Beita è un modello di resistenza palestinese contro Israele

Shatha Hammad

31 agosto 2021- Middle East Eye

Questa cittadina, situata in posizione strategica in Cisgiordania, da molto tempo fa gola ai coloni israeliani, ma i suoi abitanti si rifiutano fermamente di rinunciare alle proprie terre, nonostante le ripetute tragedie patite.

Alaa Dweikat è cresciuta giocando a nascondino con il papà, Imad, e quattro tra fratelli e sorelle. La piccola palestinese di nove anni non si sarebbe mai aspettata che il gioco diventasse realtà.

Imad, 38 anni, adesso è scomparso per sempre dalle loro vite, ucciso dall’ esercito israeliano a Beita, nella Cisgiordania occupata. Il 6 agosto, mentre la famiglia aspettava che arrivasse a casa per pranzo, è invece squillato il telefono. Imad era stato ucciso dai soldati israeliani in uno scontro con gli abitanti di Beita che protestavano a Jabal Sbeih, a sud di Nablus.

Lui è uno dei sette palestinesi, fra cui due adolescenti, uccisi da maggio, quando è stata lanciata una campagna di proteste contro una colonia israeliana illegale alla periferia della cittadina. Tre erano padri di famiglia e lasciano circa quindici figli.

I palestinesi di Beita protestano in modo pacifico contro l’espansione israeliana. Sono stati accolti da pallottole vere e gas lacrimogeni che hanno causato decine di feriti, molti colpiti alle gambe.

Arresti di massa hanno portato oltre 30 palestinesi della cittadina ad essere rinchiusi in carceri israeliane.

Quello che una volta era un tranquillo villaggio cisgiordano è diventato l’epicentro della resistenza palestinese.

Accolto da pallottole

Alaa, la figlia maggiore di Imad, dice che sogna di lavorare su un’ambulanza, così potrà evitare la morte delle persone, come è capitato a suo papà.

Ogni giorno penso di chiedere alla mamma quando nostro padre tornerà a casa dal lavoro, ma poi mi ricordo che è morto e che non tornerà mai più,” dice Alaa a Middle East Eye. “È molto dura. Mi manca ogni giorno.” 

Imad, come molti dei giovani di Beita, andava a Jabal Sbeih ogni venerdì per partecipare alle popolari attività pacifiche per difendere la loro terra dall’occupazione dei coloni. 

È stato colpito da “una pallottola in pieno petto ed è morto sul colpo”, dice a MEE suo fratello Bilal. “Imad stava partecipando come gli altri ad attività pacifiche e non a una guerra. Non c’è nessun motivo per cui i cecchini israeliani sparino pallottole vere.”

Dalla sua uccisione, Fathiya, la mamma di Imad, 77 anni, non riesce più a dormire. Qualche volta riesce ad assopirsi per qualche ora, ma poi si sveglia di botto e si siede sulla soglia in attesa dell’impossibile ritorno di Imad. 

Lo vedo dappertutto. Non riesco a smettere di attendere il suo ritorno, anche se gli ho detto addio e so che è morto. Viviamo con un dolore che durerà per sempre,” dice a MEE, cullando il figlio di Imad di tre mesi. 

Famiglie che vivono lo stesso dolore  

Said Dweikat siede davanti a casa sua affacciata su Beita e beve un caffè. Stormi di uccelli volteggiano in cielo.

La città sembra calma, ma i suoi abitanti hanno subito violenze quotidiane. Ogni casa è legata con qualcuno che è stato ucciso durante le manifestazioni. Inoltre molti abitanti sono ancora curati per le ferite riportate e molte case hanno subito raid frequenti e arresti.

Qui ogni giorno c’è una famiglia che si aspetta che uno dei suoi figli sia ucciso, ferito o arrestato dall’esercito israeliano. Ciascuno di noi dice: ‘Adesso tocca a me’,” racconta Said a MEE. 

Di solito Said prendeva il caffè con il fratello, Shadi. Ma Shadi è stato ammazzato il 27 luglio, non mentre protestava, ma mentre lavorava come volontario per il comune di Beita e apriva le pompe dell’acqua all’ingresso della città. Gli israeliani sostengono che fosse armato con una barra di metallo, in realtà erano i suoi attrezzi da idraulico.

Lascia cinque figli.

“I suoi bambini ci chiedono dov’è il loro papà; noi diciamo che è in paradiso. E loro rispondono: ‘Non vogliamo il paradiso, vogliamo un padre’. Non riesco più a rispondere alle loro domande, è molto doloroso,” dice Said, con le lacrime che gli scorrono sulle guance. 

L’intera cittadina è sconvolta dall’uccisione di Shadi, dice Said. Dato che era un idraulico era andato praticamente in tutte le case di Beita.

E come se la sua morte non fosse già abbastanza tragica, l’esercito israeliano, dopo averlo ammazzato, ha trattenuto il suo corpo per due settimane, aggiungendo altro dolore e rabbia al dolore che già provavano.

“Ogni ora penso a come farò a passare l’ora successiva senza Shadi, come vivrò la mia vita senza di lui,” dice Said. 

Rubare Jabal Sbeih 

Per Beita la storia recente, fatta di violenza e resistenza, è cominciata il 2 maggio, quando gli abitanti hanno notato delle lucine in cima a Jabal Sbeih.

Dei coloni, accompagnati dall’esercito, stavano costruendo un avamposto illegale senza che ci fosse stata prima alcuna comunicazione di confisca della terra.

Non è la prima volta che Israele cerca di prendere il controllo della collina. Nel 1978, con l’apertura dell’autostrada 60 per le colonie, l’esercito israeliano ci aveva costruito un avamposto militare, costringendo i proprietari palestinesi a rivolgersi ai tribunali israeliani per recuperare le proprie terre, cosa che erano riusciti a fare nel 1994.

L’avamposto militare è stato smantellato, poi ricostruito durante la Seconda Intifada del 2000-2005 e poi di nuovo smantellato. 

Huthayfa Budair, che possiede delle terre sulla collina, dice che quattro anni fa gli abitanti hanno cominciato a notare l’avanzata dei coloni nella zona, attirati dalla sua posizione strategica.

C’è stata un’insurrezione popolare con la partecipazione di tutti gli abitanti e siamo riusciti a cacciare i coloni dalla zona,” dice Huthayfa. 

Nonostante ciò quest’anno i coloni sono ritornati a Beita. In soli sei giorni hanno installato 40 roulotte e asfaltato una strada che porta alla collina, battezzando l’avamposto “Givat Eviatar”.

Il 9 giugno l’esercito israeliano ha cominciato a smantellare l’avamposto, sostenendo che era stato costruito durante una situazione tesa a livello di sicurezza e senza previa regolarizzazione. Comunque, poco dopo l’esercito si è appropriato dell’avamposto e ha dichiarato Jabal Sbeih zona militare, impedendo ai palestinesi di ritornare alle proprie terre.

È emerso che i coloni hanno stretto un accordo con il governo in base al quale lascerebbero le loro roulotte sulla collina in modo che l’esercito se ne prenda cura fino a quando la terra non sarà dichiarata proprietà dello Stato di Israele e a quel punto potranno ritornare.

Huthayfa ha i documenti che certificano la sua proprietà di cinque dunam [0,5 ettari, N.d.T.] a Jabal Sbeih. Altre cinque famiglie di Beita sono riuscite a fornire i documenti di proprietà, come anche alcune famiglie dei vicini villaggi di Qabalan e Yatma.

Nonostante ciò, il 15 agosto la Corte Suprema israeliana si è rifiutata di accettare un ricorso contro l’avamposto presentato dai proprietari, una decisione condannata come prematura dal Jerusalem Center for Legal Aid and Human Rights [Centro per l’Assistenza Legale e i Diritti Umani di Gerusalemme] (JLAC), che l’aveva presentato a nome dei palestinesi.

La Corte Suprema ha rinviato la sentenza sulla legalità dell’avamposto e sull’accordo dei coloni con il governo fino a quando la zona non sarà ispezionata e si prenderà una decisione finale che la dichiari “terra statale”. Essa sostiene che i proprietari hanno il diritto di presentare immediatamente appello se la zona sarà dichiarata “terra statale”, ma secondo lo JLAC la petizione non verrà esaminata fino a quando non si prenderà una decisione sullo status giuridico del territorio.

Anzi, lo JLAC sostiene che la Corte Suprema ha già deciso sugli appelli con “totale negligenza”, e ignorato “abusi lampanti commessi dai coloni sulle terre su cui non hanno alcun diritto, il che indica che i tribunali non hanno alcun problema legale ad aggirare le leggi”.

Resistenza creativa

Negli ultimi mesi i giovani di Beita hanno sviluppato modi creativi per resistere ai coloni e alle pallottole dell’esercito israeliano, tramite una campagna che chiamano “stato di confusione”.

È una combinazione di metodi tradizionali di resistenza, come lanciare pietre e bruciare pneumatici, e tattiche nuove come l’uso di laser, altoparlanti e rumori che sembrano esplosioni.

I manifestanti e quanti partecipano alla protezione delle terre dall’espansione dei coloni si sono organizzati in gruppi che a turno agiscono giorno e notte, ognuno con una missione specifica. La zona è costantemente monitorata e gli abitanti di Beita vi si recano regolarmente. 

Ogni venerdì noi giovani ci portiamo le fionde mentre gli anziani hanno le bandiere palestinesi. Usiamo anche pneumatici incendiati, fuochi d’artificio e palloni,” ha detto a MEE un venticinquenne parlando in condizioni di anonimato.

Noi monitoriamo i giornali israeliani sulle reti sociali e osserviamo le reazioni dei coloni. Abbiamo scoperto che siamo riusciti a metterli sotto pressione e a costringerli a lasciare la colonia – neppure loro si sentono al sicuro, circondati da un costante rifiuto popolare alla loro presenza.” 

Noi vogliamo conservare Beita e le sue terre. Siamo riusciti a cacciarli dalla montagna parecchie volte. Questa sarà l’ultima, non ritorneranno più,” aggiunge. 

Una volta che le famiglie recupereranno le loro terre, dice, l’intera cittadina festeggerà. “Sarà come un matrimonio nazionale.” 

Un altro attivista, anche lui parlando a condizione di anonimato per paura di rappresaglie israeliane, dice a MEE: “Siamo qui tutto il tempo per salvaguardare l’approccio dei nostri antenati alla conservazione delle nostre terre e per prevenire attacchi o confische ad ogni costo, anche della nostra vita e libertà.”

Beita è nota per la sua resistenza e, nel corso degli anni, è stata costretta ad affrontare parecchie volte l’esercito israeliano a causa della sua posizione geografica affacciata sulla strada fra Nablus e Gerico. 

Beita ha sempre combattuto a sostegno di Gaza e dei prigionieri (palestinesi) ed è contraria a ogni azione intrapresa da Israele in Cisgiordania. Noi sacrifichiamo martiri, feriti e prigionieri e ciò non ci spaventa né ci impedisce di continuare,” dice l’attivista.

Beita non conosce la calma. È sempre in fiamme e se l’esercito israeliano evita di compiere dei raid è perché sa che li pagherebbe a caro prezzo.”

Anche se i coloni se ne sono andati da Jabal Sbeih, il confronto continua, seppure in tono minore.

Gli abitanti hanno giurato di non ritirarsi fino a quando non saranno rientrati in possesso dell’intera collina.

“Anche se l’avamposto sarà smantellato e noi saremo ritornati a Jabal Sbeih, Beita non smetterà la sua lotta finché non si sarà riottenuta tutta la Palestina,” dice l’attivista. “Noi speriamo che l’esperienza di Beita si diffonda in tutti i villaggi palestinesi che quotidianamente fronteggiano la costruzione di colonie.”

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Tareq Zubeidi, rapito e torturato da una banda di coloni

Gideon Levy

30 agosto 2021 – Chronique de Palestine

La settimana scorsa nella colonia di Homesh, destinata ad essere evacuata, un adolescente palestinese è stato portato via da coloni e sottoposto a violenze fisiche per più di due ore. Si tratta di una prassi consueta in questo luogo, di cui da tempo il tribunale ha ordinato l’apertura ai palestinesi.

Tareq Zubeidi è disteso sul suo letto di ferro in un angolo della stanza debolmente illuminata, coperto fino al collo e con gli occhi fissi al soffitto. Questo ragazzo pallido di 15 anni, senza barba, ha un sorriso dolce e parla con un sussurro.

Se inavvertitamente gli si toccano le gambe, soprattutto le ginocchia, si solleva di scatto come morso da un serpente e il suo viso si sbianca dal dolore.

Sulla pianta dei piedi ha due grosse cicatrici rotonde, il che spiega perché non gli sia possibile stare in piedi. Quando i coloni gli hanno inflitto queste ferite aveva il viso coperto, ma è convinto che una di esse sia stata provocata da una bruciatura, probabilmente con un accendino tenuto sotto un piede fino a che la carne si è strinata, mentre sull’altro piede lo colpivano con una sbarra di ferro.

Tareq è costretto a letto da quel mattino di orrore ed è ancora traumatizzato da quell’evento.

Il villaggio di Silat al-Daher si trova sulla strada tra Nablus e Jenin, nel nord della Cisgiordania. E’sovrastato dall’alto di una collina dai resti della colonia di Homesh, destinata ad essere evacuata, che Israele ha smantellato in teoria nel quadro del processo detto di disimpegno del 2005.

Nel contempo l’Alta Corte di Giustizia ha ordinato allo Stato di annullare le ordinanze militari di sequestro e di chiusura che avevano vietato ai palestinesi di accedere al sito, ma tutto ciò non ha niente a che fare con la realtà.

Un gruppo chiamato “Homesh First” [Prima Homesh] ha creato una yeshiva (scuola religiosa ebraica) sul sito poco dopo le evacuazioni; i suoi studenti sono tra i coloni più violenti. Chiunque abbia provato ad avvicinarsi a Homesh sa di che cosa – e soprattutto di chi – si tratta.

La decisione dell’Alta Corte qui è stata da molto tempo calpestata e nessuno se ne preoccupa. Da marzo 2020 l’organizzazione israeliana di difesa dei diritti umani B’Tselem ha registrato non meno di sette aggressioni violente contro palestinesi da parte dei coloni della yeshiva di Homesh.

In un’occasione hanno aggredito un gruppo di donne e un neonato, in un’altra hanno picchiato un contadino con bastoni e pietre, in una terza hanno rotto una gamba ad un pastore con delle pietre, e per due volte hanno attaccato case e veicoli nella periferia del villaggio.

Malgrado ciò, la scorsa settimana, il 17 agosto, un gruppo di giovani di Silat al-Daher ha deciso di organizzare un picnic e una grigliata vicino a Homesh, nel boschetto che costituisce il polmone verde del villaggio.

Secondo quanto ci ha raccontato Tareq – aveva già raccontato i fatti a Abdulkarim Sadi, ricercatore sul campo di B’Tselem, che lo ha incontrato il giorno dopo l’incidente ed è rimasto sconvolto dal trauma subito dal ragazzo – quel giorno il tutto è cominciato verso le 9, quando i giovani si sono incontrati davanti al liceo locale, dove il nuovo anno scolastico era iniziato un giorno prima.

Dei sei adolescenti, alcuni avevano lasciato la scuola ed altri avevano deciso di saltare un giorno di lezione a inizio anno. Tareq ha lasciato la scuola al settimo anno, quando aveva 13 anni, ed è andato a lavorare in una panetteria del villaggio di proprietà di suo zio.

Dopo aver comprato della carne di tacchino, sono saliti sulla collina a piedi. La strada per le auto è bloccata a causa dei coloni di Homesh che non lasciano avvicinarsi nessun palestinese.

Poco dopo essere arrivati al sito, dove si sono seduti sotto un albero a chiacchierare, il gruppo ha sentito d’improvviso delle voci in ebraico. Tareq si ricorda che lui e i suoi amici hanno subito avuto paura. A qualche decina di metri da loro è comparsa una macchina grigia argentata, con dentro quattro coloni, seguiti da due altri a piedi.

Solo qualche centinaio di metri separava il luogo del picnic da ciò che era Homesh, con la sua grande cisterna – suo segno di riconoscimento – che non era stata demolita al momento dell’evacuazione nel 2005.

I ragazzi si sono immediatamente alzati e si sono messi a correre per salvarsi la vita. Ogni idea di picnic era svanita. Ma durante la salita Tarek si era ferito ad una gamba e non poteva muoversi rapidamente.

La macchina lo ha seguito a tutta velocità, poi lo ha urtato e fatto cadere. I quattro coloni sono usciti dalla vettura e hanno cominciato a picchiarlo su tutto il corpo insultandolo. Avevano in testa grandi kippa [zucchetto rituale ebraico tipico dei coloni, ndtr.] e lunghi riccioli, racconta.

Uno di loro è tornato alla macchina per prendere una corda con la quale poi gli hanno legato le mani dietro la schiena ed anche le gambe. Tarek gridava di paura e di dolore. I coloni gli hanno dato dei calci, dice, mentre era steso a terra immobile.

Poi lo hanno sollevato e messo sul cofano della macchina, legandolo al veicolo con una catena di ferro perché non cadesse. La macchina ha viaggiato per qualche minuto finché ha raggiunto lo stagno di Homesh.

Il guidatore ha frenato bruscamente e Tarek è caduto, perché lungo il percorso i coloni avevano sganciato la catena. Due autobus di coloni sono arrivati al sito, ricorda Tarek, ma non è sicuro che abbiano preso parte alle violenze.

Qualcuno gli ha spruzzato sul viso dello spray urticante, un altro gli ha dato ancora dei calci. Steso al suolo, era sicuro che stesse per essere ucciso. Altri coloni si sono messi a prenderlo a calci, poi gli hanno bendato gli occhi con un fazzoletto. Tarek ha sentito che gli sputavano addosso e una raffica di insulti e di oscenità.

È stata un’esperienza orribile e terrificante”, dice, aggiungendo che pensa di essere rimasto steso così per circa un’ora e mezza.

Poi i coloni lo hanno trascinato fino a un albero e l’hanno appeso per le mani, in modo che le gambe rimanessero sospese. Con un’altra corda hanno legato il suo corpo al tronco dell’albero. Pensa di essere rimasto in quella posizione per circa cinque minuti. “Proprio in quel momento ho sentito che un colono mi picchiava la pianta di un piede con una sbarra di ferro ed un altro teneva qualcosa che bruciava sotto l’altro piede.”

Le cicatrici nei piedi di Tareq dovute alla tortura subita. Foto Alex Novac

Tareq ci mostra le ferite alle piante dei piedi. Dice di aver pianto e gridato per tutto il tempo e che i coloni non hanno mai smesso di insultarlo. Quando lo hanno staccato dall’albero, uno degli aggressori lo ha colpito alla testa con una mazza. Uno di loro gli gridava: “Sono pazzo, sono pazzo.” Tarek ha perso conoscenza.

Quando è rinvenuto si è ritrovato su una jeep dell’esercito israeliano. Un soldato gli ha dato il suo telefono cellulare perché potesse parlare con qualcuno in arabo, forse un agente dei servizi di sicurezza dello Shin Bet [servizi interni israeliani, ndtr.], che lo ha minacciato di fare arrestare i ragazzi se ci fossero stati lanci di pietre nel villaggio.

I soldati hanno chiesto la carta di identità di Tarek – lui ha risposto che era ancora troppo giovane per averne una.

Questa settimana l’unità del portavoce delle forze israeliane ha pubblicato su Haaretz il seguente comunicato riguardo all’incidente: “Martedì 17 agosto abbiamo ricevuto un rapporto relativo a palestinesi che hanno lanciato pietre contro dei coloni vicino alla colonia evacuata di Homesh, che si trova nel settore della brigata territoriale di Shomron (Samaria). Dopo aver ricevuto il rapporto, dei soldati dell’IDF (esercito israeliano, ndtr.) hanno raggiunto il sito ed hanno trovato dei coloni che tormentavano un giovane palestinese. Il comandante della forza si è occupato dell’accaduto ed ha riportato il giovane palestinese alla sua famiglia.”

Immediatamente dopo l’inizio dell’incidente, i cinque amici di Tarek hanno raggiunto Silat al-Daher ed hanno detto alla sua famiglia che lui era rimasto indietro. Suo fratello maggiore Hisham e suo zio Murwah si sono precipitati all’incrocio che si trova all’entrata di Homesh, ma hanno avuto paura di avventurarsi in macchina sulla strada che porta alla colonia.

Dopo un po’ di tempo hanno visto un ufficiale dell’IDF, lo hanno chiamato e gli hanno raccontato che cosa era successo. Poco dopo, una jeep dell’IDF gli ha riportato Tarek ferito. Un’ambulanza palestinese che passava sull’autostrada con un paziente uscito dall’ospedale di Nablus si è fermata e il paziente, che stava bene, ha proposto che l’ambulanza caricasse Tarek al suo posto. Tarek, con suo fratello e suo zio, è stato portato all’ospedale pubblico Khalil Suleiman di Jenin.

Secondo la cartella clinica dell’ospedale vi è arrivato alle 13,03, è stato sottoposto ad una serie di esami ed è stato riportato a casa il giorno successivo. Le ferite fisiche erano meno gravi di quanto sembrasse inizialmente, ma la ferita psicologica era chiaramente più grave.

Tarek racconta che dopo quel giorno non ha potuto dormire e che si sente molto angosciato, soprattutto al buio. Suo fratello e suo zio dormono nella stanza con lui.

Se resto solo al buio comincio a pensare a quell’incubo con i coloni. Ho l’impressione di sudare in tutto il corpo. Ho la sensazione che il mio cuore batta all’impazzata.”

Da allora Tarek non può camminare senza aiuto – lo accompagnano al bagno i suoi familiari. La pianta dei piedi è ferita e le sue ginocchia sono ancora gonfie.

Gideon Levy, nato nel 1955 a Tel Aviv, è un giornalista israeliano e membro della direzione del quotidiano Haaretz. Vive nei territori palestinesi sotto occupazione. Ha ricevuto il premio Euro-Med Journalist nel 2008, il premio Leipzig Freedom nel 2001, il premio Israeli Journalists’Union nel 1997 ed il premio dell’Associazione dei Diritti Umani in Israele nel 1996. Ha scritto il libro The Punishment of Gaza [‘La punizione di Gaza’], che è stato tradotto in francese con il titolo Gaza, articoli per Haaretz, 2006-2009 [Gaza, articoli per Haaretz, 2006-2009], La Fabrique, 2009.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




L’Autorità Nazionale Palestinese sta perdendo il controllo sulla Cisgiordania

Lubna Masarwa, Dania Akkad

30 agosto 2021 – Middle East Eye

Mesi di crescente repressione e di arresti portano a interrogarsi sul suo imminente collasso persino i sostenitori dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Il 23 agosto, vedendo che le forze di sicurezza arrestavano circa una trentina di manifestanti che esigevano risposte riguardo alla morte di Nizar Banat, un oppositore di Mahmoud Abbas deceduto dopo un’irruzione di agenti della sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) in casa sua, un membro dell’ANP si è ricordato di quello che era avvenuto in Egitto quarant’anni fa.

“Ciò mi ricorda gli ultimi giorni di (Anwar) Sadat,” ha confidato a Middle East Eye, a condizione di rimanere anonimo per una questione di sicurezza personale. Nelle settimane che nel 1981 precedettero l’assassinio del presidente egiziano, Sadat aveva fatto arrestare 1.600 egiziani di ogni orientamento politico. “Avevano cominciato ad arrestare tutti quanti, come giornalisti e scrittori, e chiunque si ribellasse a Sadat.”

I suoi membri e alcuni osservatori affermano che la fragilità dell’ANP è al centro dell’attenzione da mesi. Ciò è iniziato in aprile, quando il presidente Mahmoud Abbas ha rinviato le elezioni politiche. In maggio l’ANP è rimasta ai margini quando Israele ha bombardato Gaza.

Durante l’estate l’ANP ha reagito con l’arresto di decine di attivisti alle manifestazioni che criticavano le sue iniziative, e persino quelle in solidarietà con i palestinesi di Gaza, rimanendo nel contempo in silenzio mentre le forze di sicurezza israeliane uccidevano una quarantina di palestinesi nella Cisgiordania occupata.

Per gli attivisti e il membro dell’ANP gli arresti dello scorso fine settimana sono l’ultimo segnale in ordine di tempo dell’indebolimento dell’ANP, il che li porta a chiedersi se non stia per perdere il controllo della Cisgiordania.

Sul piano politico sono finiti”

Qualche ora dopo le dimostrazioni, cui hanno partecipato studenti universitari, registi e poeti, durante una veglia di protesta contro gli arresti le forze dell’ordine dell’ANP hanno arrestato un altro manifestante, Khader Adnan, celebre per i suoi scioperi della fame senza uguali durante le sue varie incarcerazioni in detenzione amministrativa nelle prigioni israeliane.

Fadi Quran, difensore dei diritti umani ed esperto di diritto internazionale che era tra gli arrestati, ha detto di essere stato interrogato sulla ragione per la quale ha distribuito bandiere palestinesi e, durante un’udienza, ha chiesto al giudice di condannarlo per essere il primo palestinese sanzionato per il possesso della bandiera nazionale.

L’assurdità della situazione e l’inasprimento dell’ANP di fronte alle critiche portano molti a chiedersi se si tratti di un ultimo attacco disperato: “Ci sono tutti gli elementi per un collasso dell’Autorità Nazionale Palestinese,” afferma Jamal Juma’a, direttore della campagna Stop the Wall [Stop al muro, ndtr.], con sede a Ramallah.

“Sul piano politico sono finiti. Come progetto nazionale, sono finiti. Aggiungi a questo la corruzione generalizzata e ci sono tutte le condizioni per un crollo dell’ANP.” Da parte sua il membro dell’ANP afferma: “Non posso dire se l’Autorità Nazionale Palestinese collasserà a breve, ma sicuramente attraversa una crisi profonda e non sono sicuro di sapere dove questo porterà.”

Jenin è un buon punto di partenza per vedere a cosa potrebbe assomigliare un’ANP che perde il controllo della Cisgiordania.

Negli ultimi due mesi ci sono state parecchie sparatorie nel campo profughi di Jenin tra giovani abitanti armati e le forze di sicurezza israeliane che fanno regolarmente irruzione nel campo.

Dopo due incidenti a luglio e agosto, durante i quali le forze di sicurezza israeliane hanno ferito due palestinesi a Jenin, la scorsa settimana hanno ucciso quattro palestinesi quando un’irruzione nel campo si è trasformata in uno scontro a fuoco.

In risposta il primo ministro palestinese Mohammed Shtayyeh ha criticato le forze israeliane e chiesto all’ONU e alle organizzazioni internazionali di fornire una protezione al popolo palestinese.

Ma Shatha Hamaysha, giornalista freelance di Jenin che collabora con MEE, racconta che la sparatoria della scorsa settimana era stata scatenata dai maldestri tentativi dell’ANP di cercare di controllare la situazione a Jenin.

Secondo lei l’ANP ha proposto di fare da intermediaria tra gli israeliani e i giovani combattenti armati e poco prima dello scontro a fuoco ha arrestato parecchi abitanti che avevano rifiutato di adeguarsi a questo piano.

Quelli che hanno combattuto respingono l’ingerenza dell’ANP, soprattutto alcuni giovani che recentemente si sono uniti ai combattenti a causa della frustrazione provocata dall’ANP.

Precisa che l’ANP ha cercato di risolvere la situazione a Jenin “a modo suo”, diffondendo l’immagine secondo cui controlla la situazione, ma la realtà in città è molto diversa. “A Jenin l’Autorità ha perso la sua presenza sociale e tenta in vari modi di controllare la sicurezza, di imporre l’ordine e di ripristinare la calma,” afferma Hamaysha.

Un’opinione pubblica che non ha più paura

Precisa comunque che si continua a gettare benzina sul fuoco. La settimana scorsa le forze israeliane hanno messo in atto esercitazioni militari nei posti di controllo che circondano Jenin “per inviare un velato messaggio a Jenin e ai suoi giovani.”

A livello locale queste esercitazioni sono considerate come vane dimostrazioni di forza. Per il membro dell’ANP l’incapacità delle forze di sicurezza a proteggere gli abitanti dagli israeliani o di controllare i gruppi armati nel campo profughi è un chiaro segnale. “L’ANP è sempre molto debole. Non può entrare in un luogo come Jenin,” sostiene. Quello che succede a Jenin si estenderà? È la domanda che molti si pongono in Cisgiordania.

MEE ha chiesto all’ANP se ha fatto da intermediaria tra i giovani armati e gli israeliani; se ha arrestato persone ricercate dagli israeliani; se ha svolto attività prima della sparatoria della settimana scorsa e se ha perso il controllo di Jenin. Al momento della pubblicazione [di questo articolo] l’ANP non aveva ancora risposto.

Altro segnale che indica che all’ANP sfugge il controllo sono le persone che sono state arrestate. Non si tratta di sostenitori di Hamas, bersaglio abituale dell’ANP, ma di attivisti laici, persino di alcuni che fino a poco tempo fa sostenevano l’ANP.

Mazin Qumsiyya, docente di biologia alle università di Betlemme e Bir Zeit e attivista politico, era tra i manifestanti di Ramallah. Durante le proteste sono stati arrestati 17 suoi amici, racconta.

Secondo lui questi arresti riflettono un’ANP che non sa cosa deve fare, perché le sue solite strategie sono inefficaci con un’opinione pubblica che non ha più paura.

“Pensavano che quella di Nizar Banat sarebbe diventata una storia vecchia, ma non è stato così. Si sta allargando,” sostiene. “La gente non sta zitta e reagisce sempre di più.”

“Penso che ci si avvii verso il collasso dell’ANP, in particolare riguardo alla sicurezza. Le persone non hanno più paura dell’ANP. Nemmeno quelli che vengono arrestati hanno paura. Quando si supera l’ostacolo della paura tutto è possibile.”

Hani al-Masri, direttore generale di Masarat (Centro Palestinese di Ricerche Politiche e di Studi Strategici) a Ramallah, afferma che il recente comportamento dell’ANP è il riflesso di un’istituzione che reprime perché non sa che altro fare dopo aver perso il sostegno popolare.

“L’Autorità Nazionale Palestinese si è trovata impreparata dopo aver perso le fonti di legittimità interne: legittimità rivoluzionaria, legittimità della resistenza e del consenso nazionale, legittimità delle urne e legittimità dei risultati raggiunti,” elenca.

“Non le restano che le fonti di legittimità esterne: legittimità del potere e della sicurezza. Dopo il fallimento del suo progetto politico, non ne ha adottato uno nuovo.”

Continua: “Ha abbandonato la direzione del suo popolo in tutte le manifestazioni dell’Intifada di Gerusalemme ed ha l’impressione che gli avvenimenti l’abbiano sopraffatta. Ha voluto prendere l’iniziativa arrestando più di 120 persone dal maggio scorso, per inviare un messaggio forte: nessuno, qualunque sia la sua età, può sfuggire agli arresti.”

Un peso per il popolo palestinese

Un sondaggio dei primi di giugno del Palestinian Center for Policy and Survey Research [Centro Palestinese per la Politica e la Ricerca] e della fondazione Konrad-Adenauer appena dopo il rinvio delle elezioni da parte di Abbas mostra che più del 56% dei palestinesi ritiene che l’ANP sia un peso per il popolo palestinese.

Secondo il membro dell’ANP non è nell’interesse degli Stati Uniti o degli israeliani lasciare che l’ANP collassi. Ma dice di prevedere un periodo molto confuso per l’organizzazione, divorata da lotte intestine.

“La sostituzione di Abu Mazen (Mahmoud Abbas) è fonte di conflitti, ma ci sono anche diatribe riguardanti gli incarichi ministeriali,” afferma questa fonte. “Oggi Fatah [principale organizzazione dell’ANP, ndtr.] è disunito. Ci sono divisioni e molti non sono d’accordo con quello che succede sul terreno, in particolare con gli arresti.”

Nel frattempo, avverte, in Cisgiordania circolano dappertutto armi sulle quali l’ANP non ha alcun controllo.

Come Qumsiyya, Juma’a è convinto che i palestinesi abbiano bisogno di un’alternativa politica forte per sostituire l’ANP, di alternative prima di metterla seriamente in discussione.

“Succede di tutto e l’ANP arresta dei palestinesi. Ma dove sono le fazioni politiche? Cosa fanno per porvi termine?” si interroga Juma’a.

“L’Olp deve agire e intervenire. Le fazioni politiche nell’ANP devono dare le dimissioni [dagli incarichi governativi, ndtr.] invece di servire da copertura.”

Secondo Qumsiyya il problema è che i palestinesi pensano di non avere che due possibilità davanti a sé: Hamas o Abbas.

“Ma non è vero. Abbiamo numerose scelte. Molti gruppi si presentavano alle elezioni e in uno di essi c’era lo stesso Nizar Banat. Non faceva parte né di Fatah né di Hamas,” continua.

“La gente vuole un cambiamento profondo, non solo superficiale. Vuole che Abu Mazen e tutto il suo sistema spariscano.”

Tra i manifestanti arrestati il 23 agosto si preparano già piani per nuove dimostrazioni.

Dopo essere stato liberato, sulla sua pagina Facebook il regista Mohammed Alatar ha ringraziato le persone che hanno inviato messaggi di solidarietà al momento del suo arresto.

“Di fatto mi vergogno, perché in Palestina eravamo soliti festeggiare quando eravamo (liberati) dalle prigioni dell’occupazione. Ormai festeggiamo l’uscita dalle nostre stesse prigioni,” scrive.

“Spero che presto tutto questo caos finisca e che ci concentriamo di nuovo sulla nostra fondamentale missione, che consiste nel sbarazzarci dall’occupazione ed essere liberi.”

Poi invita le persone a tornare in piazza Manara a Ramallah, teatro degli arresti di sabato, per una nuova manifestazione.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)