Il post di Emma Watson mostra come le accuse diffamatorie di Israele sull’ antisemitismo stiano iniziando a crollare

Asa Winstanley

8 gennaio 2022 – Middle East Monitor

Emma Watson, attrice del cast di Harry Potter, è stata diffamata lunedì da un funzionario israeliano razzista. Ne parleremo più avanti.

Ma, innanzitutto, è importante notare che il governo israeliano si è sempre avvalso contro i suoi nemici di accuse inventate di antisemitismo.

Questo risale alla fondazione sulle fosse comuni dei palestinesi dello stesso Stato di Israele nel 1948.

Il primo a venire diffamato in questo modo è lo stesso popolo palestinese. Le false accuse di antisemitismo architettate da Israele e dalla lobby israeliana contro il movimento di solidarietà con la Palestina sono quindi di fatto un’estensione della campagna di disinformazione del progetto coloniale sionista contro gli stessi palestinesi.

Diplomatici e propagandisti israeliani sostengono da tempo che l’opposizione del popolo palestinese all’espropriazione della propria terra non è motivata da alcun senso di ingiustizia, ma semplicemente dal razzismo antiebraico. Secondo il canone dell’orientalismo imperialista europeo quest’ultimo è ritenuto misteriosamente endemico nelle società musulmane e arabe.

Questa è, ovviamente, una sciocchezza. Più che una sciocchezza, è una bugia velenosa e razzista.

I palestinesi si oppongono al movimento sionista – e alla sua creazione, Israele – perché ha significato e continua a significare espulsioni, massacri, apartheid, dittatura militare ed espropriazione per loro, per i loro figli e per i figli dei loro figli.

Il fatto che Israele si definisca uno “Stato ebraico” è irrilevante. I palestinesi si sarebbero opposti a qualsiasi progetto politico e/o religioso che li avesse cacciati dalle proprie terre nello stesso modo o in modo simile.

È proprio perché le ingiustizie israeliane sono diventate sempre più chiare per un numero sempre maggiore di persone che il movimento sionista e la lobby israeliana sono arrivati ​​a fare sempre più affidamento su accuse inventate di antisemitismo.

I propagandisti israeliani sanno che non possono prevalere discutendo in un dibattito aperto. Quindi, invece di cercare di battere gli attivisti sconfiggendo le loro argomentazioni, tentano di zittirli, cancellarli, bandirli e, soprattutto in Palestina, incarcerarli.

Ma le accuse false e tendenziose di antisemitismo contro i nemici di Israele sono diventate così smaccate che la maggior parte delle persone non ci crede più.

L’uso dell’antisemitismo come arma – uno strumento nell’arsenale israeliano quasi tanto potente quanto le armi nucleari non dichiarate che possiede – sta cominciando a perdere la sua forza.

Tutto ciò ci riporta a Emma Watson.

Lunedì Watson ha pubblicato su Instagram una blanda dichiarazione di solidarietà con il popolo palestinese. Sullo sfondo di manifestanti solidali che tengono in mano bandiere palestinesi ha pubblicato la didascalia: “Solidarietà è un verbo”.

Non era certo un’affermazione tendenziosa. Ma il riconoscimento stesso dell’esistenza dei palestinesi e dei loro sostenitori ha sollevato la rabbia e l’odio di Israele e della sua lobby.

Danny Danon, ex ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite e attuale presidente della sezione internazionale del partito israeliano ufficialmente all’opposizione Likud, ha attaccato il post di Watson su Twitter, sostenendo che esso dimostrava che lei è un'”antisemita”.

Naturalmente, come al solito, non è stata presentata alcuna prova di questo presunto “antisemitismo”.

Ma la risposta di Danon è particolarmente grossolana. È totalmente priva di “sfumature” – è una diretta e inequivocabile pretesa che se fai anche la più blanda dichiarazione di solidarietà con i palestinesi significa che sei ipso facto un antisemita.

Ciò che molti commentatori non sottolineano sono due fatti importanti: è Danny Danon stesso il vero razzista, e il post di Danon ha anche mostrato che lui, come tutti i sionisti, è il vero antisemita.

Manca in tutta l’informazione mainstream sul post di Watson e nel modo in cui è stato accolto (gli autori del titolo del Guardian hanno affermato in modo fuorviante che esso ha portato a una “disputa sull’antisemitismo”) che personaggio sia esattamente Danon.

È un famigerato razzista anti-palestinese.

Questo doveva essere sottolineato, ma per lo più non lo è stato. Come ha scritto la mia collega di The Electronic Intifada Nora Barrows-Friedman: “Danon è un politico di estrema destra che ha chiesto il ‘suicidio nazionale’ dei palestinesi e ha una lunga storia di dichiarazioni razziste contro arabi e africani”.

E come ha detto bene l’utente di Twitter Jonathan Kennedy, Danon “equipara il sostegno ai palestinesi all’antisemitismo, presuppone che la repressione del popolo palestinese sia una qualità intrinsecamente ebraica, il che in questo caso è la vera opinione antisemita”.

Alcuni sionisti “liberal” si sono preoccupati che la diffamazione di Danon contro Watson fosse troppo “rozza” e che quindi non sarebbe stata creduta.

Avevano ragione ad avere paura. Le reazioni contro l’affermazione di Danon sono state immense e massive ed è stato ridicolizzato e denunciato per le sue vergognose calunnie.

Ma, contrariamente alle preoccupazioni dei sionisti “liberal” rispetto declino della forza del loro uso dell’accusa di antisemitismo come arma, questo declino è da accogliere con estremo favore ed è atteso da molto tempo.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non rispecchiano necessariamente la linea editoriale di Middle East Monitor

(traduzione dall’inglese di Giuseppe Ponsetti)




Il governo olandese interrompe il finanziamento di un’associazione della società civile palestinese

Zena Al Tahhan

6 gennaio 2022 – Al Jazeera

L’iniziativa giunge nonostante un’indagine esterna non abbia trovato prove delle accuse israeliane di “terrorismo” contro l’Union of Agricultural Work Committees

Ramallah, Cisgiordania occupata – Il governo olandese ha affermato che non finanzierà più una delle sei importanti organizzazioni palestinesi della società civile e dei diritti umani che Israele ha messo fuorilegge come “associazioni terroristiche” nell’ottobre 2021.

In un comunicato che denuncia la decisione di mercoledì, l’Union of Agricultural Work Committees [Unione dei Comitati del Lavoro Agricolo] (UAWC), con sede a Ramallah, – di cui dal 2013 il governo olandese è stato il principale donatore– ha affermato che “questa è la prima volta che un governo interrompe i finanziamenti per la società civile palestinese sulla base di criteri politici.”

L’UAWC fornisce aiuto concreto ai palestinesi, anche recuperando terre a rischio di confisca da parte di Israele. Aiuta decine di migliaia di contadini nell’Area C, più del 60% della Cisgiordania occupata sotto diretto controllo militare israeliano e dove si trova la maggior parte delle illegali colonie israeliane e delle loro infrastrutture.

L’associazione afferma che prenderà in considerazione azioni legali per contrastare “la decisione dannosa e scorretta” del governo olandese che, ha avvertito, probabilmente “avrà ripercussioni ben oltre la nostra organizzazione.”

Nell’ottobre 2021 Israele ha messo fuorilegge sei associazioni in quanto “gruppi terroristici” con il pretesto che sarebbero affiliate al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), di sinistra. La decisione è stata ampiamente condannata dalla comunità internazionale e da organizzazioni per i diritti in quanto “ingiustificata” e “senza fondamento”, poiché il governo israeliano non ha fornito alcuna prova per sostenere le sue accuse.

La definizione israeliana mette in rapporto le sei associazioni con l’ala militare del FPLP, che è stata attiva come gruppo organizzato nella Seconda Intifada (2000-2005), quando ha effettuato attacchi contro obiettivi civili e militari israeliani.

Cinque associazioni sono palestinesi: il gruppo per i diritti dei prigionieri Addameer; l’associazione per i diritti Al-Haq; l’Union of Palestinian Women’s Committees [Unione dei Comitati delle Donne Palestinesi] (UPWC); il Bisan Center for Research and Development [Centro Bisan per la Ricerca e lo Sviluppo]; l’UAWC. La sesta è la sezione palestinese dell’organizzazione Defence for Children International [Difesa Internazionale dei Bambini], con sede a Ginevra.

Verifica esterna

La decisione del governo olandese ha fatto seguito a una sospensione di 18 mesi dei finanziamenti all’UAWC.

Nel luglio 2020, in seguito all’arresto di due collaboratori palestinesi dell’associazione, il ministero olandese del Commercio Estero e della Cooperazione per lo Sviluppo ha ordinato una verifica. Gli ormai ex-dipendenti sono accusati da Israele di essere stati responsabili nell’agosto 2019 di un attacco dinamitardo lungo una strada che ha ucciso una ragazza israeliana di 17 anni nei pressi della colonia illegale di Dolev, nella Cisgiordania occupata.

La verifica, condotta dall’associazione olandese Proximities Risk Consultancy [Consulenza di Priorità di Rischio], è iniziata nel febbraio 2021 ed ha riguardato il periodo tra il 2007 e il 2020, durante il quale l’UAWC ha ricevuto finanziamenti olandesi. I suoi risultati sono stati presentati mercoledì al parlamento olandese.

Mentre la verifica esterna ha affermato che i due ex-dipendenti hanno “ricevuto parte dei loro stipendi da spese generali finanziate dall’Olanda”, non sono state trovate prove di flussi finanziari tra l’UAWC e il FPLP né di legami tra l’UAWC e l’ala militare del FPLP. L’indagine ha anche affermato che non è stata trovata alcuna prova che personale o membri del consiglio di amministrazione abbiano utilizzato la propria posizione nell’organizzazione per organizzare attacchi armati.

Né è stata trovata alcuna prova di unità organizzativa tra l’UAWC e il FPLP o che il FPLP abbia fornito indicazioni all’UAWC,” afferma il rapporto di verifica, che ha trovato legami con i rami politici e civili del FPLP “a livello individuale tra il personale dell’UAWC e membri della direzione del FPLP.”

Proximities afferma che non si poteva pretendere che l’UAWC fosse al corrente di rapporti di singoli [dipendenti] con il FPLP,” continua il rapporto.

Colpo durissimo”

Nel suo comunicato di mercoledì l’UAWC afferma che la decisione “scioccante e sconvolgente” del governo olandese si è “basata su un certo numero di ‘rapporti di singoli’ che Proximities ha individuato – presunti collegamenti con il FPLP a titolo individuale di membri della direzione o del personale dell’UAWC.”

Evidenziando che “non può (e non vuole) interferire con le convinzioni e affiliazioni politiche personali dei propri dipendenti e membri della dirigenza,” l’UAWC afferma che la decisione legittima ed incoraggia “la strategia israeliana di attaccare le ong palestinesi” attraverso presunti legami politici delle persone che lavorano con esse.

Tutto ciò sta spostando l’attenzione internazionale dal furto e confisca di altra terra palestinese da parte di Israele e dalla sua brutale espulsione del popolo palestinese che vive sotto occupazione militare,” afferma l’UAWC.

Ryvka Barnard, vicedirettrice della Palestine Solidarity Campaign [Campagna di Solidarietà con la Palestina], con sede nel Regno Unito, ha definito l’iniziativa come “vergognosa” e ha affermato che “segna un precedente molto pericoloso” per le associazioni della società civile palestinese.

Con crescenti attacchi in tutto il mondo contro difensori della terra, popoli indigeni e contadini che producono per l’autoconsumo, la decisione del governo olandese di non finanziare più l’UAWC con queste false motivazioni è un gravissimo colpo e passerà alla storia come una vera battuta d’arresto nel progresso,” ha detto Barnard ad Al Jazeera. “Per decenni il lavoro di UAWC è stato fondamentale per appoggiare i contadini palestinesi nelle situazioni più vulnerabili, sottoposti a una terribile violenza dei coloni e a un’illegale furto di terre.”

Osservando che l’UAWC “ha fatto parte di un potente movimento per la sovranità alimentare in Palestina e a livello internazionale,” Barnard ha affermato che “queste sono le persone che ora più che mai dovremmo sostenere, e invece vengono attaccate.”

Martin Konecny, direttore di European Middle East Project [Progetto Europeo per il Medio Oriente], con sede in Belgio, ha affermato che la decisione è “assolutamente politica” e “non fondata su basi legali né su requisiti riguardanti la lotta al terrorismo”. Ha detto che la verifica contraddice la maggior parte delle affermazioni del governo israeliano.

Dal 1967 Israele ha messo fuorilegge più di 400 organizzazioni locali palestinesi e internazionali in quanto “ostili” o “illegali”, compresi tutti i principali partiti politici palestinesi, come Fatah, che governa l’Autorità Nazionale Palestinese, e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), che raggruppa varie organizzazioni e con cui nel 1993 Israele firmò gli Accordi di Oslo.

Le autorità israeliane hanno imposto questa etichetta anche a decine di associazioni di beneficienza e mezzi di comunicazione in Palestina e l’hanno utilizzata per fare irruzione nei loro uffici, emettere ordini di chiusura, di arresto e di detenzione contro persone e processarle per un lavoro con cui esercitavano diritti civili e per aver criticato l’occupazione israeliana, considerata illegale in base alle leggi internazionali.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




‘In fin di vita’: la famiglia del prigioniero in sciopero della fame chiede il suo rilascio immediato

Yumna Patel

3 gennaio 2022 – Mondoweiss

Il prigioniero palestinese Hisham Abu Hawash è entrato lunedì nel suo 140esimo giorno di sciopero della fame e, secondo la sua famiglia, è in condizioni talmente critiche che potrebbe morire in qualsiasi momento”.

Aggiornamento: Hisham Abu Hawash ha concluso il suo sciopero della fame martedì 4 gennaio dopo 141 giorni di sciopero, a seguito di un accordo con Israele per il suo rilascio dalla detenzione amministrativa il 26 febbraio.

Lunedì 3 gennaio il prigioniero palestinese Hisham Abu Hawash, 41 anni, è entrato nel suo 140esimo giorno di sciopero della fame e, secondo la sua famiglia, è in condizioni così critiche che potrebbe “morire in qualsiasi momento”.

Abu Hawash è stato arrestato dalle forze israeliane nell’ottobre 2020 nel cuore della notte nella sua casa di famiglia nella città di Dura, a sud di Hebron, nel sud della Cisgiordania occupata.

Poco dopo il suo arresto Israele lo ha posto in detenzione amministrativa, una pratica utilizzata da Israele che consente la detenzione dei palestinesi a tempo indefinito senza accuse o processo, sulla base di “prove segrete” contro di loro. Abu Hawash aveva precedentemente trascorso nelle prigioni israeliane due distinti periodi di detenzione amministrativa.

Il 15 agosto 2021, dopo quasi 10 mesi di detenzione amministrativa, la Corte Suprema israeliana doveva esaminare un appello sulla detenzione di Abu Hawash. Ma l’udienza è stata annullata in quanto la procura militare israeliana si è opposta alla presentazione dell’appello davanti alla corte affermando che a causa di “prove segrete” fornite da funzionari dell’intelligence israeliana Abu Hawash non avrebbe potuto appellarsi alla sua detenzione fino a quando non avesse scontato due anni di carcere in detenzione amministrativa.

Quel giorno Abu Hawash ha annunciato che avrebbe iniziato uno sciopero della fame per protestare contro la sua detenzione arbitraria.

Ora, a più di quattro mesi dall’inizio del suo sciopero, la sua famiglia sostiene che Abu Hawash si trova in condizioni critiche ed è in fin di vita.

“Potrebbe morire da un momento all’altro”, ha detto a Mondoweiss il fratello di Abu Hawash, Emad, dal soggiorno della casa di famiglia a Dura.

Non è più in grado di muoversi e riesce a malapena a parlare. La sua vista è offuscata, i suoi muscoli hanno iniziato ad atrofizzarsi e il potassio e gli enzimi epatici sono a livelli criticamente bassi”, riferisce Emad.

“Hisham era già affetto da problemi renali, che sono congeniti nella nostra famiglia, e ora i medici sono preoccupati che i suoi reni e altri organi possano cedere da un momento all’altro”, aggiunge.

Il ministero della Salute palestinese ha organizzato una delegazione che nel fine settimana ha visitato Abu Hawash presso lo Shamir Medical Center (Assaf Harofeh) a sud di Tel Aviv, dove è detenuto. Secondo una dichiarazione del ministero, “Abu Hawash soffre di offuscamento visivo, incapacità di parlare, grave atrofia muscolare e incapacità di muoversi, mentre la sua capacità di percepire ciò che accade intorno a lui è ridotta.“.

Secondo Emad, Hisham, che è padre di cinque figli di età inferiore ai 13 anni, ha rifiutato ogni tipo di vitamine e sostentamento, ad eccezione di una miscela di acqua per mantenerlo in vita. La famiglia di Hisham riferisce che verso le 3 di questa mattina è entrato in coma.

Hisham ha perso metà del suo peso. Un tempo pesava 85 kg e ora ne pesa meno di 40″, dice Emad, sottolineando che nelle immagini che vede di suo fratello sdraiato nel letto d’ospedale gli risulta “irriconoscibilie“.

Crescenti pressioni

Durante il fine settimana la mobilitazione è cresciuta, poiché le organizzazioni internazionali e i parlamentari statunitensi si sono uniti ai cittadini e ai leader palestinesi nella richiesta a Israele di rilasciare immediatamente Abu Hawash.

Manifestazioni si sono svolte nelle città della Cisgiordania, con folle a Ramallah, Betlemme, Hebron e Nablus che hanno chiesto il rilascio di Abu Hawash. Proteste simili sono state segnalate a Gaza, così come in paesi e città palestinesi in Israele.

In base alle informazioni, domenica la polizia israeliana ha picchiato i manifestanti durante una veglia per Abu Hawash a Umm al-Fahm, nel nord di Israele.

Lunedì notte dei manifestanti con le bandiere palestinesi si sono radunati davanti agli uffici dello Shin Bet, l’agenzia di intelligence interna di Israele, per chiedere il rilascio di Abu Hawash.

Secondo la famiglia di Abu Hawash e i resoconti degli organi di informazione palestinesi, le forze di polizia israeliane hanno fatto irruzione nella sua stanza d’ospedale e hanno allontanato con la forza dall’ospedale sua moglie Aisha, i suoi avvocati e i giornalisti.

Il Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR) ha rilasciato una dichiarazione in cui esprime preoccupazione per le condizioni di Abu Hawash, i potenziali effetti “irreversibili” del suo sciopero della fame e la “possibile perdita di una vita”.

I leader palestinesi, incluso il primo ministro palestinese Mohammed Shtayyeh, hanno affermato di ritenere Israele “pienamente responsabile” della vita di Abu Hawash. Il movimento della Jihad islamica a Gaza ha minacciato ritorsioni se Israele non avesse rilasciato immediatamente Abu Hawash.

Appelli per il rilascio di Abu Hawash sono stati diffusi attraverso l’utilizzo dell’hashtag #FreeHishamAbuHawwash sulle piattaforme sociali della rete. Lunedì in Palestina imperversava su Twitter la versione araba dell’hashtag, insieme al tag #FreeThemAll.

La deputata statunitense Rashida Tlaib si è unita agli appelli per il rilascio di Abu Hawash e ha condiviso su Twitter un video virale dei figli di Abu Hawash in lacrime mentre visitano per la prima volta il padre in ospedale.

“Hisham Abu Hawash – sposato, padre di 5 figli, detenuto senza prove, processo o persino un’udienza in tribunale (in violazione della legge internazionale) dall’ottobre 2020. In sciopero della fame per oltre 140 giorni. Solo il governo di Israele è responsabile di questa situazione e della sua salute e sicurezza”, ha scritto Tlaib.

Siamo con Hisham fino alla fine’

Nonostante le crescenti richieste di rilascio di Abu Hawash sulle piattaforme sociali e nelle piazze palestinesi, Emad Abu Hawash dice a Mondoweiss che la comunità internazionale non ha fatto il proprio dovere al fine di difendere suo fratello.

Emad, che collabora con il Centro Palestinese per i Diritti Umani (PCHR) [organizzazione indipendente con sede a Gaza, ndtr.], riferisce di aver inviato decine di lettere urgenti a organizzazioni come Human Rights Watch e Amnesty International per attirare l’attenzione sul caso di suo fratello, ma senza alcun risultato.

“Ho inviato lettere giorno dopo giorno a diverse organizzazioni internazionali, ma ho ricevuto poche o nessuna risposta”, dice Emad.

Nelle sue lettere, che ha fornito a Mondoweiss, Emad ha scritto, tra l’altro, del fatto che la tortura dei prigionieri e la detenzione amministrativa possono costituire crimini di guerra ai sensi dello Statuto di Roma [trattato internazionale istitutivo della Corte penale Internazionale, ndtr.] e costituire violazioni della Quarta Convenzione di Ginevra [che protegge da atti di violenza e dallarbitrio i civili che si trovano in mano nemica o in territorio occupato, ndtr].

Nelle lettere indirizzate sia a Human Rights Watch che ad Amnesty Emad ha scritto: “Chiedo rispettosamente il vostro intervento per costringere l’occupazione israeliana ad attuare le regole minime standard per il trattamento dei prigionieri e a rilasciare Hisham Abu Hawash data la mancanza di accuse e l’assenza delle garanzie richieste per un libero processo”.

“La comunità internazionale non può trovare scuse sostenendo di non essere consapevole di ciò che sta accadendo”, afferma Emad, che è stato anch’egli recluso in una prigione israeliana in condizioni di detenzione amministrativa.

Sono anni che le organizzazioni palestinesi per i diritti umani denunciano al mondo il crimine della detenzione amministrativa. Il mondo ne è a conoscenza, ma ha scelto di non agire”.

Secondo l’organizzazione per i diritti dei detenuti palestinesi Addameer attualmente 500 prigionieri palestinesi sono imprigionati da Israele in regime di detenzione amministrativa.

Il mese scorso Israele ha rilasciato il prigioniero palestinese Kayed Fasfous dopo 131 giorni di sciopero della fame attuato in protesta contro la sua detenzione amministrativa. Nel novembre 2021 il prigioniero palestinese Miqdad Qawasmeh ha concluso il suo sciopero della fame di 113 giorni dopo che Israele ha accettato di porre fine alla sua detenzione amministrativa a febbraio del 2022.

“Qualsiasi cosa succeda siamo con Hisham”, dice Emad. “Sta lottando per la libertà e noi saremo con lui fino alla fine”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




2021 in Palestina: finalmente si è sollevata una nuova generazione

Ramzy Baroud

3 gennaio 2022 – The Palestine Chronicle

Quando è iniziato, il 2021 sembrava essere un altro anno di normalità, in cui l’occupazione israeliana era incessante e così anche la miseria palestinese. Anche se molto di tutto questo resta vero, la dinamica dell’occupazione israeliana è stata sfidata da un sentimento senza precedenti di unità popolare tra i palestinesi, non solo a Gerusalemme est, Cisgiordania e Gaza occupate, ma anche tra le comunità palestinesi nella Palestina storica.

Una forte sensazione di cauta speranza ha finalmente rimpiazzato il prevalente senso di disperazione che si respirava negli anni precedenti. Accanto ad esso si è registrato in tutta la Palestina un senso di rinnovamento e di voglia di seguire nuove idee politiche. Per esempio, secondo un sondaggio condotto dal Centro di Informazioni e Comunicazioni di Gerusalemme (JMCC) pubblicato il 22 novembre, c’è un maggior numero di palestinesi della Cisgiordania che appoggiano la soluzione di uno Stato unico rispetto a quelli che ancora sostengono la soluzione di due Stati, ormai praticamente defunta, che ha dominato il pensiero palestinese per decenni.

La pandemia si fa sentire

Tuttavia l’anno è iniziato con un’attenzione su tutt’altra cosa: la pandemia da Covid-19. Oltre a devastare i palestinesi sotto assedio e occupazione, soprattutto nella Striscia di Gaza, la pandemia ha incominciato a diffondersi tra i prigionieri palestinesi.

A febbraio l’Autorità Nazionale Palestinese, insieme ad associazioni ed organizzazioni internazionali per i diritti umani, ha criticato Israele per aver bloccato l’accesso ai vaccini contro il Covid-19 nella Striscia di Gaza. Sono stati donati vaccini Sputnik 5 dalla Russia, il primo Paese che ha contribuito alla lotta contro la pandemia in Palestina. Alla fine le comunità palestinesi hanno avuto lentamente accesso ai vaccini arrivati attraverso il programma COVAX. Tuttavia la pandemia ha continuato a funestare la Palestina occupata, soprattutto poiché le autorità dell’occupazione israeliana hanno continuato a bloccare le misure di prevenzione palestinesi e a smantellare le strutture di fortuna per il Covid-19 nei territori occupati. Secondo il sito web Worldometer [sito che fornisce dati statistici in tempo reale per diversi argomenti, ndtr.], sono morti a causa del Covid-19 4.555 palestinesi, mentre 432.602 sono risultati positivi alla letale pandemia.

Elezioni cancellate

Come accaduto lo scorso anno, la crisi politica israeliana ha velocemente preso il sopravvento nei titoli dell’informazione, dato che la lotta tra l’allora Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ed i suoi rivali è proseguita, portando alla quarta tornata elettorale in Israele in due anni. Le elezioni di marzo hanno infine modificato lo scenario politico israeliano, grazie ad una strana coalizione di governo messa insieme il 13 giugno dal nuovo Primo Ministro israeliano Naftali Bennet. La coalizione ha incluso l’uomo politico arabo Mansour Abbas, il cui partito si è dimostrato determinante per la formazione del governo.

Mentre Netanyahu ed il suo partito Likud sono passati rapidamente all’opposizione, mettendo fine ad un regno durato 12 anni, i palestinesi hanno anticipato le loro elezioni che sono state indette dal presidente dell’ANP Mahmoud Abbas il 15 gennaio.

Le elezioni parlamentari e presidenziali dell’ANP sono state calendarizzate rispettivamente il 22 maggio e il 31 luglio. Era previsto che le due tornate elettorali sarebbero state seguite da un compromesso politico che avrebbe posto fine alla disunione politica palestinese garantendo uguale rappresentanza per tutte le formazioni politiche palestinesi, comprese Hamas e Jihad islamica, in una riproposizione dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP).

Purtroppo non è accaduto nulla di tutto ciò. Nonostante positivi colloqui sull’unità palestinese al Cairo nel corso di diverse settimane, Abbas ha annullato le elezioni programmate con il pretesto che tale decisione fosse stata presa per protesta contro il rifiuto di Israele di permettere la partecipazione degli elettori di Gerusalemme est.

In cambio per aver bloccato gli sforzi palestinesi per assicurare una parvenza di democrazia anche sotto occupazione israeliana ad Abbas è stato permesso di rientrare nella lista degli alleati di Washington. Certo in aprile gli USA hanno ripristinato gli aiuti ai palestinesi, con la promessa di riaprire l’ufficio dell’OLP a Washington, che era stato chiuso dall’amministrazione Trump, e anche con l’impegno di riaprire il proprio consolato a Gerusalemme, anch’esso chiuso da Trump nel settembre 2018.

Nonostante questi gesti, che sono serviti a rilegittimare l’ANP dopo quattro anni di completa emarginazione da parte USA, la nuova amministrazione Biden non ha offerto né un percorso per un nuovo processo di pace, né una pressione su Israele per porre fine alla sua occupazione o rallentare la velocità dell’espansione illegale delle colonie nella Palestina occupata. Infatti il tasso di costruzione delle colonie israeliane è cresciuto in modo esponenziale nel 2021 con l’annuncio in ottobre del piano di Israele di approvazione di migliaia di nuove unità abitative israeliane in Cisgiordania.

Da Sheikh Jarrah a Gaza

Le azioni provocatorie di Israele sarebbero passate inosservate da parte della comunità internazionale se non fosse stato per il popolo palestinese, che ha assunto una posizione collettiva utilizzando tutte le forme di resistenza, da Sheikh Jarrah, a Gerusalemme est, a Gaza. I fatti, che hanno infine portato ad una guerra di Israele contro Gaza a maggio, sono iniziati con uno dei soliti tentativi israeliani di pulizia etnica dei palestinesi da diversi quartieri di Gerusalemme est, compresi Sheikh Jarrah e Silwan. Però gli abitanti palestinesi di Gerusalemme hanno iniziato ad organizzarsi contro un ordine del tribunale israeliano di espellerli dalle loro case per essere poi sostituiti da coloni ebrei israeliani, come è stata la consuetudine per molti anni.

La resistenza popolare a Sheikh Jarrah ha incontrato una risposta di estrema violenza da parte israeliana, che ha coinvolto coloni armati, polizia israeliana e forze di occupazione, provocando il ferimento di almeno 178 manifestanti palestinesi il 7 maggio. I palestinesi in tutti i territori occupati hanno iniziato a mobilitarsi in solidarietà con i loro compagni ad Al Quds (Gerusalemme, ndtr.), conducendo ad una nuova devastante guerra israeliana contro la Striscia di Gaza il 10 maggio. La guerra ha provocato l’uccisione di oltre 250 palestinesi, il ferimento di migliaia e distruzioni su vasta scala.

La guerra israeliana mirava a distrarre l’attenzione dai fatti che avvenivano a Gerusalemme est. I disegni israeliani tuttavia sono falliti del tutto perché i palestinesi a Ramallah, Nablus, Haifa e in molte altre città, villaggi e campi profughi palestinesi hanno marciato in solidarietà con Sheikh Jarrah e Gaza, formulando un discorso politico che per la prima volta era scevro da riferimenti settari.

Per soffocare la rivolta palestinese Israele ha inviato migliaia di soldati e poliziotti, insieme a coloni ebrei e milizie armate nei territori occupati e nello stesso Israele. Molti palestinesi sono stati uccisi nei conseguenti scontri e attacchi. Tuttavia gli eventi di maggio hanno messo in luce non solo l’unità tra i palestinesi, ma anche il profondo razzismo che ha pervaso tutti gli ambiti della società israeliana. Il concetto secondo cui i palestinesi della Palestina storica si sono integrati nella nuova realtà e non fanno più parte di un più vasto corpo politico palestinese si è dimostrato completamente falso.

Boicottaggio, disinvestimenti e la CPI (Corte Penale Internazionale)

La resistenza palestinese in patria ha ulteriormente mobilitato la società civile in tutto il mondo. Organizzazioni per i diritti come Human Rights Watch e la israeliana B’Tselem sono arrivate alla conclusione che Israele è uno Stato di apartheid.

Il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) ha ricevuto molti incoraggiamenti nel corso dell’anno, dato che imprese come il gigante del gelato, Ben & Jerry’s, hanno deciso di disinvestire dai territori occupati e la multinazionale dello sport, Nike, ha deciso di porre fine del tutto alle proprie attività in Israele, pur senza giustificare la sua decisione in termini politici.

Inoltre il maggior fondo pensionistico della Norvegia, KLP, il 5 luglio ha dichiarato che non avrebbe più investito in imprese legate alle colonie israeliane. Più tardi nell’anno la famosa scrittrice irlandese Sally Rooney ha annunciato di rifiutare che il suo bestseller ‘Beautiful world, where are you’ fosse pubblicato da una società israeliana.

Intanto gli sforzi per far rispondere delle proprie responsabilità i criminali di guerra israeliani di fronte alla Corte Penale Internazionale (CPI) sono proseguiti incessantemente. In marzo l’allora Procuratrice capo, Fatou Bensouda, ha annunciato l’avvio di un’inchiesta formale su presunti crimini di guerra nei territori palestinesi occupati. Anche se Bensouda non è più a capo della CPI, il caso palestinese rimane aperto, nella speranza che la giustizia internazionale possa infine prevalere.

Nonostante le molte difficoltà, lo spirito di tutti i palestinesi si è nuovamente risollevato quando a luglio la delegazione olimpica palestinese è entrata nello Stadio Olimpico di Tokyo, portando la bandiera palestinese. La piccola delegazione includeva palestinesi di diverse regioni, cementando anche nella cultura e nello sport l’unità palestinese.

Resistere attraverso la fame 

Intanto i palestinesi in sciopero della fame hanno continuato la loro resistenza nelle carceri israeliane, con prigionieri come Kayed Fasfous e Meqdad Al-Qawasmi che hanno proseguito i loro scioperi per 131 e 113 giorni rispettivamente, fino ad arrivare quasi alla morte. Con una dimostrazione di ulteriore sfida, il 6 settembre sei prigionieri palestinesi sono evasi dalla prigione di Gilboa. Benché siano stati tutti catturati e, secondo le testimonianze, torturati in seguito al loro ri-arresto, la notizia ha catturato l’attenzione di tutti i palestinesi, che si sono sentiti più forti per quella che hanno percepito come un’eroica richiesta di libertà.

Tuttavia molti prigionieri palestinesi hanno sofferto anche nelle mani della stessa ANP, che ha continuato la sua prassi di illegittima detenzione e tortura degli attivisti palestinesi dissidenti. La morte di Nizar Banat nelle mani delle forze di sicurezza dell’ANP il 24 giugno ha provocato proteste di massa di palestinesi, in cui migliaia di persone hanno chiesto un accertamento delle responsabilità e giustizia per il critico dell’ANP che è stato picchiato a morte.

Il 2021 è stato un anno di guerra, perdite e distruzione per i palestinesi. Eppure è stato anche un anno di unità, di conquiste culturali e di speranza, poiché una nuova generazione ha infine occupato il centro della scena, affermando la propria identità e centralità per il futuro della propria patria.

Ramzy Baroud è giornalista e editore di The Palestine Chronicle. E’ autore di cinque libri. L’ultimo è: “These chains will be broken: palestinian stories of struggle and defiance in israeli prisons” (Clarity Press). Il dottor Baroud è ricercatore non residente presso il Center for Islam and Global Affairs (CIGA).

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Il ricamo palestinese: inserito nella lista UNESCO delle identità sociali e culturali

Aziza Nofal

4 gennaio 2022 ALMONITOR

I palestinesi esprimono soddisfazione per la registrazione del ricamo nella lista del patrimonio culturale dell’UNESCO dopo i tentativi israeliani di attribuirsi il tradizionale abito ricamato palestinese

RAMALLAH, Palestina — Il 19 dicembre il Museo della Palestina ha aperto le sue porte ai visitatori interessati a vedere una collezione di abiti tradizionali palestinesi ricamati in seta recentemente recuperati e trasferiti da Washington in Palestina.

La collezione, costituita nel 1986, risale a quando un uomo palestinese raccolse gli abiti tradizionali trasferendoli a Washington per metterli in mostra temporaneamente. A causa delle circostanze politiche e per paura della confisca israeliana, non era riuscito [sino ad ora] a riportarli in Palestina. La collezione presenta gli abiti delle donne che furono forzatamente sfollate dalla loro patria palestinese durante la guerra del 1948, e ogni abito rappresenta i motivi del ricamo di una certa area palestinese.

Secondo il curatore della collezione del museo, Bahaa al-Jaaba, questi abiti hanno un valore storico in quanto documentano i dettagli degli abiti dei rifugiati palestinesi nella loro terra originaria e costituiscono una parte del patrimonio palestinese e [documentano] lo stile tradizionale legato agli abiti ricamati.

La collezione è stata presentata assieme a scialli ricamati e accessori in argento. Jaaba precisa ad Al-Monitor: “Lo studio di questi abiti non solo ci fornisce una documentazione storica degli abiti tradizionali palestinesi, ma ci immerge anche nel contesto sociale e culturale degli abiti. Alcuni sono indossati in occasioni gioiose, mentre altri sono associati alla tristezza”.

Jaaba fa notare che uno degli abiti è stato strappato per tutta la lunghezza: ciò significa che la donna che indossava l’abito era stata informata della morte di una persona cara. Si strappò il vestito nel mezzo per esprimere la sua angoscia. Ciò è coerente con il contesto sociale [dell’epoca] in Palestina così come lo conosciamo.

Jaba afferma che questa collezione costituisce una fonte importante per i ricercatori e per coloro interessati alle tradizioni palestinesi perché copre tutte le aree storiche della Palestina, da Beersheba alla Galilea settentrionale e Safed e i vestiti risalgono almeno alla Nakba [la “catastrofe” della guerra del 1948/49 con relativa pulizia etnica e fuga dei palestinesi, ndt] – [molti] hanno più di 100 anni.

L’esposizione degli abiti ha coinciso con la celebrazione da parte dei palestinesi della dichiarazione dell’UNESCO di includere il ricamo palestinese nella Lista rappresentativa del patrimonio culturale immateriale dell’umanità, durante gli incontri della 16a sessione del Comitato intergovernativo per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale, tenutosi dal 13 al 18 dicembre a Parigi.

Il ministro della Cultura palestinese Atef Abu Seif osserva in una dichiarazione che la registrazione del ricamo nella Lista rappresentativa è un trionfo per il racconto palestinese degli eventi basato sul diritto dei palestinesi alla loro terra. Ha invitato “le organizzazioni internazionali ad assumersi le proprie responsabilità, a rispettare le decisioni internazionali e a non scendere a compromessi con la brutalità dell’occupazione e i suoi tentativi di rubare l’identità palestinese”.

La parte relativa al furto del patrimonio culturale palestinese è anche collegata alla rabbia palestinese, precedente alla dichiarazione, quando Israele usò il tradizionale abito palestinese durante il concorso di bellezza di Miss Universo e le concorrenti che lo indossavano affermarono che era israeliano.

I palestinesi hanno risposto a questo furto con campagne sui social media palestinesi per affermare che l’abito palestinese ricamato a mano con ago e fili di seta è loro e solo loro.

La Palestine Traditional Dress Association è stata una delle campagne lanciate e abbinata alle foto dell’abito palestinese ricamato sui social media, utilizzando l’hashtag #Elbiss_ Zayak_Min_Zayak (mostra con orgoglio il tuo vestito, nessuno può eguagliarti), che era diventato virale per alcuni giorni.

Maha el-Saca, ricercatrice presso il Palestine Heritage Center, fa notare ad Al-Monitor che il voto all’unanimità [dell’UNESCO] sul fatto che il ricamo sia palestinese è una protezione per l’artigianato da qualsiasi altro tentativo di furto.

Il ricamo è famoso in tutto il mondo, ma siamo gli unici ad aver aggiunto all’abito la nostra identità, abitudini e vita sociale ed economica che ne hanno fatto la nostra identità”, afferma.

Secondo Saca, i palestinesi riconoscono le città o i villaggi delle donne dai loro vestiti. L’abito di Jaffa è ricamato a forma delle arance e cipressi che la circondavano, mentre l’abito cananeo a Gerico aveva disegni geometrici. L’abito di Beersheba è rosso, ma se la donna diventa vedova, indossa l’abito ricamato di blu. “Se esprime il suo desiderio di sposarsi di nuovo, aggiunge ai ricami blu rose e giocattoli per indicare che è pronta a risposarsi”, spiega.

Saca crede che ora sia richiesto a tutti i palestinesi di perseverare in questo lavoro e praticare il ricamo come segno di identità per mantenerlo in vita.

Non è la prima volta che Israele cerca di attribuirsi l’abito palestinese. Negli anni passati, le assistenti di volo delle compagnie aeree israeliane avevano deliberatamente indossato l’abito palestinese, provocando indignazione da parte palestinese.

Afferma Marwan Abu Khalaf, ricercatore del patrimonio culturale palestinese presso l’Associazione Inaash Al-Usra, che il ricamo palestinese era noto come tale senza bisogno di dimostrazioni e nessuno può falsificare la storia. Inoltre aggiunge: “Questo indumento contiene decorazioni e disegni risalenti all’era cananea 3000 anni fa”.

Abu Khalaf spiega ad Al-Monitor: “L’influenza della civiltà cananea è evidente nei disegni e nelle iscrizioni confermate dagli scavi cananei in Palestina, oltre alla sua particolarità con i disegni di serpenti e alberi, che rappresentavano i simboli cananei”.

L’abito palestinese differisce da una regione all’altra e in base all’occasione in cui viene indossato. Nel nord dove si coltiva il grano, le spighe di grano erano la caratteristica più importante degli abiti. A Hebron e Betlemme, la tendenza era il disegno dell’uva. Inoltre, il colore e le iscrizioni degli abiti differivano a seconda dell’occasione. Ai matrimoni gli abiti differivano da quelli ordinari di tutti i giorni. Anche le vedove indossavano abiti diversi.

Abu Khalaf ritiene che, indipendentemente dal fatto che il ricamo sia registrato presso l’UNESCO, sia difficile per Israele rubare una storia – quella del ricamo – radicata in migliaia di anni. Non c’è paura che scompaia alla luce della consapevolezza palestinese della sua importanza. Nonostante tutti gli eventi a livello mondiale, il ricamo resiste in tutte le occasioni.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




L’inviato israeliano delle Nazioni Unite attacca Emma Watson che ha espresso sostegno ai palestinesi

Redazione di MiddleEastEye

 3 gennaio 2022 MEE

Gilad Erdan e l’ex ambasciatore Danny Danon ricevono reazioni negative in rete per aver criticato la star di Harry Potter che ha espresso solidarietà ai palestinesi

Lunedì l’ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite si è scagliato contro l’attrice Emma Watson dopo che la star di Harry Potter ha condiviso una foto su Instagram in solidarietà con i palestinesi.

Nel suo post, Watson ha condiviso l’immagine di un raduno pro-palestinese con la frase “La solidarietà è un verbo”. Nel commento, Watson ha incluso una citazione dell’attivista anglo-australiana Sara Ahmed, che ha detto: “La solidarietà non presuppone che le nostre lotte siano le stesse lotte, o che il nostro dolore sia lo stesso dolore, o che la nostra speranza sia per lo stesso futuro. La solidarietà implica impegno e lavoro, così come il riconoscimento che anche se non abbiamo gli stessi sentimenti, o le stesse vite, o gli stessi corpi, viviamo condividendo molte cose”.

Gilad Erdan, ambasciatore israeliano presso le Nazioni Unite, è ricorso a Twitter per criticare le osservazioni dell’attrice, e ha scritto: “La finzione può funzionare in Harry Potter ma non funziona nella realtà. Se si potesse, la magia usata nel mondo della fantasia potrebbe eliminare i mali di Hamas (che opprime le donne e persegue l’annientamento di Israele) e dell’Autorità Nazionale Palestinese (che sostiene il terrore). Mi piacerebbe molto!” ha aggiunto.

I suoi commenti sono arrivati poco dopo che anche Danny Danon, l’ex ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite, si è scagliato contro Watson.

“10 motivi da Grifondoro per essere antisemiti”, ha twittato Danon.

Gli utenti dei social media hanno criticato sia Erdan che Danon per i loro commenti, e molti hanno affermato che hanno “sviato l’attenzione dai veri casi di antisemitismo”.

Leah Greenberg, co-direttrice esecutiva di Indivisible Project, organizzazione no-profit fondata nel 2016 in risposta all’elezione di Donald Trump a presidente, ha affermato che le osservazioni di Danon sono “una perfetta dimostrazione del cinismo e della malafede del fare dell’antisemitismo un’arma per zittire elementari espressioni di solidarietà con il popolo palestinese.

“L’ex ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite definisce Emma Watson ‘antisemita’ per aver espresso solidarietà ai palestinesi. Peggio di una presa in giro”, ha twittato l’emittente Mehdi Hasan.

Nel frattempo, l’attivista palestinese Mohammed El-Kurd, che ha svolto un ruolo cruciale nella sensibilizzazione internazionale sugli sgomberi forzati dei palestinesi dal quartiere sotto occupazione di Sheikh Jarrah a Gerusalemme est, ha reagito con: “Piangi più forte che mi fai ridere”.

Il post su Instagram di Watson ha attualmente oltre 600.000 likes e oltre 47.000 commenti. La foto è stata originariamente pubblicata a maggio dal Bad Activism Collective [blog che “ esplora temi di giustizia climatica, ambientalismo, giustizia razziale, attivismo giovanile, giustizia per i disabili, teoria femminista queer, salute mentale, sovranità della terra e del cibo e smantellamento dei sistemi di oppressione”, ndtr.] dopo che l’ultima offensiva israeliana sulla Striscia di Gaza ha provocato la morte di oltre 250 palestinesi.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




‘Nel mio programma di dottorato a Gerusalemme ero l’unica araba in giro. A parte gli addetti alle pulizie’

Hilo Glazer

31 dicembre 2021 – Haaretz

Nihaya Daoud è abituata a far alzare le sopracciglia. Questa è stata la reazione quando è andata all’estero per un post-dottorato di due anni senza portare i figli e quando è diventata la prima araba in Israele nominata docente di salute pubblica. E non ha paura di stuzzicare le piaghe della sua comunità

Una delle impressioni formative dell’infanzia di Nihaya Daoud, professoressa di salute pubblica all’Università Ben-Gurion, è l’aver capito il sentimento di delusione provato dai propri genitori: il padre aveva dovuto accantonare le speranze di studiare e lavorare tutta la vita nell’edilizia mentre la madre, un’eccellente studentessa, era finita a fare la casalinga.

Sono cresciuta con una mamma che avrebbe tanto voluto continuare le scuole e un papà che avrebbe desiderato una buona istruzione, ma nessuno dei due ci è riuscito,” racconta Daoud, 55 anni. “Così hanno investito tutto in noi, i figli. Da adolescente mi hanno spedita a tutti i gruppi possibili di approfondimento del doposcuola: arte, natura, matematica. Il messaggio era: sii eccezionale.”

Daoud ha preso sul serio il messaggio, determinata a metterlo in pratica. Così circa 10 anni fa, quando le hanno offerto un post-dottorato all’Università di Toronto, non ci ha pensato su due volte. Aveva dei bambini, il più piccolo frequentava la terza elementare, e la sua famiglia rimase piuttosto spiazzata al pensiero che lasciasse la casa per due anni.

Dopo tutto ci sono dei gap generazionali quando si parla dell’idea di quello che una donna deve essere e di cosa le sia permesso fare per realizzarsi,” spiega Daoud. “Per mia madre è stato difficile accettare che andassi da sola. È lei che ha seminato queste ambizioni in me, ma ciò nonostante pensava che fosse un po’ troppo.”

Quelle della famiglia di Daoud non sono state le uniche sopracciglia a sollevarsi. “Ricordo uno dei miei colleghi ebrei chiedere al mio compagno: ‘Come puoi lasciarla andare da sola?’” dice. Ma Daoud, un’epidemiologa sociale la cui ricerca si concentra sulle ineguaglianze nelle politiche sanitarie e sulla salute delle donne, ha ignorato il chiacchiericcio. Uno dei suoi articoli più citati, scritto durante il suo periodo all’estero, riguarda il legame fra il livello economico basso e la violenza da parte di un partner intimo fra le donne indigene in Canada. Anche mentre scriveva articoli per pubblicazioni prestigiose, il soggiorno all’estero ha permesso a Daoud di vedere con occhi diversi il posto dove era cresciuta.

C’è solidarietà nella società di immigrati in Canada, ci si aiuta l’un l’altro. Qui non è più così. La gente è alienata dalla vita della propria comunità: ‘Io vivo per me stesso, fine’.”

È sempre stato così?

No. La società araba in cui sono cresciuta era molto più ugualitaria. I nostri vicini ci portavano la farina e noi gli davamo l’uva. C’era un sostegno reciproco. Oggi alla gente non interessano i vicini, nessuno si guarda intorno. Alcuni hanno una Mercedes, altri non hanno niente da mangiare. La società araba è passata attraverso processi di individualizzazione più estremi che negli Stati Uniti e Canada. Oggi le disparità economiche sono spaventose.”

L’ingresso recente e storico di un partito arabo (United Arab List – UAL- la Lista Unita Araba o Ra’am) nella coalizione di governo in Israele è stato venduto al pubblico arabo anche come una mossa per contribuire a massimizzare i successi materiali.

Certamente. Il pensiero di Mansour Abbas (leader della UAL) [partito islamista, ndtr.] è individualistico-capitalista e non nasce necessariamente dalla preoccupazione per la collettività. È una narrazione che favorisce gli strati più ricchi della società araba. Israele ovviamente è d’accordo. Il messaggio è: primeggiate e preoccupatevi solo di voi stessi, dimenticatevi della vostra nazionalità, identità. Potete diventare il primario di un reparto in un ospedale con un ottimo stipendio, costruire una casa come un castello, ma intorno a voi tutto è orrendo: la strada di accesso al paese non è asfaltata, non c’è illuminazione stradale, c’è immondizia sparsa ovunque, violenza dietro ogni angolo. Ma questo semplicemente non vi deve interessare. È incomprensibile. Le politiche della UAL magari producono qualcosa a breve termine, ma stanno lacerando la comunità araba dall’interno. Fra noi sono in corso cambiamenti pericolosi. E ironicamente la persona in prima linea in tutto ciò è lui stesso un medico, un dentista. Abbas avrebbe dovuto essere una persona istruita che lavora col cuore.”

La sua critica dell’alienazione dei membri di maggior successo della società araba si concentra sui medici.

Perché è il mio campo. Gli uomini arabi che sono tornati dopo aver studiato medicina all’estero non hanno applicato le loro conoscenze al miglioramento dei servizi medici offerti alla comunità araba. Quasi tutti hanno scelto specialità per far carriera, medicina interna, chirurgia, o sono andati ovunque il sistema israeliano li indirizzava. È abbastanza comune vedere una ‘posizione lavorativa’ araba cambiare ogni cinque anni. Ogni reparto ospedaliero ha la sua foglia di fico araba. In genere i medici arabi tendono a preferire cariche in ospedale piuttosto che la medicina di comunità. Secondo me dovrebbero cercare di esercitare una maggiore influenza nelle loro comunità.”

Daoud non indietreggia davanti all’esame delle piaghe infette della propria comunità, ma il suo sguardo è anche costantemente rivolto all’establishment israeliano che le ha ignorate. La sua ricerca, per esempio, si è concentrata sull’impatto di fenomeni socio-politici (demolizioni di case, poligamia, mancanza di stato civile) sulla morbilità e sull’accesso ai servizi sanitari fra gli arabi israeliani. Il suo lavoro differisce perciò dalle classiche ricerche in questo campo, come spiega: “Altri ricercatori di salute pubblica percepiscono le variabili di genere, livelli di istruzione o impiego come elementi che interferiscono negativamente sulla ricerca. Quindi le hanno neutralizzate e standardizzate. Io faccio l‘opposto. Io non metto al centro batteri e virus, ma i sistemi sociali e politici.”

Questa non è ricerca convenzionale,” sottolinea Daoud, aggiungendo che “non è facile far risuonare questa voce critica nella costellazione politica in Israele e in quanto appartenente a una minoranza. Non ha mai trovato un orecchio attento. Quando stavo lavorando al mio dottorato ci fu una discussione sull’uso nelle ipotesi di ricerca del termine ‘discriminazione,’ o se optare per ‘razzismo.’ Io insistevo con ‘razzismo.’ I miei tutor continuavano a dirmi: ‘Dobbiamo insegnarti come sopravvivere nel mondo accademico israeliano.’”

Stile di vita femminista

Daoud è stata la prima araba in Israele a ottenere un dottorato in salute pubblica e dopo è diventata la prima docente universitaria in questo campo della sua comunità. Oltre a essere una ricercatrice molto prolifica che ricopre molte posizioni pubbliche e cariche in vari organismi nazionali, trova anche tempo per l’attivismo politico. All’interno della sua comunità Daoud è considerata un’autorità su problemi sanitari, sociali e di genere e di tanto in tanto anche i politici arabi le chiedono un’opinione. Nell’ultima elezione ha ricevuto offerte di candidarsi da due partiti, racconta, ma le ha rifiutate con decisione.

Daoud è sposata con Anwar, preside di una scuola a Gerusalemme Est. La coppia vive nella comunità ebraico-araba di Neve Shalom, situata fra Gerusalemme e Tel Aviv, e ha tre figli ormai grandi. È cresciuta a Tira, una città del “Triangolo” (una concentrazione di località arabe nel centro del Paese, vicino alla Linea Verde, [il confine tra Israele e Cisgiordania prima dell’occupazione nel 1967. ndtr.]), dove è nata anche sua madre. Nihaya è la seconda femmina di sette figli (“Sei di noi sono andati all’università”). Lei crede che l’enorme pressione e l’incoraggiamento ricevuti dai genitori non siano necessariamente unici e limitati alla sua famiglia e abbiano anche un contesto storico.

Il bisogno di dimostrare ciò che si vale con un’istruzione superiore è un ethos adottato da molti ‘migranti interni’ dopo la Nakba,” dice riferendosi alla guerra del 1947-49, la “catastrofe” quando oltre 700.000 arabi palestinesi fuggirono o furono espulsi dalle loro case. “Persero casa, terra e fonti di sostentamento, quindi gli studi diventarono parte della loro lotta per la sopravvivenza. Per chi è restato nelle proprie comunità e sulle proprie terre l’aspirazione a conseguire un’istruzione non è stata cosi forte, mentre i migranti interni hanno sviluppato una resilienza nel seguire questa strada.”

Daoud ricorda che la biblioteca nella casa dei genitori era sempre ricca e varia e includeva testi di politica. Normalmente andava con il padre alle riunioni del partito comunista, la sorella ha studiato medicina in Bulgaria con il sostegno del partito. Lei ha preferito rimanere in Israele e iscriversi a un corso di laurea in infermieristica all’Università Ebraica di Gerusalemme e da allora ha sempre fatto parte del mondo accademico.

Durante il mio dottorato in salute pubblica presso l’Hadassah (Centro Medico a Gerusalemme) ero l’unica araba del corso e praticamente l’unica araba in giro, a parte gli addetti alle pulizie,” racconta. “Nessuno mi ha fatto concessioni. Al contrario ho dovuto lavorare più duro per farmi strada.”

E per spiegarsi cita il caso di “quando ho contattato la Commissione di Helsinki (che supervisiona la ricerca medica e la sperimentazione sugli esseri umani) presso una notissima istituzione accademica di cui non farò il nome e chiesto di parlare al direttore. La segretaria l’ha chiamato al telefono dicendo: ‘C’è una tizia araba che vuole parlare con lei.’”

Durante la sua permanenza a Toronto, agli inizi del 2010, dove ha studiato per il post-dottorato, Anwar e i figli andavano a trovarla durante le vacanze mentre lei tornava in Israele appena poteva. Per la maggior parte del periodo i lavori di casa furono svolti dal marito. “Capitava anche che arrivassi alle otto di sera, lui non aveva cucinato e non ci fosse niente da mangiare.”

Il femminismo di Daoud non si limitava alla sua casa. Ha fatto la volontaria per la hotline per donne picchiate nella comunità arabo-israeliana ed è stata intensamente coinvolta in organizzazioni della società civile come Women and their Bodies [Donne e i loro corpi], un’ong ebraica e araba. Il suo ultimo progetto, che ha fondato con altre quattro professoresse, si prefigge di incoraggiare studentesse arabe a impegnarsi in carriere accademiche ad alto livello in tutti i campi. Comunque un tentativo di stabilire un comitato per l’avanzamento delle donne arabe è finito in modo frustrante: “Erano coinvolte nell’iniziativa donne provenienti da un’ampia gamma di campi: legge, educazione, sanità e così via. Avrebbe dovuto funzionare secondo il modello della rete delle Donne di Israele [una organizzazione lobbystica]. È stata una grande delusione. Donne di partiti arabi che si considerano vere femministe l’hanno semplicemente silurata a causa di conflitti interni per ottenere fondi.”

Ha provato una delusione simile all’inizio della sua carriera. Allora era la funzionaria del Ministro della Salute incaricata di creare programmi didattici per il sistema scolastico.

I programmi erano destinati al pubblico ebraico e quando ho chiesto che fosse implementato nella comunità araba mi dissero che non c’erano i soldi,” ricorda Daoud. “Ho capito allora che non era il posto giusto per me e ho deciso di cambiare direzione e concentrarmi sulla ricerca.”

La sua prima ricerca significativa si è occupata di come i meccanismi di discriminazione ed esclusione causino problemi di salute fra le donne beduine.

Abbiamo esaminato l’accesso ai servizi sanitari facendo un paragone fra donne di comunità riconosciute dallo Stato e donne di località non riconosciute. Naturalmente la situazione nelle comunità non riconosciute era molto più grave. Abbiamo visto chiaramente che il basso livello sociale fra le donne aveva implicazioni per la loro salute mentale e fisica. Una conseguenza di questo è la frequenza di depressione postnatale fra le beduine. La discriminazione è così profonda e radicata che si può fare molto poco a proposito. Mi sono sentita persa, non avendo nulla da offrire a queste donne.”

E poi si è chiesta: “Che senso ha?”

No, non mi sono mai limitata alle pubblicazioni accademiche, ma ho incontrato le persone rilevanti per parlare dell’argomento. Il tema della poligamia, per esempio, è emerso in un comitato insediato dal Ministero della Giustizia. Purtroppo non sono state invitate abbastanza arabe per comparire in commissione e le sue conclusioni sono state limitate. Lo Stato legalizza la poligamia per far star zitti i beduini su altri temi. In pratica lo Stato ha detto loro: ‘Tenete sotto controllo le vostre donne, ma non parlateci delle terre.’ Lo dico nel modo più diretto. E sfortunatamente l’oppressione delle donne nella società beduina ha conseguenze distruttive per la società nel suo complesso.” (Mentre la poligamia è praticamente illegale in Israele, sembra che in certi contesti le autorità chiudano un occhio).

Come?

Se l’uomo si occupa a malapena della sua ex moglie o della prima moglie, se lei è stata privata della possibilità di studiare, se non ha fonti di reddito, allora in realtà non ha status. E quindi anche la sua autorità sui figli viene meno. Che investimento nei propri figli ci si può aspettare da una donna così? E come ci si può sorprendere di quello che sta succedendo oggi?”

Sta alludendo alla cosiddetta “perdita di governance nel Negev”?

Certamente, questa è una delle spiegazioni. Quando le donne non hanno quasi controllo sulle proprie vite, il loro influsso sui figli è limitato.”

Alcuni anni fa, Daoud ha condotto con la partecipazione di 1.401 donne uno studio che analizzava le dimensioni della violenza domestica in Israele. “Abbiamo visto che la percentuale di denunce di violenza che riguardavano donne arabe era più del doppio che fra le ebree,” dice. Il database da lei creato le è servito come piattaforma per un ulteriore studio, centrato sull’uso dei servizi sanitari da parte delle donne.

I risultati hanno mostrato che le donne arabe che subiscono violenza consultano un ginecologo tre volte più spesso delle donne ebree picchiate. Le donne arabe si servono anche del servizio di stanze di emergenza con frequenza maggiore. La nostra interpretazione è che le donne arabe cercano l’aiuto del sistema sanitario solo quando subiscono gravi violenze fisiche. La decisione di vedere un ginecologo si spiega con la riluttanza a consultare il medico di famiglia e il timore che non risponderebbe adeguatamente. Inoltre il ginecologo consultato molto probabilmente sarà una donna che non vive necessariamente nello stesso paese e con ogni probabilità non sarà parente della paziente.”

Questa osservazione allude a uno dei maggiori ostacoli che si trovano davanti le donne arabe che sono cittadine israeliane nella loro ricerca del migliore servizio sanitario. L’ostacolo, fa notare la docente, parte dalla struttura familiare della medicina di comunità nella società araba, in particolare nelle zone rurali. Quindi molte donne vengono indirizzate a un medico di famiglia che è anche un parente.

Questo è un problema critico per le donne che sono vittime di violenza,” spiega Daoud. “Queste donne non hanno il coraggio di andare da un medico che è un parente oppure se quel dottore nota segni di violenza probabilmente non ci farà molta attenzione.”

Suppongo che ciò faccia sorgere difficoltà anche con problemi di salute meno seri.

Giusto. Dopo tutto non tutte le visite da un medico di famiglia riguardano un raffreddore. Talvolta c’è bisogno di un’impegnativa per un esame al seno o si devono rivelare dettagli intimi. Non è piacevole per una donna se il dottore che la esamina è suo cugino o il cugino di suo marito. Inoltre lei non può scegliere un dottore senza il consenso del compagno. Farsi visitare da un dottore di un’altra hamula (famiglia estesa) richiede una spiegazione: cosa è successo? Perché proprio lui? Perché non vai dal nostro parente? Questo ostacolo è un problema all’interno della comunità araba, ma è collegato a un vizio di tutto il sistema: più un medico ha successo nell’attrarre molti pazienti, più guadagna e la platea più facile da raggiungere per reclutare pazienti è la famiglia.”

Questo è un fenomeno problematico in sé: l’abuso della struttura familiare nella società araba per reclutare medici per scopi di marketing: le health maintenance organizations – HMO [enti privati di previdenza medica, ndtr.] approcciano i medici di famiglia arabi e li pagano enormi somme di denaro per portare i loro parenti nell’HMO. O, alternativamente, offrono loro un posto fisso a condizione che le loro famiglie aderiscano al HMO. Quali sono le conseguenze?

Serie. È una forma di corruzione. Così il sistema sanitario calpesta i diritti delle clienti assicurate. Quando i medici sono assunti non per la qualità dei loro servizi o per la loro eccellenza, ma solo per i benefici economici che possono fornire, si abbandona l’obbligo fondamentale di fornire alla comunità il servizio migliore da parte di tali professionisti. Alcuni di questi dottori sono assunti per lavori a contratto, non in medicina. Io vedo medici di famiglia che sono diventati piuttosto ricchi in questo modo, fanno soldi a spese dei pazienti. Comunque le stesse cose succedono anche nella società haredi [ebrei ortodossi e ultraortodossi, ndtr.]. Il fatto che il sistema permetta che il fenomeno esista, che addirittura lo incoraggi fra i gruppi più deboli della popolazione, è molto grave. Non deve succedere. Il Ministero della Salute deve intervenire.”.

La ricerca più recente di Daoud tratta della separazione tra le madri ebree e quelle arabe nei reparti di maternità degli ospedali. Il fenomeno in sé non è nuovo: è apparso sulle prime pagine dei giornali cinque anni fa in seguito a un’affermazione sull’argomento di Bezalel Smotrich (all’epoca parlamentare di Habayit Hayehudi, [“Casa Ebraica” partito di estrema destra dei coloni, ndtr.]): “È semplicemente naturale che mia moglie non voglia stare vicino a una che ha appena dato alla luce  un bambino che potrebbe assassinare nostro figlio fra 20 anni.” Daoud non cerca di quantificare il fenomeno, ma di svelarne l’origine. Il suo studio è consistito di interviste approfondite con direttori di ospedali, ostetriche, infermiere e neomamme, che hanno consentito a Daoud di rintracciare tre meccanismi di quello che lei chiama separazione razziale e cura iniqua nei reparti di maternità.

Il primo livello è la separazione che esiste in Israele in ogni ambito della vita e ci sono donne che vogliono imporre la separazione all’interno degli ospedali. Il secondo meccanismo è la commercializzazione dei servizi di maternità in Israele. Gli ospedali ricevono grandi somme di denaro dallo Stato per ogni parto e perciò lo staff capitola davanti alle richieste delle donne: ‘Vi daremo quello che volete purché veniate da noi.’ Il terzo meccanismo è ‘l’adattamento culturale.’ Il personale dell’ospedale ha trovato la giustificazione per la segregazione sostenendo che è per il bene delle donne.

Uno dei direttori ci ha detto chiaramente: ‘Quando Svetlana lascia la sala travaglio, perché dovrei metterla in un reparto con Fatma? Per lei sarà molto meglio una stanza con qualcuno come lei. Una mamma russa al massimo avrà un visitatore, un’araba sarà inondata da visitatori di tutta l’hamula.’ Proprio cosi, queste precise parole.”

Dopo lo shock vale la pena chiedere: E cosa ci sarebbe di così tremendo? Se una donna incontra solo gente come lei per tutta la sua vita, perché deve cercare di coabitare in una situazione così intima come il parto?

Una domanda legittima. Noi sappiamo che questa separazione è all’origine di discriminazione e razzismo in tutti gli ambiti della vita: alloggi, istruzione, welfare, trasporti. E noi vediamo come la separazione fra comunità arabe ed ebraiche causi un razzismo sistemico. Quindi non si deve prendere quel modello e clonarlo nel sistema sanitario. Gli ospedali dovrebbero essere strutture aperte a tutti.”

Non è che la conclusione che la segregazione conduca a un trattamento medico non ottimale sia un po’ esagerata?

Non credo che medici e infermieri agiscano in base a un razzismo consapevole o vogliano dare alle donne arabe trattamenti al di sotto della media. Ma noi sappiamo che il sistema sanitario è oberato e affamato di risorse, e così il personale deve stabilire delle priorità. La preoccupazione è che per il solo fatto che tu (in quanto professionista medico) stia mettendo un gruppo di donne appartenenti alla maggioranza della popolazione in una stanza e un gruppo di donne appartenenti alla minoranza in un’altra stanza, visiterai per prima la prima stanza. Quando il sistema soffre di mancanza di personale entrano in gioco gli istinti primari ed è lì che sta il pericolo.”

Cecità culturale’

All’inizio del mese Daoud ha ricevuto il premio Sami Michael Prize for Equality and Social Justice [Premio Sami Michael per l’Eguaglianza e la Giustizia Sociale], assegnato dall’Heksherim Institute for Israeli and Jewish Literature [Istituto Heksherim per la Letteratura Israeliana ed Ebraica] (che prende il nome da un famoso autore israeliano). Buona parte del suo discorso alla cerimonia l’ha dedicata alla pandemia da coronavirus e alle sue gravi conseguenze per i gruppi più deboli della popolazione. Daoud è un membro del gruppo di esperti per la crisi da COVID, un’iniziativa di volontari ebrei e arabi supportato dal New Israel Fund che si sta occupando, fra altri problemi, della diseguaglianza nell’assistenza medica che si è intensificata in conseguenza dello scoppio della pandemia. In questo quadro Daoud ha condotto uno studio che ha anticipato di sei mesi una ricerca simile del Ministero della Salute sul legame fra zone “rosse” (cioè quelle con alte percentuali di COVID) e lo status socio-economico.

La gestione della crisi da coronavirus nella società araba ha fallito,” asserisce. “Un personaggio che non viene dal campo [della sanità pubblica] è stato nominato direttore del progetto per la comunità araba. Questo mi ha fatto davvero infuriare. Ci sono moltissimi esperti e fra tutti si nomina lui? Abbiamo tutti visto le conseguenze. Le località arabe sono state in rosso quasi tutto il tempo. In generale i ministri tendono a nominare arabi con cui è comodo lavorare perché hanno legami con il governo. Questa è la mentalità di un regime militare.”

La nomina del Prof. Salman Zarka come commissario generale per il coronavirus ha portato un cambiamento in meglio nei rapporti con la società araba?

Non ho visto alcun cambiamento di questo tipo. Il commissario si occupa della società in generale.”

Ha importanza che un medico druso [corrente dell’Islam sciita una minoranza arabo-israeliana che il sionismo è riuscito a cooptare, ndtr.] sia l’autorità professionale suprema per la gestione della crisi?

Proviene dall’esercito (Zarka è un colonnello della riserva), dai Medical Corps (Corpi sanitari militari). Come tale si è formato per essere un arabo in quell’ambiente.”

Daoud ha cercato di esercitare un’influenza dall’interno. Mentre il Prof. Hezi Levi prestava servizio come direttore generale del Ministero della Sanità, lei ha lavorato per stabilire una commissione specializzata sotto i suoi auspici per affrontare la crisi da coronavirus nella società araba. In effetti una commissione è stata avviata, ma Daoud si è dimessa dopo un solo incontro.

Hanno nominato figure politiche in un modo inappropriato e inadatto,” spiega. “Quando ho visto che il direttore generale [del ministero] non si è presentato al primo meeting, ho capito che era un corpo senza denti, naso, bocca o occhi in quanto non ci erano stati presentati neppure dei dati trasparenti. Hanno nominato una commissione per poter dire che avevano nominato una commissione. Ho ringraziato e me ne sono andata.”

Sembra un po’ delusa per non essere stata chiamata a ricoprire una carica più importante.

Veramente no. Come ho detto ho avuto la possibilità di farne parte, sono stata invitata alle riunioni. In questo caso non è una questione di ego. Sto cercando di segnalare un problema molto più sistematico. È inaccettabile che non ci siano arabi nei centri decisionali del sistema sanitario eccetto i medici che hanno fatto il servizio militare nei Medical Corps. Non è ragionevole che la persona che ora supervisiona un budget ministeriale di centinaia di milioni di shekel destinati a migliorare la sanità nella società araba sia un ebreo. È illogico che le discussioni sulle disuguaglianze nella salute non siano guidate da un arabo. Ma dove siamo?”

Continua facendo notare che “si è creata una situazione assurda e inspiegabile. Nel sistema sanitario c’è moltissimo personale arabo, inclusi medici in posizioni apicali, ma gli arabi costituiscono meno dell’1% dello staff nella sede principale del Ministero della Sanità. Gli apparati che prendono le decisioni, impostano le politiche e incanalano i fondi sono quasi del tutto senza arabi.”

Eppure Daoud conclude: “Non sto dicendo che va tutto male. Il sistema sanitario in Israele è uno dei migliori in Occidente. Anche il Ministero della Salute ha ammesso le disparità esistenti al suo interno, il che è una situazione molto migliore che nel passato. Semplicemente non sta facendo abbastanza per ridurle.”

In questo contesto la professoressa ha elaborato un piano sistematico che richiede la messa in atto di un’unità ministeriale che si occupi di minoranze e il ritorno della categoria “nazionalità” nei documenti medici.

Negli anni ’80 le organizzazioni della società civile hanno lottato per farla cancellare, un errore da parte loro,” spiega. “La classificazione per nazionalità e altre categorie sociali possono servire come strumenti per implementare delle politiche. Se sai che esiste un certo fenomeno fra gli arabi e ci sono altri dati chiari sugli haredim, si possono adattare risposte specifiche per quelle comunità. Ciò sarebbe meglio della situazione odierna in cui il sistema soffre di cecità culturale.”

Daoud asserisce che riconoscere questo problema è già una mezza soluzione: “Il sistema sanitario deve essere coragggioso e riconoscere le diseguaglianze che esistono al suo interno. Una volta affrontate, vedremo la serenità arrivare nel sistema. Gran parte della violenza contro i team medici deriva dagli atteggiamenti razzisti dei pazienti contro i professionisti dell’assistenza medica che li cura, dagli atteggiamenti dei professionisti verso i pazienti o dagli atteggiamenti dei pazienti verso altri pazienti. Il sistema deve riconoscerlo. La sparatoria all’ingresso di Soroka (avvenuta recentemente nel Centro Medico di Be’er Sheva) non è stato un evento casuale. Il sistema sanitario è un microcosmo di tutti i mali della società. Le disparità in istruzione, impiego, alloggio e trasporti si esprimono in modo tangibile nei nostri corpi e poi noi le curiamo in un sistema sanitario malato.”

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Quali sono state le principali vittorie del BDS nel 2021?

Nora Barrows-Friedman

30 dicembre 2021 – Electronic Intifada

Nonostante il fatto che la pandemia di Covid-19 sia continuata, il 2021 è stato un anno in cui c’è stato un incremento di mobilitazione della campagna per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni [contro Israele] (BDS), di azioni della società civile coronate da successo e di significative vittorie giudiziarie per i diritti dei palestinesi.

Fondi pensione hanno abbandonato imprese israeliane, personalità della cultura hanno rifiutato di superare i limiti [posti dal BDS] e un’importante azienda produttrice di gelati ha ritirato i propri prodotti dalle illegali colonie israeliane.

A Oakland, in California, prolungate azioni dirette hanno avuto successo nel far pagare un prezzo a Israele dopo che a maggio ha scatenato un attacco letale di 11 giorni contro Gaza.

All’inizio di giugno, come parte di un’ondata di proteste internazionali sotto la bandiera di #BlockTheBoat [Blocca la Nave], attivisti e lavoratori portuali hanno impedito per più di due settimane dalla data di arrivo prevista che una nave cargo israeliana attraccasse al porto della città.

La nave ha palesemente cercato di evitare il picchetto ed ha lasciato la zona portuale della baia con il suo carico intatto.

Nel Regno Unito manifestanti di Palestine Action [rete di attivisti filo-palestinesi che usa tattiche di disobbedienza civile contro fabbriche di armi israeliane, ndtr.] hanno obbligato industrie belliche israeliane a chiudere le attività in parecchie delle loro 10 sedi in Gran Bretagna.

Alcuni attivisti hanno condotto sit-in e sabotaggi contro filiali di Elbit Systems, di proprietà israeliana, chiudendo fabbriche, rompendo vetri, danneggiando macchinari, scrivendo graffiti e spruzzando di pittura rossa muri per simbolizzare il sangue palestinese.

Nel suo primo anno di vita Palestine Action – creata nel 2020 – ha effettuato più di 70 azioni contro Elbit, tra cui 20 importanti occupazioni di sedi e fabbriche.

A dicembre Palestine Action ha vinto un’importante battaglia giudiziaria, in quanto attivisti che avevano imbrattato una fabbrica di droni israeliani sono stati assolti da accuse di danneggiamento.

Continueremo a compiere azioni dirette per interrompere e sabotare il commercio di armi israeliane,” ha detto a The Electronic Intifada la co-fondatrice Huda Ammori.

A luglio, dopo anni di attività negli Usa e da parte di attivisti palestinesi del boicottaggio, Ben & Jerry’s – impresa che produce gelati di proprietà di Unilever – ha annunciato che non avrebbe più venduto i suoi prodotti nelle illegali colonie israeliane, affermando che tale vendita è “in contrasto con i propri valori”.

Dirigenti israeliani e associazioni della lobby sono stati duramente colpiti dalla notizia ed hanno fatto ricorso a calunnie contro l’impresa di gelati e i membri del suo consiglio di amministrazione.

Il ministro degli Esteri israeliano Yair Lapid ha promesso di fare ricorso alla ventina di Stati USA che hanno approvato misure anti-BDS per “far valere quelle leggi contro Ben & Jerry’s”, mentre il primo ministro Naftali Bennett ha promesso di “agire in modo aggressivo” contro l’industria che produce gelati.

Ma, pur tra le minacce, finora l’azienda ha difeso la sua decisione.

Il Comitato Nazionale del BDS palestinese ha invitato Ben & Jerry’s a “porre fine a qualunque attività nell’Israele dell’apartheid.”

A fine dicembre un noto sito antipalestinese che stila liste nere ha nominato il presidente del consiglio di amministrazione dell’impresa come suo “principale antisemita dell’anno”, portando l’associazione per i diritti civili Palestine Legal [organizzazione USA che si dedica alla difesa legale di attivisti filo-palestinesi, ndtr.] a evidenziare quanto tali accuse suonino vuote.

L’associazione ha affermato: “La decisione di Ben & Jerry’s di smettere di trarre profitto da colonie esclusivamente ebraiche costruite su terra rubata è il minimo indispensabile che la ditta possa fare per rispettare il suo pubblicizzato impegno per la giustizia sociale.”

Ecco alcune delle altre principali vittorie del BDS per i diritti dei palestinesi di cui Electronic Intifada ha informato nel 2021.

Imprese israeliane sono state scaricate

In tutto il mondo fondi pensione hanno tolto imprese israeliane dal portafoglio dei loro investimenti a causa delle violazioni dei diritti umani e delle leggi internazionali da parte di Israele.

Un importante fondo pensioni di un ente locale britannico ha disinvestito dall’impresa israeliana di armamenti Elbit System. Benché inizialmente il fondo pensioni abbia cercato di negare che l’iniziativa riguardasse il ruolo dell’impresa nelle violenze contro i palestinesi, gli attivisti avevano inondato l’ufficio con richieste di eliminare Elbit dai suoi investimenti.

Il presidente della commissione pensioni del Comune ha comunque ammesso che Elbit è stata esclusa dal suo nuovo gestore degli investimenti, Storebrand, “per ragioni legate ai diritti umani e alle leggi internazionali.”

Storebrand è un’azienda norvegese che esclude Elbit a causa di problemi legati ai diritti umani.

Quest’anno un fondo pensioni statale neozelandese da 29 miliardi di euro ha annunciato di aver escluso cinque banche israeliane dal proprio piano di investimenti a causa del loro ruolo nel finanziamento delle colonie israeliane nella Cisgiordania occupata.

Una valutazione di NZ Super Fund ha concluso che possedere azioni delle principali banche israeliane violerebbe la sua politica di investimenti responsabili.

Anche in Norvegia e Scozia fondi pensione hanno disinvestito da imprese che traggono profitto dalle colonie israeliane, tra cui imprese edili, aziende delle telecomunicazioni e banche.

KLP, il principale fondo pensioni norvegese, ha escluso 16 imprese che traggono profitto dalle colonie perché, ha affermato, c’è un “rischio inaccettabile” che contribuiscano a violazioni dei diritti umani.

A dicembre in Finlandia una parlamentare ha presentato un progetto di legge che vieterebbe l’importazione di prodotti dalle colonie israeliane costruite su terra palestinese e siriana occupata.

A settembre l’Unione Europea è stata obbligata a registrare un’iniziativa di cittadini europei che intende bloccare i commerci con colonie su territori occupati.

La misura potrebbe interrompere il redditizio accesso sui mercati UE di cui godono attività economiche nelle colonie israeliane costruite su terre palestinesi in violazione delle leggi internazionali.

Vittorie su leggi anti-BDS e sulla persecuzione di attivisti

A febbraio, facendo seguito a decisioni simili del tribunale federale in Arizona, Kansas e Texas, una misura contro il BDS in Arkansas è stata dichiarata incostituzionale.

Una corte d’appello federale USA ha sentenziato che la legge statale del 2017 che impone a imprese contrattate dallo Stato di dichiarare che non boicotteranno Israele rappresenta una violazione della libertà di parola.

Questa è la prima corte d’appello federale a decidere sulla costituzionalità di leggi contro il boicottaggio, e con questa decisione nessuna legge anti-BDS è stata accolta nel merito,” ha affermato Palestine Legal.

Ogni legge che ha superato una disputa giudiziaria lo ha fatto attraverso espedienti legali per evitare un’analisi costituzionale,” ha aggiunto l’associazione.

A gennaio un tribunale spagnolo ha respinto una denuncia penale per presunti crimini d’odio contro otto attivisti del BDS, una grande vittoria per il diritto a boicottare Israele in quel Paese.

Il tribunale ha sentenziato che gli attivisti avevano esercitato il proprio diritto alla libera espressione perseguendo obbiettivi politici legittimi.

I giudici hanno citato una fondamentale decisione del giugno 2020 della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo secondo cui invitare a un boicottaggio contro Israele a causa delle sue politiche non è una forma di discriminazione ma un discorso politico protetto.

Gli attivisti hanno salutato la vittoria come un segno di come “la strategia globale dei sionisti e (i tentativi da parte dei) loro alleati di estrema destra per delegittimare il movimento BDS stanno fallendo.”

Negli USA, benché l’amministrazione Biden abbia ripreso la promessa di lottare contro il BDS dell’era di Trump e Obama – con la lobby israeliana che ha chiesto al nuovo presidente di incrementare gli attacchi contro gli attivisti nei college – gli studenti hanno ottenuto una vittoria che segna un precedente.

A marzo un giudice della California ha sentenziato contro le richieste di un querelante anti-palestinese di perseguire attivisti per i diritti umani riguardo al loro appoggio al BDS e ai diritti dei palestinesi.

Ciò ha segnato la prima volta in cui un tribunale USA “ha riconosciuto il contesto maccartista che devono affrontare quanti parlano a favore dei diritti dei palestinesi,” secondo il gruppo per i diritti civili Palestine Legal, che insieme ad altri avvocati ha rappresentato otto imputati.

La sentenza “respinge il concetto secondo cui gli studenti perdono i loro diritti costituzionali quando sostengono i diritti dei palestinesi in un’università pubblica,” ha affermato Palestine Legal.

I canadesi vogliono interrompere la vendita di armi a Israele

In Canada i leader del formalmente progressista Nuovo Partito Democratico [di orientamento socialdemocratico, ndtr.], Jagmeet Singh, ha chiesto al primo ministro Justin Trudeau di porre fine alla vendita di armi a Israele.

L’iniziativa di Singh è arrivata dopo che dirigenti e iscritti del partito hanno approvato una mozione per porre fine al commercio di armi con Israele.

La mozione ha specificato che il commercio di armi tra Canada e Israele deve essere interrotto “finché non verranno rispettati i diritti dei palestinesi.”

Il voto “invia il messaggio che in Canada i progressisti e le persone che hanno a cuore i diritti umani non appoggiano lo status quo e vedono le sanzioni contro Israele non solo come appropriate, ma necessarie,” ha detto in aprile a Electronic Intifada Amy Kishek, una importante promotrice della risoluzione.

Ampio sostegno ai diritti dei palestinesi e al BDS

Nonostante le enormi pressioni da parte di dirigenti e sostenitori della lobby israeliana nel partito Laburista britannico, i delegati del congresso di settembre del partito hanno approvato una risoluzione che chiede sanzioni ed embargo militare contro Israele.

La risoluzione appoggia l’indagine della Corte Penale Internazionale su crimini di guerra nella Cisgiordania e nella Striscia di Gaza occupate.

Essa sostiene altre “misure efficaci chieste dalla società civile palestinese” – un’affermazione del movimento BDS che intende porre fine alle violazioni israeliane dei diritti dei palestinesi e delle leggi internazionali.

Essa ribadisce anche esplicitamente “il diritto del popolo palestinese di tornare alle proprie case, come sancito dalle leggi internazionali.”

All’inizio dell’anno un sondaggio ha evidenziato che più del 60% dei membri del partito Laburista appoggia la campagna BDS.

Nella stessa indagine circa metà di quanti sono stati interpellati è d’accordo con l’affermazione secondo cui “Israele è uno Stato di apartheid, che discrimina sistematicamente i palestinesi.”

Negli USA un sondaggio di marzo ha indicato che la maggioranza dei democratici vuole che gli USA esercitino maggiori pressioni su Israele.

Cultura e sport

Benché a causa della pandemia molti artisti, personaggi della cultura, scrittori e atleti abbiano dovuto cancellare o rinviare tournée, concerti e apparizioni, una schiera di musicisti ha incrementato le campagne per invitare artisti a non organizzare spettacoli in Israele.

Rage Against the Machine, Patti Smith, Noname, Vic Mensa, Thurston Moore e Run the Jewels sono stati tra i primi firmatari di “Iniziativa dei Musicisti per la Palestina”, che ha continuato ad attirare adesioni.

A luglio un atleta algerino si è rifiutato di competere con un israeliano ai Giochi Olimpici di Tokio ed ha affrontato sanzioni amministrative da parte del Comitato Olimpico Internazionale. Il 26 luglio Fethi Nourine non ha partecipato alle eliminatorie contro l’avversario sudanese Mohamed Abdalrasool in quanto il vincitore dell’incontro avrebbe dovuto competere contro l’israeliano Tohar Butbul.

Ogni competizione tenuta sotto la bandiera israeliana è un riconoscimento non solo dello Stato di Israele, ma anche della legittimità dell’occupazione della terra palestinese,” ha scritto Nourine su Facebook alla fine di luglio.

Il suo ritiro ha evitato la possibilità di affrontare l’israeliano.

Nourine ha spiegato di rifiutare la normalizzazione con il rappresentante di un “colonizzatore e occupante”.

L’atleta e il suo allenatore Amar Benikhlef sono stati privati dell’accredito olimpico e sono stati rispediti in patria.

E infine ad ottobre la scrittrice irlandese di successo Sally Rooney ha rispettato l’appello al boicottaggio rifiutando di consentire a una casa editrice israeliana di comprare i diritti di traduzione e pubblicazione in ebraico del suo ultimo romanzo, Beautiful World, Where Are You [Dove sei, mondo bello, Einaudi, 2022].

La Campagna Palestinese per il Boicottaggio Accademico e Culturale di Israele (PACBI) ha elogiato Rooney per essersi aggiunta a “innumerevoli scrittori internazionali nell’appoggio al boicottaggio delle istituzioni culturali del settore editoriale complice di Israele.”

Rooney ha affermato che sarebbe stata contenta di vendere i diritti per la traduzione in ebraico se fosse stato possibile trovare un’impresa che non violasse i principi dell’appello del BDS.

Ho semplicemente sentito che nelle attuali circostanze non sarebbe stato giusto per me accettare un nuovo contratto con un’impresa israeliana che non prendesse pubblicamente le distanze dall’apartheid,” ha affermato Rooney.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Mahmoud Abbas si è recato a casa del ministro della Difesa israeliano per colloqui

Redazione di MEE e agenzie

29 dicembre 2021 – Middle East Eye

La riunione nella residenza di Benny Gantz a Rosh HaAyin è stata il primo incontro formale in Israele del presidente palestinese dal 2010.

Martedì [28 dicembre] il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas ha fatto una inusuale visita in Israele, che secondo gli israeliani ha riguardato la sicurezza e questioni civili, per colloqui con il ministro della Difesa Benny Gantz.

I media israeliani hanno informato che l’incontro ha avuto luogo nell’abitazione di Gantz nella città di Rosh HaAyin, che si trova nella zona centrale del Paese, e segna il primo incontro formale di Abbas in Israele dal 2010.

Il giornale israeliano Haaretz ha informato che inizialmente la riunione si sarebbe dovuta tenere la scorsa settimana, ma Abbas ha chiesto chiarimenti a Israele sulla violenza dei coloni e sul fatto che alcune Ong palestinesi sono state messe fuorilegge. Gantz ha detto ad Abbas che intende “continuare a promuovere azioni per rafforzare la fiducia sul piano economico e civile, come stabilito durante i loro ultimi incontri,” ha affermato un comunicato del ministero della Difesa israeliano.

I due uomini hanno discusso di sicurezza e questioni civili,” ha aggiunto.

Il ministero afferma che Gantz ha approvato l’iscrizione all’anagrafe come residenti in Cisgiordania di circa 6.000 persone che abitavano irregolarmente in quel territorio, occupato da Israele dalla guerra del 1967.

Il ministero sostiene che anche altre 3.500 persone di Gaza riceveranno i documenti di residenti. Inoltre il ministero ha annunciato una serie di quelle che ha descritto come “misure per costruire la fiducia”, che faciliteranno l’ingresso di centinaia di uomini d’affari palestinesi tra la Cisgiordania e Israele. Secondo Haaretz si è convenuto che a importanti funzionari dell’ANP verranno concesse decine di cosiddetti permessi per VIP.

Il giornale afferma che Israele ha anche accettato di consegnare all’ANP 100 milioni di shekel (circa 28 milioni di euro) come anticipo sulle tasse che Israele riscuote in sua vece.

Dopo la riunione Gantz ha twittato: “Abbiamo discusso della messa in pratica di misure economiche e civili e sottolineato l’importanza di approfondire la collaborazione sulla sicurezza e prevenire il terrorismo e la violenza, per il benessere sia degli israeliani che dei palestinesi.”

L’incontro di Gantz con Abbas segue una visita nella regione del consigliere per la sicurezza nazionale USA Jake Sullivan.

Il Likud e Hamas condannano l’incontro

A fine agosto Gantz aveva visitato il quartier generale dell’ANP a Ramallah, nella Cisgiordania occupata, per colloqui con Abbas, il primo incontro ufficiale a un tale livello da parecchi anni.

Ma dopo quelle riunioni il primo ministro israeliano Naftali Bennett aveva sottolineato che non c’era in corso “e che non ci sarà in futuro” alcun processo di pace con i palestinesi.

Mercoledì il ministro palestinese delle Questioni Civili Hussein al-Sheikh ha twittato: “La riunione (di martedì) ha riguardato l’importanza di creare un orizzonte politico che porti a una soluzione politica in base alle risoluzioni internazionali.”

I due hanno anche discusso “della pesante situazione sul terreno a causa delle azioni dei coloni”, così come di “molte questioni relative a sicurezza, economiche e umanitarie.”

Il partito israeliano di opposizione di destra Likud ha condannato l’ultimo incontro, affermando che “concessioni pericolose per la sicurezza di Israele sono solo questione di tempo.”

Il Likud ha aggiunto un riferimento sprezzante alla coalizione di governo di Bennett, che include Raam, un partito che rappresenta parte dei cittadini palestinesi di Israele. “Il governo israeliano-palestinese ha ridato priorità ai palestinesi e ad Abbas… ciò è pericoloso per Israele,” ha sostenuto il Likud.

Hamas, il movimento che governa la Striscia di Gaza assediata ed è rivale del Fatah di Abbas, ha affermato che la visita del presidente dell’ANP è andata contro lo “spirito nazionale del nostro popolo palestinese”.

Questo comportamento da parte della dirigenza dell’Autorità Nazionale Palestinese approfondisce le differenze politiche, complica la situazione palestinese, incoraggia quanti nella regione vogliono normalizzare i rapporti con l’occupante e indebolisce il rifiuto palestinese della normalizzazione,” ha affermato il portavoce di Hamas Hazem Qassem.

Qassem alludeva al Bahrein e agli Emirati Arabi Uniti, così come a Marocco e Sudan, che all’inizio di quest’anno hanno firmato con Israele accordi di normalizzazione mediati dagli USA durante la presidenza di Donald Trump.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)