Come le organizzazioni israeliane per i diritti umani impediscono ai palestinesi di contestualizzare la loro situazione

Haneen Maikey, Lana Tatour

31 marzo 2021 – Middle East Eye

Pervase dal sistema colonialista di insediamento, le organizzazioni israeliane per i diritti umani sembrano vedere i palestinesi come poco più che una fonte di dati grezzi, mentre il personale ebreo definisce la strategia

Negli ultimi anni le persone di colore che lavorano nel settore dei diritti umani e dello sviluppo internazionale hanno invitato Ong e organizzazioni a prendere in considerazione il razzismo istituzionale e ad analizzare come loro strutture, discorsi e programmi rafforzino il colonialismo e il suprematismo bianco.

Lo scorso anno 1.000 tra ex ed attuali operatori di “Medici senza frontiere” hanno chiesto un’indagine indipendente per smantellare “decenni di potere e paternalismo”. Un anno prima il rapporto di una commissione indipendente ha stabilito che Oxfam International [storica coalizione di ong inglesi, ndtr.] è segnata da “razzismo, comportamenti colonialisti e intimidatori.”

Ma questa discussione che sta emergendo a livello internazionale sembra essere stata ignorata dalle organizzazioni israeliane per i diritti umani, sempre lodate per la loro coraggiosa lotta contro l’occupazione israeliana e il sostegno ai diritti dei palestinesi. Il recente rapporto di B’Tselem, che ha dichiarato che Israele è uno Stato di apartheid, offre l’opportunità di parlare delle politiche razziali del lavoro israeliano per i diritti umani.

Gerarchia razziale

Alcune organizzazioni israeliane per i diritti umani non solo sono pervase dal sistema colonialista di insediamento e ne sfruttano i vantaggi, ma anche nelle loro strutture istituzionali e nel loro modo di operare incarnano e riproducono relazioni di potere razziste e colonialiste. Per dirla chiara, il settore israeliano dei diritti umani ha un problema di supremazia ebraica-israeliana ashkenazita [gli ebrei originari dell’Europa centro-orientale, che rappresentano l’élite israeliana, ndtr.].

Uno sguardo ravvicinato alla struttura del personale di tali organizzazioni rivela un’immagine sorprendente della gerarchia razziale tra gli ebrei israeliani, i palestinesi del ’48 (denominati anche “cittadini” palestinesi di Israele) e palestinesi di Cisgiordania e Gaza occupate (noti anche come i palestinesi del ’67), la stessa gerarchia su cui si basa il progetto razzista del colonialismo di insediamento israeliano.

I palestinesi di Gaza e della Cisgiordania occupata hanno due ruoli principali nelle organizzazioni israeliane per i diritti umani. Sono ricercatori sul campo incaricati di documentare le violazioni dei diritti umani, raccogliere dati portare testimonianze. Sono anche i “clienti” e i “beneficiari” che si rivolgono a queste organizzazioni perchè esse li aiutano a proteggere i loro diritti a salute, educazione, residenza e mobilità di fronte alle autorità israeliane.

Poi ci sono i palestinesi del ’48, che occupano posizioni che richiedono una buona padronanza sia dell’arabo che dell’ebraico. Il loro ruolo è di mediare tra i palestinesi del ’67 e il personale israeliano. Sono i coordinatori dei dati e delle assunzioni, dirigono gli operatori sul campo, processano informazioni e coordinano i programmi che richiedono una comunicazione diretta con i palestinesi del ’67.

Infine posizioni come alti dirigenti, portavoce, coordinatori della sensibilizzazione a livello internazionale, personale per la valorizzazione delle risorse e ricercatori che scrivono i rapporti sulle politiche pubbliche, il volto ufficiale delle organizzazioni, sono israeliani ed ebrei americani, praticamente solo ashkenaziti.

Frammentazione colonialista

Questa non è in alcun modo una critica al personale palestinese e alle sue attività nelle associazioni israeliane per i diritti umani. Attivisti palestinesi hanno a lungo negoziato rivendicazioni salariali e resistenza vivendo in condizioni colonialiste.

Come nel mercato del lavoro israeliano razzializzato, le organizzazioni israeliane per i diritti umani hanno il proprio soffitto di cristallo. Ai palestinesi sono stati destinati ruoli specifici, senza cui le associazioni israeliane ebraiche per i diritti umani non potrebbero operare, eppure, benché siano la spina dorsale di queste organizzazioni, sono esclusi dalle posizioni di vertice, che solo per lo più riservate agli ebrei ashkenaziti.

La divisione tra il lavoro dei palestinesi del ’48 e del ’67 gioca anche all’interno e approfondisce la frammentazione colonialista dei palestinesi. Ciò rischia di innescare dinamiche interne di potere i e una gerarchia tra i palestinesi del ’48, che fungono da mediatori, e quelli del ’67, che cercano assistenza o di condividere le proprie testimonianze.

Il razzismo, non necessariamente cosciente o intenzionale, profondamente radicato che sta alla base di questa cultura di gestione del personale sottolinea anche questioni di produzione e rappresentazione delle conoscenze. In queste organizzazioni i palestinesi e le loro esperienze della violenza del colonialismo di insediamento sono funzionali alla produzione di sapere per gli israeliani. Essi sono la fonte delle informazioni e delle esperienze che vivono sono l’insieme di dati grezzi.

Sono gli israeliani che decidono cosa fare di queste informazioni, come interpretarle, contestualizzarle e comunicarle al mondo.

Arbitri dell’attività dei palestinesi

In un’intervista del 2016 è stato chiesto al direttore esecutivo di B’Tselem, Hagai El-Ad: “Come date voce e protagonismo ai palestinesi nel vostro lavoro?” La sua risposta è stata rivelatrice:

“È una domanda molto importante, a cui pensiamo sempre. Uno dei nostri mezzi principali è costituito dal nostro progetto video, che è un esempio-guida a livello mondiale per una affermazione autonoma del giornalismo dei cittadini. Volontari palestinesi, più di 200 dei quali in tutta la Cisgiordania, hanno videocamere e sono formati per documentare la vita sotto occupazione. Ovviamente le immagini che poi vengono rese pubbliche sono quelle originali, così come sono state riprese dai palestinesi.”

La domanda evidenza di per sé alcuni dei danni che queste organizzazioni per i diritti umani fanno giocando il ruolo di mediatori del vissuto dei palestinesi – quelli che dispensano rappresentanza e voce. Assumendo l’autorità di plasmare le prospettive internazionali dei palestinesi, agiscono come arbitri del loro operato.

Nel contempo la risposta di El-Ad suggerisce che il massimo che i nativi possono fare è documentare la propria situazione. Il settore israeliano dei diritti umani appare incapace di immaginare i palestinesi come produttori di sapere o artefici del loro vissuto. L’affermazione di cui parla El-Ad è un classico caso di empowerment liberal privo di potere, perfettamente in linea con la mentalità del salvatore bianco.

Un importante aspetto di questo rapporto di sfruttamento razzializzato è il lavoro emotivo e psicologico profuso dai palestinesi nel raccogliere le informazioni e testimonianze necessarie per l’esistenza di queste organizzazioni.

Mentre i palestinesi vengono incaricati di documentare ed elaborare l’orribile violenza del colonialismo di insediamento a cui sono sottoposti, il personale israeliano riceve informazioni elaborate e “pulite” da usare nei suoi rapporti, nel lavoro di sostegno internazionale e nelle campagne presso l’opinione pubblica.

Ciclo di violenza

Mentre questa dinamica intrappola i palestinesi in un circolo vizioso di violenza estenuante dal punto di vista emotivo e politico e li (ri)traumatizza, essa protegge l’occupante da ogni coinvolgimento diretto. Il personale israeliano riceve le testimonianze filtrate e mediate, aggiungendo un ulteriore livello di disconnessione tra l’occupante e le conseguenze dell’occupazione e della violenza colonialista.

La struttura razzista che in queste organizzazioni tiene all’ultimo posto i palestinesi caratterizza anche le politiche di rappresentanza, che vedono gli israeliani come i naturali rappresentanti e quelli che inquadrano la realtà vissuta dai palestinesi. A ciò si unisce una sensazione di ipocrisia. In un’intervista con il New Yorker [prestigiosa rivista statunitense, ndtr.] El-Ad ha spiegato perché B’Tselem ha deciso di definire Israele uno Stato di apartheid: “Vogliamo cambiare il discorso sul quello che sta avvenendo tra il fiume [Giordano] e il mare [Mediterraneo]. Il discorso è stato slegato dalla realtà e ciò danneggia le possibilità di cambiamento.”

Quello che B’Tselem ed El-Ad ignorano è che il loro discorso è stato slegato dalla realtà. Se avessero ascoltato i palestinesi, avrebbero saputo che essi da decenni stanno dicendo di vivere una situazione di apartheid, di segregazione e dominazione razziale. Questa cancellazione è il risultato di un approccio paternalistico, che insiste sul fatto che il colono ne sa di più del nativo.

Eppure all’interno del contesto internazionale razzializzato, gli attivisti, avvocati e organizzazioni per i diritti umani palestinesi, come Al-Haq, Al Mezan, Adalah o Addameer, non ricevono la stessa attenzione internazionale di B’Tselem o dell’avvocato Michael Sfard di Yesh Din [associazione israeliana per i diritti umani, ndtr.], con decine di interviste e reportage su importanti mezzi di informazione internazionali e accesso ai decisori politici.

Mettere al centro i palestinesi

Le organizzazioni israeliane per i diritti umani, gli attivisti e gli avvocati non si limitano ad “utilizzare il proprio privilegio” per “aiutare” i palestinesi, un’affermazione che spesso i bianchi fanno quando mettono al centro se stessi. Parlano di apartheid, ma non lavorano per intaccare le politiche che ne fanno dei privilegiati. Al contrario, traggono vantaggio e beneficiano delle politiche che rendono le voci israeliane sempre apprezzabili e legittime, e lo fanno sfruttando nel contempo il sapere e il lavoro dei palestinesi.

Questa dinamica razzista influenza anche le competenze e il discorso che vengono prodotti. Alle associazioni israeliane per i diritti umani viene attribuita la voce autorevole su problemi palestinesi a livello internazionale. B’Tselem ora è l’organizzazione a cui rivolgersi a proposito dell’apartheid israeliano, Gisha di Gaza, Yesh Din delle colonie israeliane in Cisgiordania, Medici per i Diritti Umani della salute e HaMoked delle questioni di status.

Il risultato è una lettura colonialista della vicenda palestinese. Con l’insistenza degli israeliani a definire la questione palestinese, il quadro che offrono e il sapere che producono tendono a sminuire i palestinesi e il programma radicalmente anti-colonialista incentrato sulla liberazione.

Per esempio, mentre la politica radicale palestinese vede in Israele uno Stato colonialista di insediamento che pratica l’apartheid e sostiene che il sionismo è razzismo, B’Tselem presenta una concezione dell’apartheid israeliano che ignora il colonialismo di insediamento e nega i fondamenti razzisti del movimento sionista.

I palestinesi sanno come inquadrare la propria situazione, lo stanno facendo da decenni. La nostra preoccupazione non riguarda tanto come rendere le organizzazioni e gli attivisti israeliani meno razzisti o più accoglienti con i palestinesi. Siamo più preoccupate di come noi, in quanto attivisti, organizzazioni per i diritti umani e associazioni di solidarietà palestinesi dovremmo rispondere a questa dinamica razzista.

La situazione che viviamo e il nostro sapere non dovrebbero essere note a piè di pagina di organizzazioni bianche, israeliane e del colonialismo di insediamento. Un modo per progredire è dare centralità al sapere dei palestinesi e al progetto di liberazione anticolonialista.

Le opinioni espresse in questo articolo sono delle autrici e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Haneen Maikey

Haneen è un’attivista femminista queer, co-fondatrice ed ex-direttrice dell’organizzazione nazionale palestinese di base LGBTQ “alQaws per la Diversità Sessuale e di Genere nella Società Palestinese.”

Lana Tatour

Lana Tatour è docente e ricercatrice in sviluppo globale presso la Scuola di Scienze Sociali dell’università del Nuovo Galles del Sud (Syndey, Australia).

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La Giornata della Terra: il progetto israeliano di furto di terre continua indisturbato

Ghada Karmi

30 marzo 2021 – Middle East Eye

Per i palestinesi, la Giornata della Terra continua a essere uno stimolo e un omaggio alla giusta lotta di un popolo indomito per la propria terra.

La centralità della lotta per la terra è sempre stata fondamentale per capire il conflitto israelo-palestinese.

È al cuore di due grandi eventi le cui ricorrenze cadono il 30 marzo. Il primo, la Giornata della Terra, commemora l’inizio della resistenza dei palestinesi all’occupazione della loro terra da parte di Israele nel 1976; e il secondo segna l’inizio della Grande Marcia del Ritorno nel 2018, quando a Gaza migliaia di palestinesi protestarono per il diritto dei rifugiati al ritorno alle loro terre confiscate in Israele.

Fin dall’inizio, il movimento sionista era fondato sull’acquisizione di un territorio deserto su cui stabilire uno Stato esclusivamente per ebrei. Dato che nella Palestina dell’epoca tale terra non era disponibile, doveva essere ottenuta, prima con l’acquisto e poi con la guerra.

Il percorso del furto della terra

Dato che dopo il 1917 gli immigrati ebrei iniziarono ad arrivare nel Paese in numero crescente, organizzazioni sioniste come il Fondo Nazionale Ebraico e l’Associazione per la colonizzazione ebraica della Palestina si approntarono ad acquistare terre palestinesi, a condizione che al momento dell’acquisto non fossero occupate.

Molti proprietari terrieri arabi che non vivevano più in Palestina e una minoranza di agricoltori palestinesi vendettero loro della terra. Queste vendite erano motivate principalmente dalla necessità economica, dato che le organizzazioni sioniste avevano accesso a fondi stranieri di cui gli arabi non disponevano.

Anni di intensi sforzi sionisti produssero tuttavia risultati deludenti. Nel 1947, e nonostante i loro fondi e contatti con potenti sostenitori del sionismo, queste organizzazioni avevano acquisito non più di un misero 6,7% di terreni palestinesi.

Ma questo insuccesso fu rapidamente ribaltato dalla guerra arabo-israeliana del 1948. In questo conflitto Israele conquistò il 78% della Palestina mandataria, impadronendosi di grandi estensioni di terra palestinese, quasi tutta non occupata a causa della fuga della popolazione e delle espulsioni durante la guerra.

Dopo il 1948, il nuovo Stato di Israele passò rapidamente una serie di leggi volte ad acquisire territori palestinesi con mezzi pseudo-legali. Fra queste ci furono la legge sulla Proprietà degli Assenti del 1950 che permetteva allo Stato di occupare terre e beni palestinesi i cui proprietari erano assenti e, subito dopo, la legge di Acquisizione della Terra che introdusse una nuova categoria di “terre statali” e “aree chiuse”, nel 1953.

Tutto ciò ha avuto l’effetto di far sì che lo Stato diventasse il proprietario della maggioranza della terra, permanentemente fuori dalla portata dei suoi precedenti proprietari palestinesi.

Eventi successivi, fino ad includere la guerra arabo-israeliana nel 1967, con cui Israele occupò il resto della Palestina, sono stati tappe dello stesso percorso di furto di terre. Oggi la presenza di colonie israeliane significa che la proprietà palestinese della Cisgiordania e di Gerusalemme Est si è ridotta a meno del 13%. Questa cifra è destinata a diminuire ulteriormente, dato che il processo di colonizzazione continua con ulteriori perdite di territorio.

Ciò ha fatto da sfondo alle drammatiche proteste della Giornata della Terra nel 1976. All’epoca il detonatore era stato il piano del governo israeliano di espropriare migliaia di dunum [10 dunum= 1 ettaro, ndtr.] di terra araba in Galilea per costruire villaggi industriali per ebrei. In linea con il “Piano per lo Sviluppo della Galilea” del governo israeliano nel 1975 per espandere l’insediamento degli ebrei, ciò avrebbe accelerato l’ebreizzazione di quella che era un’area a maggioranza araba. 

La svolta

Il 30 marzo venne indetto uno sciopero generale e scoppiarono numerose proteste in città arabe dalla Galilea al Negev. Migliaia marciarono per protesta mentre si tenevano dimostrazioni di solidarietà nei Territori Occupati e nei campi di rifugiati palestinesi in Libano.

In un momento in cui la popolazione araba era in gran parte passiva, tali eventi giunsero inaspettati per Israele che ne fu allarmato e impiegò migliaia di poliziotti, unità dell’esercito e carri armati per sedare le proteste. Furono uccisi sei arabi, migliaia furono i feriti e centinaia gli arrestati.

La Giornata della Terra fu un punto di svolta. Dal 1948 era la prima volta che, dopo anni di controllo militare israeliano, gli arabi in Israele agivano come una collettività nazionale, rifiutandosi di accettare il furto della loro terra. La Giornata della Terra era un’espressione di orgoglio nazionale e di fiducia in sé. Segnò la rivendicazione di una presenza araba che le politiche israeliane non potevano più ignorare e un punto di partenza per la partecipazione politica degli arabi in Israele. 

Da quel momento in poi, la Giornata della Terra è stata commemorata annualmente dai palestinesi ovunque. Nel 2018 è stata segnata dall’inizio di un’altra grande protesta palestinese per la terra. La Grande Marcia del Ritorno ha visto 30.000 palestinesi dimostrare a Gaza vicino alla recinzione israeliana di separazione di filo spinato elettrificato e dotato di sensori. Era una protesta pacifica che chiedeva il diritto al ritorno alle loro terre per i rifugiati e di porre fine al blocco di Gaza. Previste dal 30 marzo al 15 maggio, la giornata della Nakba o catastrofe, le proteste si sono svolte ogni venerdì.

Un eroismo doppio

Come nel 1976 gli israeliani hanno risposto con violenza assassina. Fra il 30 marzo e il 15 maggio si stima che siano stati uccisi 110 manifestanti, 13.000 i feriti da cecchini e droni. Quando la Marcia del Ritorno è stata interrotta da Hamas nel dicembre 2019, 214 persone erano state uccise e 36.000 ferite. Di queste, 1.200 necessitano di un lungo periodo di riabilitazione in seguito a infezioni alle ossa e lesioni agli arti. Sembra che i soldati israeliani abbiano usato una politica di “spara e ferisci”, mirando intenzionalmente alle gambe dei manifestanti per causare il massimo della disabilità.

Il sistema sanitario di Gaza, danneggiato da anni di blocco, da carenza di personale, attrezzature ed energia elettrica non è riuscito a fronteggiare un tale numero di feriti. Eppure ciò non ha impedito ai giovani palestinesi di affrontare morte e ferite ogni settimana per quasi due anni, creando una nuova leggenda palestinese da commemorare il 30 marzo. 

Israele non ha mai cambiato atteggiamento davanti a quel doppio eroismo palestinese celebrato in occasione della Giornata della Terra. Ha continuato a costruire “città di sviluppo” [denominazione delle nuove città solo per ebrei costruite in particolare nel Negev e in Galilea, ndtr.] per ebrei, 26 dal 1981, con il risultato di alterare la demografia della Galilea a favore degli ebrei.

Allo stesso modo a Gaza continua il blocco, e la scusa dell’autodifesa invocata per giustificare la brutalità di Israele contro la grande Marcia del Ritorno è stata accettata da molti governi occidentali. Il suo progetto di furto della terra palestinese continua indisturbato.  

Ma per i palestinesi il 30 marzo la Giornata della Terra continua a essere un’ispirazione e un tributo alla giusta lotta di un popolo indomito per la propria terra.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Ghada Karmi

Ghada Karmi è un’ex-assegnista di ricerca all’Istituto per gli Studi Arabi e Islamici dell’università di Exeter. È nata a Gerusalemme ed è stata obbligata a lasciare la propria casa con la famiglia in seguito alla creazione di Israele nel 1948. La famiglia andò in Inghilterra, dove è cresciuta e ha studiato. Per molti anni Karmi ha esercitato la professione medica lavorando come specialista nella cura di migranti e rifugiati. Dal 1999 al 2001 Karmi è stata membro del Royal Institute of International Affairs [Istituto Reale di Affari Internazionali], dove ha guidato un importante progetto sulla riconciliazione tra israeliani e palestinesi. 

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Francia-Israele. Lobby o non lobby? Come Israele sviluppa Scorpion, nel futuro al centro della difesa francese

Jean Stern

30 marzo 2021 – Orient XXI

Inchiesta. Nella totale opacità, militari e ingegneri francesi e israeliani collaborano per la guerra del futuro, unificando informatica, droni e robot, anche se sul fronte della vendita di armi i due Paesi sono concorrenti, soprattutto in Africa.

Se la Francia è il terzo esportatore di armi al mondo, Israele è attualmente all’ottavo posto, ‘performance’ piuttosto notevole, tenuto conto delle dimensioni del Paese. E se le due Nazioni hanno rapporti amichevoli in molti settori, la cosa è più complicata nell’ambito della difesa. Da un lato, perché i loro industriali si trovano a volte in concorrenza e gli israeliani hanno la reputazione di “abbassare” il prezzo per accaparrarsi i mercati di armi. Ma d’altro lato, e soprattutto, perché gli israeliani puntano insistentemente gli occhi su un terreno di caccia tradizionalmente controllato dai militari e dai trafficanti d’armi francesi: l’Africa. Dopo gli accordi di Oslo Israele ha investito molto sul continente africano, in particolare nella “protezione” dei governi in carica.

Certo, ufficiali e agenti francesi e israeliani cooperano con discrezione su alcuni fronti, per esempio con l’esercito camerunense nel nord- Camerun nella lotta contro Boko Haram. Ma nella stessa Yaoundé, la capitale del Paese, uno dei pilastri dell’Africa francofona, mercenari israeliani sono inseriti da tempo nel battaglione di intervento rapido (BIR), un’unità d’élite posta agli ordini del presidente Paul Biya. E imprese israeliane equipaggiano il BIR, soprattutto con fucili d’assalto. C’è di che far innervosire gli industriali francesi degli armamenti, di cui il Camerun è un tradizionale cliente. “Siamo in forte concorrenza sul mercato africano, sottolinea un ingegnere del settore militare, “ma al momento siamo in difficoltà. In alcune aree a rischio, la Nigeria, l’Africa dei laghi, lo Zimbabwe e il Malawi Israele ha conquistato i mercati. Le nostre industrie, soprattutto Thales e Safran, sono in concorrenza tra loro, mentre gli israeliani sono molto compatti.”

Infine, e forse soprattutto, perché i rapporti si sono invertiti: negli anni ‘50 e ‘60 la Francia vendeva armi a Israele. Oggi Israele le vende sistemi di ciber-sorveglianza, droni e anche robot soldati. Un po’ seccante per l’orgoglio maniacale dei militari e degli industriali della difesa. E se i lobbisti di Elnet e i rappresentanti del commercio franco-israeliano non smettono di lodare la qualità del “dialogo strategico” tra i due Paesi, che si può tradurre fuori dal politichese con “chi vende quali armi a chi non deve calpestare troppo le mie aiuole”, le voci diventano sussurri quando si tratta di parlarne più in dettaglio. “Oh no, non vi darò dei numeri, anzitutto perché non li conosco”, dice un deputato. “Sapete, tutto ciò va avanti per conto proprio, non sappiamo granché,” aggiunge un’altra parlamentare. “Vi è scambio di informazioni”, spiega Arie Bensemhoun, direttore di Elnet France. “Sul piano militare e strategico e della lotta contro il terrorismo c’è buona collaborazione tra i due Paesi”, aggiunge senza ulteriori dettagli. “La palese mancanza di trasparenza che caratterizza il settore militare – con la motivazione della segretezza relativa alla difesa unita al ‘segreto commerciale’ – è particolarmente problematica”, nota Patrice Bouveret, dell’Osservatorio sugli armamenti.

L’interfaccia di Scorpion sviluppata con Elbit

Così sia i deputati che l’opinione pubblica ignorano tutto sulla partecipazione israeliana al programma riservato “Sinergia del contatto rafforzato dalla polivalenza e dall’info-valorizzazione” (Scorpion), al centro della strategia dell’esercito di terra francese per i prossimi decenni. La parte visibile consiste in un rinnovamento dei veicoli blindati, con il lancio di Griffon, che sarà impiegato nel Sahel nell’autunno 2021. Ma la forza trainante di Scorpion consiste nella messa a punto di un controllo digitale unico basato su un’interfaccia comune che consente ai soldati impiegati sul terreno, ma anche ai nuovi mezzi militari come i droni e i robot, di essere connessi simultaneamente e di anticipare così le reazioni del nemico.

Fine modulo

Al centro della guerra del futuro, spiega un’esperta, si trova un soldato più leggero, perché oggi porta un carico di 38 chili, contro i 40 durante la guerra del 1914-1918. Il margine di progresso è ancora enorme. A regime, non avrà altro che uno schermo GPS, la sua arma e la sua borraccia. Sarà guidato da un’interfaccia e assistito da droni per una visione ampia e da robot-muli incaricati di trasportare i carichi pesanti e eventualmente evacuare i feriti.” Le informazioni di cui il soldato disporrà sul suo navigatore GPS tramite Scorpion sono quindi determinanti e la messa a punto dell’interfaccia è al centro della cooperazione segreta franco-israeliana.

L’idea centrale di Scorpion è la guerra senza rumore e se possibile evitare la guerra cruenta, cioè avere il minimo numero possibile di soldati uccisi, prosegue. Scorpion organizza l’interoperatività tra un carro armato, un battello, una moto, un drone, un robot, un soldato a terra. È un programma molto importante, a cui partecipano tutti i grandi industriali francesi di armamenti, ma anche l’israeliana Elbit, che ha acquisito una grande esperienza nei sistemi autonomi.”

Integrano i droni nella natura”

Questa competenza che facilita l’analisi precisa di un determinato terreno, Israele l’ha acquisita grazie ai suoi droni impiegati nei territori palestinesi occupati. “Israele è molto avanti su tre punti chiave, aggiunge l’ingegnera. Anzitutto l’annullamento del rumore del motore dei droni. È un grande progresso, si sta per arrivare all’impercettibilità del rumore, punto sul quale si lavora molto anche in Francia.” E poi la miniaturizzazione dei droni. I droni insetti che ci divertono in un film di James Bond sono già in servizio e testati dall’esercito israeliano a Gaza. “Integrano i droni nella natura”, precisa l’esperta. Infine la cancellazione delle tracce digitali e l’individuazione dei segnali “nemici” è strategica, perché la guida digitale è al cuore di Scorpion.

Non bisogna essere intercettati, mentre si intercetta il nemico. Gli israeliani sanno nascondere, localizzare, interpretare, analizzare, confondere. L’idea, anche qui, è di essere invisibili ed estremamente silenziosi, continua la stessa esperta. Ciò che sta alla base delle nostre collaborazioni con Israele sono tutte queste invenzioni, semplici, prodotte dai migliori ingegneri che hanno acquisito le proprie capacità nel controllo e nella repressione nei territori palestinesi e a Gaza.”

Scorpion è così importante per l’industria bellica francese che, al di là dell’esercito, suo cliente di riferimento insieme all’esercito belga, il programma mira all’esportazione. Non sorprende quindi venire a sapere che il primo acquirente di Scorpion è Abu Dhabi. Gli Emirati Arabi Uniti sono da tempo ottimi clienti per le armi francesi e anche, più di recente, amici di Israele.

Fuori dalle statistiche ufficiali

Al di fuori di Scorpion, di cui non si conosce l’importo finanziario derivante dall’apporto degli ingegneri israeliani di Elbit, i volumi degli scambi di armi sono controllati dal parlamento. Secondo il rapporto consegnato al parlamento dal Ministero della Difesa francese, nel periodo 2010-2019 le armi inviate dalla Francia a Israele hanno rappresentato 208 milioni di euro, il che è ben poco in confronto all’Arabia Saudita (8,7 miliardi), agli Emirati Arabi Uniti (4,7 miliardi), al Qatar (4,1 miliardi) o all’Egitto (6,6 miliardi). Non si conosce invece l’ammontare delle vendite di armamenti e di sistemi di sicurezza militare e di polizia da Israele alla Francia. L’opacità mondiale del mercato della ciber-sicurezza, nel quale Israele è un attore importante, non consente di avere la minima idea dei volumi delle vendite. “Le collaborazioni militari e sulla sicurezza non rientrano nelle statistiche ufficiali”, precisa senza ironia Henri Cukierman, presidente della camera di commercio e dell’industria franco-israeliana.

La svolta degli anni 2000

Prima di buttarsi sul digitale, è nel settore dei droni che la cooperazione militare tra i due Paesi si è rilanciata all’inizio degli anni 2000. “La Francia allora non era molto avanti a questo proposito, precisa un esperto militare. Adesso deve avanzare in materia di guerre urbane, particolarmente sensibile in Africa, dove gli elicotteri sono soluzioni sia costose che rumorose. Israele è all’avanguardia nei droni. Anche se la meccanica spesso è tedesca e i componenti cinesi o francesi, loro sanno ideare e assemblare delle macchine efficienti.”

Di fronte al palese ritardo della sua industria, la Francia allora aveva urgente bisogno di importare droni. Contrariamente a quanto si crede, non fu il presidente Nicolas Sarkozy, noto per i suoi sentimenti filoisraeliani, a provocare questa importante svolta nei rapporti politico-militari autorizzando l’esercito a procurarsi droni israeliani. “Di fatto il vero cambiamento, spiega Frédéric Encel, che ha lavorato come “consulente” per degli “organismi autorizzati” del Ministero della Difesa, è avvenuto con Jacques Chirac e Dominique de Villepin nel 2005-2006. Chirac era stato stupito da Ariel Sharon, che aveva mantenuto la sua promessa di evacuare le colonie israeliane da Gaza nell’estate del 2005. Il Primo Ministro Villepin convinse il presidente Chirac che i Paesi arabi non erano affidabili e la Francia era all’epoca molto in ritardo sui droni. Grazie al pragmatismo di Chirac, furono firmati in modo riservato degli accordi commerciali.”

Fu anche il momento in cui Chirac, dopo la guerra in Iraq, tentò un avvicinamento a Israele per facilitare il dialogo con gli Stati Uniti. Da allora, la Francia iniziò ad acquistare e commercializzare droni israeliani con il sistema delle licenze. Questi accordi con Dassault, Airbus, Sagem (predecessore di Safran) consentirono anche l’acquisto di droni israeliani Eagle nel 2007 e Heron nel 2009 e 2010. Villepin e Chirac trarranno profitto da questo rinnovamento della cooperazione militare autorizzando la vendita da parte di Eurocopter (una filiale di Airbus) di sei elicotteri Panther alla marina israeliana, che li ha ribattezzati Atalef (pipistrello). Ciascuno di questi costosi aeromobili costa, missili compresi, decine di milioni di euro. MBDA, leader europeo in missili, di cui Airbus è azionista a parità di quote con la britannica BEA (37,5% del capitale ciascuno) vendette a Israele anche munizioni teleguidate e il missile anticarro Spike.

Sarkozy promosse la cooperazione tra le polizie

Prima di litigare con Benjamin Netanyahu, da quando arrivò all’Eliseo nel 2007 Nicolas Sarkozy “non si sentiva limitato dalle vecchie burocrazie del Quai [d’Orsay, sede del Ministero degli Esteri francese, ndtr.] e dalle preoccupazioni degli alti ufficiali, spiega un ex ambasciatore. Sarkozy lanciò il “dialogo strategico” franco-israeliano nel 2008, un incontro annuale incentrato principalmente sullo scambio di informazioni tra i militari e le spie dei due Paesi. L’ex primo gendarme di Francia, che nel 2006 aveva istituito una carica di addetto alle questioni di sicurezza all’ambasciata di Francia a Tel Aviv, voleva sviluppare soprattutto la cooperazione tra le polizie dei due Paesi. Durante la sua visita ufficiale nel 2008 firmò un accordo relativo alla lotta contro la criminalità e il terrorismo. Questo accordo, dai contorni abbastanza vaghi, sollevò parecchie riserve in parlamento e non venne ratificato. Tuttavia la cooperazione tra polizie tra i due Paesi si instaurò con discrezione, attraverso incontri regolari e scambi di informazioni.

Dal lato dell’industria militare gli affari per la produzione di droni sono andati intensificandosi, “avendo ogni drone le proprie specificità e utilità, per la sorveglianza dei territori o per operazioni più offensive”, precisa un ingegnere del genio militare. I due modelli israeliani di punta nel mercato sono anzitutto l’Hermes 900 di Elbit, commercializzato dal 2012, venduto al Messico, alla Colombia, al Brasile e al Cile, ma anche a Svizzera e Azerbaigian, specializzato nella sorveglianza e repressione “delle sommosse”. L’altro è Heron di Israel Aerospace, venduto in tutto il mondo, compresi il Marocco e la Turchia. Il suo principale vantaggio sta nel disporre di un’autonomia di volo di 48 ore. Questi droni sono stati la base della collaborazione tra Thales e Elbit per i modelli Watchkeeper ed Hermes, e tra Airbus e Israel Aerospace Industries per Harfang, Heron 1 e Heron TP. Il Patroller, un drone costruito da Safran, deve molto agli accordi conclusi nel 2010 dalla Sagem (vecchio nome di Safran) con Elbit.

E gli affari vanno avanti, a livello francese ed europeo. Molto di recente l’Agenzia Europea per la Sicurezza Marittima ha ordinato ad un consorzio, formato da un lato da Airbus e Israel Aerospace Industrie e dall’altro da Elbit, droni Heron e Hermes per individuare nel Mediterraneo le imbarcazioni che trasportano migranti. Secondo il quotidiano britannico The Guardian i due contratti valgono fino a 50 milioni di euro ciascuno.

Muli-robot israeliani nel Sahel

Infine l’esercito francese ha anche ordinato all’impresa israeliana Roboteam dei robot militari chiamati “muli Probot”, destinati al trasporto di materiale e all’evacuazione di feriti, che sarebbero stati utilizzati nel Sahel nell’estate 2020 nel quadro dell’operazione “Barkhane”. La rivista Challenges, che ha rivelato l’esistenza di questo contratto, riferisce che esso è stato oggetto dietro le quinte di una feroce lotta di pressioni ad alto livello tra i sostenitori di Roboteam e coloro che preferivano il modello prodotto dal gruppo francese CNIM, associato al gruppo estone Milrem, che produce già il robot Themis, un modello di successo venduto in parecchi Paesi, tra cui Stati Uniti e Regno Unito.

Secondo Challenge, sembra che per conquistare il mercato Roboteam, appoggiandosi a un prestanome francese, abbia abbattuto i prezzi, una pratica corrente degli industriali israeliani della difesa per conquistarsi mercati. Ma, secondo una fonte ben informata, ha anche condotto un’intensa campagna di lobbying. La collera degli industriali e di alcuni militari francesi si spiega anche con un altro motivo: Roboteam, che ha inizialmente venduto i suoi robot all’esercito israeliano, recentemente ha ottenuto finanziamenti in Cina e Singapore. Ora, gli ambienti della difesa si preoccupano per nuove alleanze tra certi Paesi africani, la Cina e Israele nel settore della sicurezza e della vendita di armi.

Le due marine alle manovre militari

Tutto ciò è avvenuto dietro le quinte e ufficialmente tutto è andato per il meglio nel campo della cooperazione militare tra i due Paesi. Grande mercante d’armi, la Francia ama organizzare fiere commerciali: Eurosatory, Euronaval, Le Bourget, come anche il Milipol dedicato al controllo dell’ordine pubblico. E Israele adora esserci: secondo i dati raccolti da Patrice Bouveret, 51 imprese israeliane erano presenti a Eurosatory nel 2016, contro le 17 nel 1998. Stesso incremento spettacolare a Milipol: 16 imprese presenti nel 1997, 57 nel 2015. L’ingegnera del settore bellico che abbiamo intervistato racconta del resto che i colleghi israeliani che lei frequenta durante queste fiere sono “dei ragazzi piuttosto simpatici, spesso abbastanza pacifisti, che parlano dei loro figli, non sono del tutto coscienti di quello di cui si occupano.”

I militari francesi adorano anche le manovre. Nel luglio 2018 delle operazioni comuni delle marine francese e israeliana si sono svolte al largo di Tolone e della Corsica, alla presenza dei loro capi di stato maggiore, gli ammiragli Eli Shavit e Christophe Prazuck. Era la prima volta per le due marinerie dal 1963, anche se manovre aeree comuni avevano già avuto luogo sempre in Corsica nel novembre 2016.

Nonostante le dispute (essenzialmente in Africa), Israele è molto amico dell’esercito francese. La lobby non può che rallegrarsene. Perché al riguardo la Palestina è “un non-argomento”… Mi era già stato detto.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)