco di parole con il termine “dola”, che significa Paese – e nel dialetto egiziano significa “quelli”, nel senso di “quella gente”. Quindi Murkus canta così: “Dola – mi hanno confusa/Dola – mi hanno fatta impazzire/Mi hanno privata della mia terra – Dola/Hanno calpestato la mia dignità – Dola/Mi hanno detto di stare zitta, di non fiatare/ in nome della sicurezza dello Stato.”

Dola” nel senso di “quelli” e “Dawla” nel senso di “Stato” in arabo sono scritti in modo differente. Quasi tutti i “dola” nella poesia di al-Qasim sono scritti nel primo significato: “Quella gente mi ha privato della mia terra/Quella gente ha calpestato la mia dignità.” Ma poiché i “dola” hanno lo stesso suono, gli ascoltatori di lingua araba percepiscono anche l’altro significato – lo Stato mi ha denegato, lo Stato ha calpestato la mia dignità. “Dawla”, scritto nel modo che significa “Stato”, compare solo una volta nella poesia – nelle frasi “Mi hanno detto di stare zitta, di non fiatare/In nome della sicurezza dello Stato.”

Murkus, nata nel 1968, è la figlia di Nimr Murkus, che per molti anni è stato capo del consiglio locale di Kafr Yasif ed era amico del poeta al-Qasim. Lei era una bambina quando al-Qasim scrisse la poesia. “Ricordo la poesia da allora”, dice. “Ho visto Samih recitarla durante una manifestazione per il primo maggio a Kafr Yasif. Era sul palco e leggeva la poesia, e la gente si entusiasmava, agitando le mani, caspita!”

Secondo Murkus “Dola” non è rimasta confinata all’ambito politico, bensì è diventata anche una canzone per i matrimoni. “Per via della melodia”, spiega. “Ha un timbro molto ritmico, in stile egiziano.” La musica fu composta (sotto la direzione di al-Qasim) da Rajab al-Suluh che, oltre ad essere un suonatore di oud, era il padrone del ristorante ad Haifa dove scrittori e editori del giornale Al-Ittihad [il primo giornale israeliano in lingua araba e di proprietà del Partito Comunista, ndtr.] solevano passare il tempo: tra questi c’era il padre di Murkus. “Il ristorante era in via Hahar”, ricorda. “Ora si chiama viale HaTzionut (Sionismo).” (In realtà il nome di viale Hahar inizialmente fu modificato in via Nazioni Unite, per riconoscenza all’appoggio dell’ONU alla creazione dello Stato di Israele. Nel 1975, per reazione alla risoluzione che equiparava il sionismo al razzismo, fu cambiato in viale HaTzionut).

Al-Qasim voleva che la musica di “Dola” fosse “folk, semplice, ballabile e divertente, in modo che la gente potesse ridere un po’ della situazione, e forse questo l’avrebbe resa più sopportabile. Mentre lavoravo alla canzone ho intervistato persone che l’avevano cantata allora ad una rappresentazione studentesca. Samih ha detto loro durante le prove: ‘Voglio che il contenuto sia politico, ma che una danzatrice del ventre possa ballarla.’”

Il figlio di Murkus, Firas, compositore e suonatore di qanun che vive negli Stati Uniti, è l’autore del nuovo arrangiamento e della nuova produzione di “Dola”. “Ho la sensazione che questa canzone sarà molto amata”, dice Murkus. “È molto orecchiabile. Mentre realizzavamo il video c’erano persone e bambini del villaggio accanto a noi. Ho notato che dopo un po’ tutti la stavano cantando, la conoscevano già a memoria. Il ritornello si basa su un’unica parola che si ripete – dola-dola-dola. Forse gli israeliani penseranno che sto cantando qualcosa che riguarda una levatrice (doula)”, dice ridendo.

Non è che gli israeliani di lingua ebraica avranno molte opportunità di ascoltare “Dola”. Le canzoni di Murkus, sia politiche che non, sono trasmesse raramente, per non dire mai, dalle stazioni radio ebraiche.

Sei stupida’

Alla fine degli anni ’90, mentre lavorava al suo primo album, “Amal”, il produttore Alon Olearchik le suggerì di registrare una cover in arabo di una canzone popolare ebraica. “Ho detto ‘Non voglio farlo. Voglio fare una registrazione che sia la mia carta d’identità’. Lui disse ‘Sei stupida’”, dice Murkus ridendo. “Non lo rimpiango. Non ho trasformato la mia arte in un prodotto. Non sono un’esca per le regole del mercato. Quando penso a cosa devo cantare non faccio nessun calcolo. Sono una persona libera ed ho pagato un prezzo per questo, sia nella società araba che in quella israeliana.”

Poco dopo la sua uscita, “Dola” è stata trasmessa qualche volta su Makan, la stazione radio di lingua araba dell’emittente pubblica Kan. Makan ha trasmesso anche una canzone politica esplosiva da lei prodotta, “Shiye Fil Harav”, ma in versione depurata. È una canzone contro la guerra scritta da Tawfik Zayyad, che termina con queste parole: “Dedico la mia voce ad una sola guerra – la guerra di liberazione.”

Si riferiva alla liberazione della Palestina, la liberazione dei territori occupati”, dice Murkus. Dice che Kan ha messo in dissolvenza la canzone prima del verso esplosivo. Lei non ha protestato contro la censura. “Non ho alzato la voce”, ricorda. “A volte dico che è meglio di niente. Va bene, l’hanno trasmessa. Capisco.”

Dola”, nonostante la sua connotazione politica, è meno dura e molto meno esplicita.

Non viene citato Israele. Non viene citata la Palestina”, dice. “Ognuno dovrebbe chiedersi ‘qual è il Paese che ha espropriato terre? Quale Paese ha calpestato la dignità umana? È forse la Turchia? O il Mandato britannico? Quali altri Stati sono occupanti? Forse gli Stati Uniti? La canzone non lo dice. È una canzone divertente, gradevole, allegra, leggera, ma con un messaggio. È una canzone da cabaret, come quelle di Brecht. Una canzone satirica. Chi più del popolo ebraico può capire l’importanza della satira?”

Il video si apre con Murkus e sua madre, l’attivista Nabiha Murkus, che si aggirano tra vecchi quadri nello studio di suo padre, morto otto anni fa. C’è appeso un ritratto di Lenin. “Questo è pericoloso, vero?”, dice Murkus.

Non credo. Però sembra anacronistico.

Okay. Questo è ciò che c’è in casa. È così che sono cresciuta. La nostra casa era piena di simboli marxisti. Lo studio di mio padre è rimasto quasi così com’era. Ci sono ancora persino le sue ultime sigarette.”

Sua madre ha 81 anni e non è più in grado di partecipare alle manifestazioni come ha fatto per tutta la sua vita. Continua ad essere attiva su Facebook.

Nel video si vedono Murkus e sua madre con in mano una vecchia foto di Samih al-Qasim che parla in piazza. Poi Murkus esce con un gruppo di uomini, donne e bambini nelle strade di Kafr Yasif, dove distribuisce volantini dal titolo “Libertà per le nazioni”.

È un scorcio della storia della mia vita”, dice Murkus. “Sono cresciuta in una casa di attivisti. La mia arte è sgorgata dalla combinazione di due fattori: la musica e l’arte per puro amore, ma anche il portato di ciò che sta avvenendo al mio popolo, di ciò che desidero in quanto donna araba-palestinese ed anche di ciò che avviene nel mondo.

Da ragazza distribuivo volantini, andavo all’associazione per la pace a Kafr Yasif, impaginavo il giornale “Al-Ittihad” e lo distribuivo, andavo nel villaggio arabo Arab al-Aramshe con la rivista culturale “Al-Rad”. Israele non ci prestava attenzione. A scuola non insegnavano la nostra storia. Noi, come minoranza, abbiamo creato letteratura, giornalismo, cultura.”

La narrazione che Murkus esprime nella sua arte è sempre in contrasto con quella israeliana, ma questa non è la sola lotta che lei conduce. Per anni ha combattuto le forze islamiche nella società araba ed in anni recenti si è anche scontrata con il movimento palestinese di boicottaggio.

Successe cinque anni fa, quando il gruppo musicale “Not Standards”, che interpreta in jazz canzoni di musicisti israeliani di primo piano, contattò Murkus offrendole di fare uno spettacolo incentrato sulle sue canzoni. Lei era gratificata dal riconoscimento del suo lavoro da parte dei giovani musicisti jazz ebrei. Ma poche settimane prima dello spettacolo un rappresentante del movimento di boicottaggio la contattò dicendo che se non avesse annullato l’esibizione il movimento l’avrebbe denunciata.

Gli dissi che avrei deciso da sola se cantare o no”, dice. “Gli ho anche detto ‘Non mi avete mai chiamata per congratularvi con me. Perché mi chiamate adesso?’ Capisco questa trappola. Il movimento di boicottaggio dice agli artisti occidentali ‘Non venite in Israele’ e io lo giustifico. È uno Stato di apartheid, uno Stato di occupazione. Ma l’artista palestinese è in difficoltà. Vuole esibirsi, vuole guadagnarsi da vivere. Arriva questo grande gruppo musicale e dice ‘Prendiamo le tue canzoni, con le loro strofe di protesta, comprese le canzoni che parlano del ritorno dei rifugiati.’ Come potrei rifiutare una cosa del genere?” E ha fatto lo spettacolo.

A causa delle circostanze, l’ultima esibizione di Murkus è stata a febbraio.

Da luglio non ho più guadagnato un soldo”, dice. “Sono preoccupata perché non ho la pensione. Ora questo mi addolora”, dice. Dopo pochi istanti si riprende ed aggiunge: “C’è disperazione, ma penso che disperarsi sia un privilegio. Ci sono donne assassinate per strada, persone che vivono in villaggi non riconosciuti, rifugiati che combattono per la sopravvivenza. Ovviamente capisco perché la gente si deprime, ma non vi ci si può crogiolare.”

Quest’estate ha organizzato un gruppo di artisti palestinesi di Israele specificamente per aiutare gli artisti durante la crisi del coronavirus, e più in generale per ‘svegliare’ i loro simili, unirli e promuovere la consapevolezza pubblica delle difficoltà che attraversano, indipendentemente dalla pandemia. Poiché le canzoni dei musicisti palestinesi non sono trasmesse dalle radio israeliane, dice Murkus, bravissimi cantanti sono costretti ad esibirsi durante i matrimoni. Non è questo il modo di creare una cultura musicale.

Una notte in cui ero a casa e in preda alla frustrazione per la situazione della cultura e delle arti ho iniziato a scrivere slogan. Uno dopo l’altro”, dice. “Ho scritto: ‘L’arte è anche un cesto di cibo’. Ho scritto: ‘L’arte rafforza il sistema immunitario’. Ho scritto: ‘L’arte non è una pandemia’. Ho lanciato un gruppo WhatsApp. In due giorni avevo 300 persone nel gruppo. Ho lanciato un altro gruppo e l’ho chiamato Movimento di protesta delle arti.”

Non è la mia protesta

Quando degli artisti ebrei hanno protestato contro il piano del governo di cancellare i sussidi alla cultura, Murkus si è unita alla protesta davanti alla casa del ministro della Cultura. “Ma poi hanno cantato (l’inno israeliano) ‘Hatikva’ e prima di ciò uno dei direttori culturali si è messo a parlare di suo figlio che fa il militare nella Brigata Golani. Me ne sono andata. Sentivo che non era la mia protesta”, dice.

Lei ed altri hanno programmato una manifestazione ad Haifa, ma quattro giorni prima della manifestazione c’è stata l’esplosione al porto di Beirut che ha ucciso più di 200 persone. “Ho cominciato a fare telefonate: ‘Annullate la manifestazione, fate invece una commemorazione’, ricorda Murkus. Si è rifiutata di partecipare ed ha aggiunto uno slogan: ‘Da Haifa a Beirut – Amore’.

Abbiamo aperto la serata con un minuto di silenzio ed una canzone di Fairuz. Poi ci sono stati interventi ed alla fine la gente si è lanciata in una debka (danza popolare). Quando le persone hanno incominciato a tenersi per mano un poliziotto ha detto: ‘Questo non va bene’. Gli ho detto: ‘Lasciateli fare, è da febbraio che non cantano’.”

Murkus dice che la protesta è stata “un momento importante”, ma quando ha cercato di farlo durare ha riscontrato indifferenza tra i suoi colleghi artisti. “Non erano disponibili, improvvisamente tutti erano concentrati su se stessi”, dice amaramente.

Dal punto di vista creativo, Murkus dice che sta evolvendo e si sente molto ispirata. “Ringrazio dio”, dice e poi ride. “Sono atea. Ringrazio la vita”. Ha otto nuove canzoni già pronte e farà presto uscire un nuovo album. “Invece di cucinare faccio canzoni. Sono pazza. La mia cucina è un disastro.”

Dola” è il secondo singolo del suo album in uscita. Il primo, “Nas” (Popolo), scritto e composto da suo figlio Firas, ha uno spirito vicino al jazz. È una canzone complessa, coontorta, contemplativa. “A volte sento come se dentro di me ci fosse una cantante rock che non è ancora emersa. A volte una cantante jazz. Un milione di cose”, dice. Sostiene che un documentario su di lei adesso la fa sentire vecchia. Così si è sentita anche quando Firas ha composto “Nas” su note basse. “Gli ho detto: ‘Che cosa stai insinuando, che sono diventata vecchia? Posso cantare con lo stesso timbro con cui cantavo nel 1995.’ Ma la verità è che a volte mi sembra che la mia voce non abbia la stessa brillantezza. E allora? È come avere qualche capello grigio o qualche chilo in più. Non c’è problema.”

Nas” non ha una valenza politica. È una canzone sull’osservare la gente. “L’ha scritta Firas, non io, ma quando canto immagino qualcuno seduto in un bar ad Haifa, che guarda i bambini che giocano e si accorge che qualcosa non va. È così che mi sento in questo periodo. C’è una disunione tra la gente. Le coppie non vogliono impegnarsi. Tutto è precario. La gente investe nel farsi i muscoli della pancia, gli addominali, nel Botox, nelle camminate, nell’alimentazione, nell’arte culinaria. Non investe nei rapporti. Ed io penso che dobbiamo investire nei rapporti. Parlare, abbracciare: ciò produce resilienza.”

E pensi che sia diverso da come era in passato?

Sì. Questa non è un’epoca di amore”.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Un sonoro messaggio da Betlemme: Porre fine all’occupazione

Sami Abu Shehadeh

26 dicembre 2020 – Middle East Eye

I palestinesi hanno il diritto di godere di un futuro di pace fondato sulla giustizia, la tolleranza e il rispetto

Gli sviluppi politici che hanno avuto luogo nel 2020 dovrebbero essere attentamente compresi e colti al fine di rendere il 2021 un anno migliore per tutti.

L’amministrazione Trump sta lasciando dietro di sé un’eredità di incitamento all’odio e all’uso della religione come arma contro i diritti del popolo palestinese.

Il governo israeliano sarà presto sciolto e in primavera si terranno le quarte elezioni in meno di due anni, ma non vi è alcuna indicazione che le sue politiche di annessione nei territori occupati, la sua istigazione all’odio e alla discriminazione istituzionalizzata contro i cittadini palestinesi di Israele siano destinate a cessare tanto presto.

Questo è il contesto in cui dovremmo intendere il Natale di quest’anno nella Terra Santa occupata: Betlemme, città natale di Gesù, a causa del Covid-19 ha trascorso unBianco Natal” con pochissimi pellegrini e quasi nessuna attività turistica. La città è assediata da migliaia di nuove unità di insediamenti coloniali israeliani illegali in costruzione sulla sua terra.

Soffocare Betlemme

Qualche settimana fa mi sono unito a un gruppo di diplomatici europei per una visita in loco alla colonia illegale di Giv’at Hamatos, che consoliderà la separazione artificiale tra le città bibliche di Betlemme e Gerusalemme. Recentemente il sindaco di Betlemme ha inviato una lettera disperata alle missioni europee chiedendo un’azione urgente per fermare l’insediamento della colonia: “Betlemme merita di essere riportata al suo antico splendore di città aperta alla pace”, ha scritto.

Queste parole significano poco per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che sembra intenzionato a soffocare Betlemme, sia espandendo colonie come Har Homa, Gilo o Efrat, tutte illegali secondo il diritto internazionale, o attraverso il muro di annessione, ritenuto illegale dalla Corte Internazionale di Giustizia circa 16 anni fa.

Allo stesso modo, un gruppo di religiosi di Betlemme ha implorato la comunità internazionale di intervenire per fermare il processo di annessione in corso: “I nostri parrocchiani non credono più che qualcuno si schiererà coraggiosamente per la giustizia e la pace e fermerà questa tremenda ingiustizia che si sta verificando davanti a vostri occhi.” Qualcuno dimostrerà che si sbagliano?

Il governo israeliano e la sua macchina propagandistica, tuttavia, faranno ancora una volta un uso cinico del Natale.

Lo stesso Netanyahu ha consegnato un “messaggio natalizio” in cui tratta i cristiani come “stranieri”, eppure stiamo celebrando la nascita di Cristo proprio nella terra che oggi Israele sta occupando.

La propaganda israeliana si dipinge come la “protettrice” dei cristiani in Medio Oriente. Ma niente potrebbe essere più lontano dalla verità.

Questo approccio ipocrita è stato chiaramente rappresentato dall’ ambasciatore israeliano all’Onu Gilad Erdan in un “messaggio di Natale” in cui ha detto: “Spero che trascorriate serene festività e un nuovo anno felice ed in salute”.

Erdan ha sostenuto tutte le politiche che minacciano la presenza cristiana in Israele e Palestina, dagli insediamenti coloniali e dall’annessione alle leggi razziste. E’ stato anche responsabile dell’inserimento dei quaccheri nella lista nera del rifiuto di ingresso nel Paese a un funzionario del Consiglio ecumenico delle Chiese, oltre che ad altre organizzazioni cristiane che sostengono i diritti dei palestinesi e si oppongono alle colonie illegali.

Ne abbiamo viste tante. Dalla Nakba del 1948, che ha avuto un impatto immenso sui cristiani palestinesi – con quasi 50.000 cristiani su 135.000 sfollati – alle realtà attuali del moltiplicarsi delle colonie e delle leggi atte ad impedire l’unificazione delle famiglie palestinesi, Israele ha adottato una politica sistematica contro i suoi cittadini non-ebrei.

Prendiamo come esempio i casi emblematici dei villaggi di Iqrith e Kufr Bir’im.

Miracolo di giustizia

Durante la Nakba [la Catastrofe, cioè la pulizia etnica a danno dei palestinesi nel 1947-48, ndtr.] l’esercito israeliano chiese agli abitanti del villaggio di Iqrith e Kufr Bir’im di lasciare le loro case solo per due settimane. Settantadue anni dopo, tuttavia, essi non possono ancora farvi ritorno. Hanno chiesto giustizia attraverso il sistema giudiziario israeliano solo per ritrovarsi con il governo israeliano che ha bloccato l’attuazione di una risoluzione che avrebbe consentito il loro ritorno.

Il caso è stato sollevato da eminenti vescovi cattolici ed è arrivato persino alla Santa Sede, ma nessun governo israeliano è stato disposto a ripristinare i diritti di quei cittadini palestinesi di Israele che, questo Natale, sono tornati negli unici edifici rimasti in piedi nei rispettivi villaggi, la Chiesa cattolica di Iqrith e la Chiesa maronita di Kufr Bir’im, per celebrarvi il Natale in attesa di un miracolo di giustizia su questa terra.

Questi non sono casi isolati. Quasi il 25% dei cittadini palestinesi di Israele sono sfollati interni. I loro diritti non sono stati onorati semplicemente perché l’uguaglianza tra tutti i cittadini israeliani è qualcosa che non esiste. Decine di leggi consolidano un sistema di discriminazione istituzionalizzato che è stato incoraggiato negli ultimi anni dall’amministrazione Trump.

Sarebbe stato difficile immaginare una legge come la legge sullo “Stato – Nazione ebraico” senza persone come David Friedman [ambasciatore USA in Israele, ndtr.], Jared Kushner [genero e consigliere di Trump per il Medio Oriente, ndtr.] e Jason Greenblatt [consigliere di Trump per Israele, ndtr.].

Realtà dolorose

Oggi possiamo valutare le conseguenze di tali politiche. L’attacco terroristico incendiario che ha preso di mira la chiesa di Getsemani all’inizio di questo mese è stato sventato grazie all’azione efficace dei giovani palestinesi cristiani e musulmani della Gerusalemme est occupata. Questo attacco non deve essere considerato un evento isolato.

Quando i funzionari israeliani sottolineano costantemente che questa è “terra ebraica”, negando i diritti dei cristiani e dei musulmani palestinesi, le persone non dovrebbero sorprendersi per tali eventi. Sembra che l’incendio della Chiesa della Moltiplicazione dei Pani e dei Pesci a Tiberiade nel 2015 non sia stato un monito sufficiente per comprendere le minacce che stiamo affrontando.

La vigilia di Natale il patriarca latino di Gerusalemme ha percorso lo storico tragitto tra la Porta di Jaffa della città e la Chiesa della Natività a Betlemme. Questa processione natalizia potrebbe, paradossalmente, essere chiamata la nuova “Via Dolorosa” [percorso che Cristo avrebbe seguito a Gerusalemme prima della crocifissione, ndtr.] in quanto riflette il dolore e le ingiustizie subite dal popolo palestinese.

Il corteo attraversa la proprietà di centinaia di famiglie di rifugiati cristiani palestinesi a Qatamon [quartiere della zona centro-meridionale della Città Vecchia a Gerusalemme, ndtr.] e Baqaa [quartiere meridionale di Gerusalemme, ndtr.], per poi rientrare nei territori occupati che testimoniano dell’ espansione delle colonie illegali di Giv’at Hamatos e Har Homa, che presto trasformeranno lo storico monastero di Mar Elias [uno dei più antichi monasteri cristiani tuttora attivi sin dalla fondazione, ndtr.], la prima sosta del patriarca, in un’isola dentro un oceano di insediamenti coloniali.

Da lì dovrebbe varcare il muro di annessione attraverso il famigerato Checkpoint 300 di Betlemme. Sono tutte realtà quotidiane che Netanyahu e i suoi amici populisti di destra, sia a livello locale che internazionale, hanno continuato a perpetuare.

Auguri di Buon Anno Nuovo

Sono nato a Giaffa da una famiglia musulmana e sono andato a scuola al Collegio Terra Sancta, una storica istituzione cristiana. Il Natale fa parte della nostra identità nazionale palestinese da generazioni e della convivenza tra fedi diverse.

Mentre l’amministrazione Trump si avvicina al termine e mentre ci stiamo preparando per le nuove elezioni in Israele, il mio sincero augurio per questo nuovo anno è che il messaggio d’amore generato da questa ricorrenza venga esaudito.

Ciò può prendere l’avvio solo con il riconoscimento dei principi di base dell’uguaglianza tra tutti i cittadini israeliani, ponendo contemporaneamente fine all’occupazione che perpetua l’ingiustizia inflitta al popolo della Palestina.

Possano i bambini che celebrano il Natale nella “Terra Santa occupata” godere di un futuro di pace basato su giustizia, tolleranza e rispetto.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Sami Abu Shehadeh

Sami Abu Shehadeh è un membro della Knesset [parlamento, ndtr.] israeliana e fa parte della Lista Unita [coalizione politica israeliana formata da partiti che rappresentano in prevalenza gli arabo-israeliani, ndtr.]

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta )




Cambio del guardiano dei due Stati

Maureen Clare Murphy

24 dicembre 2020 – The Electronic Intifada

Questa settimana il diplomatico bulgaro Nickolay Mladenov ha presentato al Consiglio di Sicurezza dell’ONU la sua ultima relazione in qualità di inviato di pace per il Medio Oriente.

Mladenov ha concluso il suo mandato di sei anni con un desolante aggiornamento sull’implementazione della risoluzione 2334 adottata dal Consiglio di Sicurezza nel 2016, che ribadisce l’illegalità delle colonie israeliane sui territori occupati.

Essa inoltre “sottolinea che la cessazione di ogni attività di colonizzazione da parte di Israele è requisito essenziale per la salvaguardia della soluzione dei due Stati.” La risoluzione richiede agli Stati di distinguere fra Israele e i territori che occupa dal 1967.

Il Consiglio di Sicurezza viene aggiornato ogni tre mesi sull’implementazione della risoluzione.

Lunedì, allo scadere del mandato, Mladenov non aveva buone notizie per l’ONU.

Nella sua ultima relazione, molto simile alle quindici precedenti, elencava casi di espansione delle colonie israeliane e esprimeva diligentemente dispiacere e preoccupazione.

“Nell’ultimo anno le autorità israeliane hanno presentato controversi progetti di colonie che erano rimasti congelati da anni,” ha detto.

“Dopo un rinvio di 8 anni sono stati presentati progetti per circa 3500 unità nell’area strategica E1 [un’area di circa 12 km2 di terra confiscata ai palestinesi che attraversa trasversalmente la Cisgiordania, n.d.t.]. Se tale progetto venisse attuato la Cisgiordania sarebbe tagliata in due parti separate, nord e sud.”

Mladenov ha dichiarato che “il proseguimento di tutte le attività di colonizzazione devono cessare immediatamente.”

Ma come tutte le altre relazioni precedenti neanche questa contiene un appello ad agire per costringere Israele a rispettare le leggi internazionali.

Da inviato speciale Mladenov non ha mai espresso il proprio appoggio per un’inchiesta del Tribunale Penale Internazionale sui crimini di guerra commessi da Israele nelle colonie, né si è mai avvalso della sua posizione per sostenere il database dell’ONU delle aziende che operano nelle colonie.

Anziché richiamare Israele alle proprie responsabilità, il lavoro di Mladenov, sacrificando il concetto di giustizia che impone di sanzionare Israele per le sue violazioni delle leggi internazionali, ha scelto invece di lanciare un appello ipocrita alla “pace”.

Lo ha fatto promuovendo il “coordinamento per la sicurezza” fra Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese e ha letteralmente abbracciato i leader israeliani che rendono la vita dei palestinesi un vero e proprio inferno.

Ultimamente Mladenov è arrivato a considerare i diritti dei palestinesi come oggetto di negoziato con Israele, a cui invece non ha chiesto nulla.

Si è riconosciuto al diplomatico il merito di avere impedito un altro massacro su larga scala a Gaza come quello del 2014, ma scegliendo di aderire rigidamente alla dottrina della soluzione negoziale dei due Stati invece di richiamare Israele alle sue responsabilità, Mladenov e il segretario generale dell’ONU permettono che la colonizzazione israeliana delle terre rubate ai palestinesi continui indisturbata.

Mladenov ha accolto con favore – se non addirittura propugnato, come ha fatto di fronte ad una lobby israeliana – gli accordi di normalizzazione fra Israele e monarchie del Golfo, quali gli Emirati Arabi Uniti, ma questi accordi non sono altro che contratti di forniture d’armi che non hanno niente a che vedere con la pace o con l’autodeterminazione dei palestinesi.

Nella sua relazione finale al Consiglio di Sicurezza Mladenov ha tracciato una falsa uguaglianza fra i colonizzatori israeliani e gli abitanti storici della Palestina espropriati, senza Stato e soggetti al dominio coloniale:

“Israeliani e palestinesi, arabi ed ebrei vivono nel conflitto da troppo tempo. La dolorosa realtà della loro lotta si ripercuote su ogni singola famiglia da generazioni,” ha detto Mladenov.

“Perdita e sradicamento fanno parte della storia personale di ogni singola unità familiare.”

In questo modo Mladenov ha distorto quella che è una lotta di liberazione nazionale facendola diventare “un conflitto sul diritto stesso alla coesistenza fra due nazioni.”

Il ruolo della Norvegia

A Mladenov subentrerà Tor Wennesland, l’inviato norvegese per il Medio oriente.

Che cosa possono aspettarsi i sostenitori della giustizia e dei diritti dei palestinesi dal successore di Mladenov?

La Norvegia è presidente permanente dell’Ad Hoc Liaison Committee – Commissione Speciale di Collegamento (AHLC), che coordina i donatori internazionali alla Autorità Nazionale Palestinese, fra cui UE, ONU e USA.

Questo comitato nacque in seguito ai negoziati fra Israele e OLP promossi dalla Norvegia negli anni ‘90 del Novecento che portarono agli accordi di Oslo, funzionali esclusivamente agli interessi della parte più forte.

“Le due parti non erano alla pari in nessun senso del termine né vennero trattate come pari dai norvegesi,” furono le conclusioni di una ricerca dello studioso Hilde Henriksen Waage per l’Istituto di Ricerca della Pace di Oslo.

Il compianto studioso palestinese Edward Said, che si dimise dal comitato esecutivo dell’OLP per protestare contro l’iniziativa, descrisse gli accordi di Oslo come “strumento della capitolazione palestinese.”

I negoziati di Oslo furono fondamentalmente asimmetrici ed imposero una falsa parità fra occupanti e occupati, colonizzatori e colonizzati, paradigma fondamentalmente disonesto e viziato che è stato utilizzato dall’ONU come quadro di riferimento politico.

Durante l’iniziativa di Oslo la Norvegia agì di fatto come agente di Israele, richiedendo concessioni ai palestinesi senza mettere mai in discussione i punti fermi di Israele. Dopo quegli accordi ottenne l’ambita nomina alla presidenza permanente di AHLC.

“Avendo un’influenza marginale sui donatori,” la Norvegia fu vista da USA e UE, che aspiravano entrambi a quella carica, come la candidata di compromesso.

Ma, come osserva Waage, nella sua veste di presidente del Comitato la Norvegia ha agito su delega USA: “Gli USA gestivano l’attività, la Norvegia fungeva da suo collaboratore e messaggero.”

Il lato grottesco del percorso di Oslo si riflette nelle pratiche correnti del Comitato.

L’AHLC ha incluso nelle proprie conferenze dei donatori alti rappresentanti delle forze armate israeliane responsabili di creare proprio le tragiche condizioni che rendono necessari gli aiuti internazionali ai palestinesi. Così dei criminali di guerra sono diventati parti in causa nel determinare quali aiuti ricevano i palestinesi e come li ricevano.

Mentre si atteggia a mediatore per gli aiuti ai palestinesi, la Norvegia vende armi a Israele e tratta gli aguzzini di Gaza come controparti con cui aspira a cooperare.

Lo Stato scandinavo si oppone al movimento BDS, che sostiene i diritti dei palestinesi, e l’attuale governo ha perseguito un ulteriore allineamento con Israele.

Non vi è motivo di ritenere che il successore di Mladenov si discosti dalla prassi di non fare alcuna richiesta ad Israele pretendendo invece di tutto dai palestinesi.

Per quanto ci possano essere differenze nello stile e nel curriculum dei vari inviati speciali dell’ONU, alla fine della fiera questi diplomatici vengono nominati per implementare un assetto che favorisce intrinsecamente Israele a discapito dei diritti più basilari dei palestinesi.

(traduzione dall’inglese di Stefania Fusero)




Se fosse palestinese, persino Babbo Natale avrebbe bisogno di un visto e di un permesso di viaggio

Eman Abusidu

24 dicembre 2020 – Middle East Monitor

Mentre in tutto il mondo i cristiani celebrano il periodo natalizio come momento di gioia e rinascita spirituale, l’occupazione israeliana rende le cose difficili per i cristiani palestinesi. Anche se la Palestina, non dimentichiamolo, è il luogo natale di Gesù (la pace sia con Lui), i cristiani locali sono perseguitati dalle forze di sicurezza israeliane. Israele, tramite politiche discriminatorie, arresti arbitrari, prendendo di mira le chiese e con i checkpoint militari, applica intenzionalmente una politica che mira a espellere i cristiani dalla Cisgiordania occupata e dalla Striscia di Gaza, così come da Gerusalemme. I requisiti per ottenere i permessi per andare a visitare luoghi o persone e viaggiare fanno semplicemente parte della più ampia politica israeliana volta a negare ai palestinesi la libertà di movimento e di accesso ai loro luoghi religiosi.

Secondo un rapporto del 2019 dell’Ufficio centrale di statistica palestinese, in Cisgiordania vivono oltre 40.000 cristiani palestinesi, che due anni prima erano 47.000. Nella Striscia di Gaza, la popolazione cristiana si è ridotta dai circa 3.000 di 10 anni fa ai circa 1.000 di oggi, sui 2 milioni di abitanti del piccolo territorio. Prima degli accordi di Oslo c’erano circa 5.000 cristiani a Gaza. Sia i musulmani che i cristiani sanno che il calo è dovuto all’occupazione israeliana.

L’arcivescovo Atallah Hanna, capo della diocesi di Sebastia della Chiesa greco-ortodossa a Gerusalemme, ha condannato gli abusi dell’occupazione israeliana. “Ci sono gravi violazioni dei diritti umani del popolo palestinese, persino in occasione dei loro eventi religiosi,” ha detto l’arcivescovo Hanna. “L’occupazione israeliana ha costruito barriere razziste e militari per impedire a musulmani e cristiani di visitare i loro luoghi sacri e di preghiera.”

Il muro dell’apartheid e altri ostacoli degli israeliani rendono impossibile ai palestinesi di viaggiare facilmente, per esempio, dalla chiesa della Natività a Betlemme al Santo Sepolcro senza un permesso speciale delle autorità di occupazione. In molte occasioni si impedisce ai palestinesi di andare alla chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme e in altri luoghi sacri, inclusa la moschea di Al-Aqsa.

“Noi respingiamo il sistema di permessi che le autorità di occupazione israeliane danno e tolgono a chi vogliono loro,” ha detto il leader ortodosso. “Gerusalemme è la nostra città e la nostra capitale per tutti, cristiani e musulmani.”

L’occupazione rappresenta una minaccia sia per i musulmani che per i cristiani palestinesi. Le stesse crudeli punizioni collettive sono imposte su tutti durante le rispettive feste religiose. Come la loro controparte cristiana in Cisgiordania, i musulmani non possono entrare a Gerusalemme senza un permesso speciale delle autorità israeliane.

E non sono solo le persone religiose a essere prese di mira. Israele vuole cacciare dalla propria terra tutti i palestinesi di ogni religione o atei. Secondo la Legge dello Stato-Nazione ebraico del 2018 è chiaro che, nella Palestina occupata, solo gli ebrei hanno diritto all’autodeterminazione.

“Quando si tratta di ingiustizia e tirannia le autorità di occupazione non fanno distinzione fra un musulmano e un cristiano,” spiega Hanna. “Siamo tutti presi di mira, i nostri luoghi santi, istituzioni, vite, feste. Ma nonostante tutte queste difficoltà, noi celebreremo il Natale.”

Nonostante sia sotto assedio e separata dal resto della Palestina occupata, la Striscia di Gaza non è immune a tali arbitrarie misure israeliane. I cristiani di Gaza hanno bisogno di un permesso di viaggio per andare a Gerusalemme. Israele di solito respinge tutte le domande per motivi di “sicurezza”.

Comunque, ad alcune centinaia di cristiani palestinesi potrebbe essere permesso di andare da Gaza a Betlemme e Gerusalemme per unirsi ad altri cristiani e celebrare il Natale. L’anno scorso, Israele non l’ha permesso a nessuno. Quest’anno, a causa dell’epidemia di coronavirus, non è stata presentata nessuna domanda. Ci sono stati oltre133.000 casi di Covid-19 nei territori palestinesi occupati, incluse Cisgiordania, Gerusalemme Est e Striscia di Gaza.

Kamel Ayyad, il capo dell’ufficio di pubbliche relazioni della chiesa ortodossa di Gaza, mi ha detto che normalmente ogni anno la chiesa fa domanda per i permessi tramite l’Associazione Civile palestinese a Gaza City. “Gli israeliani respingono la maggior parte delle richieste, per ragioni di ‘sicurezza’,” ci conferma. Ayyad ha reiterato il diritto dei cristiani di Gaza a visitare i loro luoghi sacri. “Non è un’ironia che sia permesso ai cristiani di tutto il mondo e non ai palestinesi?”

L’arcivescovo Hanna fa notare che la pandemia finirà. “È solo questione di tempo, ma cosa ne sarà della catastrofe dell’occupazione israeliana che prende di mira i nostri giovani e ragazzi nella loro fede, nella loro libertà e nelle loro vite? Quando finirà tutto questo?”

Questa è una domanda importante che gli Stati arabi che hanno normalizzato le relazioni con Israele stanno totalmente ignorando. Israele invita turisti da tutto il mondo a visitare la Terrasanta, ma vieta alla popolazione indigena il diritto di viaggiare e vivere liberalmente. Sono sicuro che persino Babbo Natale, se fosse un palestinese, avrebbe bisogno di un visto e di un permesso di viaggio.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale del Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Rapporto OCHA del periodo 8 – 21 dicembre 2020

Il 21 dicembre, nella Città Vecchia di Gerusalemme, un 17enne palestinese di Qabatiya (Jenin), secondo quanto riportato, ha aperto il fuoco contro una postazione di polizia ed è stato successivamente colpito e ucciso dalle forze israeliane che lo avevano inseguito.

È stato anche riferito che un agente di polizia è caduto durante l’inseguimento, ferendosi in modo leggero.

Il 20 dicembre, una donna israeliana è stata trovata morta in un bosco vicino all’insediamento colonico di Tal Menashe (Jenin), dove ella viveva; le autorità israeliane sospettano che sia stata aggredita da un palestinese. I media israeliani ritengono questo caso conseguente ad una serie di lanci di pietre e aggressioni fisiche da parte di coloni israeliani contro palestinesi (per lo più antecedenti al periodo di riferimento).

In Cisgiordania, nel corso di molteplici scontri con forze israeliane sono rimasti feriti un totale di 73 palestinesi, compresi 16 minori [seguono dettagli]. La maggior parte dei feriti (57) sono stati registrati a Kafr Qaddum (Qalqiliya), Al Mughayyir e Kafr Malik (Ramallah), durante proteste contro le attività di insediamento colonico. Quattordici palestinesi sono rimasti feriti nelle città di Tulkarm e Nablus e nel villaggio di Jaba’ (Jenin), nel corso di scontri verificatisi durante operazioni di ricerca-arresto; altri due sono stati feriti vicino a Jenin, mentre cercavano di entrare in Israele attraverso varchi della Barriera. Dei palestinesi feriti durante questo periodo, 10 sono stati colpiti da proiettili di armi da fuoco, 17 da proiettili di gomma e 40 sono stati curati per inalazione di gas lacrimogeni.

In Cisgiordania le forze israeliane hanno effettuato 183 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 154 palestinesi. La maggior parte delle operazioni sono state registrate nei governatorati di Nablus (39), Tulkarm (35), Gerusalemme (28) ed Hebron (23).

Ad est della città di Gaza, una abitazione, situata a circa un chilometro dalla recinzione perimetrale con Israele, è stata colpita e gravemente danneggiata da un proiettile di carro armato israeliano; a quanto riferito, il colpo è stato sparato accidentalmente. Nelle aree [di Gaza] adiacenti la recinzione perimetrale e al largo della costa di Gaza, presumibilmente per far rispettare le restrizioni di accesso, le forze israeliane hanno aperto il fuoco d’avvertimento in almeno 22 occasioni. Per due volte i bulldozer israeliani [sono entrati nella Striscia ed] hanno spianato terreni a ridosso della recinzione. A circa 100 metri dalla recinzione [all’interno della Striscia], le forze israeliane hanno collocato cartelli che vietano agli agricoltori palestinesi la coltivazione dei terreni prossimi alla recinzione, pena la rimozione forzosa delle colture.

A motivo della mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, sono state demolite o sequestrate un totale di 21 strutture di proprietà palestinese, sfollando 14 persone e creando ripercussioni su oltre 100 [seguono dettagli]. Due case sono state sequestrate in due Comunità beduine (Abu Nuwar e Az Za’ayyem Za’atreh) situate nell’Area C del governatorato di Gerusalemme; tali Comunità si trovano all’interno, o nelle vicinanze, di un’area (E1) su cui Israele ha pianificato una vasta espansione di insediamenti [colonici]. Altre 16 strutture sono state demolite o sequestrate in diverse zone dell’Area C, sette delle quali interessano un’altra Comunità beduina (Ras ‘Ein al’ Auja) situata nella Valle del Giordano. Le restanti tre strutture, in Gerusalemme Est, sono state demolite direttamente dai loro proprietari per evitare maggiori spese e multe. Dal 2009, anno in cui OCHA ha iniziato a documentare sistematicamente questa pratica, il 2020 ha registrato un numero di strutture demolite inferiore solo a quello del 2016.

Nei pressi del villaggio di Suba (Hebron), le forze israeliane hanno spianato con bulldozer circa 3 ettari di terreno agricolo, sulla base del fatto che era stato dichiarato [da Israele] “terra di stato”. Durante l’operazione sono stati sradicati o danneggiati circa 930 ulivi, viti, mandorli e fichi d’india; danneggiati anche terrazzamenti agricoli, pali metallici, recinzioni e un cancello. I mezzi di sussistenza di otto famiglie sono stati colpiti.

Otto palestinesi, tra cui tre minori, sono stati feriti e almeno 740 alberi e alberelli di proprietà palestinese sono stati danneggiati da autori ritenuti coloni israeliani [seguono dettagli]. In tre distinti episodi, coloni israeliani hanno aggredito fisicamente contadini palestinesi della comunità di Susiya, costringendoli ad abbandonare il loro terreno e ferendo un ragazzo e un anziano; questa è una delle molteplici comunità dell’Area C a rischio di trasferimento forzato. In altri tre episodi simili sono rimasti coinvolti agricoltori e altri residenti del villaggio di Kisan (Betlemme). Dopo la morte della donna israeliana [vedere 2° paragrafo], tre palestinesi sono stati feriti vicino a Hebron: un ragazzo e suo padre all’incrocio di Beit ‘Einun e un pastore vicino all’insediamento colonico di Asfar. Gli altri tre degli otto feriti palestinesi sono stati aggrediti fisicamente a Gerusalemme Est, nella Valle del Giordano e a Nablus. La vandalizzazione di circa 740 tra alberi e alberelli [vedere inizio paragrafo] è avvenuta nel corso di cinque episodi: uno di questi si è verificato nella Comunità di Khallet Athaba’ (Hebron), dove, tra ulivi e mandorli, sono stati danneggiati 400 alberi. Dall’inizio del 2020, almeno 8.550 alberi sono stati danneggiati da persone riconosciute, o ritenute, coloni israeliani.

Secondo fonti israeliane, due israeliani sono rimasti feriti e 17 veicoli israeliani, in viaggio sulle strade della Cisgiordania, sono stati danneggiati dal lancio di pietre e bottiglie di vernice ad opera di persone ritenute palestinesi.

Il 21 dicembre, a est di Ramallah, un ragazzo israeliano di 16 anni è deceduto e altri quattro coloni sono rimasti feriti per lo schianto della loro auto, inseguita dalla polizia israeliana; secondo quanto riferito, le autorità israeliane sospettavano che gli occupanti avessero lanciato pietre contro auto palestinesi.

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nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Con la legge dello Stato-Nazione la destra religiosa israeliana decide chi è ebreo

Etan Nechin

20 dicembre 2020 – +972

La legge israeliana sullo Stato-Nazione non vede l’ebraismo come una religione differenziata, ma come un’identità che garantisce la supremazia su altre persone, anche su altri ebrei.

Questa settimana la Corte Suprema israeliana dovrebbe tenere la prima udienza riguardo a 15 ricorsi contro la legge sullo Stato-Nazione ebraico. Approvata nel luglio 2018, la Legge Fondamentale, che ufficialmente definisce Israele come patria nazionale esclusivamente del popolo ebraico, è sempre più utilizzata per spogliare i cittadini palestinesi ed escludere la loro lingua e cultura dalla società israeliana.

In quanto autodefinitosi “Stato Ebraico”, fin dall’inizio ampie parti delle leggi israeliane, comprese quelle sulle proprietà degli assenti (1950), sul ritorno (1950) e sulla cittadinanza e l’ingresso in Israele (2003), si sono basate sull’esclusivismo di un determinato popolo. In questo senso la legge non è uno snaturamento, ma la continuazione delle politiche dello Stato nei confronti dei palestinesi negli ultimi settant’anni.

Eppure questa legge rappresenta nondimeno una svolta preoccupante. Mentre le ingiustizie del 1948 e dell’occupazione del 1967 erano verosimilmente dovute a circostanze storiche complesse e altre leggi discriminatorie sono state scritte in modo meno esplicito, la legge dello Stato-Nazione è un documento giuridico che evidenzia l’inequivocabile desiderio di Israele di sancire la supremazia razziale e religiosa.

Tuttavia la legge non solo rafforza la diseguaglianza sistematica, intende anche ridefinire radicalmente cosa significhi essere ebreo. Essa cementa la gerarchia razziale all’interno delle comunità ebraiche in Israele cancellando l’eredità culturale degli ebrei [originari] dei Paesi del Medio Oriente e favorendo la definizione nazionale di ebraismo rispetto ai suoi significati religiosi. Pertanto l’imminente udienza della Corte non solo sarà una lotta per l’anima di Israele come Nazione, ma per ciò che significano ebraismo ed ebraicità.

Da quando nel 1947 il primo capo del governo israeliano David Ben Gurion inviò la sua cosiddetta lettera dello “status quo” ai capi religiosi ebrei ortodossi, in Israele c’è stato un patto di lungo termine tra gruppi laici e religiosi per evitare di modificare la definizione corrente di ebraismo.

Secondo questo accordo, la società secolare avrebbe adottato restrizioni riguardo a trasporti di sabato [i precetti religiosi ortodossi vietano gli spostamenti di sabato, ndtr.], leggi relative al matrimonio e alla morte ed altre. In cambio le comunità religiose avrebbero ignorato certe deviazioni dalle norme religiose imposte dal Gran Rabbinato, la più alta autorità religiosa ebraica di Israele, come l’immigrazione di centinaia di migliaia di ebrei dall’ex-Unione Sovietica che non sono stati riconosciuti come ebrei dal rabbinato.

La definizione giuridica di chi è ebreo attraverso la legge dello Stato-Nazione porrà fine a questa situazione. Approvata dal governo più di destra e nazional-religioso nella storia del Paese, la legge mette in evidenza l’ipocrisia della destra religiosa in Israele: l’unica definizione che può proporre del fatto di essere ebreo è “non arabo”. L’ebraismo non viene definito come una religione dinamica con espressioni in tutto il mondo, ma un’identità statale che garantisce la superiorità su un popolo con fedi diverse sotto il suo potere, così come sugli ebrei che vivono fuori da Israele. In altre parole in Israele ebraismo è sinonimo di potere.

Definizione ristretta di ebraismo

Se la Corte Suprema conferma la Legge Fondamentale, Israele raggiungerà un punto di non ritorno. Non solo sancirà dal punto di vista costituzionale la supremazia razziale e religiosa, ma la legge potrebbe tagliare i legami di Israele con le comunità ebraiche nel resto del mondo, su cui per decenni lo Stato si è basato per far propendere a proprio favore l’opinione pubblica internazionale.

Per la società israeliana la “diaspora” non esiste. È significativo che in Israele l’unico viaggio all’estero approvato dallo Stato per gli studenti ebrei non sia per incontrare altri ebrei di New York o Parigi, ma ad Auschwitz. Israele vede se stesso come l’unico luogo in cui gli ebrei possono esistere e la sua ristretta definizione di ebraismo come l’unica legittima.

Allo stesso modo il rabbinato israeliano ha sempre escluso la maggior parte delle comunità ebraiche degli Stati Uniti e non riconosce l’ebraismo riformato e conservatore. Come se fosse per una coincidenza divina, lo stesso giorno in cui è stata approvata la legge dello Stato-Nazione, la polizia israeliana ha arrestato un rabbino conservatore per aver celebrato un matrimonio non riconosciuto dal rabbinato.

Il disprezzo è ripreso dai principali politici israeliani. In riferimento agli ebrei riformati e conservatori, il ministro degli Interni, l’ultraortodosso Aryeh Deri, ha affermato che “se quello è ebraismo, non ci voglio avere a che fare,” aggiungendo che gli ebrei non-ortodossi stanno portando alla fine dell’ebraismo. Il politico di estrema destra Naftali Bennett ha sostenuto che la vera minaccia che gli ebrei della diaspora devono affrontare non sono il terrorismo interno o l’Iran, ma l’assimilazione. Persino dopo il massacro della Tree of Life [sinagoga attaccata da un estremista di destra a Pittsburgh, negli USA, ndtr.] nel 2018, molti politici, pur porgendo le condoglianze, non hanno definito la Tree of Life una sinagoga.

I politici israeliani si scagliano contro l’Iran per il suo potere teocratico, ma lo stesso Israele è uno dei 22 Paesi più restrittivi al mondo dal punto di vista religioso. Quando la religione viene utilizzata come una clava politica, inevitabilmente ciò riguarda quelli che non condividono la fede; quando diventa un’ideologia di Stato, esclude le persone che non condividono tutti i suoi dogmi.

Di conseguenza, anche se cittadini ebrei e palestinesi di Israele sono in teoria liberi di seguire la propria sorte religiosa e civile, in realtà qualunque scostamento dall’ideologia dello Stato significa correre il rischio di essere privati dei propri diritti.

In Israele e all’estero spetta ad ogni ebreo opporsi a questa legge e a queste misure per fare in modo che l’ebraismo continui ad essere una religione vitale e differenziata. Se i termini “ebreo e democratico” sono sempre stati sul filo del rasoio, allora questa decisione potrebbe fare la differenza che li separerà per sempre.

Etan Nechin, che vive a New York, è uno scrittore e giornalista israeliano della The Bare Life Review, un giornale letterario di immigrati e rifugiati. I suoi testi e commenti sono comparsi su Boston Review, The Independent, Washington Post, The New York Times, Jewish Currents, Haaretz e altri.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




I palestinesi lasciati in attesa mentre Israele è pronto a partire con la vaccinazione anti-COVID

17 dicembre 2020 – Al Jazeera

Israele ha raggiunto un accordo con Pfizer per la fornitura di otto milioni di dosi di vaccino, sufficienti per coprire circa metà della sua popolazione

Dopo che il primo ministro Benjamin Netanyahu si è messo personalmente in contatto con il capo del gigante farmaceutico statunitense Pfizer, la prossima settimana Israele inizierà a lanciare una vasta campagna di vaccinazione anti-coronavirus.

Ma i milioni di palestinesi che vivono sotto il controllo israeliano dovranno attendere molto di più.

Gli israeliani potrebbero tornare presto alla vita normale e alla ripresa economica, anche se il virus continua a minacciare città e villaggi palestinesi a pochi chilometri di distanza.

Israele ha raggiunto un accordo con Pfizer per la fornitura di otto milioni di dosi del vaccino da poco approvato, sufficienti a coprire quasi metà della popolazione israeliana di circa nove milioni, in quanto ogni persona ha bisogno di due dosi.

Israele possiede unità mobili per la vaccinazione con refrigeratori che come richiesto possono tenere a meno 70 gradi le dosi [di vaccino] della Pfizer, sviluppate con l’impresa tedesca BioNTech. Prevede di iniziare le vaccinazioni la prossima settimana, con un massimo di oltre 60.000 iniezioni al giorno.

All’inizio del mese Israele ha raggiunto un accordo separato con Moderna [altra industria farmaceutica, ndtr.] per comprare sei milioni di dosi del suo vaccino, sufficienti per altri tre milioni di israeliani.

La campagna di vaccinazione israeliana includerà i coloni ebrei, che sono cittadini israeliani e che vivono nella Cisgiordania illegalmente occupata, ma non i 2,5 milioni di palestinesi del territorio.

Essi dovranno aspettare l’Autorità Nazionale Palestinese, a corto di fondi, che in base ad accordi di pace provvisori raggiunti negli anni ’90 amministra parti della Cisgiordania occupata.

Nella guerra del 1967 in Medio Oriente Israele ha conquistato la Cisgiordania, la Striscia di Gaza e Gerusalemme est, territori che i palestinesi vogliono per il loro futuro Stato.

L’ANP spera di avere i vaccini attraverso una collaborazione dell’OMS con l’organizzazione umanitaria nota come COVAX, che intende fornire vaccini gratis fino a un massimo del 20% della popolazione di Paesi poveri, molti dei quali sono stati particolarmente colpiti dalla pandemia.

Ma il programma ha garantito solo una parte delle due milioni di dosi che l’ANP spera di comprare nel prossimo anno, deve ancora confermare un qualche accordo concreto e scarseggia di fondi.

I Paesi ricchi hanno già prenotato circa nove miliardi dei 12 miliardi di dosi che si stima l’industria farmaceutica sia in grado di produrre il prossimo anno.

A complicare la questione, i palestinesi hanno solo un’unità di refrigerazione in grado di stoccare il vaccino Pfizer-BioNTech, nella città-oasi di Gerico.

Ali Abed Rabbo, importante dirigente del ministero della Salute palestinese, ha affermato che l’ANP è in trattative con Pfizer, Moderna, AstraZeneca e i fabbricanti del vaccino russo, per lo più non testato, ma deve ancora firmare accordi, oltre a quello con COVAX.

Secondo Rabbo, l’ANP spera di vaccinare il 20% della popolazione con COVAX, iniziando dai lavoratori della sanità.

“Gli altri dipenderanno dalle forniture che la Palestina riuscirà ad ottenere sul mercato mondiale, e stiamo lavorando con varie imprese,” afferma.

Sia Israele che l’Autorità Nazionale Palestinese hanno lottato per contenere i propri focolai, che si sono alimentati a vicenda in quanto la gente viaggiava avanti e indietro, soprattutto le decine di migliaia di lavoratori palestinesi che hanno un impiego in Israele.

Israele ha registrato più di 366.000 casi tra cui almeno 3.000 morti.

L’Autorità Nazionale Palestinese ha denunciato più di 85.000 casi nella Cisgiordania occupata, tra cui 800 morti, e nelle ultime settimane l’epidemia si è intensificata.

La situazione è ancora più grave a Gaza, che ospita due milioni di palestinesi e che da quando Hamas è stato eletto nel 2007 è sottoposta a un blocco israeliano ed egiziano.

Lì le autorità hanno comunicato più di 30.000 casi, tra cui 220 morti.

Con i governanti di Hamas a Gaza ignorati dalla comunità internazionale, anche il territorio dovrà fare affidamento sull’Autorità Nazionale Palestinese.

Ciò significa che potrebbero passare parecchi mesi prima che nell’impoverita striscia costiera venga effettuata una vaccinazione su vasta scala.

Il vice-ministro della Salute israeliano Yoav Kisch ha detto a Kan Radio [rete radiofonica pubblica, ndtr.] che Israele sta lavorando per ottenere un surplus per gli israeliani e che “se dovessimo constatare che le esigenze di Israele sono state soddisfatte e avessimo un’ulteriore disponibilità [di vaccini], sicuramente prenderemmo in considerazione di aiutare l’Autorità Nazionale Palestinese.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La guerra di Israele agli aiuti europei per i palestinesi.  

Asa Winstanley

 

18 dicembre 2020 – Middle East Monitor

 

Chiunque visiti la Cisgiordania, come ho fatto io in diverse occasioni, avrà notato qualcosa di piuttosto comune, specie nelle comunità rurali: insegne, cartelloni, targhe che pubblicizzano l’Unione Europea e altri donatori nei confronti delle comunità palestinesi.

L’esempio più insidioso di questo fenomeno neocoloniale è l’Agenzia USA per lo Sviluppo Internazionale (USAID) che, essendo in realtà controllata dal Dipartimento di Stato, è una ramificazione del “soft power” dell’impero americano.

USAID promuove in ogni parte del mondo dei cambi di regime e gli “interessi nazionali” americani – un eufemismo che sta in realtà per gli interessi delle maggiori corporazioni statunitensi – sotto la parvenza di aiuti umanitari. Una volta fotografai un manifesto USAID a Ramallah che era stato deturpato dalla scritta in inglese: “Non vogliamo il vostro aiuto”. Questo legittimo scetticismo palestinese nei confronti degli “aiuti” occidentali è motivato da un semplice fatto fondamentale: la causa palestinese non è assolutamente una mera questione umanitaria: è una questione politica.

Gli aiuti di USA e Europa ai palestinesi hanno un vizio di fondo, ritengo intenzionalmente, in quanto si pongono come se i palestinesi fossero stati sradicati da un uragano, dalla siccità o da altra calamità naturale. Sappiamo bene invece che i profughi palestinesi furono cacciati dalle proprie terre in seguito alla pulizia etnica perpetrata dal braccio armato di un movimento politico razzista, il sionismo. Prima e dopo la fondazione di Israele nel 1948, circa 800.000 palestinesi furono cacciati dalle proprie case sotto la minaccia delle armi. Questo non fu una calamità naturale; fu una decisione deliberata presa a freddo dai sionisti.

In quel contesto molti palestinesi vennero uccisi, e le loro case e villaggi furono cancellati dalle carte geografiche dal nascente Stato di Israele. Da allora Israele ha impedito sistematicamente a loro e ai loro discendenti di tornare nelle loro terre – che è loro diritto legittimo – semplicemente perché non sono ebrei. 

Gli aiuti destinati dall’Europa ai palestinesi sembrano più tesi a placare la coscienza dei progressisti europei che ad aiutare davvero i palestinesi nel lungo termine. La UE ostenta quanto “aiuti” e finanzi progetti palestinesi nella Cisgiordania occupata, ma questi progetti ignorano sia il fondamentale problema dell’occupazione israeliana sia la politica coloniale israeliana che costringe costantemente gli abitanti originari fuori dalle loro terre.

Di fatto, sia le scuole palestinesi sia altri progetti finanziati con gli aiuti della UE vengono abitualmente demoliti, danneggiati o rubati da Israele, che provvede quindi a sostituirli con insediamenti illegali. Questa settimana il mio collega David Cronin, che lavora a The Electronic Intifada, appellandosi alla libertà di informazione, è riuscito a quantificare la portata di questa distruzione degli aiuti della UE, rivelando che i danni e i furti perpetrati da Israele solo negli ultimi cinque anni ammontano complessivamente a più di 2 milioni di dollari. Dio solo ne conosce la cifra totale.

Cronin sostiene inoltre che quasi 20 anni fa i ministri degli Esteri della UE dichiararono pubblicamente che “si riservavano il diritto di richiedere il risarcimento” ad Israele per tali demolizioni “nelle sedi appropriate”. Tuttavia quella debole contestazione non si è tradotta in nulla di fatto.

Eppure, nonostante tali distruzioni vadano avanti da decenni, la UE continua a finanziare progetti in Cisgiordania, sapendo bene che probabilmente essi verranno prima o poi distrutti dall’esercito israeliano. E nel frattempo la UE non fa nulla per affrontare la causa che è alla radice di questa devastazione, vale a dire l’occupazione israeliana.

A dire il vero, la UE fa esattamente il contrario. L’Europa continua a premiare Israele con generose donazioni, sovvenzioni e investimenti scientifici e militari, per non parlare del sostegno politico e diplomatico. Tutto ciò mentre Israele, a tutti gli effetti, porta avanti una guerra contro i progetti UE che dovrebbero in teoria aiutare le comunità palestinesi.

 La nuova ambasciatrice israeliana in Gran Bretagna, l’oltranzista di destra Tzipi Hotovely, invoca abitualmente la distruzione delle comunità palestinesi per far largo alle colonie e ad altre infrastrutture funzionali alla occupazione israeliana in Cisgiordania. Inoltre, come altri politici israeliani, attacca e demonizza frequentemente sia la UE sia associazioni per i diritti umani guidate da dissidenti israeliani, questi ultimi perché, sostiene lei, sono il prodotto di un efferato complotto finanziato con fondi europei. L’anno scorso, in un video particolarmente scioccante, Hotovely è arrivata addirittura ad usare termini esplicitamente antisemiti per attaccare uno di questi gruppi ebraici israeliani per i diritti umani.  

 Ma badate bene, la UE non è la vittima innocente di questa guerra che Israele conduce contro gli aiuti finanziati dall’Europa. I politici e i burocrati europei sono anzi parte della farsa.

La priorità deve essere la fine dell’occupazione e del sistema di apartheid imposto ai palestinesi. Il minimo che Bruxelles può e deve fare è smettere immediatamente di sostenere Israele.

 Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale del Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Stefania Fusero)