Dopo l’accusa calunniosa di “antisemitismo” di Netanyahu l’UE sostiene la CPI

Ali Abunimah

4 marzo 2021 – The Electronic Intifada

L’Unione Europea sembra respingere le denunce di Benjamin Netanyahu contro la Corte Penale Internazionale dopo che mercoledì la procuratrice capo Fatou Bensouda ha confermato l’avvio di un’indagine formale sui crimini di guerra in Palestina.

Il primo ministro israeliano ha definito le indagini come “l’essenza dell’antisemitismo” e altri leader israeliani si sono scagliati contro con termini analoghi.

Alla domanda di The Electronic Intifada sulla reazione dell’UE ai commenti di Netanyahu, il portavoce dell’Unione Peter Stano non ha risposto in modo diretto riguardo al leader israeliano.

Tuttavia Stano ha affermato che “la CPI è un’istituzione giudiziaria indipendente e imparziale senza obiettivi politici da perseguire”.

Ha anche ribadito che l’UE “rispetta l’indipendenza e l’imparzialità della corte” – un rimprovero implicito alle stravaganti accuse di Israele di pregiudizi antiebraici.

Stano ha osservato che la Corte Penale Internazionale è “un tribunale di ultima istanza, una rete di sicurezza fondamentale per aiutare le vittime a ottenere giustizia laddove ciò non è possibile a livello nazionale, quindi quando lo Stato coinvolto è veramente riluttante o incapace di svolgere le indagini o l’azione penale. “

L’UE ha anche esortato “gli Stati aderenti allo Statuto di Roma e gli Stati non aderenti” – questi ultimi con un chiaro riferimento a Israele, che non ha firmato lo statuto istitutivo della corte – “a stabilire un dialogo” con la CPI che dovrebbe essere “non conflittuale, non politicizzato e basato sulla legge e sui fatti.”

Dato il lungo passato della UE di sostegno virtualmente incondizionato a Israele, è rimarchevole che essa abbia tenuto saldo il suo sostegno alla Corte Penale Internazionale nel momento in cui finalmente il tribunale ha preso in esame le impudenti violazioni dei diritti dei palestinesi da parte di Israele.

L’inchiesta della CPI riguarderà presunti crimini dal giugno 2014, un periodo che comprende la guerra di Israele del 2014 a Gaza e la costruzione di colonie in corso sui territori palestinesi occupati.

La posizione della UE rappresenta una rottura con alleati come Stati Uniti, Canada e Australia che si sono apertamente opposti ad indagini da parte del tribunale su presunti crimini di guerra nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza.

Nonostante il sostegno della UE alla CPI, i lobbisti israeliani si stanno consolando per il fatto che alcuni singoli Stati membri della UE, in particolare la Germania, si oppongono a un’inchiesta sui crimini di guerra.

L’opposizione degli Stati Uniti alla giustizia

Mercoledì, il Segretario di Stato americano Antony Blinken ha ribadito che l’amministrazione Biden “si oppone fermamente” alla [ricerca di] giustizia e responsabilità nei confronti delle vittime palestinesi dei crimini di guerra israeliani.

Questa opposizione non sorprende dal momento che l’amministrazione Obama-Biden ha rifornito Israele di munizioni nel corso del bombardamento di Gaza dell’estate del 2014, che ha ucciso più di 2.200 palestinesi tra i quali più di 550 bambini.

La posizione di Biden allieterà Netanyahu e altri importanti leader israeliani tra cui il ministro della difesa Benny Gantz, che probabilmente saranno gli obiettivi delle indagini della Corte Penale Internazionale. Gantz era a capo dell’esercito israeliano al momento dell’attacco israeliano del 2014 a Gaza.

Tuttavia, dopo anni di ritardo e decenni di attesa per la giustizia, i palestinesi stanno finalmente osservando che il loro impegno affinché Israele sia ritenuto responsabile e i suoi crimini assodati sta recando i suoi frutti.

(tradotto dall’inglese da Aldo Lotta)




La CPI[Corte Penale Internazionale] avvia un’inchiesta per crimini di guerra in Palestina

Maureen Clare Murphy

3 marzo 2021 – Electronic Intifada

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che probabilmente nell’ambito dell’inchiesta della CPI verrà inquisito, ha definito la Corte “antisemita”.

Mercoledì la procuratrice capo Fatou Bensouda ha confermato che la Corte Penale Internazionale ha aperto un’indagine formale sui crimini di guerra in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.

L’annuncio di Bensouda è stato accolto dalle associazioni palestinesi per i diritti umani che hanno guidato questi tentativi come “una giornata storica nella pluridecennale campagna palestinese per la giustizia internazionale e la definizione delle responsabilità.”

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che probabilmente verrà sottoposto a indagine dalla CPI, ha definito l’inchiesta come “l’essenza dell’antisemitismo”.

L’annuncio di un’indagine da parte della CPI è giunto meno di un mese dopo che un collegio giudicante ha confermato che la giurisdizione territoriale della Corte si estende ai territori palestinesi sotto occupazione militare da parte di Israele.

Nel dicembre 2019 Bensouda ha concluso una lunga indagine preliminare affermando che i criteri per un’inchiesta per crimini di guerra in Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, e nella Striscia di Gaza erano stati rispettati.

L’indagine della Corte Penale Internazionale riguarderà crimini commessi dal giugno 2014, quando la situazione in Palestina è stata presentata al tribunale internazionale.

Obbligato ad agire”

Bensouda ha affermato che il suo ufficio “definirà delle priorità” per l’inchiesta “alla luce dei problemi operativi che dobbiamo affrontare a causa della pandemia, delle risorse limitate a nostra disposizione e del pesante carico di lavoro attuale.”

Ha aggiunto che in situazioni in cui il procuratore definisce la fondatezza di un’indagine, l’ufficio della procura “è obbligato ad agire”.

Il prossimo passo della Corte sarà la notifica a Israele e alle autorità palestinesi, che consente a ogni Stato firmatario di condurre importanti indagini “su propri cittadini o altri che ricadano sotto la sua giurisdizione” riguardo a crimini di competenza della CPI.

In base al principio della complementarietà, secondo cui “gli Stati hanno la responsabilità primaria e il diritto di perseguire crimini internazionali”, la CPI rinvia a indagini interne del Paese, ove queste esistano.

Israele ha un sistema di auto-indagine, anche se esso è descritto da B’Tselem, principale organizzazione per i diritti umani del Paese, come un meccanismo di insabbiamento che protegge la dirigenza militare e politica dal rendere conto delle proprie azioni.

Alla fine del 2019 Bensouda ha affermato che “in questa fase” il giudizio del suo ufficio “riguardo alla portata e all’affidabilità” dei procedimenti interni di Israele “è ancora in corso”.

Tuttavia “ha concluso che i casi potenziali riguardanti crimini che si presume siano stati commessi da membri di Hamas e dei GAP (Gruppi Armati Palestinesi) sarebbero al momento ammissibili.”

Nella sua dichiarazione di mercoledì Bensouda ha detto che il giudizio sulla complementarietà “continuerà” e ha suggerito che la materia venga definita da un collegio giudicante in una camera preliminare.

Dato che il processo di colonizzazione della Cisgiordania da parte di Israele è indubitabilmente una politica statale sostenuta dai governanti al più alto livello, ciò sarà probabilmente uno dei principali obiettivi dell’indagine della CPI.

Come la questione della giurisdizione territoriale, la complementarietà sarà probabilmente un punto critico fondamentale dell’inchiesta della Corte sulla Palestina.

Massima urgenza”

Mercoledì, accogliendo positivamente l’annuncio di Bensouda, le associazioni palestinesi per i diritti umani hanno raccomandato “che non ci siano indebiti ritardi e che si proceda con la massima urgenza.”

Ma Bensouda ha previsto un procedimento tutt’altro che rapido, affermando che “le indagini richiedono tempo e devono essere fondate in modo oggettivo su fatti e leggi.”

Ha invitato alla pazienza “le vittime palestinesi e israeliane e le comunità colpite,” aggiungendo che “la CPI non è una panacea.”

Alludendo a un’argomentazione da parte di alleati di Israele secondo cui un’inchiesta danneggerebbe futuri negoziati bilaterali, Bensouda ha affermato che “il perseguimento della pace e della giustizia dovrebbero essere visti come imperativi che si rafforzano a vicenda.”

Mercoledì Bensouda ha affermato che la Corte concentrerà “la sua attenzione sui presunti colpevoli più noti o su coloro che potrebbero essere i maggiori responsabili dei crimini.”

Nella sua richiesta alla camera preliminare sulla giurisdizione territoriale Bensouda ha citato la promessa di Netanyahu durante la campagna elettorale [del 2020] di annettere territori in Cisgiordania.

I media hanno informato che il governo israeliano ha una lista di centinaia di personalità che potrebbero essere indagate e perseguite dalla Corte, che giudica individui e non Stati.

Fonti ufficiali israeliane affermano che alcuni Stati membri della CPI “hanno concordato di avvertire in anticipo Israele di ogni eventuale mandato di cattura” contro suoi cittadini al momento dell’arrivo nei rispettivi Paesi.

Far filtrare informazioni che potrebbero consentire a sospetti di sfuggire alle indagini o all’arresto violerebbe probabilmente l’obbligo che hanno gli Stati membri in base allo Statuto di Roma che ha fondato la CPI di collaborare con il lavoro della Corte.

Pressioni politiche

Mercoledì Bensouda ha detto che “contiamo sull’appoggio e sulla cooperazione delle parti (Israele e i gruppi armati palestinesi), così come su tutti gli Stati membri dello Statuto di Roma.”

Tuttavia la CPI verrà sottoposta a terribili pressioni politiche in quanto potenze come gli USA, il Canada e l’Australia si oppongono a qualunque inchiesta contro il loro alleato Israele.

Lo scorso anno il Canada ha minacciato in modo appena velato di ritirare l’appoggio finanziario alla CPI se dovesse procedere con un’inchiesta.

A Washington l’amministrazione Trump ha imposto sanzioni economiche e restrizioni dei visti contro Bensouda e membri del suo staff.

Queste misure estreme pongono il personale della Corte accanto a “terroristi e narcotrafficanti” o a individui e gruppi che lavorano a favore di Paesi sottoposti a sanzioni da parte degli USA.

Mentre il presidente Joe Biden ha firmato una raffica di ordini esecutivi che annullano misure prese dal suo predecessore, il nuovo leader USA ha consentito che rimangano in vigore le sanzioni contro la CPI.

Di fronte a pressioni per togliere le sanzioni, la Casa Bianca ha solo promesso di “analizzarle attentamente.”

Durante la sua prima telefonata con il presidente Biden, Netanyahu lo ha esortato a lasciare in vigore le sanzioni.

Nel contempo Israele ha rivolto il proprio livore contro i difensori dei diritti umani dei palestinesi, in particolare contro quanti sono coinvolti nelle istituzioni della giustizia internazionale come la CPI.

Le sue tattiche hanno incluso “arresti arbitrari, divieti di spostamento e revoca della residenza, così come attacchi contro organizzazioni palestinesi per i diritti umani, comprese irruzioni [nelle loro sedi].”

Mercoledì Balkees Jarrah, direttore aggiunto di Human Rights Watch [importante Ong internazionale per i diritti umani con sede a New York, ndtr.], ha affermato che “gli Stati membri della CPI dovrebbero essere pronti a difendere tenacemente il lavoro della Corte da ogni pressione politica.”

Jarrah ha aggiunto che “tutti gli occhi saranno puntati sul prossimo procuratore, Karim Khan, perché prenda il testimone e proceda speditamente dimostrando una salda autonomia nel cercare di chiedere conto delle loro azioni anche ai più potenti.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il Dan David Prize di Israele e l’apartheid vaccinale

Samah SabawiNick Riemer

2 marzo 2021 – Al Jazeera

Accettare un riconoscimento israeliano per aver contribuito alla salute pubblica nel mezzo dell’apartheid vaccinale israeliano è immorale

Quando abbiamo fatto circolare una lettera aperta per chiedere alla docente australiana Alison Bashford di rivedere la sua decisione di accettare il Dan David Prize di Israele ci aspettavamo che in tutto il mondo ci sarebbe stato un massiccio appoggio al nostro appello. Avevamo ragione. Finora più di 300 accademici e ricercatori hanno firmato, e la lista dei firmatari continua ad aumentare.

Bashford è una dei sette destinatari del premio, che quest’anno è stato assegnato ai contributi scientifici alla salute pubblica e alla medicina. L’imprevista somma di 3 milioni di dollari del premio verrà condiviso tra questi sette: 1 milione di dollari ad Anthony Fauci, l’eminente infettivologo e consigliere del presidente USA; 1 milione di dollari condiviso fra tre scienziati per il loro contributo alla medicina molecolare; 1 milione di dollari diviso tra Bashford, che studia la storia della medicina e della salute e i loro rapporti con la storia universale ed ambientale, Keith Wailoo, che lavora su razza, scienza ed equità sanitaria negli USA, e Katherine Park, che si occupa di medicina medievale e rinascimentale.

Le motivazioni contro l’accettazione del premio in denaro riguardano tutti e sette i destinatari, ma, in quanto ricercatori australiani, pensavamo di avere un particolare obbligo e opportunità di rivolgerci a Bashford. Nell’annunciare i premi, il presidente della Dan David Foundation, Itamar Rabinovich, ex-ambasciatore di Israele negli USA, ha affermato che la scelta dei campi scientifici [da premiare] era stata influenzata dall’impatto della pandemia su ogni aspetto della vita.

Il premio giunge nel momento in cui Israele sta festeggiando i suoi significativi progressi nella vaccinazione della popolazione. Il Paese è il primo al mondo come percentuale della popolazione vaccinata. Recentemente il governo ha affermato che circa metà dei cittadini israeliani ha ricevuto la prima dose e il 35% la seconda.

Ma, come nel caso di altri risultati scientifici che Israele ha celebrato, questo giunge nel contesto dell’oppressione dei palestinesi. Mentre il governo israeliano si gloria già del drastico calo dei casi di COVID-19, nella Cisgiordania occupata essi stanno aumentando vertiginosamente. Lì i palestinesi, nel tentativo di controllare l’epidemia in quanto non c’è stato un approvvigionamento regolare di vaccini per loro, stanno per entrare in un nuovo blocco totale.

Per mesi Israele ha rifiutato di vaccinare i palestinesi a Gaza e in Cisgiordania, benché in base alla Quarta Convenzione di Ginevra sia un suo obbligo legale. Nel marzo 2020 in una dichiarazione il relatore speciale dell’ONU per i diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati Michael Lynk ha ricordato ad Israele che “il dovere legale, stabilito dall’articolo 56 della Quarta Convenzione di Ginevra, richiede che Israele, la potenza occupante, debba garantire che venga utilizzato qualunque mezzo preventivo necessario a disposizione per ‘combattere la diffusione di malattie infettive ed epidemie.’”

Eppure non solo Israele sta attivamente bloccando la consegna di vaccini ai palestinesi, ma sta di fatto inviando dosi in eccesso a Paesi come l’Honduras, la Repubblica Ceca e l’Ungheria in cambio di favori politici, come il loro impegno a spostare le rispettive ambasciate a Gerusalemme o ad aprirvi uffici dell’ambasciata.

Forse nell’entusiasmo di aver vinto una somma di denaro così sostanziosa e la celebrazione ideale del progresso umano è stato facile dimenticare i cinque milioni di palestinesi sotto totale occupazione israeliana che non hanno nessuna significativa protezione contro la pandemia e che sono costantemente soggetti a gravi spoliazioni, arresti arbitrari, uccisioni extra-giudiziarie, esilio, privazioni e repressione imposti loro da Israele.

Ma niente obbliga nessuno dei premiati del Dan David ad accettarlo. Di fatto farlo è una diretta violazione dell’appello palestinese al boicottaggio sia delle istituzioni accademiche israeliane che delle attività culturali che nascondono le politiche dell’apartheid israeliano.

L’università di Tel Aviv, dove viene gestito ed ha sede il premio, contribuisce in modo significativo alla guerra permanente di Israele contro i palestinesi attraverso i suoi legami strutturali con il sistema militare e politico israeliano, compresi l’esenzione dal pagamento delle tasse universitarie e le borse di studio per i soldati israeliani, e la sua complicità con la violenta occupazione della terra palestinese.

C’è già un precedente rifiuto del riconoscimento. Nel 2018 la storica britannica Catherine Hall ha rifiutato il premio per quella che ha definito come “una scelta politica indipendente”, una scelta che a molti è parsa ammirevolmente coerente con il suo lavoro accademico progressista sulla storia di genere, razza e schiavitù.

C’è chi sostiene che i boicottaggi accademici violano la “libertà accademica” e devono quindi essere rifiutati. Ma, come molti, compresi noi due, hanno affermato, l’obbligo a boicottare quanti violano i diritti umani o fanno parte di un sistema che li viola, giustifica totalmente i ricercatori che fanno la scelta politica e morale di non unirsi a loro.

Ciò detto, quello che colpisce del premio Dan David è che esso non rientra affatto in alcun discorso riguardante la “libertà accademica”. Non accettando i soldi del premio non viene violata alcuna libertà accademica. Di conseguenza non c’è nessuna ragione di principio per cui gli accademici non facciano ciò che i loro colleghi palestinesi continuano a chiedere, e non rifiutino il premio, a maggior ragione quando si vedono le conclusioni tratte nelle loro stesse ricerche da alcuni dei premiati.

Per esempio, nel suo libro del 2014 “Pain: A Political History” [Sofferenza: una storia politica] Wailoo esamina come le persone sofferenti abbiano spesso “visto come le loro particolari rivendicazioni … siano state spesso assorbite e definite dai più generali conflitti politici dell’epoca.” Egli lamenta il fatto che persone sofferenti diventino “attrezzi di scena” in un “teatro politico”.

I palestinesi sarebbero d’accordo. Gli americani “hanno un problema culturale nel comprendere la sofferenza delle altre persone,” afferma Wailoo, sottolineando la necessità di guardare “in modo critico e attento” quanti giudicano la sofferenza altrui.

Eppure, nonostante l’empatia nei confronti della sofferenza che esprime nel suo libro, Wailoo è ancora disposto ad accettare un premio dal cuore stesso dell’establishment politico e accademico che reprime brutalmente i palestinesi e ora sta utilizzando una pandemia per perseguire la pulizia etnica di un intero popolo.

L’accettazione del premio sembra contraddire anche quello che Bashford ha scritto e detto come studiosa. Tra le altre cose le sue ricerche prendono in considerazione la segregazione tra le popolazioni, per esempio attraverso la quarantena, una misura che descrive nel suo libro del 2003 “Imperial Hygiene” [Igiene imperiale] “come sia igienica, cioè componente della salute pubblica, che razziale, in quanto parte dei sistemi e delle culture di controllo razziale.” Alla luce di ciò c’è da chiedersi come Bashford consideri l’apartheid vaccinale che Israele sta attualmente praticando.

In un saggio del 2003 scritto con Carolyn Strange, Bashford ha notato che “è difficile immaginare, per esempio, la caduta dell’apartheid in Sud Africa senza il coro di appelli internazionali per il rilascio di importanti prigionieri politici di Robben Island [famoso carcere sudafricano in cui sono stati reclusi Mandela ed altri dissidenti, ndtr.]”. Tuttavia, quando si tratta di partecipare ad un appello per porre fine all’apartheid in Israele, Bashford sembra aver dimenticato la sua stessa lezione.

Non c’è alcun dubbio che le istituzioni accademiche israeliane siano un potente pilastro su cui si basa l’oppressione dello Stato. Le università israeliane forniscono allo Stato scienza, tecnologia militare e strumenti strategici ed ideologici che rafforzano e giustificano il suo regime di occupazione e di apartheid.

Senza dubbio accettare il premio porta vantaggi economici, ma il costo morale sarà molto alto, in quanto esso pone i destinatari dalla parte sbagliata della storia, appoggiando e ripulendo l’immagine di un sistema di oppressione, ingiustizia e tirannia.

Le opinioni espresse in questo articolo sono degli autori e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Al Jazeera

Samah Sabawi
 è giornalista e consulente politica palestinese di Al-Shabaka, la rete politica palestinese.

Nick Riemer è docente dei dipartimenti di Inglese e Linguistica dell’università di Sidney, Australia.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Israele imprigiona i politici palestinesi prima delle elezioni nell’Autorità Nazionale Palestinese

Tamara Nassar 

2 marzo 2021, ElectronicIntifada

In vista delle elezioni legislative e presidenziali palestinesi che si terranno nei prossimi mesi Israele sta inasprendo il giro di vite su personalità della società civile e politica palestinese nella Cisgiordania occupata.

Lunedì Israele ha condannato la parlamentare palestinese Khalida Jarrar a due anni di carcere, a una multa di 1.200 dollari [1000 € ca, ndtr.] e una pena sospesa di un anno.

Il suo crimine? Essere un membro di un partito politico di sinistra, il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina.

Israele considera gruppi “terroristici” praticamente tutti i partiti palestinesi e le organizzazioni di resistenza, il che significa che qualsiasi persona politicamente attiva può essere arrestata.

“La scelta del momento non è casuale”, ha detto l’avvocato palestinese Yafa Jarrar della condanna di sua madre, riferendosi alle elezioni palestinesi.

Khalida Jarrar è stata arrestata con una imponente incursione militare notturna nella sua casa nell’ottobre 2019 e da allora è trattenuta senza accusa né processo.

La sua detenzione è avvenuta solo otto mesi dopo il suo rilascio da un precedente periodo di 20 mesi di detenzione amministrativa – senza accusa né processo.

È stata arrestata nell’ambito di quella che il gruppo per i diritti dei prigionieri palestinesi Addameer ha affermato essere una campagna israeliana iniziata nella seconda metà del 2019 contro attivisti politici e studenti.

Addameer ha aggiunto che Israele ha falsamente accusato Jarrar di essere coinvolta nell’uccisione dell’adolescente israeliana Rina Shnerb.

Shnerb è stata uccisa nell’agosto 2019 da quello che i militari israeliani hanno stabilito essere un ordigno esplosivo improvvisato vicino all’insediamento di Dolev in Cisgiordania.

Ma lunedì il procuratore militare israeliano ha cambiato l’accusa contro Jarrar includendo solo le sue attività politiche, e le accuse di coinvolgimento nell’omicidio di Shnerb sono cadute.

Jarrar ha già trascorso anni nelle carceri israeliane e le è stato proibito viaggiare a causa della sua appartenenza al FPLP.

Il primo voto in 15 anni

Le elezioni legislative e presidenziali palestinesi previste per maggio e luglio sarebbero le prime dalle elezioni legislative del 2006, quando Hamas vinse con una vittoria schiacciante battendo Fatah, fazione dell’Autorità Nazionale Palestinese al potere guidata da Mahmoud Abbas.

Tuttavia, il partito di Abbas, sostenuto da Israele, Stati Uniti, Unione Europea e alcuni stati arabi, non ha permesso ad Hamas di assumere il governo dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Invece, le milizie allineate con Fatah a Gaza, in accordo con gli Stati Uniti, hanno cercato di rimuovere Hamas dal potere con la forza.

Ma nel giugno 2007 Hamas si è preventivamente mosso contro di loro, espellendo da Gaza le forze di Fatah sostenute dagli Stati Uniti.

Il tentativo di golpe contro Hamas dopo la sua vittoria alle elezioni ha portato all’attuale divisione per cui l’ANP di Abbas sostenuta dall’occidente ha mantenuto il controllo in Cisgiordania mentre Hamas, isolata a livello internazionale, ha governato all’interno della Striscia di Gaza assediata.

Non vi è alcuna garanzia che si svolgeranno le elezioni, poiché negli ultimi anni sono state programmate numerose votazioni poi rinviate a tempo indeterminato.

Le elezioni sono largamente viste come un modo per rafforzare la legittimità dei principali partiti politici palestinesi a 15 anni dall’ultima votazione e alla luce della nuova amministrazione statunitense.

Come ha scritto di recente Ali Abunimah di The Electronic Intifada, non è chiaro perché Hamas si fidi che lo stesso partito di Abbas e Fatah che ha guidato il colpo di stato contro Hamas nel 2007 rispetterà ora i risultati.

“Qualsiasi riconciliazione o ‘unità nazionale’ può basarsi solo sul fatto che Fatah di Abbas abbandoni la collaborazione con Israele e che Hamas abbandoni la resistenza”, ha scritto Abunimah.

L’arresto dei membri di Hamas

Israele ha regolarmente incarcerato funzionari palestinesi eletti solo perché non approva il loro punto di vista, e ora sta incrementando tali arresti in vista delle elezioni programmate. Questo fa “parte dello sforzo israeliano in corso per sopprimere l’esercizio della sovranità politica e dell’autodeterminazione dei palestinesi”, ha affermato Addameer. Nelle ultime settimane Israele ha operato molti arresti di personalità appartenenti ad Hamas nella Cisgiordania occupata.

A febbraio le forze israeliane hanno arrestato Adnan Asfour e Yasser Mansour di Hamas e hanno disposto che Asfour fosse tenuto in detenzione amministrativa per sei mesi.

Mansour è anche membro del Consiglio legislativo palestinese.

Hamas ha detto che l’arresto dei suoi politici in Cisgiordania “conferma il fatto che l’occupazione ha preso di mira il processo elettorale”.

Naif al-Rajoub, membro del Consiglio legislativo palestinese, ha detto che le forze di occupazione israeliane hanno fatto irruzione nella sua casa a febbraio e gli hanno intimato di non partecipare alle elezioni.

Al-Rajoub ha detto all’agenzia di stampa Shehab che le forze israeliane gli hanno detto di non candidarsi alle elezioni e di non partecipare alla campagna elettorale e che gli permetterebbero solo di andare alle urne.

Altre figure di Hamas arrestate da Israele nelle ultime settimane includono Khalid al-Haj, Abd al-Baset al-Haj, Omar al-Hanbali e Fazee al-Sawafta.

La scorsa settimana un tribunale militare israeliano ha prorogato di quattro mesi la detenzione amministrativa di Khitam Saafin, a capo dell’Unione dei Comitati delle Donne palestinesi. Saafin è stata arrestata insieme ad altri attivisti politici palestinesi a novembre e da allora è detenuta senza accusa né processo.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Israele: migliaia di palestinesi non registrati temono la deportazione e la separazione dalle loro famiglie

Shatha Hammad

2 marzo 2021 – Middle East Eye

Molti vivono come in ‘una doppia prigione’ perché Israele continua a negare loro carte di identità, una politica rafforzata dopo lo scoppio della Seconda Intifada

La paura di essere deportata perseguita costantemente la cinquantenne Anna Morales. Per tutti i 23 anni durante i quali è vissuta in Palestina, questa madre di 6 figli non è riuscita ad ottenere un documento di residenza.  

Anna è un’americana che negli Stati Uniti ha incontrato e sposato Mohammad al-Mashni, ora deceduto.

Nel 1997 la coppia decise di stabilirsi in Palestina, dopo che Anna aveva ricevuto un permesso israeliano di ingresso nel Paese. Mentre all’epoca il marito non aveva una carta di identità palestinese, egli era poi riuscito a ottenerne una nel 2005, così come i loro sei figli.

Invece la domanda di Anna è stata respinta e lei continua a rimanere in Palestina illegalmente, secondo la legge israeliana. 

Anna vive con i sei figli nel villaggio di Surda, vicino a Ramallah nella Cisgiordania occupata. Suo marito è morto nel 2015 e lei è preoccupata per i figli e il loro futuro. 

Non si allontana dal villaggio se non in rarissime occasioni e non esce mai dal governatorato di Ramallah, per paura di attraversare i checkpoint israeliani, dove è necessario essere identificati. 

Vivo con una paura costante. Paura di essere deportata, paura di essere separata dai miei figli, paura di lasciarli da soli,” dice Anna a Middle East Eye

Non solo Anna non può lasciare Ramallah, ma, da quando è arrivata, non ha neanche potuto viaggiare all’estero.

“Mia madre è mancata senza che io potessi vederla per dirle addio. I miei fratelli si sono sposati e hanno avuto figli e in tutti questi anni non ci siamo mai ritrovati,” continua. 

Anna afferma che, anche se è vero che lei potrebbe trasferirsi negli USA con i figli, “noi amiamo la Palestina e le siamo leali e ci rifiutiamo di andarcene senza poter ritornare. Questo è il motivo per cui oggi sono ancora qui e soffro perché non posso ottenere un documento”.

Nel 2020 ha ricevuto una sentenza di deportazione dal tribunale israeliano che fa riferimento alla sua presenza illegale in Palestina per 23 anni. Anna e i suoi avvocati sono riusciti a bloccare temporaneamente l’ordine di deportazione. 

Tutti i palestinesi vivono in una grande prigione costruita da Israele. Quelli di noi che non hanno la carta di identità e quelli che sono a rischio di deportazione vivono in una doppia prigione,” dice. 

Anna è una delle migliaia di persone che vivono in Palestina in attesa di una carta di identità che Israele rifiuta di concedere dopo aver bloccato il processo di “ricongiungimento familiare” e le visite alle famiglie allo scoppio dell’Intifada di al-Aqsa, o Seconda Intifada, nel 2000. 

Prima Israele concedeva documenti di identità basandosi su procedure complesse che richiedevano molti anni, mentre molte domande venivano respinte, con il pretesto della sicurezza. 

L’ultimo lotto di documenti è stato rilasciato nel 2009, estendendo nel 2020 per un altro anno la proibizione del ricongiungimento delle famiglie. 

Noi vogliamo i documenti di identità’

Nonostante i rischi che affrontano per parlare ai media e alzare la loro voce su questo argomento, un gruppo di donne ha cominciato a rompere il silenzio fondando un movimento chiamato “Il Ricongiungimento Familiare È Un Mio Diritto”. Sono state attive sui social e nell’organizzare proteste. 

Davanti all’Autorità Generale Palestinese per gli Affari Civili a Ramallah, l’ente responsabile per far pressione su questo argomento e occuparsene presso le autorità israeliane, le attiviste scandivano: “Vogliamo i documenti di identità, vogliamo i documenti di identità.” L’arrivo delle donne a Ramallah da varie zone e città ha comportato un grande rischio personale. 

Nour Hijaji, una signora di 42 anni di origini tunisine, è andata alla protesta di Ramallah dal suo villaggio di Mas-ha, vicino alla città di Salfit, nel nord della Cisgiordania, per richiedere l’approvazione per la richiesta di ricongiungimento familiare che aveva presentato 13 anni fa. 

Dice a MEE che cinque anni dopo aver presentato la domanda di ricongiungimento famigliare è arrivata in Palestina nel 2013 dopo aver ottenuto un permesso valido solo per un mese.

L’attesa è stata più lunga di quanto mi aspettassi e speravo che la mia presenza in Palestina avrebbe fatto avanzare la pratica e ottenere una risposta, ma non è successo niente,” afferma. 

Durante la sua permanenza in Cisgiordania, Nour è diventata mamma di quattro figli, che hanno tutti documenti palestinesi. Lei si sposta a proprio rischio e non esce da Mas-ha eccetto che per motivi urgenti, il che le rende impossibile portare i figli in altre zone per motivi familiari, per divertimento o per altre ragioni. 

Dice a MEE che la sua esistenza l’ha lasciata priva di molti diritti fondamentali e sussidi, i più importanti dei quali sono l’assistenza sanitaria, guidare un veicolo o andare in altre parti della Palestina o all’estero.

“L’ostacolo maggiore che abbiamo è che non possiamo muoverci. Io non ho visitato [altre città] come Betlemme o Hebron. Questo per me è diventato un sogno.”

“Oggi siamo venuti tutti a Ramallah per consegnare il nostro messaggio alle autorità, in particolare a quelli che trattano con Israele. Noi chiediamo anche perché molti altri problemi non sono risolti, perché il tema del ricongiungimento famigliare non viene sollevato o non se ne parla,” aggiunge.

Separare le famiglie palestinesi  

Il blocco del ricongiungimento familiare attuato da Israele riguarda non solo quelli che si sono trasferiti qui dall’estero con i propri mariti o le proprie mogli, ma anche i discendenti di rifugiati palestinesi, i palestinesi che vivono a Gaza o in Cisgiordania che si sposano fra di loro e i palestinesi di Gerusalemme che sposano individui di una di queste aree.

Il controllo di Israele sul registro della popolazione palestinese significa in effetti che può decidere a chi concedere la cittadinanza in Palestina, chi è consentito sposare e dove la coppia ha il permesso di vivere. 

Secondo gli accordi di Oslo del 1993 la Cisgiordania e la Striscia di Gaza costituiscono una singola entità territoriale, per cui gli abitanti e le famiglie naturalmente dovrebbero avere il diritto di spostarsi tra l’una e l’altra. Invece le restrizioni di Israele comportano che le famiglie divise tra le due aree possono solo farsi visita l’un l’altra in casi “umanitari” eccezionali e non possono spostarsi o cambiare indirizzo in nessuna delle due zone. 

Dati ufficiali sui numeri di casi di ricongiungimento famigliare in sospeso sono scarsi e difficili da ottenere, ma si stimano in decine di migliaia. Secondo una relazione congiunta di gruppi per i diritti umani israeliani fra il 2000 e il 2006, ci sono state almeno 120.000 richieste di ricongiungimento familiare che Israele si è rifiutato di prendere in esame, eccetto per una manciata di casi. 

Imad Qaraqra, addetto alle pubbliche relazioni presso l’Autorità Generale Palestinese per gli Affari Civili, afferma di considerare il tema del ricongiungimento famigliare in cima alla lista delle sue priorità.

“Noi non sappiamo quando Israele potrà dare l’approvazione a questo dossier, ma noi lo chiediamo come uno dei nostri diritti,” dice a MEE

Aggiunge che fra il 2007 e il 2009, prima che Israele interrompesse completamente la procedura, l’ANP riusciva a ottenere l’approvazione di circa 52.000 domande di ricongiungimento familiare.

Helmy al-Araj, direttore del Centro per la Difesa delle Libertà e dei Diritti Civili, dice a MEE che privare le famiglie palestinesi della possibilità di vivere insieme e negare il loro diritto alla cittadinanza e residenza è una forma di punizione collettiva da parte di Israele.

Afferma che questa pratica costituisce un crimine di guerra, viola vari trattati, incluse la Quarta Convenzione di Ginevra, la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo e il Patto Internazionale sui Diritti Economici, Sociali e Culturali. 

Gli individui privati di un documento di identità, dice, vivono in una condizione di arresti domiciliari e non possono esercitare il loro diritto basilare alla libera circolazione, per timore di essere deportati, il che costituisce una “violazione dei loro diritti civili fondamentali”. 

Al-Araj dice che Israele sta usando questo tema umanitario per fare pressione sull’ANP e ricattarla. Per esempio, dice, dopo che l’anno scorso l’ANP aveva annunciato la sospensione del coordinamento sulla sicurezza con Israele, quest’ultimo aveva rifiutato di registrare decine di neonati, ai quali fu impedito di lasciare il Paese.

Ramzi Abedrabbo, 57 anni è un rifugiato palestinese di Gaza. Ha incontrato la moglie, una palestinese della Cisgiordania, in Giordania, dove viveva. Dopo la nascita dei loro 6 figli in Giordania, nel 2000 la famiglia si è trasferita in Cisgiordania.

Abedrabbo e tre dei loro figli hanno ottenuto i documenti di identità in seguito alla richiesta di ricongiungimento presentata dalla moglie, mentre non si è data risposta alle richieste degli altri tre, mettendoli in pericolo di essere deportati in qualunque momento.

Uno dei figli non registrati, la figlia, è sposata e ha 4 bambini, dice. 

Ramzi, che soffre di emiparesi, ha partecipato alle proteste a Ramallah, dove si è recato dal villaggio di al-Ram, vicino a Gerusalemme. Ha portato tutti i documenti che provano la legalità della sua presenza in Palestina e che dovrebbero valere per i figli.

 Parlando a MEE, Ramzi afferma: “Dove andranno i miei figli se li deportano? La Giordania non li accetterà, né nessun altro Paese perché non hanno nessun altro documento.”

(Traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Rapporto OCHA del periodo 16 febbraio – 1 marzo 2021

In Cisgiordania sono stati feriti diciassette palestinesi e cinque agenti della polizia di frontiera israeliana

[seguono dettagli]. Tra i palestinesi, un sedicenne è stato colpito dalle forze israeliane con proiettili veri; secondo quanto riferito, il ragazzo camminava vicino alla Barriera, nel villaggio di Saffa (Ramallah). Altri sette palestinesi sono rimasti feriti durante proteste: contro la realizzazione di un insediamento colonico avamposto [cioè, non autorizzato dal Governo israeliano] su terra del villaggio di Beit Dajan (Nablus) e contro l’espansione colonica a Kafr Qaddum (Qalqiliya). Due palestinesi sono rimasti feriti negli scontri scoppiati durante due operazioni di ricerca-arresto condotte nel Campo profughi di Ad Duheisha (Betlemme) e nel villaggio di Abu Shukheidim (Ramallah). Cinque agenti della polizia di frontiera israeliana sono rimasti feriti da pietre nel corso di un loro intervento ad Al ‘Isawiya (Gerusalemme Est). Ad Huwwara (Nablus) e An Nuwei’ma (Gerico), tre palestinesi, tra cui un anziano e un minore, sono stati aggrediti fisicamente dalle forze israeliane. Nel complesso, quattro dei feriti sono stati curati per inalazione di gas lacrimogeno, quattro sono stati colpiti da proiettili di gomma, tre sono stati aggrediti fisicamente e due sono stati colpiti con proiettili veri. I restanti quattro sono rimasti feriti vicino al villaggio di Ein Yabrud (Ramallah): la loro auto si è schiantata nel corso di un inseguimento ad opera di una jeep militare israeliana.

In Cisgiordania le forze israeliane hanno effettuato 184 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 158 palestinesi. Il governatorato di Gerusalemme ha registrato il maggior numero di operazioni (60), per la maggior parte in Gerusalemme Est.

In Gaza, vicino alla recinzione perimetrale israeliana o al largo della costa, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento in almeno 29 occasioni, presumibilmente per far rispettare le restrizioni di accesso [imposte ai palestinesi]. In altre due occasioni, sempre vicino alla recinzione, le forze israeliane [sono entrate nella Striscia ed] hanno svolto operazioni di spianatura del terreno. In un episodio separato, a est di Gaza City, due palestinesi sono rimasti feriti dall’esplosione di un residuato bellico che stavano maneggiando.

Citando la mancanza di permessi edilizi sono state demolite o sequestrate 35 strutture di proprietà palestinese, sfollando 98 persone, di cui 53 minori, e creando ripercussioni su circa 60 [seguono dettagli]. Il 22 febbraio, a Humsa – Al Bqai’a, le autorità israeliane hanno confiscato altre 18 strutture (sia residenziali che per animali) la maggior parte delle quali erano state fornite come risposta umanitaria a precedenti demolizioni e confische; dieci famiglie, comprendenti oltre 60 persone, di cui 36 minori, sono state nuovamente sfollate. Sempre in Area C, ad Al Khadr (Betlemme), una famiglia di sette persone è stata sfollata per la demolizione della loro casa, mentre a Hijra (Hebron) il sostentamento di quattro famiglie è stato compromesso dallo smantellamento delle loro bancarelle per la vendita di ortaggi. Ad Al ‘Isawiya e Ras al’ Amud (Gerusalemme Est), vent’otto persone sono state sfollate a causa della demolizione di tre case da parte delle autorità israeliane (o demolite dagli stessi proprietari, in ottemperanza agli ordini delle autorità).

Coloni israeliani noti, o ritenuti tali, hanno ferito un ragazzo palestinese di 17 anni ed hanno danneggiato proprietà palestinesi, compresi veicoli e alberi. Il ragazzo è stato colpito da pietre e ferito a Sheikh Jarrah (Gerusalemme Est), secondo quanto riferito, da israeliani riunitisi per le celebrazioni [della festività] di Purim. Nello stesso contesto, diverse auto palestinesi che viaggiavano vicino alla Città Vecchia di Gerusalemme e vicino all’insediamento di Yitzhar (Nablus), sono state colpite da pietre e danneggiate. Sempre durante le celebrazioni di Purim, coloni israeliani hanno cercato di fare irruzione in case palestinesi nella Città Vecchia di Hebron. A Ramallah, in tre diversi episodi, sono stati vandalizzate diverse auto palestinesi parcheggiate vicino all’insediamento colonico di Shilo, e due camion a Ein Samiya e Kafr Malik. Fonti palestinesi riferiscono altri quattro episodi, avvenuti in Nablus ed attribuiti a coloni: ad Asira al Qibliya alcune case sono state colpite da pietre ed è stato danneggiato un serbatoio d’acqua; a Burin sono state vandalizzate recinzioni di terreno agricolo; a Jalud sono state rubate sette pecore; a Beit Dajan e Qaryut sono stati sradicati alberelli di olivo. A Ein al Hilwe (Tubas), un pastore ha riferito che un veicolo, presumibilmente guidato da coloni, ha ucciso cinque delle sue pecore. Palestinesi hanno riferito alcuni episodi: ad Al Baqa’a (Hebron), coloni israeliani hanno cercato di impossessarsi di terra palestinese, hanno attaccato pastori a Kisan e un negoziante a Husan (entrambi villaggi di Betlemme), rubando del denaro.

Nella Città Vecchia di Hebron, autori ritenuti palestinesi hanno ferito un ragazzo israeliano di 15 anni. Secondo fonti israeliane, diciotto veicoli israeliani che viaggiavano sulle strade della Cisgiordania sono stati colpiti da pietre e danneggiati.

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L’apartheid vaccinale di Israele

Amira Hass

 

1 marzo 2021 – Haaretz

I ceppi del COVID non terranno in considerazione le bugie di Israele secondo cui esso “non è responsabile” della salute dei palestinesi.

La domanda scomoda ogni giorno è: “Sei stata vaccinata?” La risposta imbarazzata è “sì.” A chiedere sono vicini e amici palestinesi, conoscenti e intervistati, residenti in Cisgiordania (esclusa Gerusalemme Est) e nella Striscia di Gaza. Non lo fanno con l’intenzione di mettermi in imbarazzo, né tanto meno di farmi vergognare. Esprimono un interesse umano e amichevole. Di solito alla mia risposta replicano: “É fantastico.” Il disagio e l’imbarazzo derivano dal fatto che noi, cittadini di Israele, veniamo vaccinati e loro no. 

Anche se possiamo vantarci di essere primi al mondo per la vaccinazione di cittadini e residenti, resta il fatto che Israele ha escluso dalla vaccinazione circa 4,5 milioni di palestinesi, sebbene essi vivano tutti sotto il suo controllo. Il governo continua a dichiarare di non essere responsabile della loro salute. Allora va ricordato: ciascuno di quei 4,5 milioni è iscritto nel registro della popolazione palestinese controllata da Israele.

 

Che cosa si intende per controllo? È Israele a decidere chi è nel registro. Se il certificato di nascita di qualche neonato palestinese non viene convalidato da Israele, quel neonato non viene registrato. Non è sufficiente la certificazione del Ministero degli Interni palestinese per fare avere la carta di identità ad una sedicenne di Gaza, Hebron o Barta’a. Ci vuole il consenso di Israele. I funzionari del Ministero degli Interni israeliano che lavorano per l’Amministrazione Civile devono confermare i dettagli della carta di identità, che altrimenti viene considerata “contraffatta.”

 

Per favore, ditemi quale altro Paese del mondo sia “non responsabile” della salute di quelle stesse persone che ha l’autorità di riconoscere come “esistenti” oppure no.

E questo si aggiunge alle altre questioni relative ai palestinesi su cui è Israele a decidere: la quantità di acqua che consumano, le restrizioni al loro diritto di muoversi, l’entità del loro sviluppo economico, le università palestinesi in cui hanno diritto a studiare, l’estensione della terra che possono coltivare.

 

L’elenco dei settori in cui si esplica il dominio di Israele sui palestinesi “che non possono beneficiare dei nostri vaccini” è più lungo di quanto non si possa illustrare esaurientemente in questo articolo.

Eppure, come prevedibile, la vaccinazione dell’apartheid non fa scalpore in Israele. Le considerazioni morali per noi non valgono.

 

Vi siete imbattuti in qualche appello di docenti di filosofia di università israeliane che chiedano al Primo Ministro Benjamin Netanyahu di vaccinare senza alcuna discriminazione l’intera popolazione che risiede in questo Paese fra il Mare Mediterraneo e il fiume Giordano? Avete sentito dei rabbini in Israele chiedere al governo, in nome della loro autorità spirituale, di fare in modo che l’efficace campagna di vaccinazione non trascuri nessuno?

Queste sono domande retoriche. Grazie a gruppi per i diritti umani, si è aperta un’unica crepa in quell’insensibilità: vaccineremo i palestinesi che lavorano in Israele. 

 

Per noi le considerazioni legali valgono solo se sono a nostro vantaggio, e a patto che l’unica interpretazione legale sia Ginevra-à-la-carte. [Geneva-Shmeneva nel testo di Hass – l’aggiunta del prefisso “shm” in yiddish trasforma il termine in modo da sminuirlo e/o ridicolizzarlo, ndtr]. Vale a dire che Israele non è una potenza occupante e che quindi non è vincolato dalle Convenzioni di Ginevra per quanto concerne i suoi obblighi di potenza occupante.

Anche se le organizzazioni internazionali hanno decretato l’opposto.  Quando ci viene bene, decidiamo che gli Accordi di Oslo sono vincolanti: per esempio, la clausola che l’Autorità Nazionale Palestinese è responsabile della salute degli abitanti.

Ma se ci conviene, storciamo il naso davanti al fatto che gli Accordi di Oslo avrebbero dovuti essere validi solo per cinque anni, e davanti alla clausola che vieta alle parti di stabilire fatti sul terreno in modo tale da avere un impatto sulla fase permanente.

 

L’utilitarismo sanitario ormai è l’unica cosa che sta a cuore all’ebreo medio in Israele, come dimostra la tardiva consapevolezza che i lavoratori palestinesi devono essere vaccinati. La scorsa settimana ONE – movimento internazionale di lotta alla povertà – ha affrontato il problema dell’iniqua distribuzione mondiale dei vaccini, con le Nazioni ricche che si accaparrano circa un miliardo di dosi in più del necessario, mentre quelli poveri non sono in grado di acquistarli.

“Ogni nuova infezione rappresenta una possibilità di mutazione” ha rammentato ONE nella sua dichiarazione. “Ci sono già oltre 4.000 varianti di Covid-19 e alcune varianti – come quelle sud-africana e inglese – si stanno dimostrando più contagiose di altre.

Ogni nuovo ceppo del virus presenta un aumento del rischio che la malattia evolva al punto da rendere inefficaci gli attuali vaccini, strumenti diagnostici e trattamenti. I leader delle Nazioni ricche non renderanno alcun servizio né ai loro cittadini né al resto del mondo accumulando vaccini.”

Se questo vale per gli USA e la Francia nei confronti di Messico e Marocco, vale sicuramente anche per Israele e i palestinesi.

 

Non sono soltanto i palestinesi che lavorano in Israele o nelle colonie a vivere gomito a gomito con la società israeliana. I palestinesi che vengono nei centri commerciali in Cisgiordania e i coloni che frequentano attività commerciali palestinesi nell’Area C [sotto il totale controllo israeliano, ndtr], quali negozi di alimentari, officine meccaniche, chioschi di falafel; i soldati che fanno irruzione tutte le sere nelle case dei palestinesi, li arrestano, li picchiano e li ammanettano, si avvicinano alle loro facce per urlare contro di loro; gli agenti del Servizio di Sicurezza Shin Bet che respirano la stessa aria viziata delle persone che torturano per poi tornare a casa e passare del tempo nel parco vicino con i figli; i palestinesi di Gerusalemme hanno parenti e amici in Cisgiordania, nonché soci e imprese dove si incontrano; i commercianti palestinesi si vedono con quelli israeliani; i palestinesi con cittadinanza israeliana non hanno smesso di andare a trovare i fratelli e le sorelle in Cisgiordania.

 

Non esiste una separazione ermetica fra le due popolazioni, né può esistere.

Le subdole mutazioni del virus non tengono in considerazione le bugie di Israele secondo cui esso “non è responsabile” della salute dei palestinesi.

   

(traduzione dall’inglese di Stefania Fusero)