Gruppi palestinesi rivali si scontrano durante le proteste contro la morte di un attivista

Al Jazeera e agenzie

27 giugno 2021 – Al Jazeera

Nel quarto giorno di proteste per la morte di Nizar Banat, arrestato dall’Autorità Nazionale Palestinese a Ramallah, sono scoppiati scontri.

Sabato, durante il quarto giorno di proteste per la morte di Nizar Banat, un esplicito oppositore dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), morto mentre era detenuto dall’ANP, gruppi rivali di palestinesi si sono scontrati nella città di Ramallah, nella Cisgiordania occupata.

Nizar Banat, quarantatreenne attivista di Hebron noto per i video sulle reti sociali in cui denunciava la presunta corruzione all’interno dell’ANP, è morto giovedì dopo che le forze di sicurezza hanno fatto irruzione nella sua casa e lo hanno arrestato con l’uso della violenza.

Stefanie Dekker, inviata di Al Jazeera a Ramallah, afferma che domenica sono scoppiati scontri tra manifestanti che chiedevano le dimissioni del presidente dell’ANP Mahmoud Abbas e un gruppo contrario che manifestava a favore dell’ANP e di Fatah, il partito di Abbas che controlla l’Autorità Nazionale Palestinese.

Dekker ha detto: “C’era una piccola folla di circa 100 persone che gridavano slogan contro l’Autorità Nazionale Palestinese.”

C’era un’altra folla che era in fondo alla strada…che era a favore di Fatah, il partito del gruppo dirigente, arrivata per unirsi a loro e poi sono seguiti scontri,” afferma Dekker. Dekker di Al Jazeera sostiene che domenica c’è stata “una campagna concertata” contro i media che informano sulle proteste.

Siamo stati circondati da sei (persone), non posso che chiamarli teppisti, che hanno chiesto di vedere le nostre telecamere. In quel momento non stavamo filmando. Di fatto ci hanno obbligati a smontare il riflettore del nostro camion SMG,” afferma.

A un altro collega e amico sono state spaccate le telecamere. Ciò è successo durante gli ultimi due giorni.”

Nuove proteste contro la morte di Banat hanno avuto luogo domenica anche nella sua città natale di Hebron e a Betlemme, entrambe nella Cisgiordania occupata.

A Betlemme forze di sicurezza palestinesi in tenuta antisommossa hanno sparato lacrimogeni e granate stordenti contro i manifestanti, obbligandone molti a mettersi al riparo.

Il medico legale Samir Abu Zarzour ha affermato che, secondo l’autopsia preliminare, le ferite indicano che Banat è stato picchiato alla testa, al petto, al collo, alle gambe e alle mani, e che è passata meno di un’ora tra il suo arresto e la morte.

La famiglia di Banat ha detto che le forze di sicurezza gli hanno spruzzato uno spray al peperoncino, lo hanno picchiato e trascinato via in auto.

L’ANP ha annunciato l’apertura di un’indagine sulla morte di Banat, ma ha fatto ben poco per placare la rabbia nelle strade.

In seguito alle notizie sulla sua morte giovedì a Ramallah i manifestanti hanno provocato incendi, bloccato le strade del centro città e si sono scontrati con la polizia antisommossa. Venerdì, al funerale di Banat a Hebron e dopo la preghiera del venerdì nella moschea di Al-Aqsa a Gerusalemme, i palestinesi hanno anche scandito slogan contro l’ANP.

Sabato a Ramallah i dimostranti si sono scontrati con forze di sicurezza palestinesi e avversari favorevoli all’ANP, mentre in centinaia hanno cercato di sfilare in corteo fino al complesso degli uffici di Abbas. Banat si era candidato alle elezioni parlamentari palestinesi, che erano previste per maggio finché Abbas non le ha rinviate a tempo indeterminato.

Mkhaimar Abusada, docente associato in scienze politiche all’università Al Azhar di Gaza, ha detto ad Al Jazeera che Abbas e l’ANP, sostenuta dalla comunità internazionale, stanno affrontando una crescente reazione da parte dei palestinesi per la percezione di corruzione e autoritarismo.

Non si erano mai viste queste masse di manifestanti palestinesi che protestano contro l’Autorità Nazionale Palestinese, scandendo slogan direttamente contro il presidente Abbas perché venga rimosso e cacciato [dal potere].”

Una vergogna”

Shawan Jabareen, direttore dell’associazione per i diritti Al Haq, ha affermato che gli scontri di domenica tra gruppi rivali di palestinesi nelle strade sono stati una “vergogna”, soprattutto dopo che a maggio molti palestinesi avevano messo da parte le differenze per unirsi nelle proteste contro i bombardamenti israeliani della Striscia di Gaza durati 11 giorni e contro le espulsioni forzate di palestinesi nella Gerusalemme est occupata.

In questo momento si vedono di nuovo i palestinesi divisi,” ha detto ad Al Jazeera.

Ad essere onesti, sono preoccupato per la gente qui.”

Jabareen ha affermato che molti degli uomini in borghese che domenica hanno aggredito i giornalisti erano membri delle forze di sicurezza.

Non sono civili. Sono membri della sicurezza,” ha detto Jabareen.

Fadi Quran, uno storico attivista di Avaaz [ong che promuove cause ambientali e a favore dei diritti umani, ndtr.], era presente alle proteste di domenica e anche lui afferma che “teppisti” dell’ANP hanno aggredito manifestanti e giornalisti e molestato sessualmente donne che partecipavano al corteo.

Quello che è successo è estremamente pericoloso e doloroso, tutto perché essi temono la mobilitazione popolare contro Mahmoud Abbas e l’ANP, che continuano a collaborare con l’occupazione e a opprimere il popolo palestinese,” ha affermato.

L’ANP si coordina con Israele sulla sicurezza e su questioni civili.

La gente non dovrebbe vedere Israele e l’ANP come entità separate, l’ANP come entità è un subappaltante dell’occupazione,” ha detto Quran.

Nel contempo, ha affermato un iscritto al suo partito, Nasri Abu Jaish, ministro del Lavoro e rappresentante del Partito del Popolo nel governo, domenica ha dato le dimissioni.

Il Partito del Popolo Palestinese, di sinistra, si è ritirato dal governo dell’ANP guidato da Fatah a causa della sua “mancanza di rispetto per le leggi e le libertà pubbliche,” ha affermato Issam Abu Bakr, membro del partito.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Tre giovani donne arabe aggredite da una folla violenta ad Haifa. La polizia ‘guardava e non faceva nulla’

Judith Sudilovsky

| 27 giugno 2021 – Haaretz

Gli agenti sono passati senza fermarsi vicino alle giovani donne, le figlie del console onorario spagnolo nel nord di Israele. Ci sono volute tre telefonate e parecchie ore prima che un’auto della polizia arrivasse sul posto.

La notte del 12 maggio una banda di 30 uomini ha aggredito tre giovani donne e vandalizzato la loro auto di fronte alla loro casa nella German Colony [quartiere costruito nel XIX secolo per accogliere i pellegrini tedeschi in Terra Santa, ndtr.] di Haifa. L’aggressione è avvenuta durante un’ondata di rivolte che nelle città miste è seguita all’attacco missilistico di Hamas contro Israele ed alla controffensiva israeliana nella Striscia di Gaza.

Alcune delle 16 videocamere che la loro famiglia ha installato intorno alla proprietà hanno filmato l’aggressione. Un video del cellulare di un vicino mostra le giovani donne gridare ed affrontare gli uomini che le spintonano, che scagliano sassi contro la loro auto e ne frantumano il parabrezza con dei bastoni.

Le donne – Sama Abunassar, 23, e le sue sorelle Nardine, 20, e Hala, 16 – sono le figlie di Reem e Wadie Abunassar. Wadie è il portavoce dei vescovi cattolici della Terrasanta e console onorario della Spagna nel nord di Israele.

Secondo il resoconto delle sorelle e dei loro vicini, alcuni agenti di polizia dell’unità speciale Yasam [reparto antisommossa, ndtr.] stazionavano a circa 50 metri di distanza lungo la strada, sullo stesso lato della loro casa, ma non sono intervenuti. Un agente ha perfino spinto via Sama, dicendole “vattene da qui” mentre lei lo pregava di aiutarla.

Ero scioccata che stesse accadendo una cosa del genere. Mi aspettavo che qualcuno venisse a difendermi. Non è accorso nessuno, né polizia, né vicini. Eravamo solo le mie sorelle ed io contro 30 uomini,” ricorda Sama, a poco più di un mese dall’aggressione. “Non sapevo cosa fare. Pensavo

Il giorno dopo, la polizia ha preso le riprese delle videocamere di sicurezza della famiglia. Wadie e Nardine hanno riferito alla polizia della notte dell’attacco, ma gli investigatori non hanno raccolto le testimonianze di Sama o Hala.

Nessun sospetto è stato interrogato per aver preso parte all’attacco, che ha anche causato danni ad altre proprietà di arabi lungo la strada.

Il 14 giugno la famiglia Abunassar è stata informata della chiusura del caso per mancanza di prove.

Ma più che mettere in discussione il mancato arresto di qualcuno tra i sospetti aggressori, la famiglia chiede perché gli agenti –che si trovavano a poche decine di metri dal luogo dell’attacco e sono stati testimoni dell’aggressione – non facessero nulla per fermare i facinorosi, permettendo alla violenza di continuare.

Stavo gridando per chiedere aiuto”

Quella stessa mattina circolavano sui social media e di bocca in bocca voci su possibili dimostrazioni in altri quartieri di Haifa, ma non si faceva menzione della German Colony, situata sotto i giardini Baha’i e normalmente frequentata dai turisti per i suoi bar e ristoranti alla moda.

Verso le nove di sera Sama stava tornando a casa dal lavoro all’ Haifa Mall, quando un reparto di agenti di polizia della Yasam l’ha fermata a pochi metri dalla propria casa. Lei ha chiesto il permesso di percorrere la breve distanza fino a casa. L’hanno lasciata passare ed ha parcheggiato nello spazio privato di fronte alla sua abitazione, interrompendo per un momento la chiacchierata in arabo con un vicino, che stava fuori [di casa].

Apparentemente dal nulla, una ressa si è formata intorno a loro; gli uomini provenivano dalla parte orientale della strada, proprio dove si trovava un altro gruppo di agenti di polizia, e alcuni portavano il viso coperto da magliette, altri imbracciavano bandiere d’Israele o ne erano avvolti, molti avevano il volto in piena vista. Gli agenti non hanno impedito loro di invadere la strada.

Il vicino è sparito in casa propria e Sama è stata lasciata sola mentre il gruppo di persone violente l’ha circondata ed ha iniziato a inveire contro di lei, scandendo “Morte agli Arabi” e giurando di non lasciare nemmeno un arabo in città. Hanno spinto Sama ed hanno colpito la sua macchina nuova con bastoni e pietre, frantumando il parabrezza e rompendo le maniglie delle portiere. Quando hanno finito la scorta delle proprie pietre, si sono muniti di sassi trovati nel giardino di famiglia e li hanno gettati contro la macchina, racconta Sama.

Ho chiesto ancora e ancora perché stessero facendo questo. Cosa volevano ottenere in quel modo? Qualcuno mi ha presa e spintonata, ha detto che non sarebbero rimasti più arabi e mi ha spruzzato addosso uno spray urticante. Mi sono coperta il volto con le braccia e il mio braccio ne è rimasto ustionato,” dice Sama. “Hanno usato le aste delle bandiere per spaccare il parabrezza.”

Alle grida di Sama, le sue due sorelle sono accorse fuori dalla casa e l’hanno vista circondata dalla folla violenta.

Terrorizzata, Nardine ha chiamato i suoi genitori, che avevano portato in viaggio verso Tiberiade la sorella minore Eman, di tredici anni, e un amico, poco prima della festa cattolica dell’Ascensione del 13 maggio, la prima uscita serale dopo i lunghi lockdown e le restrizioni causate dal coronavirus.

Ho gridato ai miei genitori di tornare a proteggerci perché non c’era nessun’altro a farlo, né i nostri vicini, né la nostra famiglia, né la polizia.,” dice Nardine. “Ricordo che uno fascinoroso mi ha insultata con un sacco di parolacce volgari e pesanti.”

 È troppo imbarazzante ripetere gli insulti.

Abbiamo preso un aereo verso casa, dovevamo tornare,” afferma Reem. A circa 65 kilometri di distanza, a Tiberiade, lei aveva già visto l’inizio dell’attacco, mentre controllava le telecamere di sorveglianza tramite un’app sul suo cellulare. Dopo due rapine senza arresti in casa propria, ha preso l’abitudine di controllarle regolarmente. “Ho visto le persone arrivare e non ho smesso di urlare a Wadie che dovevamo assolutamente rincasare,” racconta.

Wadie ha immediatamente chiamato il dipartimento di polizia di Haifa e chiesto che mandassero una pattuglia a proteggere le sue figlie. Hanno chiamato altre due volte precipitandosi verso casa, chiedendo che mandassero un’auto, ma inutilmente. Non ne è stata mandata nessuna prima che gli Abunassar arrivassero a casa loro. Solo circa tre ore dopo, intorno all’una di notte, si è presentata una pattuglia.

Ho visto la polizia stare da entrambi i lati [della strada] e non fare niente,” afferma Hala, raccontando l’aggressione. “Ho visto vari uomini gridare ‘Morte agli Arabi’, circondando mia sorella. Volevo aiutarla. Avevo paura che mia sorella morisse. Sono davvero furiosa con la polizia. Stavo urlando per ricevere aiuto”

Nemmeno un sospettato

Durante l’intervista, Hala è stata forte, dicendo di non essere spaventata, ma Reem confida che ora sua figlia non dorme bene e non è riuscita a svegliarsi in tempo per le ultime lezioni dell’anno. Nessuno dorme molto bene, ammette, e lei e le sue figlie cominceranno presto una terapia per il trauma subito. Reem stessa si rifiuta di andare fuori casa durante la notte, per paura di non essere lì nel caso le sue figlie avessero bisogno di lei. Sa di essere diventata troppo protettiva quando loro escono, le chiama e scrive loro messaggini in continuazione, dice.

Laila Sharif, 57 anni, una vicina sedeva con ospiti nel suo giardino, festeggiando l’Eid al-Fitr [festa della fine del Ramadan, ndtr.], quando ha sentito le donne gridare. Lei, il suo figlio diciassettenne Adam e sua nipote sono usciti per provare ad aiutare le sorelle.

Ho sentito le voci delle ragazze urlare. Le conosco. Siamo vicine. Non volevo lasciarle sole. Ho pensato di poter essere in grado di aiutare,” dice Sharif, un’insegnante di chimica delle superiori.

Ma la folla violenta l’ha spinta indietro e ha distrutto l’entrata della sua casa. Un uomo ha estratto una pistola dalla tasca e le ha intimato di rincasare. Afferma che hanno spruzzato contro suo figlio e sua nipote uno spray urticante, poi hanno cominciato a rincorrerla, ma lei è riuscita a scappare nel giardino sul retro attraverso un passaggio nascosto. Quando la maggior parte degli uomini se n’era andata, è uscita di nuovo fuori.

[Nei pressi] c’era la polizia e … non ha fatto un bel niente, Ho la sensazione che li stesse proteggendo [i rivoltosi],” dice Sharif.

Quando è riuscita a raggiungere le sorelle Abunassar, loro erano già collassate a terra, sul ciglio della strada, e piangevano istericamente.

È stato difficile per le ragazze. Erano in stato di shock. Stavano in strada a piangere e urlare. La minore, Hala, … non smetteva di gridare. Era isterica. Sono stata là con loro finché non sono arrivati i genitori,” afferma Sharif.

Sharif ha anche presentato una denuncia alla polizia sull’aggressione, ma non ha ricevuto alcun riscontro.

Descrive un uomo armato di fucile, sulla trentina, poco più alto di lei, con la pelle chiara e i capelli castani coperti da una kippah [zuccotto usato dagli ebrei osservanti, ndtr.]. “Se mi mostrassero una foto, sarei in grado di identificarlo,” dice. “Da allora non mi sento più al sicuro, Ad Haifa non ci sono scontri tra arabi ed ebrei. Bus di rivoltosi sono arrivati in autobus da tutto il Paese.”

Degli agenti di polizia le hanno sorpassate senza soccorrerle senza nemmeno fermarsi a verificare se le sorelle fossero ferite, sostiene Sama. I vicini hanno iniziato a scendere alla spicciolata in strada e qualcuno ha prestato un primo soccorso a Nardine, che aveva una gamba sanguinante.

Quando Wadie e Reem sono arrivati hanno trovato le loro figlie sul ciglio della strada, sconvolte, e qualche vicino attorno a loro. Tuttavia né la polizia né un’ambulanza erano sul posto. Le donne sono finalmente state portate al Rambam Health Care Campus per ulteriori cure, trasportate da un ex-vicino, un autista di ambulanza ebreo che per caso passava lì vicino di ritorno a casa da lavoro.

Non ci immaginavamo che ci fosse da preoccuparsi e credevamo che la polizia sarebbe stata in giro e capace di impedire che succedesse qualunque incidente,” dice Wadie. “Abbiamo voluto credere che le cose fossero sotto controllo. Ho voluto credere che niente sarebbe successo perché le autorità avrebbero svolto il loro lavoro. Conosciamo Haifa come una città tollerante.”

Wadie si aspettava che la pattuglia già appostata nei dintorni della sua casa sarebbe accorsa in aiuto delle sue figlie, così come la polizia era stata in grado di entrare ad Umm al-Fahm e soccorrere una famiglia ebrea, che era entrata per sbaglio nella città araba il giorno dopo gli attacchi alle sue figlie, afferma.

Avevo visto come la polizia aveva reagito contro i rivoltosi arabi la notte precedente,” aggiunge. “Perché tra le decine di aggressori la polizia non è riuscita a trovare neppure una persona?”

La famiglia ha presentato un esposto contro la polizia per il mancato intervento durante l’aggressione e inoltre si è opposta alla decisione di chiudere il caso.

Con tutta la tecnologia a disposizione della polizia e delle forze di sicurezza, con tutte le registrazioni video prese dalle telecamere degli Abunassar, sembra che la polizia non abbia mosso un dito per identificare gli aggressori, afferma l’avvocato della famiglia, Hani Khoury.

Supponiamo pure che quella notte ci fosse una grande quantità di eventi e forte tensione, lo comprendiamo,” sostiene Khoury. “Non c’è comunque alcuna giustificazione per il loro mancato intervento, dato che stazionavano a 50 metri dalla casa, e che la risposta alla richiesta di aiuto delle figlie sia stata: ‘Andatevene di qui’.”

Nonostante il trauma rispetto all’accaduto, nonostante la delusione per come la polizia ha gestito la situazione, loro continuano a credere nella buona volontà della gente e nella tolleranza e coesistenza tipici di Haifa, afferma Wadie. Sanno che ci sono delinquenti ovunque nel mondo e in ogni società, dice. Si aspettano solo che la polizia sia lì per proteggere le persone dalla violenza degli estremisti.

Non abbiamo un altro Paese a cui siamo legati,” dice Reem. “Amo questo e desidero vivere qui, in pace.”

In risposta all’inchiesta su questo caso, la polizia ha dichiarato: “In seguito all’acquisizione dei reclami rispetto al caso è stata aperta e condotta in maniera equa ed imparziale un’indagine ufficiale, a prescindere dalle identità dei sospetti o delle vittime; l’indagine è stata condotta in maniera professionale ed approfondita, con lo scopo di ricostruire la verità e rendere giustizia alle parti coinvolte. Come parte dell’inchiesta ufficiale, è stata presa in considerazione una serie di iniziative, come la raccolta di prove, la visione dei video di sicurezza ed altro. Nonostante gli sforzi investigativi e l’espletamento di tutte le azioni richieste, nessun sospetto è stato identificato in flagranza. Se riceveremo altri dettagli dalla polizia o emergeranno altre notizie, che potrebbero portare a sviluppi nell’indagine, queste saranno controllate come da procedura.”

(traduzione dall’inglese di Andriano Parrotta)




I tormenti di un medico

Hanan Abukmail

28 giugno 2021 – We Are Not Numbers

Sono passate settimane dalla fine della quarta guerra di Israele contro Gaza. E anche se il mondo è andato avanti, qui a Gaza siamo rimasti a raccogliere i cocci. Ed io? Mi ritrovo a mettere in discussione la mia decisione di fare il medico. Forse è sufficiente leggere una sezione del mio diario per capire perché.

In questi giorni il mio ospedale è pervaso dall’odore del sangue e della morte. Come descriverlo, se non siete mai stati in sua presenza? L’odore è paragonabile al fumo, mi penetra le cellule senza permesso, mi fa sentire debole e nauseata. A volte sono costretta a fuggire in un’altra stanza prima di poter fare ritorno.

Mi rivedo nel 2014, quando ho iniziato il percorso per diventare medico. Quello che è stato il più lungo attacco militare di Israele fu devastante, ma mi ispirò a inseguire il mio sogno d’infanzia di diventare un angelo bianco.

Ed ora eccomi qui sette anni dopo, medico sopravvissuto ad un altro brutale attacco israeliano, a farmi le seguenti domande. Per quanto tempo ancora il mio cuore potrà sopportare di essere testimone dell’uccisione di tutte queste vite? Perché sono nata in questo Paese? Perché ho scelto questa professione?

L’inimmaginabile si ripete

Lo scorso 15 maggio, in piena notte, l’aviazione di Israele ha attaccato un edificio residenziale di proprietà della famiglia di Abu Hatab. L’unico sopravvissuto al genocidio di un’intera famiglia è un bambino di cinque mesi.

Il giorno dopo questa distruzione è iniziata la peggiore notte di bombardamenti. Shimaa’ Abu Alaouf, studentessa ventunenne al terzo anno di odontoiatria, è stata uccisa. Avrebbe dovuto sposarsi il mese dopo con l’uomo che amava, Anas. Probabilmente sognava il giorno della sua festa di laurea, il lavoro di dentista, dei bimbi da crescere in una casa sua. Ma invece la futura sposa, insieme con il suo amore e le sue passioni, è finita sepolta dagli attacchi aerei israeliani che ne hanno distrutto la casa.

I nostri ospedali sono sommersi dall’ingente numero di vittime. L’ospedale di Al-Shifa, che è quello centrale nella Striscia di Gaza, ha una capacità di 250 posti letto soltanto. Tuttavia negli ultimi giorni questa capacità è stata di gran lunga superata. Registriamo una grave carenza nella banca del sangue centrale. Non abbiamo abbastanza posti letto, non abbiamo abbastanza sangue.

Il mio negozio di fiori preferito in via Al-Wehda è stato bombardato. Compravo qui ogni fiore da regalare ai miei cari e lo accompagnavo ad un biglietto che diceva: “Abbi cura di te, caro/a.” Ci andavo spesso, non fosse altro per guardare i fiori. Ora non ci sono fiori da vedere né fiori da regalare né messaggi di affetto da mandare.

Più di dieci famiglie sono state cancellate dal registro dell’anagrafe. Ripeto: oltre dieci intere famiglie non ci sono più.

Prima mi addormentavo presto e non vedevo l’ora di andare al lavoro. Mi imponevo di cancellare i miei pensieri e di aprire il cuore ad ogni passo che facevo. Respirando a pieni polmoni nella luce del mattino, al mio arrivo in ospedale mi sentivo allegra, rinnovata e pronta ad iniziare la giornata.

Ma adesso il rumore del mio pianto è più forte del suono dei razzi che cadono sulla testa del mio popolo.

La paura per i sopravvissuti

Ore dopo, guardo e aspetto mentre le persone vengono estratte dalle macerie. I vivi e i morti aspettano di essere trovati.

La maggior parte delle persone che curo in ospedale quasi non riescono a credere di essere vive. I loro visi sono affranti e sconvolti. Ho paura per i miei pazienti. Ho paura per i superstiti trovati fra le macerie. Ho paura per le loro famiglie. I danni mentali che derivano dal trauma di essere letteralmente sepolti prima di essere alla fine salvati sono enormi: battito cardiaco accelerato, inalazione di polvere e tossine, lacerazioni alla pelle causate dalle schegge e la persistente paura di essere intrappolati senza venire mai trovati. Alcuni dei superstiti si dissanguano lentamente e muoiono a pochi minuti dalla rianimazione. Come affronteranno la situazione i familiari che li stavano aspettando?

Per noi che viviamo sotto l’occupazione di Israele e sotto la minaccia di venire bombardati in qualsiasi momento, il tempo che intercorre fra la vita e la morte è solo questione di minuti.

In continuazione Israele viola i nostri diritti umani e le convenzioni internazionali prendendo di mira civili disarmati e presidi sanitari. Sappiamo che la guerra ritornerà, se non l’anno prossimo, quello successivo o quello ancora dopo. Ho paura e faccio tutto ciò che posso per sopravvivere e servire il mio popolo.

Tuttavia, al di là della mia paura, abbiamo visto e toccato con mano la solidarietà e la speranza da parte di una comunità internazionale di attivisti e altri sostenitori. Questo ci dà la speranza che ci serve per andare avanti e continuare a lottare.

 (traduzione dall’inglese di Stefania Fusero)




La polizia israeliana ha preso di mira i palestinesi con arresti discriminatori, torture e uso illegale della forza

Amnesty International

24 giugno 2021

  • Arresti a tappeto contro attivisti palestinesi

  • Uso illegale della forza contro manifestanti palestinesi

  • Tortura nei confronti di detenuti palestinesi

  • Mancata protezione dei palestinesi da attacchi pianificati da parte di gruppi di suprematisti ebrei

Amnesty International oggi ha riferito che la polizia israeliana ha commesso in Israele e nella Gerusalemme est occupata una serie di reati nei confronti dei palestinesi conducendo, durante e dopo gli scontri in Israele e Gaza, una campagna repressiva discriminatoria attraverso arresti di massa, l’uso illegale della forza contro manifestanti pacifici e la pratica di torture e altri maltrattamenti nei confronti dei detenuti.

Inoltre la polizia israeliana ha omesso di proteggere i cittadini palestinesi di Israele da attacchi premeditati da parte di gruppi di suprematisti ebrei armati, anche quando le loro intenzioni sono state rese note in anticipo e la polizia ne era o avrebbe dovuto esserne a conoscenza.

“Le prove raccolte da Amnesty International dipingono un quadro accusatorio di discriminazione e uso eccessivo e spietato della forza da parte della polizia israeliana contro i palestinesi in Israele e nella Gerusalemme est occupata”, ha affermato Saleh Higazi, vicedirettore per il Medio Oriente e il Nord Africa di Amnesty International.

La polizia ha l’obbligo di proteggere tutte le persone sotto il controllo di Israele, siano esse ebree o palestinesi. Invece, la stragrande maggioranza degli arrestati durante la repressione della polizia che ha fatto seguito allo scoppio delle violenze tra comunità è palestinese. I pochi cittadini ebrei di Israele arrestati sono stati trattati con più indulgenza. Inoltre mentre i palestinesi subiscono la repressione, i suprematisti ebrei continuano a organizzare manifestazioni”.

I ricercatori di Amnesty International hanno parlato con 11 testimoni e il suo Crisis Evidence Lab [laboratorio delle prove durante le situazioni di crisi, ndtr.] ha esaminato 45 video e altri contenuti digitali per documentare più di 20 casi di violazioni da parte della polizia israeliana tra il 9 maggio e il 12 giugno 2021. Nel corso della repressione sono stati feriti centinaia di palestinesi e un ragazzo di 17 anni è stato ucciso.

Repressione discriminatoria

Dal 10 maggio, quando le manifestazioni si sono diffuse all’interno di Israele nelle città con popolazione palestinese, sono scoppiate delle violenze tra comunità. Decine di persone sono rimaste ferite e due cittadini ebrei di Israele e un cittadino palestinese sono stati uccisi. Sinagoghe e cimiteri musulmani sono stati vandalizzati. Il 13 maggio ad Haifa 90 auto di proprietà di palestinesi sono state distrutte e sono stati lanciati sassi contro le loro case. A Gerusalemme est i coloni israeliani hanno continuato a vessare con violenza gli abitanti palestinesi.

In risposta, il 24 maggio le autorità israeliane hanno lanciato l’operazione “Legge e ordine” principalmente contro i manifestanti palestinesi. I media israeliani hanno affermato che l’operazione mirava a “regolare i conti” con coloro che avevano partecipato alle manifestazioni e a “dissuaderli” dal continuare a farlo.

Secondo Mossawa, organizzazione palestinese a sostegno dei diritti umani, sino al 10 giugno la polizia ha arrestato più di 2.150 persone, oltre il 90% delle quali cittadini palestinesi di Israele o abitanti di Gerusalemme est. L’associazione ha anche affermato che sono state presentate 184 accuse contro 285 imputati. Secondo Adalah, un’altra organizzazione per i diritti umani, il 27 maggio un rappresentante della Procura di Stato ha dichiarato che tra gli indagati figuravano solo 30 cittadini ebrei di Israele.

Secondo la commissione di controllo per i cittadini arabi di Israele la maggior parte dei palestinesi è stata arrestata per reati come “insulto o aggressione a un agente di polizia” o “partecipazione a un raduno illegale” più che per violenze contro persone o proprietà.

“Questa repressione discriminatoria è stata orchestrata come atto di ritorsione e intimidazione per reprimere le manifestazioni pro-palestinesi e mettere a tacere coloro che fanno sentire la loro voce per condannare la discriminazione istituzionalizzata da parte di Israele e l’oppressione sistemica dei palestinesi”, ha affermato Saleh Higazi.

Uso illegale della forza contro i dimostranti

Amnesty International ha documentato l’uso eccessivo e non necessario della forza da parte della polizia israeliana per disperdere le proteste palestinesi contro gli sgomberi forzati a Gerusalemme est e contro l’offensiva a Gaza. Le proteste sono state per lo più pacifiche, anche se una minoranza ha attaccato beni della polizia e lanciato pietre. Al contrario, i suprematisti ebrei continuano impunemente a organizzare manifestazioni. Il 15 giugno migliaia di coloni ebrei e suprematisti hanno marciato provocatoriamente nei quartieri palestinesi di Gerusalemme est.

Le testimonianze e i video analizzati confermano che durante una protesta del 9 maggio nella Colonia Tedesca di Haifa [quartiere storico costruito nel 1869 come insediamento di una setta protestante proveniente dalla Germania, ndtr.], nel nord di Israele, un gruppo di circa 50 manifestanti stava protestando pacificamente quando la polizia armata, senza nessuna provocazione, li ha assaliti picchiando alcuni di loro.

Il 12 maggio Muhammad Mahmoud Kiwan, un ragazzo di 17 anni, è stato colpito da uno sparo alla testa vicino a Umm el-Fahem, nel nord di Israele, ed è morto una settimana dopo. Testimoni oculari hanno detto che era seduto in un’auto nei pressi di una manifestazione quando la polizia israeliana gli ha sparato. La polizia ha contestato l’accusa e ha sostenuto di aver avviato delle indagini.

Lo stesso giorno, agenti di polizia hanno disperso con la violenza e senza preavviso una protesta pacifica di circa 40 persone nella piazza del Pozzo di Santa Maria a Nazareth, nel nord di Israele, aggredendo fisicamente i manifestanti.

La polizia israeliana dovrebbe proteggere il diritto alla libertà di riunione, non assalire manifestanti pacifici. La Commissione d’inchiesta del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, istituita nel maggio 2021, deve indagare sull’allarmante sequenza di violazioni da parte della polizia israeliana”, ha affermato Saleh Higazi.

La polizia israeliana ha fatto un uso illegale della forza anche nella Gerusalemme est occupata. Il 18 maggio ha sparato alla schiena alla quindicenne Jana Kiswani mentre stava entrando nella sua casa a Sheikh Jarrah. Poche ore prima c’era stata una protesta davanti. Suo padre, Muhammad, ha detto ad Amnesty International che le sue vertebre sono state fratturate e che i medici non sanno se riprenderà a camminare. Le riprese video verificate mostrano Jana Kiswani che cade a terra mentre viene colpita alle spalle da uno sparo. Altre immagini prese in esame mostrano un agente di polizia israeliano che spara con freddezza con un lanciagranate IWI GL 40 Stand Alone verso una persona fuori dallo schermo, e subito dopo delle urla.

Violenze, torture e altri maltrattamenti della polizia

Il 12 maggio a Giaffa, a sud di Tel Aviv, Ibrahim Souri è stato colpito al volto da uno sparo da parte di agenti di polizia israeliani mentre dal balcone della sua casa filmava con il suo telefono cellulare la polizia mentre pattugliava la strada.

In un video verificato si sente uno degli agenti di polizia dire: “Cosa ha in mano?” Ibrahim Souri grida in risposta: Sto filmando, non è permesso? Spara, è tutto registrato”. In seguito ha detto ad Amnesty International: Non immaginavo che avrebbero sparato davvero. Pensavo di avere dei diritti e di trovarmi al sicuro in un Paese democratico”. Le fotografie esaminate dal patologo forense di Amnesty International e dai referti medici indicano che molto probabilmente è stato colpito da un KIP 40 mm, con conseguente frattura delle ossa facciali.

Amnesty International ha anche documentato le torture del 12 maggio nella stazione di polizia del Russian Compound (Moskobiya) [complesso di costruzioni edificate nei primi anni del 1900 per ospitare i pellegrini russi, ndtr.] a Nazareth. Un testimone oculare ha detto di aver visto forze speciali picchiare un gruppo di almeno otto detenuti legati che erano stati arrestati durante una protesta:

Era come un brutale campo di prigionieri di guerra. Gli ufficiali colpivano i giovani con manici di scopa e li prendevano a calci con stivali con rinforzo d’acciaio. Quattro di loro hanno dovuto essere portati via in ambulanza e uno aveva un braccio rotto”, ha riferito.

L’avvocato di Ziyad Taha, un altro manifestante rinchiuso il 14 maggio nel centro di detenzione di Kishon vicino ad Haifa, ha affermato che il suo cliente è stato legato per i polsi e le caviglie a una sedia e sottoposto per nove giorni a deprivazione del sonno.

Mancata protezione dei palestinesi dagli attacchi dei suprematisti ebraici

La polizia ha anche omesso di proteggere i palestinesi dagli attacchi organizzati da gruppi di suprematisti ebrei armati, le cui intenzioni erano state spesso rese note in anticipo.

Amnesty International ha verificato 29 messaggi di testo e audio provenienti da canali aperti di Telegram e WhatsApp, rivelando come le app siano state utilizzate per reclutare uomini armati e organizzare tra il 10 e 21 maggio aggressioni contro palestinesi in città con popolazioni ebraiche e arabe, come Haifa, Acri, Nazareth e Lod.

Tra i messaggi vi erano istruzioni su dove e quando riunirsi, il tipo di armi da usare e persino gli abiti da indossare per evitare di confondere gli ebrei di origine mediorientale con gli arabi palestinesi. I membri del gruppo hanno condiviso selfie in posa con pistole e messaggi come: “Stasera non siamo ebrei, siamo nazisti”.

Il 12 maggio centinaia di suprematisti ebrei si sono riuniti sul lungomare di Bat Yam [Bat Yam è una città situata nella parte centrale della fascia costiera, ndtr], nel centro di Israele, in risposta ai messaggi ricevuti dal partito politico Jewish Power [Potere Ebraico, di estrema destra, ndtr.] e da altri gruppi. I video esaminati mostrano decine di attivisti che attaccano gli esercizi commerciali di proprietà araba e incoraggiano gli aggressori. Una delle persone picchiate, Said Musa, è stato anche investito dagli aggressori ebrei con uno scooter. Sono solo sei gli israeliani sotto processo per l’attacco.

Anche politici e funzionari governativi hanno istigato alla violenza.

L’11 maggio sono scoppiati disordini dopo che Itamar Ben-Gvir, rappresentante parlamentare del partito Jewish Power, ha chiamato a raccolta i sostenitori perché si recassero a Lod e in altre città e ha incitato a sparare contro i lanciatori di pietre.

Il giorno prima, Musa Hassuna è stato ucciso da un cittadino ebreo di Israele a Lod durante violenze tra comunità. Un video lo mostra quando è stato colpito da uno sparo mentre si trova vicino a un gruppo di palestinesi che lanciano sassi. Suo padre ha accusato il sindaco della città, Yair Revivo, di “aver chiamato gli estremisti per compiere questo crimine brutale” in riferimento a una dichiarazione in cui il sindaco ha descritto gli eventi di Lod come un pogrom contro gli ebrei. Quattro sospetti, arrestati in seguito all’omicidio, sono stati tuttavia rilasciati su cauzione tre giorni dopo. Il ministro israeliano della Pubblica Sicurezza, Amir Ohana, ha condannato apertamente gli arresti, definendoli terribili”.

A titolo di esempio della discriminazione, Kamal al-Khatib, vice segretario del Movimento islamico del nord, è stato arrestato il 14 maggio con l’accusa di incitamento alla violenza e sostegno a un’organizzazione terroristica per i commenti pubblici in cui ha manifestato orgoglio per la solidarietà con la popolazione di Gaza e Gerusalemme Est e ha affermato che i cambiamenti allo status dei luoghi santi di Gerusalemme hanno portato alla violenza tra palestinesi ed ebrei.

Le ripetute omissioni da parte della polizia israeliana di esercitare la protezione dei palestinesi dagli attacchi organizzati da gruppi di suprematisti ebrei armati e la mancata assunzione di responsabilità per tali aggressioni sono vergognose e mostrano il disprezzo delle autorità per la vita palestinese”, Molly Malekar, direttrice di Amnesty Israel.

“Il fatto che ai cittadini ebrei di Israele, comprese figure preminenti, sia stato permesso di istigare apertamente alla violenza contro i palestinesi senza doverne rispondere evidenzia l’entità della discriminazione istituzionalizzata che affligge i palestinesi e l’urgente bisogno di protezione [nei loro confronti]”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




In migliaia manifestano in Cisgiordania dopo la morte di un dissidente in custodia dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Amira Hass, Jack Khoury

24 giugno 2021 – Haaretz

Un palestinese, critico implacabile dell’Autorità Nazionale Palestinese e dei suoi leader, è morto giovedì mattina dopo essere stato arrestato nella sua casa prima dell’alba dalle forze di sicurezza palestinesi. Migliaia di persone sono scese in strada per protestare nelle aree di Hebron e Ramallah.

La famiglia di Nizar Banat, originario della città di Dura, nel sud della Cisgiordania, sostiene che egli è stato picchiato duramente dalle forze di sicurezza palestinesi durante il suo arresto. Nella prima mattinata di giovedì sono emerse voci secondo cui sarebbe stato trasferito in un ospedale e poco dopo l’ufficio distrettuale di Hebron ha annunciato la morte di Banat. Sui social media palestinesi viene dichiarato uno “shahid”, o martire.

I manifestanti a Hebron e Ramallah accusano l’Autorità Nazionale Palestinese di aver commesso un omicidio politico, mentre alcuni gruppi si sono scontrati con la polizia palestinese a Ramallah. I manifestanti hanno anche chiesto che il presidente Abbas e l’Autorità Nazionale Palestinese siano deposti.

Banat, un ex membro del movimento Fatah, è stato più volte arrestato dall’Autorità Nazionale Palestinese per le sue aspre critiche alla leadership nei post e nei video di Facebook. Ha accusato i leader dell’ANP di corruzione e anche di aver tratto vantaggi dall’abbandono degli interessi nazionali palestinesi in cambio di benefici personali e ricchezza.

I gruppi per i diritti umani e la famiglia di Banat hanno dichiarato che l’autopsia ha mostrato che egli è deceduto soffocato dal sangue nei polmoni dopo essere stato picchiato dalle forze di sicurezza. Uno dei medici che hanno preso parte all’autopsia ha anche rivelato che Banat ha subito lesioni a tutte le parti del corpo, comprese testa, braccia e gambe. Il medico ha detto che le circostanze sollevano il forte sospetto di comportamenti criminali

Il primo ministro Mohammad Shtayyeh ha annunciato che l’Autorità Nazionale Palestinese avvierà una commissione d’inchiesta sulle circostanze della morte di Banat, ma a Hebron e nell’area di Ramallah si continua a manifestare. I commenti che circolano sui social media paragonano Banat al dissidente saudita Jamal Khashoggi, ucciso nel 2018 in Turchia nel consolato dell’Arabia saudita.

Da parte sua, Hamas ha risposto all’incidente incoraggiando la partecipazione di massa ai funerali di Banat e invitando i palestinesi a “cambiare le condizioni pericolose volute dall’Autorità Nazionale Palestinese e dal coordinamento della sicurezza in Cisgiordania”.

Secondo gli attivisti palestinesi, la casa di Banat si trova nell’area della città di Hebron che è sotto il controllo di sicurezza israeliano, quindi le forze palestinesi devono ricevere il permesso da Israele per entrare nell’area ed eseguire gli arresti.

Banat aveva anche contestato ferocemente Mohammed Dahlan – un rivale del presidente palestinese Mahmoud Abbas – e i suoi sostenitori, molti dei quali sono ex membri dell’establishment della sicurezza palestinese.

Uno degli ultimi video che ha pubblicato su Facebook riguardava l’accordo sui vaccini Israele-ANP, secondo il quale Israele avrebbe dovuto fornire ai palestinesi vaccini Pfizer contro il coronavirus vicini alla scadenza in cambio di nuove dosi che Pfizer invierà a Israele il prossimo anno. Molti cittadini palestinesi, che sono già fortemente scettici nei confronti dei vaccini, erano convinti che l’ANP stesse intenzionalmente nascondendo i dettagli dell’accordo.

Banat ha affermato nel suo video che se dei palestinesi fossero morti per aver ricevuto dosi di vaccino scadute, Israele sarebbe stato accusato di sterminio di massa – “un’accusa che non avrebbe potuto tollerare”, motivo per cui l’accordo è stato fatto trapelare.

Banat era un membro del partito Liberazione e Dignità e prevedeva di candidarsi alle elezioni parlamentari palestinesi, originariamente previste per il 22 maggio, ma annullate da Abbas.

Gli attivisti palestinesi che criticano l’ANP riferiscono che i suoi apparati di sicurezza stanno esercitando pressioni crescenti contro di loro nel tentativo di metterli a tacere e che nelle scorse settimane molti sono stati arrestati o convocati per essere diffidati. All’inizio di questa settimana anche Issa Amro, un attivista residente a Hebron, è stato arrestato dall’Autorità Nazionale Palestinese dopo aver scritto un post critico sui social media; è stato rilasciato il giorno successivo.

La commissione d’inchiesta annunciata dall’Autorità Nazionale Palestinese sarà guidata dal ministro della Giustizia Mohammed al-Shalaldeh, insieme a una personalità indipendente che si occupa a livello professionale di diritti umani, a un medico in rappresentanza della famiglia e a un membro dell’intelligence palestinese. Il primo ministro Shtayyeh ha affermato che la commmissione d’inchiesta avrà accesso ai reperti autoptici, alle testimonianze della famiglia e di altre parti interessate e a tutte le informazioni rilevanti.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Diventa virale il cortometraggio su Sheikh Jarrah girato da un regista palestinese

Aziza Nofal

22 giugno 2021 – Al Monitor

Il giovane regista palestinese Omar Rammal continua a raccogliere commenti positivi per “The Place,” [Il Posto], il corto che ha prodotto e postato sui social durante i recenti eventi nel quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme.

RAMALLAH, Cisgiordania — Il 15 maggio, quando il regista palestinese Omar Rammal, 23 anni, ha postato il corto “The Place,” [Il posto] sul suo canale YouTube, non si aspettava che diventasse virale. “Credevo che avrebbe ricevuto vari apprezzamenti, ma non così tanti,” ha detto Rammal ad Al-Monitor.

Il video apparso il 15 maggio sul suo account Instagram ha totalizzato più di 6 milioni di visualizzazioni e parecchi altri canali l’hanno condiviso. Rammal l’ha postato senza copyright in modo che fosse disponibile a chiunque volesse ripostarlo, per fare conoscere in tutto il mondo la realtà della Palestina, e di Sheikh Jarrah in particolare.

In “The Place”, che dura solo un minuto e mezzo, Rammal sintetizza l’espulsione di 28 famiglie palestinesi nel quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme Est, dove gruppi di coloni israeliani stanno tentando di espandersi.

Rammal ha deciso deliberatamente di postare il suo video proprio il giorno dell’anniversario della Nakba [la Catastrofe, la pulizia etnica operata dai sionisti nel ’47-’48, ndtr.] per dire che il furto delle case palestinesi continua da allora e che il quartiere di Sheikh Jarrah non sarà l’ultimo, perché ogni “posto” in Palestina è preso di mira in vista della continua occupazione.

Nel suo film si concentra sulla storia di una famiglia palestinese che parla della propria casa: c’è la mamma che dice che la sua cucina è “condita con amore”, la ragazzina che ama la sua cameretta e i suoi giocattoli, il ragazzo che rappresenta i giovani palestinesi e il padre che l’ha ereditata insieme a un albero nel giardino piantato dal nonno, la cosa che ama di più della casa.

Alle spalle di queste immagini “normali”, si vedono i coloni che stanno portando via i ricordi della famiglia a cui stanno rubando la casa.

Rammal ha voluto mettere i sottotitoli in inglese con un commento semplice alla fine che riassumesse il messaggio del film: “Il posto siamo noi … la nostra esistenza … i nostri ricordi e il nostro futuro.”

Quando a Rammal è venuta l’idea per “The Place,” ne ha parlato con il suo amico sceneggiatore Suleiman Tadros che l’ha aiutato a trasformarla in un copione. Il produttore Abdel Rahman Abu Jaafar e l’intera troupe, inclusi gli attori, sono tutti volontari che hanno contribuito, ognuno nel proprio ruolo, per sostenere la lotta palestinese.

Le riprese sono durate tre giorni, ma Rammal non ha pensato che il film fosse abbastanza potente fino a quando non hanno girato la scena della mamma, interpretata dall’attrice giordana Hind Hamed. “Riguardandola dopo le riprese mi sono venuti i brividi. È stato in quel momento che mi sono detto che avrebbe avuto un enorme impatto,” ha concluso Said.

Rammal crede che, oltre ad aver postato il film sui social in un momento in cui il mondo stava mostrando grande solidarietà alla causa palestinese e al quartiere di Sheikh Jarrah, il segreto del suo successo stia nel modo in cui ne ha trasmesso il messaggio umanitario.

Rammal osserva che il cinema palestinese e arabo, nonostante la carenza di risorse, se usato in modo intelligente e sensibile, può comunicare i temi palestinesi in tutto il mondo.

Lui paragona il successo di “The Place” a quello del suo primo film del 2019, “Hajez” (“Checkpoint”), che parla delle sofferenze quotidiane dei palestinesi ai checkpoint israeliani. Sebbene entrambi illustrino una realtà palestinese, il primo non era stato accolto molto bene a causa dell’esplicito messaggio politico.

Il successo di questo film pone Rammal davanti a una scelta: lui non vuole essere visto come un regista palestinese che fa solo vedere la lotta palestinese, dato che invece crede che si debba mostrare l’altro lato della vita dei palestinesi che non è diversa da quella di qualsiasi altra persona in qualunque altro posto. “È vero che la vita dei palestinesi è complicata dall’occupazione, ma noi viviamo la nostra quotidianità come chiunque altro.”

Lui sostiene che i registi palestinesi non dovrebbero solo presentare tematiche palestinesi o mostrare i palestinesi solo sotto una luce negativa o in modo superficiale, ma piuttosto dovrebbero concentrarsi nel rispecchiarne il lato umano e la vita quotidiana.

Rammal viene da Salfit, nella Cisgiordania settentrionale, e ha completato i suoi studi in cinematografia nella capitale giordana, Amman. Nel 2018 ha diretto: “Fatimah,” un breve documentario su una ragazza siriana sfollata in Giordania e ha partecipato a vari festival arabi e internazionali, come il film festival franco-arabo, l’Elia film festival di corti e il Winter Film Awards a New York.

“The Place” non ha solo trasmesso un messaggio palestinese in tutto il mondo. Ha anche dimostrato che il cinema palestinese può comunicare un’autentica storia palestinese usando in modo intelligente gli strumenti disponibili e i social per contrastare la narrazione israeliana che falsa l’immagine dei palestinesi.

(tradotto dall’inglese da Mirella Alessio)




Sheikh Jarrah: le forze israeliane feriscono più di 20 palestinesi nella Gerusalemme est occupata

A cura della redazione di MEE

22 giugno 2021 – Middle East Eye

Le forze israeliane hanno riferito di aver usato nel quartiere granate stordenti, spray al peperoncino e proiettili ricoperti di gomma

Lunedì sera nella Gerusalemme est occupata più di 20 palestinesi sono stati feriti nel corso di un raid delle forze israeliane nel quartiere di Sheikh Jarrah.

Gli abitanti palestinesi di Sheikh Jarrah stanno affrontando delle espulsioni forzate finalizzate a consentire ai coloni israeliani la presa di possesso delle loro case.

L’area è diventata un fulcro di proteste e sit-in di solidarietà che raccolgono palestinesi e israeliani contrari all’occupazione e attivisti internazionali che sostengono gli abitanti di Sheikh Jarrah.

Lunedì la Mezzaluna Rossa Palestinese ha riferito che nella zona 21 persone avrebbero subito dei danni, 13 per aver inalato gas lacrimogeni, tre a causa dello spray al peperoncino e due per essere state colpite da proiettili di metallo ricoperti di gomma sparati dalle forze di polizia israeliane.

L’organizzazione ha aggiunto che due persone avrebbero riportato ferite a causa delle percosse, mentre un anziano sarebbe stato ricoverato in ospedale in seguito a un trauma cranico.

La Mezzaluna Rossa Palestinese ha affermato che i coloni di Sheikh Jarrah avrebbero lanciato pietre contro una delle loro ambulanze, mentre su un’altra le forze israeliane avrebbero spruzzato dell’acqua puzzolente.

Secondo Haaretz la polizia israeliana ha riferito che un colono avrebbe subito una ferita alla schiena in seguito al lancio di una pietra.

Saleh Diab, un attivista palestinese, ha detto all’agenzia di stampa ufficiale palestinese Wafa che a Sheikh Jarrah le forze di polizia israeliane, mentre sparavano granate stordenti e proiettili ricoperti di gomma, avrebbero arrestato due palestinesi e, nell’assalire le case delle famiglie al-Kurd e al-Qasem, alle prese con un’imminente un’espulsione, avrebbero aggredito gli abitanti con manganelli.

Arresti in Cisgiordania

Nel corso dei raid di lunedì sera e martedì mattina nella Cisgiordania occupata la polizia israeliana ha arrestato 35 palestinesi. Tali raid notturni in città e villaggi palestinesi vengono effettuati dalle forze israeliane e da unità sotto copertura quasi quotidianamente.

Secondo Wafa nel villaggio di Qarawat Bani Hassan, nel nord della Cisgiordania, sono stati arrestati 14 palestinesi, 12 dei quali appartenenti alla famiglia Marei.

Altri sette palestinesi sono stati arrestati a Jenin e due a Tulkarm, mentre nel quartiere di Silwan, a sud della moschea di al-Aqsa a Gerusalemme est, ne sono stati arrestati 10.

Gli arresti sono stati effettuati ​​lunedì quando i coloni israeliani hanno fatto irruzione nella moschea di al-Aqsa, affiancati dalla polizia israeliana.

I coloni sono entrati nel sito dalla Porta Marocchina, a est della Moschea di Al-Aqsa, che conduce alla piazza del Muro Occidentale, dove gli israeliani recitano le preghiere.

Il Jerusalem Islamic Waqf, l’istituzione religiosa palestinese che amministra il sito, ha affermato che i coloni avrebbero svolto le preghiere ebraiche di fronte alla porta di al-Rahmeh e alla moschea della Cupola della Roccia, e avrebbero ascoltato un sermone sul Terzo Tempio ebraico [detto anche Tempio di Ezechiele, descritto e profetizzato nel Libro di Ezechiele, ndtr.].

Nonostante il divieto di pregare lì, i coloni entrano regolarmente nella moschea di Al-Aqsa, con l’obiettivo di rafforzare la presenza ebraica sul sito, tanto che alcuni chiedono la distruzione della moschea della Cupola della Roccia per costruire un tempio ebraico al suo posto.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




“Aprire Gaza immediatamente,” dice il gestore del valico fra Israele e Gaza

Meron Rapoport

21 giugno 2021 – +972 Magazine

Il responsabile del valico di Erez dimostra l’inconsistenza del mito che le restrizioni su Gaza tutelino la sicurezza ed è convinto che Israele dovrebbe trattare direttamente con Hamas.

Aprire Gaza “è chiaramente nell’interesse di Israele,” ha affermato Shlomo Tzaban, gestore del valico di Erez fra Israele e Gaza, durante un discorso tenuto agli studenti dell’Università Ben-Gurion la settimana scorsa.

“Gaza deve essere riaperta immediatamente, senza contropartite su prigionieri, persone scomparse e Hamas,” ha detto. “Se apriamo [Gaza] oggi, non ci saranno attacchi suicidi e Hamas verrà fortemente indebolito”.

Tzaban, che gestisce il punto di ingresso e uscita dei civili fra Israele e Gaza da quando esso è stato privatizzato nel 2006, è stato invitato ad intervenire ad una lezione di storia su Gaza curata da Yonatan Mendel e Dotan Halevi. Nel discorso registrato recensito da Local Call [sito in ebraico di +972, ndtr] Tzaban, che si è presentato come “il gestore dell’intera Gaza,” ha confutato la posizione di molti politici israeliani sulla Striscia e ha dimostrato l’inconsistenza dei miti sulla sicurezza che vengono comunemente utilizzati per giustificare l’assedio imposto da Israele a partire dal 2007. Il valico meridionale di Rafah che Gaza condivide con l’Egitto è l’unico valico di cui Israele non abbia il controllo.

Nel corso della lezione Tzaban ha insistito sulla necessità dello sviluppo e della prosperità di Gaza – riecheggiando la posizione di molti ex ufficiali militari israeliani che hanno criticato la politica di mantenimento del blocco. “Se le cose andranno male a Gaza, andranno male in Israele,” ha sostenuto.

Nel suo discorso Tzaban ha illustrato la storia della Striscia dal 1948 “così come viene raccontata dai gazawi,” ha detto. I palestinesi di Gaza ricordano il dominio dell’Egitto dal 1948 al 1967 “come un olocausto,” mentre gli anni fra l’occupazione israeliana di Gaza dal 1967 fino all’inizio della prima Intifada del 1987 sono considerati un periodo prospero. “Essi [i palestinesi] ricordano questi anni con le lacrime agli occhi,” ha sostenuto.

In seguito alla prima Intifada, però, quando Israele impose restrizioni di movimento ai palestinesi di Gaza, si è presa una “brutta china” che ha fatto diventare la Striscia un territorio da “quinto mondo”, ha spiegato Tzaban.

Dallo scorso maggio, dall’ultima operazione militare israeliana, nel corso della quale Israele ha ucciso più di 250 persone a Gaza e Hamas ne ha uccise 13 in Israele, la situazione nella Striscia si è estremamente deteriorata, ha affermato Tzaban. Prima degli undici giorni di guerra, circa 700 camion consegnavano quotidianamente merci a Gaza attraverso il valico di Kerem Shalom, ha detto. Tuttavia, secondo dati raccolti nei territori occupati dall’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA) [creato nel 1991 per dare un efficace pronto intervento durante le crisi umanitarie e coordinare le agenzie ONU durante le catastrofi, ndtr], nel 2019 erano circa 300 i camion che entravano a Gaza, e Israele continua a limitare fortemente, arrivando spesso a proibirlo del tutto, l’ingresso di merci essenziali per l’industria, il settore edilizio e altre esigenze della popolazione civile. E tuttavia, alla data della conferenza, soltanto 130 camion al giorno vengono autorizzati ad entrare, ha affermato Tzaban, dato in linea con quello di 4.300 carichi rilevato dall’OCHA lo scorso mese.

“Gaza è un problema di Israele”

Ad una domanda sulla “politica di separazione” di Israele fra Gaza e la Cisgiordania, Tzaban ha risposto che, mentre giova alla Cisgiordania, questa politica “è pessima per Gaza.” L’apertura di Gaza, ha aggiunto, sarebbe molto vantaggiosa per Israele. “E’ nell’interesse di Israele che 200.000 gazawi entrino oggi [in Israele] per costruire case e dare sostegno economico ai 2,2 milioni di palestinesi [che vivono nella Striscia] che non hanno nulla a che vedere col conflitto,” ha affermato.

Tzaban si è mostrato assolutamente convinto che l’apertura di Gaza non comporti rischi per la sicurezza: “Dal 2006 ad oggi ho autorizzato nove milioni di palestinesi ad entrare da Gaza in Israele. Ci sono state zero vittime e zero terroristi,” ha dichiarato. “Se si aprono i valichi, non ci sarà neppure un attacco suicida.”

Lo Shin Bet, l’agenzia israeliana di sicurezza interna, “sa distinguere fra buoni e cattivi,” ha detto Tzaban, e Israele “dispone delle migliori tecnologie al mondo” per controllare chi entra in Israele. “Dobbiamo fargli [ai palestinesi] provare ciò che hanno conosciuto fra il 1967 e il 1987, i benefici dell’economia, dell’occupazione, del livello di vita, e restituirgli la dignità,” ha aggiunto.

Tzaban ha pure espresso fermo sostegno per un coordinamento diretto con Hamas. “Non lo dico da oggi: dobbiamo portare Hamas al valico di Erez, dobbiamo portare qui i loro funzionari,” ha affermato.

“Sapevate che prima del 1987 il leader [e cofondatore] di Hamas Ahmad Yassin ed altri, visitavano liberamente la Kirya? – ha osservato Tzaban, facendo riferimento al complesso militare a Tel Aviv. “Dovete rendervi conto: gli accordi si fanno coi nemici, non c’è bisogno di accordi con gli amici. Sono favorevole all’uso di mediatori, ma bisogna anche comunicare direttamente [con Hamas], come abbiamo fatto per gli Accordi di Oslo [firmati nel 1993 fra Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese, ndtr].”

A proposito di Hamas, se Tzaban ha dichiarato da un lato che “le organizzazioni terroristiche vanno distrutte e i capi terroristici spazzati via”, ha contestualmente sostenuto che l’apertura dei valichi fra Israele e Gaza è nell’interesse comune. “Hamas non impedirà agli abitanti di Gaza di entrare in Israele,” ha ipotizzato.

“Fra cinque anni ci saranno tre milioni di palestinesi residenti a Gaza nello spazio di 365 chilometri quadrati [141 miglia quadrate].” ha dichiarato Tzaban. “Gaza è un problema israeliano, non palestinese.”

Ha quindi aggiunto: “Se non troviamo una soluzione, grazie ad un immenso coraggio, e creatività, nonché l’impegno di tutti i Paesi del mondo – USA, Unione Europea, il Quartetto [gruppo creato nel 2002 per favorire una soluzione alla questione israelo-palestinese che comprende ONU, USA, UE e Russia, ndtr] ed altri – continueremo a passare da uno scontro all’altro, da un conflitto all’altro, da una guerra all’altra, che coinvolgeranno anche i nostri nipoti e pronipoti,” ha detto Tzaban. “[Non farlo] non aiuterà – sinistra, destra, falco, colomba. Dobbiamo attivarci qui, aprire le porte di Gaza e nell’arco di un decennio non ci sarà più un’organizzazione terroristica.”

I docenti del corso Mendel and Halevi hanno dichiarato di non avere diffuso loro il discorso di Tzaban alla stampa. Hanno spiegato che questo è il secondo anno che propongono il corso sulla storia di Gaza, in cui hanno invitato oltre venti esperti su Gaza. Gli studenti hanno ascoltato studiosi israeliani, palestinesi e internazionali; esperti sul campo; membri dell’ex colonia ebraica di Gush Katif, evacuata da Israele nel 2005; giornalisti; artisti; rappresentanti dell’ONU e persino funzionari governativi. “Neppure uno dei relatori ha ritenuto sostenibile l’assedio di Gaza,” si sostiene nella dichiarazione.

Alla richiesta di commentare le osservazioni di Tzabar, un portavoce del Ministero della Difesa israeliano ha dichiarato che “Tzaban ha esposto le proprie opinioni personali, che non rappresentano le posizioni del Ministero della Difesa.”

(traduzione dall’inglese di Stefania Fusero)




Le risorse dimenticate di petrolio e gas della Palestina

Mahmoud Elkhafif

Coordinatore, Unità Assistenza al popolo palestinese, UNCTAD

21 giugno 2021 – Al Jazeera

Sarà necessaria un’equa distribuzione delle risorse di petrolio e gas nel bacino di Levante per il raggiungimento di un duraturo accordo politico ed economico tra Israele e Palestina.

Dopo l’ultima operazione militare di Israele e la conseguente massiccia devastazione a Gaza, la comunità internazionale ha promesso centinaia di milioni di dollari per aiutare la ricostruzione della Striscia. Tuttavia, una fine duratura del conflitto tra Israele e Palestina non sarà possibile senza investimenti a lungo termine nello sviluppo economico e umano della Palestina, pari a miliardi di dollari all’anno.

Uno strumento trascurato per generare queste entrate sarebbe quello di destinare alla Palestina la sua giusta quota di benefici dalle riserve di petrolio e gas naturale nei territori occupati e nel Mediterraneo orientale, che sono attualmente sfruttate solo da Israele.

Un recente studio della Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo (UNCTAD) sottolinea che le nuove scoperte di gas naturale nel bacino di Levante sono dell’ordine di 3 trilioni di metri cubi, mentre si stima che il petrolio recuperabile sia di 1,7 miliardi di barili. Queste riserve offrono l’opportunità di distribuire e spartire circa 524 miliardi di dollari tra le varie parti della regione.

L’occupazione militare israeliana dei territori palestinesi dal 1967 e il blocco della Striscia di Gaza dal 2007 hanno impedito al popolo palestinese di esercitare qualsiasi controllo sulle proprie risorse di combustibili fossili, negandogli le tanto necessarie entrate fiscali e di esportazione e lasciando l’economia palestinese sull’orlo del collasso.

I costi economici inflitti al popolo palestinese sotto occupazione sono ben documentati: severe restrizioni alla circolazione di persone e merci; la confisca e distruzione di proprietà e beni; perdita di terra, acqua e altre risorse naturali; frammentazione del mercato interno ed esclusione dai mercati limitrofi e internazionali; e l’espansione delle colonie israeliane illegali secondo il diritto internazionale.

Il popolo palestinese esercita un controllo limitato anche sui propri margini e politiche di bilancio. Secondo le disposizioni del Protocollo di Parigi sulle relazioni economiche, Israele controlla la politica monetaria, i confini e il commercio palestinesi. Riscuote anche dazi doganali, IVA e imposte sul reddito dei palestinesi impiegati in Israele che poi versa al governo palestinese. L’UNCTAD stima che, sotto l’occupazione, il popolo palestinese abbia perso nel periodo 2007-2017 39,9 miliardi di euro di entrate fiscali, comprese le entrate trafugate da Israele e gli interessi maturati. In confronto, nello stesso periodo la spesa per lo sviluppo da parte del governo palestinese è stata di circa 3,7 miliardi di euro.

Il blocco prolungato e le ricorrenti operazioni militari a Gaza hanno ridotto più della metà della popolazione del territorio a vivere al di sotto della soglia di povertà e hanno un costo di 13,9 miliardi di euro di PIL all’anno. Questa cifra non tiene conto dell’enorme costo connesso all’opportunità negata al popolo palestinese di sfruttare il proprio giacimento di gas naturale al largo delle coste di Gaza.

L’accordo israelo-palestinese del 1995 sulla Cisgiordania e sulla Striscia di Gaza, noto come Accordo di Oslo II, ha conferito all’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) la giurisdizione marittima sulle sue acque fino a 20 miglia nautiche dalla costa. Nel 1999 l’ANP ha firmato con il British Gas Group un contratto di 25 anni per l’esplorazione del gas e nello stesso anno è stato scoperto un grande giacimento di gas, Gaza Marine, a 17-21 miglia nautiche al largo della costa di Gaza. Tuttavia, nonostante le discussioni iniziali tra il governo israeliano, l’ANP e British Gas sulla vendita di gas ottenuto da questo giacimento e la fornitura dei tanto necessari ricavi ai territori palestinesi occupati, i palestinesi non hanno ottenuto alcun beneficio.

Dal blocco di Gaza del 2007 il governo israeliano ha stabilito di fatto il controllo sulle riserve di gas naturale al largo di Gaza. L’appaltatore, British Gas, da allora ha avuto a che fare con il governo israeliano, aggirando di fatto il governo palestinese per quanto riguarda i diritti di esplorazione e sviluppo.

Israele ha anche preso il controllo del giacimento di petrolio e gas naturale del Meged, situato all’interno della Cisgiordania occupata. Israele afferma che il campo si trova a ovest della linea di armistizio del 1948, ma la maggior parte del bacino si trova sotto il territorio palestinese occupato dal 1967.

Più di recente Israele ha iniziato a sviluppare nuove scoperte di petrolio e gas nel Mediterraneo orientale, esclusivamente a proprio vantaggio.

Nel requisire e sfruttare le risorse di petrolio e gas palestinesi, Israele sta agendo in violazione della lettera e dello spirito del Regolamento dell’Aia, della Quarta Convenzione di Ginevra e di un insieme corposo di leggi umanitarie internazionali e dei diritti umani che si occupa dello sfruttamento di risorse comuni da parte di una potenza occupante, senza riguardo per gli interessi, i diritti e le quote della popolazione che subisce l’occupazione.

Dopo il recente attacco a Gaza la comunità internazionale ha finora promesso 860 milioni di dollari per la ricostruzione ma, anche prima dell’ultima aggressione militare, l’UNCTAD ha stimato necessaria una spesa di almeno 838 milioni di dollari per far uscire la popolazione di Gaza dalla povertà. Una quota equa dei proventi del petrolio e del gas fornirebbe ai palestinesi finanziamenti sostenibili da investire nella ricostruzione, riabilitazione e ripresa economica a lungo termine. L’alternativa è che queste risorse comuni vengano sfruttate individualmente ed esclusivamente da Israele e diventino un altro fattore scatenante di conflitti e violenze.

Naturalmente una ripresa economica sostenibile e una soluzione politica sostenibile vanno di pari passo. L’ONU mantiene la sua posizione di vecchia data secondo cui una pace duratura e globale può essere raggiunta solo attraverso una soluzione negoziata a due Stati. L’ONU continua a lavorare per la creazione di uno Stato di Palestina indipendente, democratico, contiguo, sovrano e vitale, che esista in pace e sicurezza con Israele. La sopravvivenza economica di uno Stato palestinese dipenderà dalla capacità dei palestinesi di controllare la propria economia e di avere un accesso equo alla loro quota di riserve di petrolio e gas in Palestina.

Le opinioni espresse in questo articolo sono proprie dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Centinaia di coloni marciano in Cisgiordania contro l’edificazione di case palestinesi

Hagar Shezaf

21 giugno 2021 – HAARETZ

La principale marcia di protesta si è diretta all’avamposto illegale di Evyatar, che i coloni continuano a edificare nonostante un ordine di sgombero dell’esercito israeliano

Lunedì centinaia di coloni hanno partecipato a 14 marce in tutta la Cisgiordania per protestare contro l’edificazione di case palestinesi nell’Area C, che è sotto il controllo della sicurezza israeliana. Lo slogan delle marce era “Combattere per le terre dello Stato”. Durante le marce non è stato registrato nessun incidente.

La marcia principale è iniziata a Tapuach Junction, diretta verso l’avamposto illegale di Evyatar. Diverse decine di coloni hanno marciato attraverso gli uliveti della zona e hanno terminato la marcia con una manifestazione alla quale hanno partecipato il leader dei coloni Yossi Dagan e l’attivista Sheffi Paz, con il cantante Ariel Zilber che ha provveduto all’intrattenimento.

Neora, una madre di tre figli della colonia di Rehelim, ha partecipato alla marcia con la sua famiglia. Siamo venuti perché amiamo questo Paese; siamo infastiditi dal fatto che non vengano costruite nuove colonie. Non siamo in realtà un popolo libero nella nostra terra, [come dice l’inno nazionale]. Si è lamentata del fatto che un gruppo di abitanti del vicino villaggio palestinese di Beita provocherebbe disagi nel corso della notte bruciando continuamente pneumatici nei pressi del suo insediamento coloniale e provocando un denso fumo nel tentativo di far andare via i coloni. Ha detto che gli abitanti del villaggio farebbero anche uso di laser e altre fonti di luce per molestare i coloni.

Altre marce si sono svolte nella Valle del Giordano, sulle colline a sud di Hebron e vicino a Ma’aleh Adumim [colonia israeliana e città palestinese situate ad est di Gerusalemme, in Cisgiordania, ndtr.]. Le marce sono state organizzate da gruppi di destra come Hashomer Yehuda VeShomron, Im Tirzu e Regavim, nonché da vari consigli regionali che sovrintendono alle colonie. Le forze armate israeliane hanno affermato che l’organizzazione delle marce non richiede la necessità di permessi o l’adozione da parte loro di misure speciali.

L’obiettivo di alcune di queste marce era costituito dalle terre definite dall’amministrazione civile come “terreni da indagare”, cioè territori che richiedono un’indagine al fine di determinare se siano di proprietà statale. L’esame dello stato di queste terre è un lungo processo chiamato rilevamento del territorio. I coloni desiderano accelerare il processo in modo che la terra in Cisgiordania possa divenire di proprietà dello Stato. Questo è ciò che è successo a Evyatar, che è stato eretto all’inizio di maggio. L’avamposto coloniale è sorto vicino a Beita, a sud di Nablus. Dopo che i coloni hanno preso possesso della terra in quell’area, è iniziata l’indagine sul suo stato.

Secondo i dati dell’amministrazione civile del 2011, ci sono 1,3 milioni di dunam (129.499 ettari) di terra statale in tutta la Cisgiordania. Dal 1967 a quell’anno solo lo 0,25% di quella terra è stato assegnato ai palestinesi, in contrasto con il 46% dato ai coloni. Per ogni dunam ( 1000 m.) assegnato a un palestinese, 370 sono stati dati ai coloni.

Il gen. Tamir Yadai, a capo del comando centrale, ha respinto una petizione presentata dai coloni di Evyatar riguardo a un’ingiunzione che ne ordinava lo sfratto.

In risposta all’opposizione degli abitanti all’ordine, Yadai ha affermato che [i coloni] hanno “violato palesemente e gravemente la legge costruendo in breve tempo decine di edifici abitati da decine di famiglie”. Il fatto che i coloni abbiano continuato a costruire nel sito anche dopo aver ricevuto l’ordine di fermarsi, a cui doveva seguire lo sgombero dell’avamposto, ha mostrato mancanza di buona fede e contribuisce alla violazione dell’ordine pubblico e dello stato di diritto nell’area, ha aggiunto Yadai.

Il vice consulente legale responsabile per la Cisgiordania, il tenente colonnello Lahat Shemesh, ha affermato che l’avamposto coloniale ha destabilizzato la sicurezza dell’area, portando a decine di istanze di interruzione. Ciò ha richiesto l’allocazione di forze che sono state sottratte ad altre missioni operative.

L’avamposto coloniale ha suscitato proteste tra i palestinesi della zona, che hanno portato alla morte di quattro uomini a causa degli spari dell’IDF [l’esercito israeliano, ndtr.]. La scorsa settimana, il sedicenne Ahmed Zahi Bani Shamsa di Beita è deceduto per le ferite riportate il giorno prima dopo essere stato colpito da un colpo di arma da fuoco sparato da un soldato. L’esercito ha sostenuto che Shamsa sarebbe corso verso un soldato e avrebbe lanciato un ordigno esplosivo prima di essere colpito.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)