Perché il raid israeliano contro la moschea di al-Aqsa potrebbe configurarsi come un crimine di guerra.

Ian Cobain

10 maggio 2021 – Middle East Eye

È ben noto che le leggi internazionali proibiscono attacchi a siti religiosi e culturali, anche se nessun governo nazionale è mai stato chiamato a risponderne.

Se gli attacchi delle forze di sicurezza israeliane contro la moschea di al-Aqsa continueranno, l’attenzione della comunità internazionale potrebbe iniziare a concentrarsi sulla domanda se essi costituiscano un crimine di guerra.

In base a diverse leggi e trattati internazionali gli attacchi ai siti culturali durante i conflitti armati sono considerati crimini di guerra.

Lo Statuto di Roma del 1998, che istituì la Corte Penale Internazionale (ICC) all’Aia, dichiarò che chiunque “diriga intenzionalmente attacchi contro edifici dedicati al culto, all’educazione, all’arte, alla scienza o a scopi umanitari [oppure] a monumenti storici” commette un crimine di guerra.

Non è necessario che si riscontrino danni significativi – lo statuto considera un crimine l’attacco in sé, non le conseguenze.

All’inizio di quest’anno l’ICC ha annunciato di avere avviato un’indagine su crimini presumibilmente commessi sia dagli israeliani sia dai palestinesi nei territori palestinesi occupati.

La Palestina ha sottoscritto lo statuto di Roma. Anche il governo israeliano aveva firmato, ma in seguito decise che non intendeva diventare Stato membro, e oggi nega che l’ICC abbia alcun diritto di indagare su crimini che è accusato di avere commesso.

In aggiunta allo Statuto di Roma, la Convenzione dell’Aia del 1954 – il primo trattato internazionale dedicato interamente alla protezione di siti di interesse culturale durante i conflitti armati – fa obbligo alle forze di occupazione di tutelare il patrimonio culturale.

La convenzione – che è stata sottoscritta da Israele – è finalizzata a preservare i siti di rilevante interesse culturale dalla distruzione, dal saccheggio o da un uso militare immotivato.

Alla base della convenzione sta il principio che “danneggiare la proprietà culturale appartenente a qualsiasi popolazione equivale a danneggiare il patrimonio culturale dell’umanità intera”.

La convenzione è diventata parte del diritto consuetudinario internazionale, il che comporta che le sue clausole sono vincolanti per tutte le parti coinvolte in conflitti, ma nessun governo nazionale è mai stato perseguito per averle infrante.

Nel 1972 si aggiunse un’altra convenzione, quella sul Patrimonio dell’Umanità. Alla richiesta della Giordania, la città vecchia di Gerusalemme e le sue mura furono dichiarate sito appartenente al patrimonio mondiale.

Nel 1982 il sito venne incluso nell’elenco dell’Unesco riguardo ai siti in pericolo a causa delle tensioni interne alla città.

Infine, nel 2017, con la risoluzione 2347, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU condannò “la distruzione illecita del patrimonio culturale … particolarmente da parte di gruppi terroristici”.

I Talibani, dunque, commisero un crimine quando distrussero le statue monumentali del Buddha nella valle di Bamiyan in Afghanistan nel marzo 2001.

Lo stesso si applica allo Stato Islamico (ISIS) per avere devastato l’antica città di Palmira in Siria e numerosi altri siti fra il 2014 e il 2016.

Nel 2016 Ahmad al-Faqi al-Mahdi, membro di spicco di un gruppo associato ad al-Qaeda, venne condannato dalla Corte Penale Internazionale a nove anni di carcere dopo avere confessato il crimine di guerra di avere intenzionalmente guidato un attacco contro monumenti storici.

Faceva parte di un gruppo che quattro anni prima aveva distrutto nove mausolei e una moschea a Timbuctu, nel Mali.

Un altro caso che include accuse relative alle distruzioni avvenute a Timbuctu è attualmente in corso all’Aia.

E nel gennaio dell’anno scorso l’allora presidente degli USA Donald Trump venne avvisato che avrebbe commesso un crimine di guerra se avesse dato seguito alla minaccia – fatta via Twitter – di prendere di mira siti di rilevante interesse culturale in Iran.

Trump ammonì che gli USA avevano individuato 52 siti in Iran, “alcuni estremamente significativi ed importanti per l’Iran e la cultura iraniana, e quegli obiettivi, e l’Iran stesso, SARANNO COLPITI MOLTO RAPIDAMENTE E DURAMENTE”.

Il Pentagono prese subito le distanze da quella minaccia, assicurando che avrebbe “rispettato le leggi relative ai conflitti armati”.

La Convenzione dell’Aia

Un riconoscimento della necessità di proteggere i siti di valore religioso o culturale si affermò a seguito delle enormi devastazioni causate dalla prima guerra mondiale, ma la prima convenzione nata con questo scopo, il Roerich Pact [firmato a Washington nel 1935, ndtr.], venne ratificato solo da dieci Stati circoscritti al continente americano.

Durante la guerra civile spagnola la necessità di un trattato internazionale si fece più urgente, e nel 1938 venne redatta la convenzione dell’Aia, ma la seconda guerra mondiale ne impedì la ratifica.

La guerra vide il saccheggio e la distruzione da parte dei nazisti di siti in Russia e nell’Europa orientale, il lancio di bombe incendiarie ad opera dell’aviazione militare britannica su Lubecca, città tedesca con costruzioni medievali prevalentemente di legno, e la ritorsione con il cosiddetto blitz Baedeker, in cui si usò la celebre guida turistica per individuare cinque città storiche inglesi da bombardare con l’aviazione tedesca.

Quando nel 1956 entrò in vigore la Convenzione dell’Aia, il timore era che una guerra nucleare potesse causare persino più distruzioni di quelle avvenute in passato.

Durante una conferenza diplomatica tenutasi all’Aia nel 1999 venne adottato un secondo protocollo alla Convenzione che conferiva una tutela maggiore ai beni culturali. Questo protocollo non è stato sottoscritto da Israele.

(traduzione dall’inglese di Stefania Fusero)