Prigioniero palestinese riarrestato inizia lo sciopero della fame

Zena Al Tahhan

5 ottobre 2021 – Al Jazeera

Mohammad al-Ardah, uno dei sei prigionieri evasi da un carcere israeliano il mese scorso, sta protestando contro le misure punitive in carcere.

Ramallah, Cisgiordania occupata – Il prigioniero palestinese riarrestato Mohammad al-Ardah, uno dei sei prigionieri evasi il mese scorso da una prigione israeliana, ha iniziato uno sciopero della fame a tempo indeterminato contro quelle che i suoi avvocati hanno descritto come “durissime condizioni di isolamento”.

L’avvocato di Al-Ardah gli ha fatto visita lunedì nella prigione meridionale di Asqalan (Ashkelon), dove egli è tenuto in isolamento da mercoledì.

“Ha annunciato uno sciopero della fame per chiedere condizioni di vita e di detenzione migliori e perché le autorità carcerarie ritirino le misure punitive adottate nei suoi confronti”, ha detto ad Al Jazeera l’avvocato Kareem Ajwa, della Commissione per gli Aaffari dei Ddetenuti dell’Autorità Nnazionale Ppalestinese.

Secondo Ajwa si è tenuta un’udienza all’interno della prigione, in seguito alla quale le autorità hanno imposto ad al-Adrah due settimane di isolamento e un divieto per due mesi delle visite dei familiari e dell’accesso alla mensa, oltre a sanzioni pecuniarie.

Aiwa ha affermato che, mentre i 14 giorni di isolamento costituiscono una punizione carceraria interna, è probabile che i tribunali israeliani emettano nei confronti di al-Ardah e di molti degli altri prigionieri ricatturati un ordine formale di isolamento, che può essere rinnovato ogni sei mesi. “Potrebbero affrontare anni di isolamento”, ha aggiunto.

La Commissione ha dichiarato che al-Ardah, di 39 anni, è detenuto in condizioni di durissimo isolamento”, in una cella non ventilata priva dei servizi elementari”, senza effetti personali o vestiti di ricambio, un cuscino o una coperta.

Ajwa ha affermato che la Commissione presenterà presto un’istanza per un miglioramento delle condizioni di detenzione di al-Ardah, che ha detto di sperare includa il trasferimento in una cella migliore e il permesso di avere con sé dei vestiti.

Al-Ardah è uno dei sei prigionieri palestinesi evasi dalla prigione di Gilboa, nel nord di Israele, all’alba del 6 settembre. Le autorità israeliane hanno annunciato di averlo ripreso insieme a Zakaria Zubeidi, 46 anni, la mattina dell’11 settembre, mentre Mahmoud Abdullah al-Ardah, 46 anni, e Yaqoub Mahmoud Qadri, 49 anni, erano stati riarrestati il giorno prima. Sono stati catturati dopo essere stati trovati vicino a Nazareth.

Gli ultimi due fuggitivi, Ayham al-Kamamji e Munadel Infaat, sono stati riarrestati il ​​19 settembre a Jenin, nel nord della Cisgiordania occupata, dopo una caccia all’uomo di due settimane.

Domenica la Commissione ha affermato che le autorità carcerarie israeliane hanno tenuto per Qadri un’udienza interna e hanno deciso di imporgli delle misure punitive, tra cui due settimane di isolamento e il divieto per sei mesi delle visite familiari e dell’accesso alla mensa, oltre a sanzioni pecuniarie.

Qadri è recluso in isolamento nella sezione dei detenuti per reati criminali della prigione di Rimonim, nel nord. Nel frattempo Mahmoud al-Ardah e Infaat sono tenuti in isolamento nella prigione di Ayalon a Ramla, Zubaidi nella prigione di Eshel e Kamamji nella prigione di Ohalei Kedar.

Prima di essere posti in isolamento i sei prigionieri sono stati sottoposti da parte della polizia e delle forze di intelligence israeliane a quelli che gli avvocati hanno descritto come durissimi interrogatori e molti di loro hanno denunciato abusi fisici e mentali.

Mohammad al-Ardah ha riferito di aver subito durante il suo interrogatorio delle torture, compresa la privazione del cibo, del sonno e delle cure mediche.

Quattro dei sei prigionieri prima dell’evasione stavano scontando l’ergastolo, mentre due erano detenuti in attesa di processo militare. I condannati sono stati arrestati tra il 1996 e il 2006 e condannati per aver compiuto attacchi contro obiettivi militari e civili israeliani. Cinque di loro sono affiliati al gruppo della Jihad islamica palestinese, mentre uno è un membro anziano del braccio armato di Fatah, organizzazione a capo dell’Autorità nazionale palestinese.

La maggior parte dei palestinesi, che vedono tutti i prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane come prigionieri politici nella lotta per la liberazione, hanno ovunque celebrato l’evasione.

Scioperi della fame contro la detenzione amministrativa

Inoltre lunedì il Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR) ha dichiarato di essere “seriamente preoccupato” per la salute di altri due prigionieri palestinesi che stanno affrontando uno sciopero della fame a tempo indeterminato contro la reclusione nelle carceri israeliane in regime di detenzione amministrativa – senza processo né accuse.

“Il medico del CICR ha visitato entrambi i detenuti, Kayed Nammoura (Fasfous) che è in sciopero della fame da 82 giorni e Miqdad Qawasmeh che lo conduce da 75 giorni, e ha monitorato attentamente le loro condizioni”, ha affermato Robert Paterson, responsabile sanitario del CICR.

“Siamo preoccupati per le conseguenze potenzialmente irreversibili per la loro salute e la loro vita di uno sciopero della fame così prolungato”.

Fasfous e Qawasmi sono detenuti all’ospedale di Kaplan e sono fra i sei prigionieri palestinesi in sciopero della fame contro la loro reclusione di mesi in regime di detenzione amministrativa.

Secondo la Commissione Alaa al-Araj ha raggiunto i 59 giorni; Shadi Abu Akar i 43 giorni;, Rayeq Bsharat i 44 giorni; e Hisham Hawwash i 49 giorni. I quattro sono detenuti presso il reparto medico della prigione di Ramle.

Attualmente Israele trattiene in detenzione amministrativa 520 prigionieri palestinesi – una politica che consente alla polizia e ai militari israeliani di tenere prigionieri i palestinesi a tempo indeterminato sulla base di “informazioni segrete” – senza sporgere denuncia formale o processarli, una pratica che risale ai tempi dell’occupazione britannica della Palestina.

Secondo Amany Sarahneh, portavoce della Associazione dei Pprigionieri Ppalestinesi (PPS), oltre ai due prigionieri citati dal CICR, anche Hawwash e al-Araj stanno affrontando gravi complicazioni per la loro salute.

Generalmente in questo stadio tutti gli organi vitali del corpo entrano in una condizione di rischio“, ha detto Sarahneh ad Al Jazeera, aggiungendo che i sei prigionieri sono “tutti in pericolo”.

Avvertono un’estrema debolezza fisica, alcuni di loro hanno disturbi oculari, altri della sfera cognitiva”, prosegue, aggiungendo che tutti loro si trovano su sedia a rotelle, ma che mancano ancora dei particolari sui problemi di salute che i prigionieri stanno affrontando.

Tutti i quattro detenuti nella clinica del carcere di Ramle, afferma Sarahneh, si trovano in condizioni di “isolamento molto duro”, in celle isolate, come misura punitiva per aver iniziato lo sciopero della fame. Riferisce che i prigionieri sono tenuti in stanze piccole e prive di igiene, alcune delle quali infestate da scarafaggi.

Secondo Sarahneh mercoledì alle 11 ci sarà un’udienza del tribunale militare israeliano per Qawasmi e al-Araj per sentenziare su una petizione presentata dal PPS che chiede il loro rilascio.

Altri prigionieri in detenzione amministrativa hanno scelto di interrompere l’assunzione dei loro farmaci, anche per malattie croniche, per fare pressione sulle autorità per il loro rilascio.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Giustizia razziale contro la lobby israeliana: quando essere pro-Palestina diventa la nuova normalità

Ramzy Baroud

5 ottobre 2021,Middle East Monitor

C’è un inequivocabile cambiamento nella politica americana riguardo la Palestina e Israele, contraddistinto dal modo in cui molti americani, specialmente i giovani, vedono la lotta palestinese e l’occupazione israeliana. Anche se questo cambiamento deve ancora tradursi in una riduzione tangibile della morsa israeliana sul Congresso degli Stati Uniti, promette di avere grandi conseguenze in futuro.

I recenti eventi alla Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti hanno dimostrato questa realtà senza precedenti. Il 21 settembre, dopo le obiezioni di diversi membri progressisti del Congresso, i legislatori democratici hanno respinto con successo un’istanza che proponeva di fornire a Israele 1 miliardo di dollari in finanziamenti militari extra come parte di un più ampio disegno di legge di spesa. Il denaro era destinato specificamente a finanziare l’acquisto di nuove batterie e intercettori per il sistema di difesa missilistico israeliano Iron Dome [cupola di ferro, ndtr.].

Due giorni dopo il finanziamento per il sistema Iron Dome è stato riproposto e questa volta è stato approvato in modo schiacciante, con 420 voti contro 9, nonostante l’appello accorato della rappresentante palestinese americana Rashida Tlaib. Nella seconda votazione solo otto democratici si sono opposti al provvedimento. Il nono voto contrario è stato espresso dal repubblicano Thomas Massie del Kentucky. La sfida di Massie al consenso repubblicano gli è valso il titolo di “Antisemita della settimana” da parte di una famigerata organizzazione filo-israeliana chiamata Stop Antisemitismo. Confondere le legittime critiche a Israele con l’antisemitismo è un modo in cui la lobby che sostiene Israele mette a tacere le voci a favore della Palestina.

Pur essendo tra coloro che il 21 settembre hanno bloccato la misura di finanziamento, la rappresentante democratica Alexandria Ocasio Cortez ha modificato all’ultimo minuto il suo voto [da contraria, ndtr.] a “presente”, creando confusione e suscitando rabbia tra i suoi sostenitori.

Nonostante l’esito finale, il fatto stesso che tale discussione abbia avuto luogo al Congresso costituisce una pietra miliare nella lotta per la giustizia razziale. Fare sentire la propria voce contro l’occupazione israeliana della Palestina non è più un tabù tra i politici statunitensi eletti. Non molto tempo fa mettere in discussione la legislazione filo-israeliana al Congresso avrebbe provocato una reazione massiccia e ben organizzata da parte della lobby, in particolare dell’American Israel Public Affairs Committee (AIPAC), che in passato ha posto fine a promettenti carriere politiche, anche di politici esperti. Una combinazione di diffamazioni mediatiche, sostegno ai rivali e minacce palesi ha segnato il destino dei membri dissenzienti del Congresso.

Per quanto l’AIPAC e le organizzazioni affini continuino a seguire le stesse vecchie tattiche, la strategia generale non è efficace come prima. I membri della Squad [Squadra, ndtr], giovani parlamentari che spesso si pronunciano contro Israele e a sostegno della Palestina, hanno fatto la loro comparsa al Congresso nel 2019. Con poche eccezioni sono rimasti ampiamente coerenti nella loro posizione a sostegno dei diritti dei palestinesi. Nonostante gli intensi sforzi della lobby che sostiene Israele, sono stati tutti rieletti nel 2020. La morale qui è che essere critici nei confronti di Israele nel Congresso degli Stati Uniti non significa più garantirsi una decisiva sconfitta elettorale; in alcuni casi è esattamente il contrario.

Il fatto che 420 membri della Camera abbiano votato a favore della concessione a Israele di fondi aggiuntivi, oltre ai 3,8 miliardi di dollari già esistenti, riflette la stessa triste realtà che, grazie ad una copertura mediatica inesorabilmente faziosa, la maggior parte dei collegi elettorali americani continua a sostenere Israele.

Tuttavia l’allentamento della morsa della lobby sul Congresso degli Stati Uniti offre opportunità uniche per gli elettori filo-palestinesi di esercitare pressioni sui propri rappresentanti, chiedendo responsabilità ed equilibrio. Queste opportunità non sono create solo da voci nuove e più giovani nelle istituzioni democratiche americane, ma anche dal rapido cambiamento dell’opinione pubblica.

Per decenni, la stragrande maggioranza degli americani ha sostenuto Israele per una serie di motivi, in ragione della definizione politica fornita dai rappresentanti istituzionali e dai media statunitensi. Prima del crollo dell’Unione Sovietica, per esempio, Tel Aviv era vista come un fedele alleato di Washington contro il comunismo. Negli anni successivi, sono state inventate nuove narrazioni per mantenere l’immagine positiva di Israele agli occhi dell’americano medio. La cosiddetta “guerra contro il terrore”, dichiarata all’indomani degli attacchi dell’11 settembre 2001, ha investito Israele del ruolo di alleato americano contro “l’estremismo islamico”. La legittima resistenza palestinese è stata dipinta come “terrorismo”, dando così all’occupazione della Palestina da parte di Israele una copertura morale, se non legale, per occultare il suo disprezzo per il diritto internazionale.

Tuttavia, nuovi fattori hanno destabilizzato questo paradigma. Il sostegno a Israele è diventato una questione controversa nella politica americana sempre più tumultuosa e combattiva, dove la maggior parte dei repubblicani sostiene Israele e la maggior parte dei democratici no.

Inoltre, poiché la giustizia razziale è diventata uno degli argomenti più sensibili della politica statunitense, molti americani ora vedono la lotta palestinese contro l’occupazione israeliana attraverso il prisma della lotta di milioni di americani per la propria uguaglianza razziale. L’hashtag dei social media #PalestinianLivesMatter continua a fare tendenza insieme a #BlackLivesMatter; la solidarietà comunitaria e l’intersezionalità prevalgono sulla politica egoistica, in cui conta solo il denaro.

Milioni di giovani americani ora vedono la lotta in Palestina come parte integrante della lotta antirazzista in America; nessun tipo di lobby a favore di Israele al Congresso può cambiare questa inconfutabile tendenza. Ci sono molte statistiche che lo attestano. Il sondaggio d’opinione presso l’Università del Maryland a luglio, ad esempio, ha mostrato che più della metà degli americani intervistati disapprova l’atteggiamento da parte del presidente Joe Biden verso la guerra di Israele contro Gaza del maggio di quest’anno, ritenendo che avrebbe potuto fare di più per fermare l’aggressione israeliana.

Ovviamente ci sono stati anche in passato dei politici statunitensi coraggiosi che hanno osato pronunciarsi contro Israele, ma c’è una netta differenza tra le generazioni precedenti e questa. In America oggi ci sono politici che vengono eletti per la loro forte presa di posizione a favore della Palestina. Se si discostano dalle loro promesse elettorali rischiano le ire del crescente elettorato filo-palestinese. Questa realtà in mutamento consente finalmente di coltivare e sostenere una presenza filo-palestinese nel Congresso degli Stati Uniti. In altre parole, parlare a sostegno della Palestina in America non è più un evento raro. Come il futuro sicuramente rivelerà, è la cosa “politicamente corretta” da fare; la nuova normalità.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Al-Aqsa: decine di coloni israeliani prendono d’assalto la moschea dopo le festività ebraiche

Redazione di MEE

5 ottobre 2021 Middle East Eye

Circa 70 ebrei sono entrati nella moschea attraverso il lato occidentale del complesso, con un’iniziativa considerata “provocatoria” dai palestinesi.

Martedì decine di coloni israeliani hanno preso d’assalto la moschea di al-Aqsa nella città vecchia di Gerusalemme est occupata, un’iniziativa considerata “provocatoria” dai palestinesi.

I media locali hanno riferito che circa 70 coloni sono entrati ad al-Aqsa attraverso la Porta del Marocco, sul lato occidentale del complesso, controllato dalle autorità israeliane dall’inizio dell’occupazione di Gerusalemme Est e della Cisgiordania nel 1967.

L’Islamic Waqf di Gerusalemme [l’istituzione islamica incaricata di gestire la Spianata delle Moschee ed altri luoghi sacri a Gerusalemme est, ndtr.] ha ripetutamente descritto i tour dei coloni come “provocatori” e ha affermato che i fedeli e le guardie palestinesi della moschea di al-Aqsa sono a disagio per la presenza di polizia e coloni israeliani nel luogo sacro musulmano.

Secondo un rapporto di monitoraggio dell’Agenzia nazionale palestinese (Wafa) [agenzia di stampa ufficiale dell’ANP, ndtr.], in settembre circa 6.117 coloni israeliani hanno fatto irruzione nel complesso durante le festività ebraiche di Rosh Hashanah, Yom Kippur e Sukkot.

Nonostante un accordo congiunto di lunga data tra Israele e Giordania, gli attivisti israeliani di estrema destra hanno ripetutamente fatto pressioni per una maggiore presenza ebraica ad al-Aqsa.

Alcuni attivisti israeliani di destra si sono dichiarati a favore della distruzione del complesso della Moschea di al-Aqsa per far posto a un Terzo Tempio.

Ma altri vogliono impadronirsi dell’area orientale del complesso, nota come Porta al-Rahmeh [della Compassione, ndtr.], per trasformarla in un luogo di preghiera esclusivamente ebraico, a cui si accederebbe da un’antica porta nelle mura orientali della Città Vecchia.

I musulmani e i cristiani palestinesi non cercano di pregare nella nella piazza del Muro del Pianto, il luogo più sacro dell’ebraismo, a est della moschea di Al-Aqsa. E in ogni caso per accedere al sito devono passare attraverso un rigoroso controllo di sicurezza.

Sotto attacco

La moschea di al-Aqsa è stata un luogo centrale delle violenze di maggio. Le forze israeliane hanno preso d’assalto il sito nel mese di Ramadan e hanno aggredito i fedeli palestinesi, sparando proiettili ricoperti di gomma e gas lacrimogeni.

Al culmine dell’epidemia di Covid-19, all’inizio del 2020, il complesso è stato chiuso del tutto per 69 giorni, ed ha riaperto finalmente il 31 maggio. Durante la chiusura le autorità israeliane hanno invece permesso ai coloni di visitare il sito ed entrarvi.

I coloni sostenuti dalle forze israeliane irrompono regolarmente nella moschea di al-Aqsa per recarsi alla Cupola della Roccia, una moschea costruita nel VII secolo dal califfato omayyade sul monte Moriah [il luogo in cui Abramo avrebbe dovuto sacrificare Isacco, ndtr.], e lì pregare.

Israele ha occupato Gerusalemme Est durante la guerra arabo-israeliana del 1967. Ha annesso l’intera città nel 1980, con una mossa non riconosciuta dalla maggioranza della comunità internazionale.

La Città Vecchia di Gerusalemme e il complesso di al-Aqsa rimangono i punti più delicati del conflitto israelo-palestinese.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Ottobre 2000 vs maggio 2021: come i palestinesi hanno sfidato la frammentazione

Zena Al Tahhan

4 ottobre 2021 – Al Jazeera

Analisti e attivisti affermano che le proteste del maggio 2021 hanno segnato un punto di svolta nella mobilitazione e nell’unità dei palestinesi.

Gerusalemme Est occupata – Durante i primi otto giorni dell’ottobre 2000 le forze israeliane uccisero a colpi di arma da fuoco 13 giovani palestinesi disarmati nelle proteste di massa all’interno di Israele (denominati dai palestinesi territori occupati nel 1948).

Definite “ottobre habbet” in arabo – che significa l’esplosione popolare di ottobre – le proteste e gli scontri avvennero all’inizio della seconda Intifada, o insurrezione, dopo l’uccisione e il ferimento di palestinesi da parte dell’esercito israeliano nei territori occupati nel 1967.

Interrompendo decenni di sistematica frammentazione fisica, politica e sociale del popolo palestinese da parte di Israele, le proteste di ottobre e l’Intifada segnarono un momento di unità popolare tra i palestinesi nei territori occupati del 1948 e del 1967

In particolare dopo gli accordi di Oslo del 1993 – che miravano, senza successo, a creare uno stato palestinese nei territori del 1967 – i palestinesi all’interno di Israele

erano stati lasciati fuori dall’equazione del progetto politico palestinese e subirono tentativi da parte del governo israeliano di pacificarli attraverso finanziamenti e stringenti controlli di polizieschi, mantenendo la loro emarginazione politica, sociale ed economica.

Sebbene dal 2000 siano scoppiate diverse grandi rivolte popolari palestinesi – anche tra i palestinesi all’interno di Israele – secondo analisti e attivisti le proteste e gli scontri che hanno spazzato il paese da nord a sud nel maggio 2021, definiti “habbet Ayyar” (esplosione di maggio), hanno segnato un evidente punto di svolta nel rapporto tra palestinesi e Stato, e nella mobilitazione popolare palestinese.

Ameer Makhoul, analista politico e scrittore con sede ad Haifa, dice ad Al Jazeera che, mentre le proteste del 2000 avvennero “per inviare un messaggio che [anche noi in Israele ndt.] siamo parte del popolo palestinese” e furono caratterizzate come “sostegno alla lotta del nostro popolo” nei territori occupati nel 1967, le proteste del maggio 2021 “hanno inviato il messaggio che siamo un’unica causa – che siamo parti interessate direttamente” e aggiunge che “non sono state proteste di solidarietà”, ma che i palestinesi in Israele ” sono stati in prima linea”.

Molteplici fronti

A fronte della serie di eventi rapidamente succedutisi tra fine aprile e maggio – principalmente le proteste contro i piani israeliani di pulizia etnica del quartiere palestinese di Sheikh Jarrah a Gerusalemme, i giorni dei violenti raid israeliani con centinaia di feriti nel complesso della moschea di Al-Aqsa durante il Ramadan e alla campagna di bombardamenti sulla Striscia di Gaza – la quarta in 13 anni – i palestinesi all’interno di Israele si sono mobilitati, obbligando lo Stato ad affrontare molteplici fronti aperti.

Il 10 maggio in almeno 20 località, compresi i villaggi più piccoli e meno conosciuti, palestinesi nelle aree del 1948 migliaia di persone sono scese in piazza con proteste e scontri descritti come “senza precedenti”.

Gli abitanti hanno bloccato strade, lanciato bottiglie molotov e pietre contro le forze israeliane, dato fuoco alle auto della polizia, rotto le telecamere di sorveglianza israeliane e rimosso le bandiere israeliane dai lampioni per sostituirle con quelle palestinesi.

Nelle grandi città come Haifa, Lydd e Ramle – città che sono state sottoposte a pulizia etnica nel 1948 e che oggi ospitano una minoranza palestinese – la questione è cresciuta di intensità quando israeliani armati, molti dei quali provenienti dalla Cisgiordania occupata, si sono trasformati in bande di strada che hanno attaccato case palestinesi e perpetrato linciaggi, che Makhoul descrive come “una minaccia esistenziale per il popolo”

Il 12 maggio per la prima volta dal 1966 [anno in cui finì l’amministrazione militare nei territori abitati da palestinesi con cittadinanza israeliana, ndtr.] Israele ha dichiarato lo stato di emergenza a Lydd e ha imposto il coprifuoco alla città mentre iniziava la guerra a Gaza. Ha anche fatto affluire rinforzi della guardia di confine, un corpo dell’esercito che di solito opera nella Cisgiordania occupata.

Secondo Mossawa, un’organizzazione per i diritti dei palestinesi, al 10 giugno la polizia aveva arrestato più di 2.150 palestinesi, oltre il 90% dei quali erano palestinesi residenti in Israele o a Gerusalemme. Le organizzazioni per i diritti umani hanno anche documentato l’uso eccessivo della forza, inclusi proiettili veri, proiettili di metallo ricoperti di gomma, lacrimogeni e granate stordenti. Si è anche rilevato che la polizia ha torturato i detenuti palestinesi in custodia e ha chiuso un occhio sugli attacchi di bande ebraiche contro abitanti palestinesi, collaborando in alcuni casi con loro.

Durante gli eventi Moussa Hassouna, un abitante palestinese di Lydd di 32 anni, è stato ucciso da un colono e il 17enne Mohammad Kiwan è stato ucciso in seguito dalla polizia a Umm al-Fahm. In migliaia si sono recati ai loro funerali.

Nel 2000 Israele ha trattato i “palestinesi in Israele” – come ci chiama – come se le questioni che si verificano in Cisgiordania– o in altre parole, alle questioni del popolo palestinese -non li riguardassero”, ha detto Makhoul. “Soprattutto dopo Oslo, ha tentato di separare e frammentare il popolo palestinese come se i palestinesi nei territori del ’48 fossero estranei alla causa Palestinese.

“Quello che è successo quest’anno è che Israele, per come ci ha aggrediti, ci ha trattati come se facessimo parte del popolo palestinese [nei territori occupati nel 1967, ndt.]. Continua “Nel 2000 ha cercato più di contenerci. Ora ha cercato di dissuaderci con la repressione… ha considerato gli ultimi scontri un fronte di guerra”.

Mohamad Kadan, uno scrittore palestinese che vive ad Haifa, è d’accordo. “Israele è rimasto scioccato dagli shabab (giovani) che sono scesi in strada, il che è dimostrato dal modo in cui la polizia ha interagito con loro”,dice ad Al Jazeera.

Loro (la polizia) erano stremati – era evidente. In alcuni casi, hanno finito le manette di metallo, quindi hanno portato quelle di plastica”, afferma Kadan, aggiungendo che “l’atteggiamento di Israele nei loro confronti è terrorizzare e incutere paura”.

Guidate dal basso

Ciò che distingue le proteste di maggio da quelle dell’ottobre 2000 è anche che sono state guidate dal basso, sia durante le proteste iniziali che nell’organizzazione dei movimenti giovanili che è seguita.

La decisione popolare di agire nel 2000 venne dai leader politici – dall’Higher Follow Up Committee [un’organizzazione che opera come coordinamento e rappresentanza nazionale dei palestinesi cittadini di Israele, ntd.] – e non dal basso”, afferma Makhoul.

Ora, le decisioni sono state prese dalla gente in tutti i sensi. Dai movimenti giovanili, dai movimenti popolari, dai comitati popolari di ogni città”, sostiene.

Kadan descrive coloro che inizialmente sono scesi in strada come provenienti da “situazioni di estrema marginalità”. Hanno gridato “dalle periferie più povere – le persone che qui non vedono un futuro”, dice. “Il potere e l’impatto di questi shabab sono stati molto chiari: è la voce che si è sentita e sempre lo dovrebbe essere”.

Mohammad Taher Jabareen, un 29enne abitante di Umm al-Fahm e uno dei fondatori del movimento (Hirak) di Umm al-Fahm, dice ad Al Jazeera che i giovani scesi in strada “non avevano nulla da perdere”.

Avevano bisogno di queste proteste, che hanno permesso loro di rompere la barriera della paura e prendere posizione per dire ‘quando è troppo è troppo’, per uscire dall’atmosfera di problemi familiari, politiche sistematiche contro di loro – tra cui criminalità organizzata, demolizioni di case, confisca di terre, restrizioni finanziarie, multe – tra le altre questioni”, afferma Jabareen.

Le organizzazioni per i diritti umani hanno da tempo documentato la lotta dei palestinesi in Israele, che sono 1,8 milioni. A parte gli sforzi di Israele nel corso degli anni per sopprimere la loro identità palestinese, la maggioranza vive in città densamente popolate e con scarso accesso alla terra e alle risorse – la maggior parte delle quali sono state espropriate durante e dopo il 1948 a beneficio dei coloni ebrei.

Dalla Seconda Intifada un nuovo fenomeno di criminalità organizzata – di cui gli abitanti affermano essere responsabile Israele– è diventato il problema numero uno per i palestinesi all’interno di Israele, ha causato centinaia di vittime e ha portato a grandi proteste.

Tuttavia gli abitanti sostengono che gli episodi che hanno spinto la gente a scendere in piazza sono stati gli attacchi israeliani a Sheikh Jarrah e al complesso della moschea di Al-Aqsa.

“La criminalità organizzata è uno dei mezzi attraverso i quali Israele allontana i palestinesi nelle aree del ’48 dalla scena politica”, sostiene Jabareen. “È come dire: ‘Tenetevi occupati tra voi con i vostri problemi e saremo liberi di agire come vogliamo con la moschea di Al-Aqsa e di imporre divisioni spaziali e temprali’”.

Il 7 maggio, la notte più santa del Ramadan, su un’autostrada la polizia israeliana ha tentato di impedire ad alcuni grandi autobus che trasportavano palestinesi dalle aree del 1948 di raggiungere la moschea di Al-Aqsa. Quando i passeggeri sono scesi e hanno iniziato a farsi strada a piedi, i palestinesi di Gerusalemme sono andati ad accompagnarli con le loro auto in città, in quella che è stata salutata come una vittoria e un momento di coesione.

Kadan descrive la Città Vecchia e il complesso della moschea di Al-Aqsa come “l’ultima fortezza del movimento nazionale palestinese”.

Sheikh Jarrah rappresenta il passato – lo sradicamento e la Nakba –, mentre Al-Aqsa e la Città Vecchia rappresentano ciò che è ancora possibile – che c’è ancora speranza per la liberazione della Palestina”, dice Kadan.

Makhoul afferma che il modo in cui “Al-Aqsa e Sheikh Jarrah hanno mobilitato Gaza, che poi ha mobilitato Gerusalemme” ha mostrato che si tratta di questioni sulle quali esiste un “pieno consenso popolare”.

“Ogni palestinese sentiva di avere una responsabilità individuale e personale nei confronti di Sheikh Jarrah e Al-Aqsa”, un sentimento che secondo Makhoul deriva anche dalla “debolezza della leadership politica palestinese”.

Mobilitazione e movimenti giovanili

Secondo Kadan, molti movimenti giovanili, che in seguito hanno consentito un’unità sostanziale tra i palestinesi nelle aree del ’48 e del ’67, sono emersi dopo i primi scontri con la polizia

A seguito dell’uso eccessivo della forza da parte della sicurezza israeliana e “una volta che la gioventù (shabab) si è stancata degli scontri, sono nate forme di lotta diverse”, afferma Kadan, spiegando che “in ogni città sono cresciute cellule per organizzare movimenti” composte da giovani che sono attivi nelle università, nei partiti politici e in altri contesti.

“Tutti hanno iniziato a organizzare discussioni su ciò che è accaduto nei giorni precedenti di intensi scontri e su cosa possiamo fare per andare avanti”, continua Kadan, osservando che oltre a movimenti già organizzati come Hirak [cioè movimento ntd.] Haifa e Hirak Umm al-Fahm, hanno iniziato a organizzarsi nuovi movimenti giovanili anche nelle città di Shefa ‘Amr, Kabul, Baqa al-Gharbiya, Kufr Kanna.

Dalle mobilitazioni di maggio sono nati anche i comitati di volontari per rispondere alla crisi locale, che comprendono un comitato di avvocati e un comitato di supporto psicologico per aiutare i detenuti nelle aree di Gerusalemme e del ’48.

Questa generazione non ha solo elaborato progetti, ma ha iniziato a costruire alternative. Hanno visto che i partiti politici e le istituzioni – quelli tradizionali come The Higher Follow Up Committee – non avevano più un ruolo. Non sapevano cosa fare”, dice Kadan.

Il 17 maggio è stato proclamato uno storico sciopero generale organizzato dai giovani nelle aree del ’48 e del ’67 con lo slogan “dal fiume al mare”, che Kadan descrive come un “punto di svolta” per la mobilitazione dei giovani.

C’era un’atmosfera in cui ogni città e villaggio si impegnava a prepararsi per lo sciopero – i giovani hanno iniziato a incontrarsi, a parlare e ad organizzare attività per il giorno dello sciopero – girando per le strade per verificare che lo sciopero fosse in atto, distribuire volantini alle persone, organizzare conferenze, interventi, seminari”, ha affermato Kadan.

Tra le altre iniziative, tra cui una maratona a Gerusalemme, i movimenti giovanili nelle aree del ’48 e del ’67 hanno organizzato contemporaneamente una “Settimana dell’economia palestinese” per appoggiare l’economia palestinese e boicottare i prodotti israeliani.

Makhoul afferma che “la forza di questa sfida sta aumentando di giorno in giorno”, guidata dal ruolo dei giovani e dei social media nell’esplosione popolare del maggio 2021.

“I social media sono la nuova geografia”, dice Makhoul. “Oggi il popolo palestinese può agire e considerarsi come un unico popolo, anche se non è tutto in patria o se non può incontrarsi in patria.

Ciò che ci distingue oggi è che ci siamo resi conto che il nostro campo di gioco è prima di tutto e principalmente il mondo e che Israele non detta le regole del gioco su come protestiamo, lottiamo per la nostra causa e la nostra gente e lavoriamo per raggiungere gli obiettivi del nostro popolo”, continua.

Makhoul afferma di ritenere che, anche se Israele “cerca di distruggere la cultura della resistenza nelle aree del ’48”, “avrà un problema maggiore con le nuove generazioni, che non prestano attenzione a ciò che dice Israele e non ne sono intimidite”.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Cresce la resistenza in Cisgiordania, aumentano i timori di Israele

Dr Adnan Abu Amer

4 ottobre 2021 Middle East Monitor

Con la progressiva ripresa delle operazioni della resistenza palestinese in Cisgiordania, i servizi di sicurezza e l’esercito di Israele sono sempre più preoccupati per quello che considerano un allarmante risveglio delle cellule della resistenza.

Di fronte ai recenti attacchi armati in Cisgiordania i servizi di sicurezza israeliani si interrogano sulla possibilità di mantenere la ferrea stretta imposta sulla Cisgiordania. Al momento all’interno del sistema di sicurezza israeliano prevale la convinzione che sono ormai finiti i tempi di relativa calma in Cisgiordania, almeno per l’imminente futuro.

Israele si rende conto che l’infrastruttura della resistenza non è stata completamente scoperta e che essa molto probabilmente consiste di piccoli nuclei che sono cresciuti e disseminati in un’area relativamente estesa nelle città, campi e paesi della Cisgiordania.

La nuova infrastruttura militare di Hamas in Cisgiordania è completamente diversa dalla tradizionale infrastruttura organizzativa basata su relazioni strette modellate su famiglia, clan, amicizia, luoghi di residenza e di lavoro, conoscenze di lunga data. I membri delle cellule non hanno più bisogno di incontrarsi, perché gli attivisti del movimento nel nord della Cisgiordania ricevono armi o istruzioni dai dintorni di Gerusalemme, e viceversa. Pertanto al momento Israele si concentra più sul lavoro di intelligence che su quello operativo, in quanto gli ambiti dell’attuale infrastruttura di Hamas non sono ancora del tutto chiari per la sicurezza israeliana.

Israele sostiene che le direttive dei capi di Hamas vengono trasmesse ai livelli successivi in Cisgiordania vuoi indirettamente, tramite il movimento di Gaza, o direttamente, e che talvolta ciò avviene in incontri mediante messaggi criptati. Questa è una grave minaccia per la sicurezza che l’esercito israeliano si trova ad affrontare.

Questo significa che la campagna israeliana a Gerusalemme e Jenin che mirava a colpire la pluriennale infrastruttura delle forze di resistenza non è completamente riuscita, perché oltre alle attività militari a Gaza, Hamas ha stabilito non da ieri un’infrastruttura organizzativa in Cisgiordania sotto la guida dei suoi alti dirigenti. L’obiettivo è di avere una forza di combattimento radicata nella zona.

Ciò dimostra che la serie di blitz portati avanti da esercito e apparati di sicurezza a Jenin e Ramallah nelle ultime settimane non erano di routine, non solo per le dimensioni e il numero di vittime, ma per le ripercussioni sul futuro della sicurezza sul terreno. Questi blitz sono una risposta alle esistenti tensioni a Gaza, agli attacchi offensivi in Cisgiordania e all’evasione di prigionieri dalla prigione di Gilboa.

La sicurezza israeliana ha fatto trapelare che si sarebbe già iniziato ad addestrare elementi armati, nonchè a tentare di produrre materiale esplosivo all’interno delle case. I membri delle cellule sono abitanti delle zone di Ramallah e Jenin, dove Hamas possiede già una solida infrastruttura, e dove l’Autorità Nazionale Palestinese e le sue forze di sicurezza stanno incontrando difficoltà operative.

E’ ormai evidente che Hamas sta cercando di creare un’infrastruttura armata attiva in Cisgiordania con l’obiettivo di attirare l’esercito in grosse operazioni nel cuore delle principali località dei Territori, mettendo così in cattiva luce l’Autorità Nazionale Palestinese ed il suo apparato di sicurezza per la loro collaborazione con Israele.

A dispetto di tutto ciò, non è ancora chiaro se l’esercito israeliano sia completamente riuscito a neutralizzare l’infrastruttura della resistenza a seguito delle sue recenti operazioni delle ultime settimane, specialmente nella recente serie di raid. Comunque sia, nell’esercito resta il timore che la capacità di penetrazione di Hamas in Cisgiordania possa crescere ulteriormente, non solo sul piano militare, ma anche politico ed educativo, e che la Striscia di Gaza e la Cisgiordania possano trasformarsi in due arene per un unico fronte, con il movimento di Hamas che le controlla e guida in base ai propri interessi e alla propria ideologia.

La preoccupazione israeliana per l’escalation delle operazioni di resistenza in Cisgiordania coincide con il 16^ anniversario del ritiro di Israele dalla Striscia di Gaza, il che contribuisce alla diffusione dell’ipotesi israeliana che se, in seguito a qualche accordo con l’Autorità Nazionale Palestinese, ci sarà un analogo ritiro da alcune parti della Cisgiordania, si verificheranno allora in Cisgiordania dei cambiamenti simili a quelli avvenuti a Gaza, e in quel caso Israele si troverà presto esposta alla minaccia di lanci di razzi dalla Cisgiordania verso le città di Kfar Saba, Petah Tikva e i dintorni di Tel Aviv.

traduzione dall’inglese di Stefania Fusero




Iron Dome: la farsa del finanziamento USA

Richard Falk

lunedì 4 Ottobre 2021, GLOBAL JUSTICE IN THE 21ST CENTURY

Che gli Stati Uniti paghino il conto per ricostituire la scorta di missili nel sistema difensivo israeliano Iron Dome (Cupola di Ferro) utilizzato durante l’attacco a Gaza in maggio è una caricatura di legalità e giustizia.

E che una tale iniziativa conquisti il sostegno di un voto di 420 a 9 in una Camera dei Rappresentanti (USA) altrimenti disperatamente divisa dovrebbe essere d’imbarazzo anziché l’occasione per ristabilire questa discutibile Relazione Speciale senza contare quanto il suo incondizionato mantenimento sia avverso al benessere della gente del Medio Oriente e alla razionalità strategica della politica estera USA.

Mistificazioni sulla Cupola di Ferro

Ci sono stati molti ragionamenti falsi attorno a questa ultima affermazione promiscua del militarismo israeliano. La Cupola di Ferro si presenta al mondo come arma puramente difensiva il cui solo ruolo è salvare la vita di civili innocenti. Se è così, perché non installare una Cupola di Ferro a Gaza, come ha osservato Alison, dov’è realmente necessaria a una popolazione del tutto priva di difesa e assediata che ha subìto un massiccio numero di vittime civili per ripetuti attacchi missilistici israeliani da molti anni.

Iron Dome

Chiunque sia consapevole della devastazione e delle vittime civili subite dalla popolazione di Gaza lo scorso maggio capirebbe che Israele ci penserebbe due volte prima di lanciare un’operazione militare aggressiva se la sua popolazione e le sue città fossero esposte ad attacchi di rappresaglia come la gente di Gaza. Non c’è bisogno di essere uno studioso di strategia militare per sapere che offesa e difesa sono letalmente interconnesse in condizioni di combattimento.

Non solo la Cupola di Ferro viene mal rappresentata, ma l’implicito attacco militare, con il nome in codice IDF [dell’esercito israeliano – ndt] sconcertante di “Guardiano delle Mura”, è stato falsamente descritto come risposta ‘difensiva’ al ‘terrorismo’ di Hamas e gruppi armati associati. Ignorati da tale reportage mediatico sono lo sfondo e il contesto israeliani molto incendiari. I razzi da Gaza furono preceduti da una serie di provocazioni israeliane a Gerusalemme-Est e in Cisgiordania; compresa la protezione alle marce ebraiche estremiste per i quartieri palestinesi con cantilene come ‘morte agli arabi’, la violenza dei coloni contro i palestinesi, e parecchie intrusioni e interferenze con la liturgia musulmana nel complesso di Al Aqsa durante un periodo di vacanze religiose.

Confronto fra vittime civili

Quando si facciano e le valutazioni di responsabilità per perdite di vite e un’autentica identificazione degli autori del terrorismo, è illuminante comparare le statistiche sulle vittime di queste periodiche operazioni militari israeliane condotte contro una società di Gaza intrappolata e del tutto vulnerabile. Uno dei princìpi basilari del diritto umanitario internazionale è il requisito che qualunque ricorso alla forza militare sia proporzionato nella reazione; un’altra norma primaria è la proibizione di ‘punizione collettiva’ all’articolo 33 della Quarta Convenzione di Ginevra. Nell’Operazione Piombo Fuso, del 2008-09, furono uccisi 14 israeliani e 1434 palestinesi; e nell’Operazione Pilastro di Difesa, del 2012, 6 israeliani e 158 palestinesi; nell’Operazione margine Protettivo, del 2014, 73 israeliani e 2100 palestinesi; in Guardiano delle Mura, del 2021, 12 israeliani e 256 palestinesi.

Questo confronto di vite perse è rivelativo, ma ancora lungi dal ritratto completo di uni-lateralità. A Gaza dopo le rispettive carneficine si nega di routine l’accesso ai materiali necessari per riparare il peggio dei danni inflitti a persone e cose, alquanto arbitrariamente per lunghi periodi, aggravando quella che a Gaza passa per normalità nei periodi migliori, ossia gli intervalli durante attacchi massicci, a parte i frequenti attacchi militari limitati, la violenza confinaria, e le innumerevoli intrusioni con droni di sorveglianza e sorvoli con schianti supersonici.

Contro uno sfondo così tormentato, il governo USA dovrebbe almeno trattenersi da sovvenzionare il militarismo israeliano addirittura oltre i già deprecabili $3.8 miliardi annui. Aldilà delle considerazioni morali e legali, ci si chiede perché Israele debba essere destinatario di tanta carità geopolitica godendo di una economia è robusta e di uno dei più alti redditi pro capite al mondo, con vantaggiose tecnologie di punta e un redditizio mercato in espansione per la sua industria delle armi e i programmi formativi antiterrorismo.

Non solo gli USA dovrebbero vergognarsi, ma sentirsi pure umiliati per erigere una tale piattaforma parlamentare bipartite pur restando nettamente spaccati su prospettive che dovrebbero essere imperativi apolitici: una politica confinaria e sull’immigrazione umana, finanziamento adeguato delle infrastrutture e della protezione sociale, mantenere aperto il processo elettorale a tutti i cittadini e preservare la democrazia politica nonostante la violenza insurrezionale, e dedicare tutti i fondi pubblici disponibili ad affrontare le minacce multiple attribuibili al cambiamento climatico.

E riguardo alle armi nucleari israeliane?

È anche rilevante la prospettiva strategica. In Medio Oriente persistono gravi pericoli di guerra in larga parte perché l’Occidente non sa trattare equanimemente gli armamenti nucleari. Molto tempo addietro ha facilitato acquisizione, possesso e sviluppo segreti di tale armamento da parte d’Israele ed è impegnato alla guerra se necessario per frustrare il presunto approccio dell’Iran alla soglia nucleare [militare]. Non osando Washington sfidare l’opzione nucleare d’Israele, gli USA sono costretti contro i propri interessi ad unirsi a Israele (e all’Arabia Saudita) nel confrontare l’Iran.

Dovrebbe essere evidente ad ogni osservatore equanime che l’Iran ha un persuasivo caso di sicurezza per un deterrente nucleare date le costanti minacce e violazioni della propria sovranità da parte delle provocazioni militari israeliane e USA. Dovrebbe essere ovvio che sicurezza, pace e sviluppo economico beneficerebbero tutti i popoli del Medio Oriente se nella regione fosse istituita una zona priva di armi nucleari, monitorata e verificata internazionalmente. Al tempo stesso ridurrebbe quasi a zero i pericoli di una guerra regionale e le inibizioni strategiche collegate al tenere Israele come unico paese cui è permesso avere tale armamento senza neppure una pretesa di rendicontazione.

E riguardo all’apartheid israeliana?

Ciò che sarebbe in primo piano nella sovvenzione di un apparato militare straniero sarebbe qualche riflessione sulla sua classifica nell’àmbito dei diritti umani. Nel caso di Israele, il fatto che l’anno scorso sia B’Tselem sia Human Rights Watch, entrambe rispettate ONG per i diritti umani, abbiano concluso dopo studi esaurienti che Israele fosse colpevole del crimine di apartheid, conclusione asserita anche nei particolari concreti dall’intrepido giornalista israeliano Gideon Levy. L’apartheid è elencata fra i crimini contro l’umanità nello Statuto di Roma, struttura portante del trattato che regola l’attività del Tribunale Penale Internazionale.

Il Parlamento [USA] finge di non vedere il crescente consenso sulla nozione che Israele è uno stato di apartheid, conclusione virtualmente riconosciuta dalla statuizione del 2018 nella sua stessa Legge Fondamentale che Israele è lo stato del popolo ebraico, con l’ulteriore implicazione della supremazia ebraica non solo in Israele bensì anche nei Territori Palestinesi Occupati, cioè in tutta quanta la Palestina storica. E con tutto ciò i media mainstream annotano blandamente questa dubbia riaffermazione di sostegno a Israele senza manco tentare di trattare le implicazioni dubbie di tale passo diplomatico di blocco.

E riguardo al diritto di resistenza palestinese?

In considerazione di quanto sopra, il discorso su Israele/Palestina dovrebbe come minimo riconoscere un diritto palestinese di resistenza operativo entro i limiti stabiliti dal diritto internazionale. È ora di smettere di sminuire la resistenza palestinese come ‘terrorismo’ e l’oppressiva dominazione israeliana come intrinsecamente ‘difensiva’.

Tenendo conto di queste considerazioni, dovremmo cominciare a renderci conto di quanto sia stata regressiva la mossa di donare $1 miliardo per una nuova fornitura di missili Cupola di Ferro a questo punto. Dovremmo fare una pausa di ringraziamento alla Squadra per aver tenuto saldamente, chiedendoci perché i Rappresentanti che sostengono le lotte delle persone di colore d’America manchino di esibire pur minimi segni di solidarietà con le vittime dell’ardua prova palestinese.


Richard Falk

Richard Falk è membro della Rrte TRANSCEND, studioso di relazioni internazionali, professore emerito di diritto internazionale all’università di Princeton, Ricercatore Distinto al Centro Orfalea di Studi Globali dell’UCSB, autore, co-autore o capo-redattore di 60 libri, e portavoce e attivista su affari mondiali. Nel 2008, il Consiglio delle Nazioni Unite sui Diritti Umani (UNHRC) ha nominato Falk a due mandati triennali come Rapporteur Speciale ONU sulla “situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967”. Dal 2002 vive a Santa Barbara, California, associate al campus locale dell’Università di California, e presiede da vari anni il consiglio d’amministrazione della Nuclear Age Peace FoundationIl suo libro più recente è On Nuclear Weapons, Denuclearization, Demilitarization, and Disarmament (2019

Traduzione di Miki Lanza per il Centro Studi Sereno Regis




A Gaza i minori devono scegliere fra lavorare o patire la fame

Aseel Kabariti

26 settembre 2021We Are Not Numbers

Ci sono varie forme di lavoro minorile. Molti pensano a un bambino in fabbrica, ma talvolta è un ragazzino adorabile che al mercato ti tira per la manica. 

Per favore, vuole comprare un po’ della mia menta?”, mi chiede un ragazzino con un bel sorriso e un taglio di capelli decisamente cool.

Era una giornata di sole e il mercato di Al-Shejaiya risuonava di rumori: la gente si affollava intorno ai banchi, le voci dei venditori e compratori che discutevano sui prezzi. In tutto quel frastuono io e la mia sorellina riuscivamo a stento a sentirci. Stavamo facendo la spesa per il Ramadan quando è saltato fuori il ragazzo.

Invece ti farò una foto,” ho risposto, immortalando il suo sorriso radioso.

Mia sorella ha suggerito di postarla su Instagram, ma io ho esitato. Postare una foto carina avrebbe normalizzato questo tipo di lavoro infantile oppure attirato un’attenzione quanto mai necessaria?

Lavoro minorile a Gaza

Secondo un rapporto UNICEF del 2018 almeno un terzo delle famiglie palestinesi vive sotto la soglia di povertà e la disoccupazione nella Striscia di Gaza è attestata al 53,7%. Dall’inizio della pandemia la situazione è solo peggiorata. Di conseguenza il numero di minori che lavorano nei negozi di famiglia o come venditori ambulanti è cresciuto drammaticamente. A ogni angolo delle strade più popolari di Gaza City c’è almeno un bambino che prega i passanti di comprare qualsiasi cosa stia vendendo. Molti di loro non hanno scelta; quello che riescono a guadagnare potrebbe essere l’unica fonte di sostentamento della loro famiglia.

Il lavoro minorile è sempre un male?

L’Organizzazione Internazionale del Lavoro definisce lavoro minorile ogni attività lavorativa “che priva i bambini e le bambine della loro infanzia, delle loro potenzialità e dignità e che danneggia il loro sviluppo fisico e mentale.” La Convenzione sull’età minima del 1973 “fissa a 15 anni (13 per i lavori leggeri) l’età minima generale per lavorare.”

Per fare l’avvocato del diavolo, queste definizioni, seppure moralmente ben intenzionate, non considerano le specifiche condizioni ed esperienze personali di un bambino lavoratore. Ci sono tre punti importanti da prendere in considerazione.

Primo, le organizzazioni internazionali hanno fissato l’età senza tener conto delle specifiche circostanze di ogni Paese. Ci sono molte famiglie a Gaza che dipendono totalmente dai figli per contribuire a fornire il supporto essenziale per sbarcare il lunario come comprare cibo e acqua. Se qui si seguissero le leggi internazionali e questi ragazzi non potessero lavorare, alcune famiglie morirebbero letteralmente di fame. Davanti alla scelta fra farli lavorare o lasciar morire di fame dei familiari, voi cosa scegliereste?

Secondo, ci sono doppi standard quando si tratta di decidere se il lavoro di un minore è un bene o un male. Per esempio, la società accetta che i minori lavorino come modelli, musicisti e attori, ma non in un negozio o magazzino. L’argomento principale è che quest’ultimo tipo di occupazione depriva i bambini della loro infanzia e non li aiuta a migliorare le proprie competenze.

Ma lavorare in un negozio o vendere qualcosa a un cliente può in realtà aiutarli a imparare e crescere, migliorare la comunicazione, la capacità di essere un leader e un buon venditore. E il lavoro può insegnare ai minori molte cose pratiche che non imparerebbero frequentando la scuola media e che potrebbero aiutarli a ottenere lavori migliori in futuro. Terzo, lavorare e andare a scuola non si escludono a vicenda. Anzi quasi tutti la frequentano. E lavorare può aiutarli nel loro percorso educativo, specialmente in questo periodo in cui è necessaria una connessione internet, soprattutto dopo lo scoppio del COVID-19 che ha spostato quasi tutta l’istruzione online.

Cosa dovremmo fare?

Il ragazzino che io e mia sorella abbiamo incontrato al mercato è stato costretto a passare la sua infanzia lavorando. Condizioni sociali, politiche ed economiche che non può controllare hanno definito la sua vita. Non dovrebbe lavorare per far sopravvivere la propria famiglia, ma la soluzione non è criminalizzare il lavoro minorile a Gaza. Si dovrebbe invece sostenere lo sviluppo economico e creare lavoro, insieme a un sostegno educativo e sociale per questi minori. E per quelli che devono lavorare ci sono alcuni benefici educativi e non dovrebbero necessariamente essere considerati in modo diverso da quelli di ogni bambino attore o musicista.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Insediamenti israeliani illegali: le società europee gli forniscono l’ossigeno economico

Eliana Riva

30 settembre 2021, Pagine Esteri

UniCredit, ING, Santander, Deutsche Bank, Allianz, BNP Paribas sono solo alcune delle 672 istituzioni finanziarie che hanno rapporti economici con 50 aziende attivamente coinvolte nelle attività delle colonie israeliane nei Territori Palestinesi Occupati.

Le colonie costruite da Israele in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, lo sviluppo ininterrotto degli insediamenti e gli incentivi politici ed economici previsti per facilitare lo spostamento della popolazione israeliana nei Territori Palestinesi Occupati, rappresentano una violazione della Convenzione di Ginevra. Molte risoluzioni e pareri rilasciati dalla Corte Internazionale di giustizia hanno affermato e riaffermato, in tempi più recenti, l’illegalità degli insediamenti Israeliani nei territori occupati nel 1967. Alla potenza occupante è proibito dalla legge internazionale spostare la popolazione da e verso i territori che occupa, confiscare terracostruiredeportare e impedire la circolazione. Tutte attività, queste, che Israele esercita regolarmente e quotidianamente in Cisgiordania e a Gerusalemme est. E nonostante ciò, sono molte le aziende, specie quelle europee, che hanno regolari rapporti commerciali con le colonie illegali. I nomi di alcune di queste a febbraio dello scorso anno sono state inserite nella lista “nera” dell’ONU: i loro rapporti finanziari con gli insediamenti illegali riguardano, includono e facilitano le violazioni dei diritti umani. Tra le altre, Airbnb, TripAdvisor, Cisco System, Expedia Group, Motorola Solutions, Siemens, Volvo Group.

Si parla di fornitura di materiale di costruzione per l’espansione delle colonie, di attrezzature utilizzate per la demolizione delle abitazioni palestinesi, di partecipazione alle pratiche di restrizione della libera circolazione e di interventi che non permettono le attività economiche dei palestinesi nei Territori Occupati. Ma anche di vendita di sistemi di sicurezza e di controllo utilizzati per impedirgli gli spostamenti.

 

Fiutando le tracce delle attività di queste imprese individuate dalle Nazioni Unite, il gruppo Don’t Buy into Occupation (DBIO), composto da 25 ONG palestinesi ed europee, è risalito ai rapporti finanziari che queste società hanno a loro volta con circa 700 gruppi europei. Si tratta per lo più di istituzioni finanziarie, banchecompagnie di assicurazionefondi pensionistici. Tra il 2018 e il 2021 tra prestiti e sottoscrizioni sono stati forniti a queste società 114 miliardi di dollari e a maggio 2021 erano 141 i miliardi di dollari in azioni e obbligazioni degli investitori europei. 10 dei 672 gruppi individuati, da soli, attraverso prestiti e sottoscrizioni, hanno fornito 77,81 miliardi di dollari alle imprese che sono attivamente coinvolte negli insediamenti israeliani: BNP Paribas (Francia, $ 17,30 bilioni), Deutsche Bank (Germania, $12,03 bilioni), HSBC (Gran Bretagna, $8,72 bilioni), Barclays (Gran Bretagna, $8,69 bilioni), Société Générale (Francia, $8,20 bilioni), Crédit Agricole (Francia, $5,55 bilioni), Santander (Spagna, $4,75 bilioni), ING Group (Olanda, $4,60 bilioni), Commerzbank (Germania, $4,37 bilioni). L’ultima della top tenl’italiana UniCredit, ha fornito 3,58 bilioni di dollari.

Il rapporto di 125 pagine si apre con la prefazione di Michael Lynk, relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967, nella quale senza mezzi termini afferma che gli investimenti, i prestiti, i contratti di queste società, forniscono alle colonie illegali “l’ossigeno economico di cui hanno bisogno per crescere e prosperare”.

Il gruppo che ha realizzato il rapporto fa presente che nonostante sia chiara la natura illegale delle colonie israeliane, le istituzioni europee continuano a fornire un’ancora di salvezza finanziaria alle aziende che vi operano, quando invece dovrebbero assumersi le proprie responsabilità e seguire l’esempio di quelle società che hanno chiuso i rapporti con le imprese presenti nella lista delle Nazioni Unite. Lista che, peraltro, è stata giudicata approssimativa e incompleta da parte del BDS, il Movimento per il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni.