Il declino dei settori produttivi palestinesi: il commercio interno come microcosmo dell’impatto dell’occupazione

 Ibrahim Shikaki 

7 febbraio 2021 – Al Shabaka

Sintesi

L’occupazione israeliana ha paralizzato i settori produttivi palestinesi, portando al predominio del commercio interno nell’economia palestinese. L’analista politico di Al Shabaka Ibrahim Shikaki esamina come queste distorsioni strutturali si siano sviluppate in conseguenza delle politiche economiche oppressive di Israele da quando ha occupato la Palestina nel 1967. Shikaki propone delle raccomandazioni alla comunità internazionale e alle organizzazioni umanitarie su come appoggiare l’autodeterminazione economica dei palestinesi.

Introduzione

L’occupazione israeliana ha sistematicamente inflitto ai palestinesi costi economici disastrosi, che gli economisti hanno analizzato per decenni. Tuttavia una dimensione che queste analisi hanno trascurato riguarda le distorsioni nella struttura dell’economia palestinese e l’impatto dannoso di queste distorsioni. Il termine “struttura economica” si riferisce al contributo di diversi settori economici, compresi agricoltura, industria, edilizia e commercio, alle variabili economiche fondamentali della produzione (PIL) e dell’impiego.

Considerando che uno studio complessivo di queste distorsioni strutturali va oltre l’ambito di questo articolo, ci concentreremo su un particolare settore economico che ha giocato un ruolo sempre più predominante nell’economia palestinese: il commercio interno. In sintesi, il commercio interno riguarda la vendita e l’acquisto di beni al dettaglio e all’ingrosso, compreso il commercio con Israele. Il crescente rilievo del contributo del commercio interno nell’attività economica complessiva in Palestina è parte di un costante allontanamento dai settori produttivi come agricoltura e industria verso servizi, commercio ed edilizia.

Questo articolo sostiene che il predominio del commercio interno a spese dei settori produttivi non è né il risultato di uno sforzo consapevole di politiche da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) né il risultato di un governo liberista del mercato. Al contrario è il sottoprodotto delle politiche di occupazione israeliane e una chiara conseguenza della dipendenza dell’economia palestinese da quella israeliana fin dal 1967.

L’articolo sostiene che il commercio interno è un microcosmo dell’economia palestinese nel suo complesso, evidenziando l’inutilità dell’appoggio internazionale e dei donatori per lo sviluppo sotto occupazione. Al contrario, ciò che sarebbe necessario riguarda il rafforzamento dell’elaborazione indipendente, trasparente, responsabile e collettiva di politiche palestinesi, un tipo di guida e governo che la dirigenza palestinesi degli ultimi 25 anni non può dirigere o realizzare.

Il predominio del commercio interno in Palestina

Prima di approfondire i dati che dimostrano l’attuale predominio del commercio interno nell’economia palestinese è utile familiarizzarsi con le attività economiche e i sotto-settori che rientrano in questa categoria generale. Secondo la più recente Classificazione Industriale Standard Internazionale [classificazione delle attività economiche definita dalla Divisione Statistica delle Nazioni Unite, ndtr.] (ISIC-4), la denominazione ufficiale relativa al settore del commercio interno è “Commercio all’ingrosso e al dettaglio; riparazione di veicoli a motore e motocicli.”

Questa classificazione generale include 43 diversi sotto-settori. Secondo il censimento delle imprese PCBS [Ufficio Centrale di Statistica palestinese, ndtr.] del 2017 i tre settori prevalenti, che rappresentano il 50% di ogni struttura economica nel commercio interno palestinese, erano “vendita al dettaglio in negozi non specializzati prevalentemente di cibo, bevande o sigarette”, “commercio al dettaglio di cibo in negozi specializzati” e “vendita al dettaglio di vestiti, calzature e prodotti di cuoio in negozi specializzati”. In altre parole metà di tutte le unità economiche nel maggior settore dell’economia palestinese era composta da negozi di generi alimentari, noti come “al-dakakin”, così come da negozi di cibo e vestiti al dettaglio.

Dati della Contabilità generale del PCBS mostrano che il commercio interno gioca un ruolo sempre più importante in termini di contributo al valore aggiunto (cioè PIL) complessivo della Palestina. Nel 2018 il commercio interno ha rappresentato il 22% sul totale del PIL palestinese (circa 2,9 miliardi di euro nel 2018). Ciò supera il contributo di qualunque altro settore economico come agricoltura (7,5%), industria (11,5%) e il più complessivo settore dei servizi (20%), che include istruzione, salute, l’immobiliare e altri settori. All’interno del solo settore privato il commercio interno rappresenta circa il 40% del valore aggiunto.

Il fatto che il commercio interno rappresenti quasi un quarto dell’attività economica totale non è una cosa naturale nell’economia palestinese né rappresentativa della specializzazione della sua forza lavoro. Come mostra il grafico 1 che segue, i primi giorni dell’ANP a metà degli anni ’90 videro un periodo di breve durata di elevata fiducia che contribuì a determinare un ruolo relativamente forte del settore manifatturiero. Tuttavia gli anni della Seconda Intifada (2000-2005) ridussero praticamente tutti i settori economici tranne la pubblica amministrazione, rispecchiando l’aumento degli aiuti alla spesa salariale del settore pubblico come ultima risorsa per l’ occupazione.

Fonte: PCBS. Calcolo nazionale a prezzi attuali e costanti, vari anni.

Ramallah – Palestina.

Nel 2006, dopo la Seconda Intifada, cominciò ad emergere un chiaro modello verso una svolta neoliberista e un crescente accesso al credito. Ma, nonostante questa svolta, i settori produttivi palestinesi rimasero stagnanti o declinarono, mentre il contributo del commercio interno più che raddoppiò in 10 anni (dal 10% nel 2008 al 22% nel 2018). La cosa non sorprende dato che la svolta neoliberista rafforzò il predominio delle attività economiche “che eludono l’occupazione”, che operarono per evitare gli ostacoli posti da Israele con pochissima attenzione nei confronti del popolo palestinese. I settori produttivi non lo fanno in quanto devono contrastare lo status quo del controllo israeliano sulla terra e le frontiere, fondamentali per l’agricoltura e l’industria.

Comunque il contributo al PIL è solo uno degli indicatori del predominio del commercio interno. Dal 1997 ogni dieci anni il PCBS ha condotto un censimento generale, incluso un censimento delle imprese, che fornisce dati sul numero di attività economiche nazionali e dei lavoratori in ognuno dei vari settori e sotto-settori. Per sua natura il censimento non copre alcune attività economiche, come il lavoro in Israele e l’auto-impiego. Tuttavia l’esclusione del lavoro dei palestinesi in Israele consente al censimento di offrire una stima migliore dell’occupazione creata dal settore privato interno.

Le tendenze evidenziate dal censimento sono rivelatrici. Il numero di imprese che operano nel commercio interno sono aumentate da 39.600 nel 1997 a 56.993 e 81.260 rispettivamente nel 2007 e nel 2017. Mediamente queste cifre rappresentano il 53% di tutte le attività economiche che operano nell’economia palestinese. Come detto sopra, e come spiegato nella tabella 1, tre sotto-settori rappresentano metà di questo dato.

Tavola 1: I principali sotto-settori palestinesi

 

Sottosettori

Numero di imprese

Percentuale delle imprese del commercio interno

Percentuale su tutte le imprese

Negozi alimentari “al-dakakin”

17309

21%

11%

Negozi alimentari al dettaglio

10567

13%

6.7%

Negozi di vestiti al dettaglio

10364

12.7%

6.5%

Parrucchieri e trattamenti estetici

8629

Non inclusi nel settore del commercio interno

5.5%

 

Fonte: PCBS, 2018. Censimento della popolazione, delle abitazioni e delle imprese, 2017, Risultati finali.

Rapporto sulle imprese., Ramallah-Palestina

Riguardo all’occupazione, mediamente il 37% di tutti i lavoratori inclusi nel censimento erano impiegati nel settore del commercio interno, di gran lunga il maggiore tra tutti i settori economici, seguito da quello manifatturiero (22%). Oltretutto il settore era il secondo come lavoro femminile (18%) dopo quello relativo all’istruzione, che impiega il 26% di tutte le lavoratrici incluse nel censimento. Tuttavia è da notare che la presenza delle donne nel settore del commercio interno sottostima la partecipazione complessiva delle donne. Per esempio, il censimento delle attività del 2017 indica che, mentre le donne rappresentano il 24% del totale della forza lavoro (rispetto al 76% degli uomini), nel settore del commercio interno la manodopera era approssimativamente divisa tra il 91% di uomini e il 9% di donne.

Va anche notato che dal boom del credito privato nel 2008 il commercio interno è stato il settore economico a godere del maggior numero di crediti e mutui agevolati, tra il 20% e il 25% del totale del credito al settore privato (1). L’ammontare del credito erogato alle attività del commercio interno è cresciuto dai circa 250 milioni di euro nel 2008 all’1,11 miliardi di euro nel 2019, un aumento quasi del 250% in dieci anni. Il settore più vicino nel 2019 è stato il credito per il “patrimonio edilizio residenziale”, con circa 865 milioni di euro. Per contestualizzare il tutto, settori produttivi come l’agricoltura e l’industria sommavano rispettivamente solo circa 76 milioni e 372 milioni di euro.

Inoltre il lavoro palestinese in Israele, che nel 1987 raggiunse più del 40% della forza lavoro palestinese totale, nell’economia palestinese ha avuto un duplice impatto sulla crisi dei settori produttivi e la crescita delle attività legate al commercio. In primo luogo, mentre questi lavoratori palestinesi migranti venivano pagati il 50% in meno dei lavoratori israeliani, i loro stipendi erano comunque più alti della media di quelli palestinesi nell’economia interna. Ciò ha attirato lavoratori per il mercato israeliano e fatto salire artificialmente i salari palestinesi all’interno, accrescendo i costi per i produttori palestinesi. In secondo luogo, il lavoro in Israele ha creato quello che l’UNCTAD [Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo, ndtr.] definisce la “differenza tra produzione interna e reddito.”

In altre parole, il reddito dei lavoratori palestinesi in Israele creò un potere d’acquisto notevolmente superiore a quello dei settori produttivi interni. Il reddito addizionale si rivolse all’edilizia o a un sempre maggiore livello di importazioni, e quest’ultimo portò a un livello di deficit commerciale senza precedenti.

Da quanto detto risulta chiaro che il commercio interno è il principale settore che contribuisce alla produzione, all’occupazione e al debito personale nell’economia palestinese. Ciò significa un grave colpo per i settori produttivi palestinesi. La comprensione di come si sia determinata questa situazione richiede un esame della storia economica della Palestina che riguarda le distorsioni strutturali create dall’occupazione israeliana e il rapporto di dipendenza determinato dalle politiche economiche colonialiste di Israele da quando ha occupato la Palestina nel 1967.

Dipendenza e commercio nel contesto israelo-palestinese

Gli studiosi latinoamericani sono stati i primi a proporre la teoria della dipendenza. La specifica osservazione che hanno fatto è che le risorse, comprese le risorse umane, naturali ed altri beni primari sono state esportate dai Paesi periferici dal Sud Globale ai Paesi centrali nel Nord Globale, mentre i prodotti finiti si sono spostati nella direzione opposta. In seguito a ciò non solo la maggior parte della produzione di valore aggiunto avviene nel centro, ma anche la struttura economica della periferia è stata trasformata per soddisfare le esigenze del centro invece che del proprio sviluppo a lungo termine.

La dipendenza ha chiuso le economie della periferia in un ciclo di sviluppo rachitico per cui sono state incapaci di sviluppare una forte base produttiva, il loro deficit commerciale è andato alle stelle e sono rimaste dipendenti dal lavoro e dai mercati delle economie del centro. In termini marxisti, il centro fa uso dell’“esercito industriale di riserva” della periferia per garantire prezzi bassi della produzione ed ha aperto i mercati della periferia alle proprie merci per garantirsi che non ci siano crisi di “sovraproduzione”, con le imprese che non riescono a vendere i propri beni perché quello che producono supera di molto la domanda esistente.

Con una dipendenza così intesa, la relazione tra le economie palestinese e israeliana dal 1967 offre un esempio da manuale. Da una parte le risorse naturali (come terra, acqua e minerali), prodotti non finiti e risorse umane (lavoro) si sono spostati dalla periferia palestinese all’economia centrale israeliana, mentre i beni finiti si sono spostati dall’economia israeliana a quella palestinese.

Nei primi 20 anni dell’occupazione israeliana il deficit complessivo del commercio estero dell’economia palestinese è cresciuto da 28 a 541 milioni di euro. Oltretutto questo deficit commerciale è stato prevalentemente il risultato degli scambi con Israele, che nei primi 20 anni crebbero da 82 milioni a 1 miliardo 18 milioni di euro. I palestinesi hanno esportato in Israele beni dell’industria leggera e alcuni prodotti agricoli, mentre hanno importato beni di consumo finiti e durevoli, che sono prodotti non di consumo immediato ma che durano per alcuni anni.

Questa tendenza non è cambiata dopo la creazione dell’ANP nel 1994. Al contrario, alimentata dall’aiuto internazionale e dalla disponibilità di credito in seguito alla Seconda Intifada, nel 2019 il deficit commerciale ha raggiunto il picco di 4,5 miliardi di euro, con più di metà (il 55%) di questo debito attribuibile al commercio con Israele. Già negli anni ’80 più di due terzi di tutto il commercio palestinese era legato ad Israele. Dalla fondazione dell’ANP, mediamente il commercio palestinese è dipeso da Israele per il 75% delle importazioni e per l’80% delle esportazioni.

Sia importazioni che esportazioni raccontano una storia di dipendenza. In molti casi le importazioni palestinesi da Israele venivano in precedenza prodotte all’interno, compresi vestiti, calzature, bibite, mobili e persino beni per l’edilizia e farmaci. D’altronde le esportazioni raccontano di una accresciuta dipendenza. Dall’inizio dell’occupazione nel 1967 Israele non solo ha sfruttato il lavoro a buon mercato dei migranti palestinesi, ma ha anche sfruttato il lavoro palestinese all’interno della Cisgiordania, di Gaza e di Gerusalemme est, compreso quello femminile.

In pratica gli imprenditori israeliani mandavano tessuti grezzi a imprenditori palestinesi in subappalto che poi avrebbero assunto donne palestinesi pagando loro bassi salari. Il prodotto finale sarebbe tornato agli uomini d’affari israeliani che spesso li avrebbero venduti sui mercati palestinesi. In seguito a ciò, molti dei beni considerati esportazioni palestinesi in Israele erano in realtà prodotti intermedi legati a israeliani e in seguito rivenduti sul mercato palestinese come beni finiti e imballati in modo che i capitalisti israeliani ricavassero guadagni dalla fase finale della catena produttiva. In altre parole, la dipendenza era così stretta che persino le esportazioni non erano l’esito di un prospero settore produttivo, ma un risultato della disparità di potere imposta da Israele all’economia palestinese, con la stragrande maggioranza dei benefici a favore del regime israeliano.

I costi economici dell’occupazione militare israeliana

Le dinamiche fin qui delineate mostrano non solo la stretta dipendenza dei palestinesi dai prodotti e dal mercato del lavoro israeliani, ma spiegano anche come il commercio di beni, soprattutto israeliani, sia progressivamente diventato la principale attività economica in Cisgiordania e a Gaza. Ciò è stato in parte dovuto all’influenza del reddito di lavoratori [palestinesi, ndtr.] in Israele e delle rimesse dei palestinesi che lavorano nei Paesi del Golfo, e in parte all’indebolimento dei settori produttivi.

Tuttavia non sono state solo queste dinamiche sotterranee di dipendenza che hanno potenziato il commercio interno e indebolito i settori produttivi. C’è stato anche un impegno coordinato da parte del regime israeliano a soffocare l’attività economica dei palestinesi, rafforzando nel contempo negozianti e commercianti palestinesi. I tentativi di ridurre il settore produttivo palestinese sono stati documentati da rapporti ufficiali israeliani. Per esempio nel 1991 il rapporto della Commissione Sadan [creata dal ministro della Difesa Moshe Arens per studiare la situazione economica nei territori occupati, ndtr.] affermò: “Nessuna priorità è stata data alla promozione dell’imprenditoria locale e al settore degli affari” e che “le autorità hanno scoraggiato tali iniziative ogni volta che esse entravano in competizione sul mercato israeliano con le imprese israeliane esistenti.”

In effetti alcune delle prime ordinanze militari emanate da Israele erano di natura economica, il cui risultato fu la chiusura di tutte le banche che operavano in Cisgiordania e a Gaza e l’imposizione di una complessa rete di procedure amministrative e restrizioni tuttora in vigore. Queste restrizioni hanno reso praticamente impossibile per i palestinesi avviare un’attività economica o importare nuovi macchinari, anche per l’edilizia. Tra il 2016 e il 2018 le autorità militari israeliane hanno approvato solo il 3% delle licenze edilizie nell’Area C, che comprende più del 60% della Cisgiordania. Oltretutto il blocco imposto contro Gaza dal 2007 ha diminuito la possibilità delle sue imprese ed ha gravemente colpito i settori produttivi, costando in ultima analisi all’economia più di 13 miliardi di euro nel periodo dal 2007 al 2018.

Dal 1967 Israele ha anche controllato il commercio palestinese. Mentre consentiva a qualche prodotto agricolo e dell’industria leggera di entrare nel mercato israeliano, questi beni erano necessari all’industria e al settore della trasformazione di prodotti agricoli come sesamo, tabacco e cotone. Una parte fondamentale della strategia economica di Israele è stata la politica dei “ponti aperti”, che ha consentito movimenti di beni senza restrizioni tra la riva orientale e quella occidentale del fiume Giordano. Ciò è stato usato per “svuotare” il mercato palestinese di certi prodotti palestinesi per far posto a quelli israeliani, che non avrebbero potuto essere esportati nei Paesi arabi a causa del boicottaggio arabo contro Israele.

Gradualmente il commercio all’ingrosso e al dettaglio dei prodotti israeliani ha giocato un ruolo fondamentale nelle attività economiche in Cisgiordania e a Gaza. Dalla sua istituzione nel 1981 l’“Amministrazione civile” dell’esercito israeliano, l’unica istituzione governativa della Cisgiordania e a Gaza fino al 1994 e che mantiene ancora il controllo dell’Area C, ha offerto incentivi e bonus economici a impresari e commercianti palestinesi che accettano di esportare alcuni prodotti. Ciò non solo priva i mercati palestinesi di questi prodotti, ma è stato anche fondamentale per le riserve di denaro estero di Israele, in quanto una delle condizioni di questi incentivi era depositare i pagamenti in dinari giordani nelle banche israeliane. La politica dei “ponti aperti” ha spostato la produzione palestinese dalla soddisfazione delle necessità locali alla produzione di beni ed alla coltivazione di prodotti destinati ai mercati esteri.

Svuotando il mercato palestinese e consentendo il libero movimento dei prodotti israeliani, la politica dei “ponti aperti” ha creato dipendenza sia della produzione che del consumo dai prodotti israeliani e nel contempo ha rafforzato il ruolo del commercio tra i ricchi commercianti capitalisti palestinesi.

Effettivamente i proprietari di grandi imprese economiche e i dirigenti delle camere di commercio nelle città palestinesi hanno fatto fortuna grazie all’occupazione. Alcuni di questi mercanti godono persino di franchigie ed hanno iniziato a commerciare prodotti israeliani. Siccome il loro interesse corrisponde a quello dei commercianti israeliani, e in conseguenza della loro tendenza a ingraziarsi e a negoziare con il regime occupante, essi sono visti come “la prima classe sociale ad essersi legata all’economia israeliana.”

Il dopo Oslo e la continua capitolazione nella formulazione di politiche

I primi 25 anni dell’occupazione israeliana impedirono lo sviluppo dei settori produttivi palestinesi e concentrarono l’attività economica nella compravendita di beni importati, la grande maggioranza dei quali israeliani. Dopo l’istituzione dell’ANP nel 1994 cambiò molto poco nella struttura dell’economia. Accordi firmati, tra cui il Protocollo di Parigi, diedero all’ANP il controllo formale sulle entrate fiscali. Tuttavia l’accordo formalizzò semplicemente la già esistente iniqua unione doganale tra le due economie. Livelli asimmetrici dei prezzi continuarono a danneggiare sia produttori che consumatori palestinesi, dato che obbligarono l’economia palestinese ad operare soggetta ad una struttura israeliana con costi elevati, nonostante la grande disparità dei livelli di reddito tra le due economie.

Cosa più importante, il controllo sui confini, sulle risorse e sul sistema dei permessi nella maggior parte dei terreni agricoli palestinesi – e sui terreni adatti a scopi industriali – rimane nelle mani di Israele. I settori produttivi continuano a ridursi e il commercio interno diventa più importante che mai. L’élite economica palestinese ha anche abbandonato le attività produttive che richiederebbero di opporsi allo status quo, optando invece per investire in servizi, finanza e importazioni. Il potere economico dei capitalisti palestinesi con rapporti nei Paesi del Golfo non dà origine ad attività legate alla produzione. I loro utili sono invece ricavati “da diritti di importazione esclusivi su prodotti israeliani e dal controllo su ampi monopoli.”

I progetti internazionali dopo la Seconda Intifada sono andati nella stessa direzione, compresi il progetto “The Arc” della Rand Corporation [organizzazione no profit USA, ndtr.], il piano di John Kerry [segretario di Stato Usa nell’amministrazione Obama, ndtr.] e del Quartetto [composto da ONU, USA, UE e Russia, ndtr.] nel 2014 e, più di recente, quello di Jared Kushner [genero e consigliere di Trump per il Medio Oriente, ndtr.] del 2019. Mentre questi piani variano quanto al livello di coinvolgimento dei palestinesi e alla sensibilità riguardo alla situazione politica, adottano una versione fondamentalista del mercato in opposizione a un approccio più sfumato riguardo al ruolo del settore pubblico. Per esempio il piano Kushner trasuda ideologia economica conservatrice, come la cosiddetta struttura fiscale a favore dello sviluppo. Si basa anche sui principi della dottrina “legge ed economia” che porta al controllo giudiziario sulla legislazione per dare priorità a un’ideologia economica ortodossa al di sopra di considerazioni di carattere morale e giuridico.

In sintesi, la crescita del commercio interno ha portato a un allontanamento dalla produzione e verso attività che danno meno spazio allo sviluppo ed alla trasformazione dell’economia. Tuttavia, oltre alle tendenze produttive sfavorevoli, ci sono altre preoccupazioni sociali. Le donne sono sottorappresentate in questo segmento della forza lavoro e la preponderanza del commercio interno porta a un impatto redistributivo negativo all’interno della società palestinese.

Una misura della differenza di reddito che ne risulta può essere valutata attraverso l’evoluzione della quota di reddito, che è la quota di entrate totali prodotta dal lavoro rispetto a quello totale generato dal capitale (profitto, rendita e interesse). Mentre non esistono serie ufficiali della quota di reddito, un semplice indicatore si ottiene dividendo il compenso dei dipendenti di un settore per il valore aggiunto lordo, individuando così la distribuzione tra i lavoratori e i capitalisti. Utilizzando questo metodo il commercio interno presenta risultati peggiori rispetto ad altri settori, con una media negli ultimi 10 anni del 15% rispetto alla media del 27% in tutti i settori dell’economia.

Conclusione e suggerimenti su come procedere

Non c’è un suggerimento di politiche uguale per tutti per risolvere le distorsioni strutturali nell’economia palestinese che l’hanno allontanata dai settori produttivi. Tuttavia la crescita dei settori produttivi dovrebbe essere coltivata in un più ampio contesto di politiche economiche per lo sviluppo. Fadle Naqib, esperto di politica economica della Palestina, riassume le sue tre raccomandazioni per il settore economico in questo modo: rivitalizzare il settore agricolo, espandere il settore manifatturiero e adottare una strategia nazionale per lo sviluppo tecnologico.

Tuttavia andrebbe presa in considerazione anche la situazione politica che impatta sullo sviluppo economico palestinese. In effetti nel 2010 la Banca Mondiale riconobbe che “l’efficacia del sostegno allo sviluppo a lungo termine è pesantemente dipendente dal contesto politico tra israeliani e palestinesi,” e, come tale, dovrebbe ripensare il proprio mandato, ruolo e ambito nelle attività in Cisgiordania e a Gaza.”

Quelle che seguono sono raccomandazioni per le istituzioni finanziarie internazionali, compresi la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, così come per la comunità internazionale e le organizzazioni umanitarie in generale, per sostenere l’autodeterminazione economica dei palestinesi palestinese:

  • Riconoscere che il rapporto tra le economie palestinese e israeliana ha distrutto ogni sviluppo possibile dell’economia palestinese. Quindi è sbagliato ed assurdo presupporre che le dinamiche che governano il rapporto tra le due economie siano quelle di un mercato libero.

  • Fornire aiuto internazionale diretto per appoggiare gli agricoltori palestinesi nelle zone minacciate di annessione, comprese quelle colpite dalle colonie israeliane e dal Muro.

  • Fare pressione sul regime israeliano per agevolare la concessione di permessi nell’Area C, comprese licenze edilizie per strutture residenziali e produttive.

  • Rafforzare una   elaborazione di politiche palestinesi indipendenti appoggiando centri di ricerca indipendenti e studiosi, sindacati e rappresentanti di gruppi che normalmente sono assenti dal processo decisionale, compresi donne, giovani e rifugiati. Ciò deve essere fatto con un processo trasparente, controllabile e collettivo che comprenda tutti i soggetti interessati.

  • Fare pressione sul governo israeliano per porre fine all’occupazione perché i palestinesi abbiano il controllo sulla loro politica economica.

  • Riconoscere che porre fine all’occupazione israeliana porterà anche il settore privato palestinese a fiorire e prosperare.

Note:

1. Dato ricavato dal sito dell’Autorità Monetaria Palestinese (PMA)

Ibrahim Shikaki

Analista politico di Al-Shabaka, Ibrahim Shikaki è professore associato di economia al Trinity College, Hartford, Connecticut. Ha ottenuto il dottorato presso la New School for Social Research (NSSR) di New York ed è stato docente presso le università NSSR, The International University College di Torino, Birzeit e Al-Quds. È stato anche ricercatore al Palestine Economic Policy Research Institute (MAS) di Ramallah e al Diakonia’s IHL Research Center a Gerusalemme est. I suoi recenti scritti includono un capitolo su politica economica della dipendenza e composizione di classe in Palestina in via di pubblicazione, e un articolo sugli aspetti economici del piano Barhain di Kushner.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)