Il film sui collaborazionisti con Israele suscita polemiche in Palestina

Amany Mahmound

2 aprile 2022 – Al Monitor

I palestinesi più conservatori sono indignati per il film sulle palestinesi che collaborano con Israele che contiene anche scene di nudo e oscenità.

Huda’s Salon,” (Il salone di bellezza di Huda), film del regista palestinese Hany Abu-Assad proiettato a Beirut il 7 marzo nel corso del Film Festival Internazionale delle Donne il giorno prima della Giornata Internazionale delle Donne, ha causato grandi discussioni nella comunità palestinese per le scene scabrose e di nudo che alcuni hanno addirittura descritto come pornografia.

Il film ha scatenato le ire del pubblico conservatore palestinese che ha denunciato queste scene audaci per la cinematografia locale.

“Huda’s Salon”, in cui appaiono vari attori e attrici palestinesi, mostra alcuni dei metodi malvagi usati dall‘intelligence israeliana per incastrare le palestinesi. Il film si incentra su Huda, che lavora in un salone di bellezza e collabora con i servizi di sicurezza israeliani. Huda fotografa una cliente in pose compromettenti e poi usa le immagini per ricattarla e costringerla a diventare una spia.

L’11 marzo il Ministero palestinese della Cultura in una dichiarazione alla stampa locale ha negato qualsiasi legame con il film, spiegando che il cinema del suo Paese è impegnato nella lotta palestinese. Ha denunciato il modo in cui è stato prodotto il film, dicendo che offende la storia del cinema palestinese.

Molti attivisti hanno criticato sui social “Huda’s Salon” per le scene di sesso e nudo.

Anche gli ambienti artistici delle fazioni palestinesi hanno attaccato la pellicola. Il Dipartimento per le Arti di Hamas ha accusato le persone coinvolte nel film di aver deliberatamente distorto la lotta del popolo palestinese. In una dichiarazione il dipartimento ha sostenuto che il film mira a farsi conoscere in nome dell’arte e a ricevere fondi da Paesi donatori a spese della dignità del popolo e della causa palestinesi.

Nel frattempo i produttori stanno incontrando grandi difficoltà nel tentativo di proiettare “Huda’s Salon” nei cinema in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.

In seguito alla proiezione al festival di Beirut le sequenze più audaci sono diventate virali sui social, sollevando richieste popolari e ufficiali per impedirne la visione nei territori palestinesi, affermando che le scene scabrose non hanno nulla a che fare con la cultura della loro società.

“Huda’s Salon” non è il primo film a essere ampiamente rifiutato dal pubblico palestinese. Alla fine dell’anno scorso un’intensa ondata di rabbia e indignazione ha attraversato la comunità palestinese che protestava contro la proiezione del film “Amira,” in cui si metteva in dubbio la paternità dei bambini nati dallo sperma fuoriuscito clandestinamente e appartenente ai prigionieri palestinesi che languiscono nelle prigioni israeliani. Alla fine il film non è uscito nelle sale palestinesi.

L’attrice palestinese Manal Awad che interpreta il ruolo di Huda ha detto ad Al-Monitor di esserne fiera e di non essersi pentita della sua parte audace nel film. Ha precisato che il suo ruolo rappresenta avvenimenti reali con cui si confronta una minoranza di donne che talvolta sono costrette a lavorare per i servizi di intelligence israeliani.

Ha puntualizzato che l’idea del film non era così negativa come molti pensano poiché fa luce su un tema serio davanti a cui si trova la società palestinese, cioè i continui tentativi dei servizi di sicurezza israeliani per reclutare con vari mezzi donne palestinesi, specialmente tramite i negozi di parrucchiera. Ha detto che il regista sta cercando di richiamare l’attenzione su questo tema.

Awad ha poi fatto notare che il film è basato su una storia vera.

L’ondata di condanna abbattutasi sui social, ha poi continuato, dimostra che i palestinesi non sono abituati a vedere i propri artisti impegnati in ruoli coraggiosi come quello che ha interpretato lei in “Huda’s Salon.”

Ha poi aggiunto che il film vuole far luce sulla realtà dei fatti e sollevare attenzione del pubblico sul ricatto.

Awad ha denunciato sui social le critiche e gli insulti di cui è stata oggetto.

Ha specificato che, nonostante alcune scene audaci, il film più che guadagnare al botteghino mira principalmente a far passare un messaggio alla comunità.

Lo scrittore e critico palestinese Shafeeq al-Talouli ha condannato le scene che non sono in linea con i costumi e le tradizioni dei conservatori palestinesi e che sono considerate offensive specialmente dalle donne e, in particolare, da quelle che lavorano nei negozi di parrucchiera.

Parlando con Al-Monitor ha detto che è necessario affrontare temi sociali seri con vari media artistici per attirare l’attenzione del pubblico, ma resta il fatto che il metodo usato da Abu-Assad in questo film è sbagliato, immorale e deve essere totalmente rifiutato a causa delle sue scene proibite.

Talouli ha invocato l’intervento del Ministero palestinese della Cultura per costringere registi e produttori a offrire spiegazioni esaustive circa i loro lavori prima di iniziarli, in modo tale che poi non offendano i palestinesi perché incompatibili con i loro valori, la morale e la cultura.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Tempi bui per gli ucraini di Gaza

Ahmed Al-Sammak

22 marzo 2022 – The Electronic Intifada

Tatyana Toplalova è molto preoccupata per il suo unico fratello.

Abita a Odessa e ha bisogno di cure regolari per problemi renali. È rimasto in Ucraina da quando in febbraio la Russia ha iniziato l’invasione militare.

“Ho paura da morire per lui,” afferma, sottolineando che a Odessa c’è “mancanza di cibo, medicine e altri beni essenziali.”

Tatyana non ha alcuna notizia dei suoi nonni né di altri parenti nella regione del Donbass, in Ucraina. Non riesce a mettersi in contatto con loro con il telefonino o con internet a causa degli effetti della guerra sulle reti telefoniche.

Dato che vive a Gaza, la violenza estrema le risulta familiare. Ha assistito a quattro grandi offensive israeliane dal dicembre 2008.

È talmente abituata a questi attacchi che lei e suo marito, il dottor Bahaa al-Ashqar, scherzano riguardo a come li affrontano.

“Tatyana è sopravvissuta a quattro guerre,” dice Bahaa. “Quindi potrebbe sempre consigliare a suo fratello di fare scorta di molto cibo e medicine e di mettere tutti i documenti importanti, i gioielli e il denaro in una borsa in modo che siano pronti se si trova in pericolo e deve scappare. È quello che Tatyana ha fatto durante le guerre di Israele contro Gaza.”

Trauma

Il senso dell’umorismo della coppia nasconde il trauma che hanno subito.

Nel gennaio 2009 Muhammad, fratello di Bahaa, venne ucciso da Israele durante l’attacco denominato “Operazione Piombo Fuso” [contro Gaza, ndt.].

“Non so perché lo abbiano ucciso,” dice Tatyana. “Era un povero tassista che non partecipava ad alcuna attività militare.”

Tatyana e Bahaa si incontrarono ad Odessa negli anni ’90. Si conobbero grazie al fratello di Tatyana, amico di Bahaa.

Bahaa studiava medicina in città, mentre Tatyana frequentava economia.

Nel 1999 si sposarono e sei anni dopo si trasferirono dall’Ucraina a Gaza.

Mentre Bahaa ha ottenuto un lavoro nell’ospedale Kamal Adwan a Beit Lahiya, a nord di Gaza City, Tatyana non è riuscita a trovare un lavoro fuori casa.

Decisi a rimanere

Nonostante tutta la violenza e le difficoltà di cui è stata testimone a Gaza, Tatyana è decisa a rimanere. “Non voglio andarmene da Gaza per nessuna ragione,” afferma. “Mio marito e i miei (quattro) figli sono qui. Ora Gaza è la mia seconda patria.”

Gaza è più cosmopolita di quanto pensi molta gente. Tatyana nota che la sua famiglia ha festeggiato compleanni e ricorrenze religiose con persone originarie della Russia, della Romania e della Francia.

Tuttavia l’invasione dell’Ucraina ha avuto un effetto negativo su qualche amicizia. Alcuni russi di Gaza si sono schierati con Vladimir Putin, il presidente del loro Paese, ed hanno detto a Tatyana che non vogliono più parlare con lei.

Secondo Tatyana è “molto strano” essere trattati con freddezza a causa della propria origine. Dato che suo padre è russo trova difficile capire perché alcuni russi la evitino. “Abbiamo vissuto insieme come un’unica famiglia a Gaza per decenni,” afferma.

Tatyana è rimasta in contatto con altri ucraini a Gaza attraverso gruppi WhatsApp e Telegram. “Alcuni ucraini che sono a Gaza hanno perso dei parenti,” dice. “Conosco una donna la cui madre è stata ferita. Sono molto in ansia per la situazione.”

Circa 800 ucraini vivono a Gaza. Si tratta in genere di persone colte. Molti sono medici preparati.

Rimanere forti

Dal giorno dopo l’invasione russa la dottoressa Natalia al-Hasumi non è riuscita a parlare con la sua famiglia a Kherson, nel sud dell’Ucraina. Ha cercato di sapere qualcosa di loro da parenti in altre parti dell’Ucraina.

Avendo vissuto tre attacchi israeliani su vasta scala contro Gaza ora ha una “specie di immunità che ci aiuta a restare forti quando i miei figli mi chiedono della mia famiglia (in Ucraina),” afferma.

Trova persino divertenti alcune delle loro domande.

“I miei figli mi chiedono sempre: ‘Mamma, perché c’è una guerra in Ucraina? C’è Israele là?”

Natalia incontrò Imad al-Hasumi mentre stavano studiando medicina in Crimea. Si sposarono nel 2005 e andarono a vivere a Gaza sei anni dopo. Essere laureati in medicina ha significato non aver avuto difficoltà a trovare un lavoro.

“Non mi sarei mai aspettata che le condizioni di vita a Gaza fossero così dure,” sostiene. “Non avevo mai visto da nessuna altra parte i livelli di povertà e di disoccupazione che abbiamo a Gaza. Ma la vita qui ci ha obbligati ad adattarci a queste condizioni. I miei tre figli sono ancora piccoli, per cui non penso di lasciare Gaza.”

Straziante”

Il dottor Raed Astal ha esposto la bandiera blu e gialla dell’Ucraina dalla sua casa nella zona di Khan Younis a Gaza. Come sua moglie, la dottoressa Oxana Duzha, si laureò all’università statale di Sumy, nel nordest dell’Ucraina.

La coppia si sposò nel 1997 e si trasferì a Gaza nel 2008.

Raed ha iniziato a esporre la bandiera dell’Ucraina quando ha costruito la sua casa nel 2015. “L’ho fatto in modo che mia moglie si sentisse più vicina a casa,” afferma.

I suoi parenti acquisiti sono stati duramente colpiti dall’invasione russa.

In un primo tempo sono fuggiti da casa e sono sfollati in un villaggio vicino, poi la loro casa di cinque piani a Sumy è stata distrutta da missili russi.

Molti cugini di Oxana hanno lasciato l’Ucraina per cercare rifugio in altre parti dell’Europa.

Raed descrive come “straziante” che i rapporti tra alcuni ucraini e alcuni russi che vivono a Gaza si siano inaspriti.

“Ad essere onesti gli effetti della guerra russa contro l’Ucraina sono più pesanti per noi delle guerre israeliane contro Gaza,” sostiene. “Abbiamo sempre creduto che Israele sia una potenza occupante. Ma chi avrebbe pensato che l’Europa avrebbe visto un’altra guerra nel XXI secolo?”

Ahmed Al-Sammak è un giornalista che vive a Gaza.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA del periodo 22 marzo – 4 aprile 2022

1). Nel corso di due aggressioni da parte di palestinesi, sono stati uccisi tre israeliani e due stranieri; entrambi gli aggressori sono stati uccisi sul posto [dalle forze israeliane] [seguono dettagli].

Il 29 marzo, nella regione centrale di Israele, un palestinese di Ya’bad (Jenin) ha sparato uccidendo tre israeliani (di cui uno poliziotto) e due stranieri, e ferendo altri. L’aggressore, che secondo quanto riferito era entrato in Israele senza permesso, è stato colpito ed ucciso dal poliziotto sopraccitato (a sua volta poi deceduto per le ferite riportate). Il giorno seguente, vicino all’insediamento di Gush Etzion (Betlemme), un palestinese di 30 anni ha accoltellato e ferito un colono israeliano ed è stato successivamente ucciso da un altro colono. Alla chiusura del presente rapporto i corpi di entrambi gli assalitori sono ancora trattenuti dalle autorità israeliane.

2). In due episodi durante i quali, secondo quanto riferito, palestinesi avrebbero lanciato pietre o bottiglie incendiarie, o avrebbero sparato, le forze israeliane hanno sparato e ucciso altri tre palestinesi, incluso un minore [seguono dettagli]. Il 31 marzo, nel Campo profughi di Jenin, nel corso di un’operazione di ricerca-arresto, le forze israeliane hanno sparato e ucciso due palestinesi disarmati, uno dei quali 16enne, e ne hanno feriti altri venti; secondo quanto riferito, si è trattato di uno scontro a fuoco con palestinesi. Il 1° aprile, nell’area H2 della città di Hebron, un palestinese di 28 anni è stato colpito ed ucciso con arma da fuoco; secondo i media israeliani, aveva lanciato una bottiglia incendiaria contro una struttura in cui erano in servizio soldati israeliani. Nei due episodi non è stato segnalato alcun ferito israeliano.

3). Il 2 aprile, allo svincolo di Arraba (Jenin), altri tre palestinesi sono stati uccisi da forze israeliane sotto copertura. In questo caso, quattro soldati israeliani sono rimasti feriti nello scontro a fuoco con palestinesi. Per diverse ore, le forze israeliane hanno impedito al personale sanitario palestinese di raggiungere il luogo. Secondo i media israeliani, i tre palestinesi intendevano effettuare un attacco contro israeliani poiché nel loro veicolo sono state trovate armi.

4). In Cisgiordania, complessivamente, sono stati feriti dalle forze israeliane 441 palestinesi, inclusi 84 minori; più del doppio rispetto al precedente periodo di riferimento [seguono dettagli]. La maggior parte dei feriti (289) sono stati registrati vicino a Beita e Beit Dajan (entrambi a Nablus) e Kafr Qaddum (Qalqiliya), in manifestazioni contro gli insediamenti [colonici]. Nei villaggi di Qaryut (Nablus) e Kafr ad Dik (Salfit) e nella città di Hebron, 39 persone sono rimaste ferite dalle forze israeliane in seguito all’ingresso di coloni israeliani in queste aree e al successivo lancio di pietre da parte palestinese contro le forze israeliane; queste ultime hanno sparato proiettili veri, proiettili di gomma e lacrimogeni contro i palestinesi. Nella città di Jenin, durante un’operazione di ricerca-arresto, palestinesi avrebbero lanciato pietre contro le forze israeliane e queste ultime hanno sparato lacrimogeni, alcuni dei quali sono caduti vicino a un complesso ospedaliero; cinque pazienti e personale sanitario hanno richiesto cure mediche per l’inalazione di gas lacrimogeni, mentre diversi reparti hanno dovuto essere evacuati. Altri 73 palestinesi sono rimasti feriti durante cinque operazioni di ricerca-arresto condotte a Gerusalemme, Jenin e Betlemme. In totale, le forze israeliane hanno effettuato 40 operazioni di ricerca-arresto, arrestando 78 palestinesi. Altri 40 feriti sono stati segnalati nella Città Vecchia di Gerusalemme e Tulkarm (vedi sotto). Di tutti i feriti palestinesi, sette sono stati colpiti da proiettili veri, 81 da proiettili di gomma e la maggior parte dei rimanenti è stata curata per aver inalato gas lacrimogeni.

5). Dal 2 aprile, inizio del Ramadan, le forze israeliane hanno intensificato la loro presenza dentro e intorno alla Città Vecchia di Gerusalemme, inclusa la zona antistante la Porta di Damasco, dove i palestinesi si radunano dopo aver interrotto il digiuno. Alcuni palestinesi hanno lanciato pietre contro la polizia israeliana, ferendo un poliziotto; nello scontro 19 palestinesi, tra cui almeno un minore, sono rimasti feriti (inclusi nei 441 citati sopra) e almeno dieci sono stati arrestati.

6). Dopo l’attacco del 29 marzo in Israele [vedi sopra, 1° paragrafo], l’esercito israeliano ha schierato soldati nella Cisgiordania settentrionale, con lo scopo di bloccare l’accesso irregolare di palestinesi in Israele attraverso brecce della Barriera [israeliana che recinge la Cisgiordania]. In diverse occasioni, secondo quanto riferito, le forze israeliane hanno sparato gas lacrimogeni e granate assordanti contro i palestinesi lungo la recinzione, provocando diciassette feriti (inclusi nei 441 complessivi, vedi sopra).

7). In Area C della Cisgiordania, adducendo la mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, le autorità israeliane hanno demolito o confiscato 21 strutture di proprietà palestinese [seguono dettagli]. Non risultano sfollamenti, ma sono comunque stati colpiti i mezzi di sussistenza di circa 115 persone, inclusi 44 minori. La maggior parte delle strutture colpite (13 su 21) sono state segnalate in un singolo caso, nella città di Tulkarm, mentre due delle strutture si trovavano nella Comunità di pastori di Ras at Tin (Ramallah), in un’area dichiarata da Israele “zona di tiro” destinata alle esercitazioni militari. Le restanti sei strutture si trovavano nei governatorati di Gerusalemme, Gerico, Hebron e Betlemme.

8). Il 30 marzo, la Corte Suprema israeliana ha prorogato di sette mesi una ingiunzione provvisoria che impedisce la demolizione di 34 abitazioni in Al Walaja (Betlemme) in cui vivono circa 300 persone minacciate di sfollamento. Nondimeno, 12 strutture, non incluse nell’ingiunzione, potrebbero essere demolite in qualsiasi momento.

9). Il 27 marzo, coloni israeliani hanno occupato il primo piano del Petra Hotel, nella Città Vecchia di Gerusalemme. Nonostante le cause giudiziarie pendenti dal 2004, la polizia israeliana ha facilitato il trasferimento. Contestualmente, nell’area circostante, ci sono stati scontri verbali e fisici tra palestinesi, coloni e forze israeliane e tre palestinesi sono stati arrestati.

10). Coloni israeliani hanno ferito cinque palestinesi, e persone conosciute come coloni o ritenuti tali, hanno danneggiato proprietà palestinesi in 35 casi, con un aumento del 75% rispetto al periodo di riferimento precedente [seguono dettagli]. I ferimenti si sono verificati in quattro distinti episodi: vicino a Jinba (Hebron) coloni hanno aggredito fisicamente un palestinese che pascolava il bestiame, mentre vicino a Kafr ad Dik (Salfit) è stato aggredito un uomo che coltivava la propria terra; vicino a Huwwara e Deir Sharaf (entrambi a Nablus) coloni hanno lanciato pietre contro veicoli, danneggiandoli e ferendo tre palestinesi. In altri sei casi, circa 255 alberi e alberelli di proprietà palestinese sono stati sradicati o vandalizzati vicino agli insediamenti colonici israeliani prossimi a Al Lubban ash Sharqiya (Nablus), Turmus’ayya (Ramallah), Ash Shuyukh (Hebron) e Kafr Qaddum (Qalqiliya). In undici episodi accaduti a Ramallah, Nablus, Gerusalemme, Qalqiliya, Salfit e nell’area di Sheikh Jarrah a Gerusalemme Est, coloni israeliani hanno forato i pneumatici di 83 auto di proprietà palestinese ed hanno attaccato nove case, danneggiando le finestre e scrivendo scritte ingiuriose sui muri. Altri nove casi sono stati registrati a Salfit, Hebron, Ramallah e Qalqiliya, dove sono state rubate attrezzature agricole e bestiame e sono stati danneggiati un pozzo e tre serbatoi d’acqua. In altri nove casi, vicino a Gerusalemme, Hebron e Nablus, coloni hanno lanciato pietre contro veicoli palestinesi, danneggiandone almeno dieci.

11). Persone conosciute come palestinesi, o ritenute tali, hanno ferito sei coloni israeliani e danneggiato dieci veicoli [seguono dettagli]. Vicino a Nablus, Ramallah e Gerusalemme sei coloni israeliani sono rimasti feriti da lanci di pietre. In altri 13 casi veicoli israeliani sono stati danneggiati da lanci di pietre o bottiglie incendiarie.

12). Vicino alla recinzione perimetrale israeliana e al largo della costa di Gaza, in almeno 27 casi, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento, presumibilmente per far rispettare [ai palestinesi] le restrizioni di accesso [loro imposte]. Nessuno è rimasto ferito, ma agricoltori e pescatori sono stati costretti ad allontanarsi dalle loro aree di lavoro.

Ultimi sviluppi (successivi al periodo di riferimento)

Il 7 aprile, nella regione centrale di Israele, un palestinese della Cisgiordania, ha sparato uccidendo tre israeliani e ferendone altri. Successivamente, in Cisgiordania, in contesti diversi, le forze israeliane hanno ucciso cinque palestinesi e ferito altri.

(Dettagli nel prossimo Rapporto).

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it

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La prossima crisi di Gaza potrebbe essere la peggiore mai vista

Ramzy Baroud

30 marzo 2022 – Palestine Chronicle

“È tornata l’acqua”, annunciava un membro della famiglia con un misto di eccitazione e panico, spesso a tarda notte. Nel momento in cui veniva fatto un tale annuncio, tutta la famiglia iniziava a correre in tutte le direzioni per riempire ogni tanica, recipiente o bottiglia disponibile. Molto spesso, l’acqua durava pochi minuti, lasciandoci un senso collettivo di sconfitta, preoccupati per la possibilità stessa di sopravvivere.

Questa la nostra vita sotto l’occupazione militare israeliana a Gaza. La tattica di tenere i palestinesi ostaggio dell’elemosina israeliana di acqua era così diffusa durante la prima Intifada, o rivolta, palestinese che negare l’approvvigionamento idrico a campi profughi, villaggi, città o intere regioni era la prima misura adottata per sottomettere la popolazione ribelle. La cosa era spesso seguita da incursioni militari, arresti di massa e violenze omicide, ma quasi sempre iniziava con l’interruzione delle forniture d’acqua ai palestinesi.

La guerra dell’acqua di Israele contro i palestinesi è cambiata da quei primi giorni, soprattutto perché la crisi del cambiamento climatico ha accelerato la necessità per Israele di prepararsi per fosche evenienze future. Naturalmente, questo avviene largamente a spese dei palestinesi occupati. In Cisgiordania il governo israeliano continua a usurpare le risorse idriche palestinesi dalle principali falde acquifere della regione: la falda acquifera montana e quella costiera.

Cosa molto frustrante, la principale compagnia idrica israeliana, Mekorot, rivende a villaggi e città palestinesi a prezzi esorbitanti l’acqua palestinese rubata, specialmente nella regione settentrionale della Cisgiordania.

A parte il costante profitto derivato dal furto d’acqua, Israele continua a usare l’acqua come forma di punizione collettiva in Cisgiordania, molto spesso negando ai palestinesi, specialmente dell’Area C [oltre il 60% della Cisgiordania, in base agli accordi di Oslo sotto totale controllo israeliano, ndt.], il diritto di scavare nuovi pozzi per aggirare il monopolio idrico di Israele.

Secondo Amnesty International i palestinesi della Cisgiordania occupata consumano in media 73 litri di acqua al giorno a persona. Fate il paragone con un cittadino israeliano, che consuma circa 240 litri di acqua al giorno, e, peggio ancora, con un colono ebreo israeliano illegale, che consuma oltre 300 litri al giorno. La quota d’acqua palestinese non solo è molto al di sotto della media consumata dagli israeliani, ma è anche sotto il minimo giornaliero raccomandato di 100 litri pro capite indicato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS).

Per quanto difficile possa essere la situazione per i palestinesi in Cisgiordania, a Gaza la catastrofe umanitaria è già in atto. Il 22 marzo, in occasione della Giornata Mondiale dell’Acqua, l’Autorità per la Qualità dell’Acqua e dell’Ambiente di Gaza ha messo in guardia da una “grave crisi” se le forniture idriche di Gaza continueranno ad esaurirsi al pericoloso ritmo attuale. Il portavoce dell’Autorità, Mazen al-Banna, ha detto ai giornalisti che il 98% delle riserve idriche di Gaza non sono adatte al consumo umano.

Le conseguenze di questo terrificante dato sono ben note ai palestinesi e, di fatto, anche alla comunità internazionale. Lo scorso ottobre, Muhammed Shehada, di Euro-Med Monitor [ong per i diritti umani con sede in Svizzera, ndt.], ha dichiarato alla 48a sessione del Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite che circa un quarto di tutte le malattie a Gaza sono causate dall’inquinamento dell’acqua e che circa il 12% dei decessi tra i bambini di Gaza sono “collegati alle infezioni intestinali legate all’acqua contaminata.”

Ma come è arrivata a questo Gaza?

Il 25 maggio [2021, ndt.], quattro giorni dopo la fine dell’ultima guerra israeliana contro Gaza, l’organizzazione benefica Oxfam ha annunciato che 400.000 persone nella Gaza assediata non avevano avuto accesso alle normali forniture d’acqua. Il motivo è che le campagne militari israeliane iniziano sempre con il prendere di mira le reti elettriche, i servizi idrici e altre strutture vitali pubbliche dei palestinesi. Secondo Oxfam, “11 giorni di bombardamenti … hanno avuto un grave impatto sui tre principali impianti di desalinizzazione della città di Gaza”.

È importante tenere a mente che la crisi idrica a Gaza è in corso da anni e ogni aspetto di questa prolungata crisi è legato a Israele. Con infrastrutture danneggiate o malandate, gran parte dell’acqua di Gaza contiene livelli di salinità pericolosamente elevati o è estremamente inquinata dalle acque reflue o per altri motivi.

Anche prima che Israele schierasse di nuovo i suoi militari fuori da Gaza nel 2005 per imporre un assedio da terra, mare e aria alla popolazione della Striscia, Gaza era in crisi idrica. La falda acquifera costiera di Gaza era interamente controllata dall’amministrazione militare israeliana, che dirottava acqua di qualità alle poche migliaia di coloni ebrei, mentre occasionalmente assegnava acqua ad alta salinità all’allora 1,5 milioni di palestinesi, sempre che i palestinesi non protestassero né resistessero in alcun modo contro l’occupazione israeliana.

Circa 17 anni dopo la popolazione di Gaza è cresciuta a 2,1 milioni e la falda acquifera di Gaza, già in una situazione critica, è in condizioni molto peggiori. Il Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia (UNICEF) ha riferito che l’acqua dalla falda acquifera di Gaza si sta esaurendo a causa dell'”eccessiva estrazione (perché) le persone non hanno altra scelta”.

Peggio ancora, l’inquinamento e l’afflusso di acqua di mare significano che solo il 4% dell’acqua della falda acquifera è potabile. Il resto deve essere purificato e dissalato per renderlo potabile”, ha aggiunto l’UNICEF. In altre parole, il problema di Gaza non è la mancanza di accesso alle riserve di acqua dolce esistenti poiché queste ultime semplicemente non esistono o si stanno rapidamente esaurendo, ma la mancanza di tecnologia e carburante che darebbero ai palestinesi di Gaza la capacità di rendere la loro acqua perlomeno potabile. Anche questa non è però una soluzione a lungo termine.

Israele sta facendo tutto quello che può per distruggere ogni possibilità palestinese di riprendersi da questa crisi in corso. Sembra inoltre che Tel Aviv abbia investito solo nel peggiorare la situazione, per mettere ulteriormente a repentaglio le possibilità di sopravvivenza dei palestinesi. Ad esempio, l’anno scorso i palestinesi hanno accusato Israele di aver inondato deliberatamente migliaia di dunum [unità di misura terriera: 10 dunum = 1 ettaro] palestinesi a Gaza quando Israele ha svuotato le sue dighe meridionali, che usa per raccogliere l’acqua piovana. Questo rituale praticamente annuale di Israele continua a devastare le sempre più ridotte aree agricole di Gaza, spina dorsale della sopravvivenza palestinese sotto l’ermetico assedio di Israele.

La comunità internazionale presta attenzione a Gaza praticamente solo durante i periodi delle guerre israeliane, e anche in quel caso l’attenzione è per lo più negativa, con i palestinesi solitamente accusati di aver provocato le presunte guerre difensive di Israele. La verità è che anche quando finiscono le campagne militari di Israele, Tel Aviv continua a fare la guerra agli abitanti della Striscia.

Sebbene sia militarmente potente, Israele afferma di dover affrontare una “minaccia esistenziale” in Medio Oriente. In realtà, è l’esistenza palestinese che è in vero pericolo. Se quasi tutta l’acqua di Gaza non è idonea al consumo umano a causa di una deliberata strategia israeliana, si può capire perché i palestinesi continuino a reagire come se le loro vite dipendessero da essa – perchè è proprio così.

Ramzy Baroud è giornalista e redattore di The Palestine Chronicle. È autore di sei libri. Il suo ultimo saggio, curato insieme a Ilan Pappé, è La nostra visione di liberazione: parlano i leader palestinesi coinvolti e gli intellettuali. Il dr. Baroud è ricercatore senior non residente presso il Center for Islam and Global Affairs (CIGA).

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Israele: due persone uccise * e parecchie ferite in una sparatoria nel centro di Tel Aviv

Lubna Masarwa

7 aprile 2022 – Middle East Eye

La polizia di Giaffa ha affermato di avere in seguito colpito e ucciso l’aggressore, che ha identificato come un ventottenne palestinese di Jenin.

Gerusalemme – Giovedì almeno due persone * [al momento tre ndt] sono state uccise e molte altre ferite in una sparatoria nel centro di Tel Aviv, l’ultimo di una serie di attacchi in Israele nelle ultime settimane. Dieci persone, almeno quattro delle quali in condizioni critiche, sono state ferite e sono state ricoverate in ospedale.

La sparatoria ha avuto luogo in vari punti di via Dizengoff, un frequentatissimo viale pieno di ristoranti e bar.

Lo Shin Bet, il servizio di sicurezza interno, ha affermato che in seguito agenti di polizia hanno trovato l’aggressore nascosto nei pressi di una moschea a Giaffa, appena a sud di Tel Aviv.

L’agenzia ha detto che l’attentatore è stato ucciso durante uno scontro a fuoco.

Lo Shin Bet ha identificato l’uomo come un ventottenne palestinese di Jenin, nella Cisgiordania occupata, che secondo quanto affermato era in Israele illegalmente.

Sabato forze israeliane hanno ucciso tre palestinesi durante una sparatoria a Jenin, che ore prima aveva commemorato i 20 anni da un brutale attacco israeliano contro il campo profughi della città, diventato emblematico dell’occupazione israeliana.

Itai Niger, che vive a Tel Aviv nei pressi del luogo dell’attacco ha detto a Middle East Eye che c’era una notevole presenza di polizia in città e che la paura era palpabile.

“Sono sorpreso e spaventato. Non riesco a capirlo. Non so come sarà la mia vita nei prossimi giorni e in futuro,” ha detto Niger.

“È terribile. Dopo quello che è successo gli abitanti di Tel Aviv avranno di fronte una nuova realtà.”

Il fotogiornalista Oren Ziv ha informato dal luogo dell’attacco di un’immediata caccia all’uomo che ha coinvolto centinaia di soldati, agenti di polizia e unità d’élite dell’esercito.

Ziv ha descritto una scena di tensione in città dato che gli abitanti erano intimoriti perché l’aggressore non era ancora stato preso.

Dopo la sparatoria le forze di sicurezza hanno bloccato le uscite di Tel Aviv per effettuare le operazioni di ricerca.

Il collaboratore di MEE Mohammed Wated ha riferito che in un primo tempo le forze di sicurezza hanno piazzato posti di blocco a Wadi Ara, una zona a 60 km da Tel Aviv abitata per lo più da cittadini palestinesi di Israele, e hanno iniziato a interrogare gli automobilisti.

Secondo il suo ufficio il primo ministro Naftali Bennett ha monitorato la situazione dal quartier generale dell’esercito israeliano, che si trova anch’esso nel centro di Tel Aviv.

Timori di un’escalation

L’attacco di giovedì giunge solo una settimana dopo che tre diversi attacchi hanno ucciso 11 israeliani, tra cui dei poliziotti.

Tre dei quattro attentatori, tutti in seguito uccisi, erano palestinesi cittadini di Israele. Il quarto era un palestinese della Cisgiordania occupata.

In seguito alle violenze l’esercito e la polizia israeliani hanno portato l’allerta al livello più alto dal maggio dello scorso anno, con migliaia di soldati e di agenti schierati in tutto Israele e lungo le barriere con la Cisgiordania e la Striscia di Gaza.

Da allora in Cisgiordania sono stati uccisi dal fuoco israeliano sei palestinesi, di cui uno colpito da un colono.

Il picco di violenze coincide con avvertimenti che la prossima settimana le tensioni potrebbero aumentare, in quanto coloni israeliani e attivisti di estrema destra hanno annunciato piani per fare irruzione nella moschea di al-Aqsa durante le festività della Pasqua ebraica per pregare all’interno del sito.

Per sei notti di seguito a Gerusalemme est occupata forze israeliane hanno attaccato i palestinesi presso la Porta di Damasco, un punto di incontro molto frequentato dai palestinesi per riunirsi e socializzare durante il mese sacro del Ramadan. Più di 30 persone, inclusi minorenni, sono state arrestate negli scontri.

Nonostante le tensioni le autorità israeliane all’inizio di questa settimana hanno affermato che alleggeriranno le restrizioni per i palestinesi della Cisgiordania che visitano la moschea di al-Aqsa in vista del primo venerdì del Ramadan che spesso attira decine di migliaia di fedeli.

L’agenzia di notizie palestinese Wafa ha informato che il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha condannato l’attacco di giovedì e ha sottolineato i pericoli di “continuare le ripetute incursioni all’interno della moschea di al-Aqsa e le azioni provocatorie di gruppi di coloni estremisti.”

Durante lo scorso Ramadan la violenza si è acuita quando Israele ha cercato di espellere famiglie palestinesi da Sheikh Jarrah, un quartiere della Gerusalemme est occupata, perché fossero sostituite da coloni israeliani.

Ciò ha suscitato proteste generalizzate nella Cisgiordania occupata e nella comunità palestinese in Israele e ha portato a una guerra di 11 giorni tra Israele e gruppi armati a Gaza. Secondo l’ONU l’operazione militare israeliana su vasta scala contro la Striscia assediata ha causato la morte di 256 palestinesi, tra cui 66 minorenni. In Israele ci sono state 13 vittime, uccise da razzi lanciati da Gaza.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Israele: la coalizione di governo perde la maggioranza dopo le sorprendenti dimissioni di una parlamentare

Redazione di MEE e agenzie

6 aprile 2022 – Middle East Eye

Idit Silman rinuncia dopo un diverbio riguardo a una sentenza della Corte Suprema che elimina il divieto del pane lievitato durante le festività di Pesach.

Mercoledì la coalizione di governo di Israele ha perso la maggioranza dopo che una deputata del partito del primo ministro Naftali Bennett “Yamina” ha detto che aveva deciso di andarsene.

Le dimissioni di Idit Silman, presidentessa della coalizione di governo, ha lasciato l’alleanza di Bennett con 60 voti, lo stesso numero dell’opposizione.

Non c’è un pericolo immediato che il governo cada, in quanto l’opposizione non è unita. Nella sua dichiarazione Silman ha auspicato la creazione di un governo di destra “anche con l’attuale Knesset” – un invito alla coalizione di Bennett a farlo cadere prima delle prossime elezioni, che sono previste nel 2025.

“Ho cercato il cammino dell’unità. Ho lavorato molto per questa coalizione”, ha detto nella dichiarazione Silman, una conservatrice religiosa [in realtà dell’estrema destra nazional-religiosa, ndt.].

“Mi spiace ma non posso contribuire a danneggiare l’identità ebraica di Israele,” ha aggiunto.

Lunedì Silman si era scagliata contro il ministro della Sanità Nitzan Horowitz dopo che questi aveva dato indicazione agli ospedali di consentire [l’introduzione di] prodotti da forno lievitati nelle loro strutture durante le prossime festività di Pesach [la Pasqua ebraica, ndt.] in linea con una recente sentenza della Corte Suprema che ha annullato anni di divieti.

In base alla tradizione ebraica durante Pesach nei luoghi pubblici il pane lievitato è proibito. La presa di posizione di Silman ha messo in crisi i tentativi di Bennett di tenere insieme una fragile alleanza di partiti che vanno dalla destra al centro sinistra fino a un partito palestinese.

Secondo il quotidiano Haaretz era previsto che Bennett, che al momento non ha fatto alcuna dichiarazione, incontrasse Silman martedì prima che lei annullasse la riunione all’ultimo minuto.

Il ministro degli Affari Religiosi Matan Kahane, del partito di Bennett, ha detto che l’annuncio di Silman è stato una sorpresa.

“Spero che possa essere modificato,” ha detto Kahane alla radio dell’esercito. “Questo governo sta facendo cose buone per la Nazione.”

Netanyahu ha accolto positivamente le dimissioni 

Dopo l’annuncio Silman è stata calorosamente accolta dagli stessi politici di destra che l’avevano attaccata senza sosta da quando Bennett si è rimangiato le promesse elettorali e lo scorso anno ha formato con lei una coalizione di governo.

“Idit, sei la prova che quello che ti guida è la preoccupazione per l’identità ebraica di Israele, per la terra di Israele, e ti do il benvenuto di nuovo a casa nel campo nazionale [coalizione informale di partiti nazionalisti di destra e religiosi, attualmente all’opposizione, ndt.],” ha detto in una registrazione video il capo dell’opposizione e segretario del [partito] Likud Benjamin Netanyahu.

“Chiedo a chiunque sia stato eletto con i voti del campo nazionale di unirsi a Idit e a tornare a casa, sarete ricevuti con i dovuti onori e a braccia aperte,” ha affermato l’ex-primo ministro di destra.

Secondo Haaretz Silman si è accordata con persone vicine a Netanyahu per entrare nelle liste del Likud alle prossime elezioni.

Il giornale ha informato che un importante membro della coalizione ha affermato che le è stato promesso il ruolo di ministra della Salute in qualunque governo guidato dal Likud.

Per formare una sua coalizione senza nuove elezioni Netanyahu avrebbe bisogno dell’appoggio di almeno 61 parlamentari, di cui attualmente non dispone.

Il politico di estrema destra Bezalel Smotrich, del partito Sionismo Religioso, un tempo alleato di Bennett, ha espresso il proprio apprezzamento nei confronti di Silman per il suo “coraggio di fare un passo difficile” e ha previsto che la coalizione di governo non sopravviverà al cambiamento.

“Questo è l’inizio della fine de governo di sinistra e non sionista di Bennett e del Movimento Islamico [partito degli arabo-israeliani che fa parte dell’attuale coalizione di governo, ndt.],” ha scritto su Twitter.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Israele accusa dei giornalisti palestinesi di istigazione alla violenza per aver svolto il loro lavoro

Yuval Abraham

5 aprile 2022 – +972 magazine

Dei giornalisti palestinesi sono stati interrogati e imprigionati da Israele per aver documentato proteste, funerali e altri eventi politici, inducendo molti di loro all’autocensura.

Questo articolo è stato pubblicato in collaborazione con Local Call e The Intercept.

Durante la violenta escalation della primavera del 2021 in Israele-Palestina Hazem Nasser ha fatto ciò che gli era stato richiesto: ha iniziato a riprendere. A quel tempo Nasser lavorava come giornalista per la rete televisiva palestinese Falastin Al-Ghad [Palestina Domani, ndtr.], in cui i filmati di Nasser documentavano le crescenti tensioni tra le marce nazionaliste ebraiche, le manifestazioni palestinesi e la brutalità della polizia israeliana a Gerusalemme.

Il 10 maggio Nasser ha deciso di riprendere uno scontro tra manifestanti palestinesi e l’esercito israeliano nella Cisgiordania settentrionale occupata. La giornata è rimasta impressa nella memoria di Nasser, non per lo scontro in sé, né per gli attacchi militari iniziati più tardi quella sera tra Hamas e Israele, ma per quello che gli è successo in seguito.

Nasser stava tornando a casa quando è stato fermato dai soldati israeliani al checkpoint di Huwara [a sud di Nablus, ndtr.] e portato via per essere interrogato. Nasser ha languito in carcere per più di un mese mentre lo Shin Bet, il servizio di sicurezza interna israeliano, lo interrogava ripetutamente.

“Tutte le domande riguardavano il mio lavoro di giornalista“, ha riferito Nasser. Mettevano sul tavolo le immagini delle mie riprese video, tra cui il funerale di un palestinese, la gente che si radunava per una protesta, una piazza che inneggiava a uno shaheed (martire), una manifestazione con le bandiere di Hamas. Chi mi interrogava mi diceva che non potevo fotografare quelle cose, perché costituivano delle istigazioni alla violenza. Gli rispondevo che sono un giornalista e questo è il mio lavoro: mostrare immagini di cose che accadono e che le testate israeliane fanno la stessa cosa. Lui mi urlava di tacere“.

A metà giugno Nasser, che ha 31 anni e viene dal villaggio di Shweikeh nella Cisgiordania occupata, è comparso davanti a un tribunale ed è stato accusato di istigazione alla violenza. Invece di concentrarsi sul suo lavoro giornalistico, come era stato fatto durante gli interrogatori, l’accusa ha elencato quattro vecchi post su Facebook che egli aveva scritto tra il 2018 e il 2020, periodo in cui ha pubblicato più di 1.000 post. Il capo d’imputazione affermava, tra l’altro, che egli aveva lodato l’assassinio nel 2001 di Rehavam Ze’evi [ex-generale e fondatore del partito di estrema destra Modelet, ndtr.], un ministro del turismo israeliano, e chiamato un “eroe” un militante palestinese accusato di aver ucciso due israeliani.

Una possibile ragione per cui il lavoro di Nasser non compariva nell’atto d’accusa – nonostante fosse stato al centro degli interrogatori – è che neppure nei tribunali militari dell’occupazione israeliana tra i criteri riguardanti l’istigazione vengono inclusi il giornalismo o la semplice documentazione degli eventi. Indipendentemente da ciò, Nasser crede che lo scopo degli interrogatori e delle accuse fossero gli stessi: dissuaderlo dal documentare gli abusi di Israele contro i palestinesi. Non è per niente lunico caso tra i giornalisti palestinesi.

Non fanno distinzione tra giornalista e chi ha un ruolo attivo

Dall’inizio del 2020 in Cisgiordania Israele ha imprigionato almeno 26 giornalisti palestinesi. Nella maggior parte dei casi essi sono stati posti in detenzione amministrativa – un metodo comune utilizzato da Israele per trattenere i palestinesi senza formalizzare le accuse – per un periodo compreso tra sei settimane e un anno e mezzo. Nove di questi giornalisti sono stati incriminati, quasi sempre per istigazione, e hanno trascorso in media circa otto mesi in stato di detenzione.

Secondo Saleh al-Masri, a capo del Journalist Support Committee in Palestine [Comitato di sostegno per i giornalisti in Palestina, ONG che protegge e promuove la libertà di espressione e i diritti dei giornalisti in Palestina, ndtr.], a marzo 2022 nelle carceri israeliane c’erano 10 giornalisti palestinesi con accuse riguardanti la pubblicazione di materiale online – sia come privati ​​​​che attraverso il loro lavoro professionale – considerata “istigazione”. Tre dei giornalisti incarcerati si trovano in detenzione amministrativa, tre sono stati incriminati e quattro sono detenuti e sottoposti ad interrogatori nell’ambito delle indagini (altri sette giornalisti sono stati incarcerati con l’accusa di aver preso parte ad attività violente non aventi nulla a che fare con il lavoro giornalistico) .

Utilizzando interviste, resoconti dei media e documenti legali, +972, Local Call [riviste on line, la seconda in lingua ebraica, fondate e prodotte da un unico gruppo editoriale, impegnate su tematiche di giustizia sociale, diritti e libertà di informazione, ndtr.] e The Intercept [rivista internazionale on line, con sede negli USA, impegnata, tra l’altro, sul tema degli abusi della giustizia e delle violazioni delle libertà civili, ndtr.] hanno esaminato i procedimenti giudiziari contro molti dei giornalisti trattenuti dalle forze di sicurezza israeliane in relazione alla loro pubblicazione di materiale. Nelle interviste con noi, così come con altri media, sette dei giornalisti hanno affermato che durante i loro interrogatori agenti della sicurezza israeliani hanno mostrato loro dei video di notizie che avevano girato, spesso riguardanti scontri tra palestinesi e forze israeliane, cortei politici o funerali. Gli inquirenti hanno detto ai giornalisti che le immagini costituivano “istigazione” e hanno ordinato loro di smettere di documentare quegli eventi.

In alcuni casi i giornalisti sono stati successivamente incriminati con accuse estranee alla loro attività professionale; in altri non è stata presentata alcuna accusa e il giornalista è stato incarcerato senza processo e infine liberato (lo Shin Bet non ha risposto a una richiesta di commento).

“Gli arresti di solito avvengono mentre i giornalisti sono sul campo”, ha affermato Shireen Al-Khatib, l’incaricata del monitoraggio e della documentazione del Palestine Center for Development and Media Freedoms (MADA) [Centro palestinese per lo sviluppo e la libertà dei media, ndtr.], che promuove e difende la libertà di espressione e dei media nei territori occupati.

“Durante l’interrogatorio”, continua, “al giornalista viene detto che le notizie che pubblica su Facebook sono considerate istigazione – e che, sebbene stia solo riportando delle notizie, il fatto che siano rese pubbliche equivale a istigazione. Spesso il giornalista viene accusato di aver partecipato a un evento politico come fotografo o giornalista. Ma [le autorità israeliane] non fanno distinzione tra un giornalista che è sul campo come parte del suo lavoro e un partecipante attivo”.

Al-Khatib, che ha intervistato decine di giornalisti palestinesi interrogati dallo Shin Bet, afferma che il risultato di questo trattamento è che i giornalisti palestinesi vivono in un costante stato di paura che spesso porta all’autocensura.

“Come se il problema fosse la videocamera, non la realtà

Altri giornalisti palestinesi hanno offerto resoconti che coincidono con l’esperienza di Nasser. Sameh Titi, un giornalista di 27 anni del campo profughi di al-Arroub in Cisgiordania, documenta quanto succede nella sua zona per Al Mayadeen, un canale di notizie arabo con sede in Libano che si dice sia allineato con il gruppo armato Hezbollah. Nel dicembre 2019 è stato arrestato dalle forze di sicurezza israeliane.

Titi riferisce che chi lo sottoponeva all’interrogatorio ha aperto il suo profilo Facebook per poi mostrargli le immagini del suo stesso lavoro. “Mi ha mostrato un servizio sulla chiusura dell’ingresso del campo di al-Arroub da parte dell’esercito”, dice Titi. “Chi mi interrogava mi ha detto: ‘Non ti è permesso di riprendere postazioni militari'”. L’inquirente ha anche sollevato il fatto della presenza di Titi a eventi legati al Fronte popolare per la liberazione della Palestina (FPLP), un gruppo politico di sinistra che Israele considera un’organizzazione terroristica.

Come Titi e altri, Tareq Abu Zeid, un cine-operatore di Jenin, è stato arrestato nell’ottobre 2020 e interrogato dallo Shin Bet nella sua struttura di Petah Tikva. Chi lo interrogava, ha riferito Abu Zeid, gli ha detto che egli era stato arrestato perché le sue riprese diffondevano scontento sociale tra i palestinesi.

“L’intera indagine aveva a che fare con la documentazione da parte di un giornalista, come se il problema fosse la videocamera in sé, non la realtà che documenta”, ha affermato Abu Zeid in un’intervista per Al Jazeera. In tre settimane di interrogatori, gli investigatori hanno sollevato accuse sul lavoro di Abu Zeid con Al-Aqsa TV, una stazione associata al gruppo islamista palestinese Hamas, che Israele considera un’organizzazione terroristica. Al-Aqsa TV è stata bandita da Israele nel 2019.

Fadi Qawasmeh, un avvocato che rappresenta Abu Zeid, ha sostenuto in tribunale che le accuse contro il suo cliente equivalevano a un’applicazione selettiva, dal momento che nessuna azione legale era stata intrapresa contro nessun altro dipendente di Al-Aqsa TV, e l’esercito israeliano sapeva da anni che Abu Zeid lavorava per quella emittente, molto prima che fosse dichiarata illegale. Abu Zeid era già in prigione da quasi 10 mesi quando, nel giugno 2021, la procura militare gli ha offerto un patteggiamento pari al tempo di carcerazione già scontato e una multa di circa 2.300 euro. Abu Zeid ha accettato ed è stato rilasciato dalla prigione il mese successivo.

Lo scopo era di impedire il mio lavoro di giornalista – e ha funzionato”

Titi, il giornalista di Al Mayadeen, è stato infine accusato di tre reati, alcuni dei quali legati al suo lavoro giornalistico e altri no.

L’accusa contro di lui citava la sua “presenza a una riunione illegale” per aver partecipato a diversi funerali di giovani palestinesi uccisi. Nel 2019 Titi aveva seguito il funerale di Omar al-Badawi, un presunto membro del FPLP ucciso dall’esercito israeliano (secondo un’indagine interna dell’esercito, al-Badawi non rappresentava alcun pericolo per i soldati ed essi non avrebbero dovuto aprire il fuoco.)

L’accusa sosteneva che il funerale sarebbe stato organizzato dal FPLP e quindi Titi avrebbe infranto la legge trovandosi sul luogo. L’accusa non menzionava il fatto che Titi stesse seguendo il funerale come giornalista, che giornalisti israeliani e internazionali si occupiano regolarmente di tali funerali e che quel giorno lui si trovasse insieme a centinaia di altri [colleghi, ndtr.].

Oltre al suo lavoro di documentazione dei funerali, l’accusa gli ha addebitato il fatto che nel 2016, nel suo campus universitario presso l’Università di Hebron, Titi avesse partecipato ad attività organizzate da un gruppo studentesco affiliato ad Hamas.

L’accusa sosteneva anche che due post di Titi su Facebook costituissero istigazione. In uno del 2018 Titi aveva condiviso una foto di palestinesi che erano stati uccisi dall’esercito – l’accusa descriveva i morti come “terroristi” – scrivendo: “Guardati dalla morte naturale, non morire se non a causa di proiettili”. In un post del 2017 Titi aveva menzionato la partecipazione a un concorso letterario per il gruppo studentesco legato ad Hamas. Titi ha detto che durante i suoi interrogatori i post sui social media non gli erano stati affatto mostrati.

Nel 2020 Titi ha presentato appello; è stato imprigionato per sei mesi e multato per 5.000 shekel, circa 1.375 euro.

Ho smesso di occuparmi di persone uccise e/o funerali. Ho paura di riprendere scontri con l’esercito e non riprendo postazioni militari o soldati”, aggiunge. “Lo scopo è sempre stato quello di impedire il mio lavoro di giornalista – e ha funzionato”.

Documentare è istigare

Molte delle disavventure dei giornalisti finiscono in patteggiamenti con i pubblici ministeri militari israeliani. Nasser, il giornalista di Falastin Al-Ghad, ne ha accettato uno alla conclusione del processo, dopo che il giudice ha stabilito che i post di Nasser su Facebook raggiungono a malapena la “soglia minima” per [il reato di, ndtr.] istigazione. Nasser sarebbe stato condannato a tre mesi di reclusione, nell’attesa che gli venisse riconosciuto lo sconto per il periodo passato in carcere.

“Nasser ha scelto di confessare per essere rilasciato”, spiega Mazen Abu Aoun, il suo avvocato. I giudici stabiliscono quasi sempre che i giornalisti rimangano in custodia fino alla fine del procedimento. Li incarcerano per mesi, poi la procura militare offre loro un patteggiamento: confessi alcuni dei reati e la pena ammonterà al numero di giorni che hai già scontato. Dopodiché vieni rilasciato immediatamente. Così tutti accettano“.

Alla fine, tuttavia, il tempo scontato da Nasser non ha ridotto il suo periodo di detenzione. Sebbene abbia accettato il patteggiamento, una settimana prima della data di rilascio ha appreso che lo Shin Bet aveva emesso contro di lui un ordine di detenzione amministrativa che lo avrebbe tenuto dietro le sbarre.

Nasser ha languito in carcere senza un secondo processo – e neanche nuove accuse – per altri cinque mesi. “Non avevano nulla su cui incriminarmi”, ha detto. A maggio la Cisgiordania era in fiamme e come giornalista ho documentato tutto sul campo. Sono stato arrestato per impedirmi di documentare. L’atto stesso di documentare rappresenta ai loro occhi un’istigazione.

Da quando è stato rilasciato nel dicembre 2021, dopo otto mesi di prigione, Nasser non pubblica quasi nulla su Facebook. È preoccupato che altre accuse false possano allontanarlo di nuovo dalla sua famiglia, un’eventualità che non può accettare. “Sono sposato e ho un figlio”, ha spiegato Nasser. “Mi hanno arrestato quando lui aveva otto mesi e mi hanno rilasciato quando era già in grado di parlare”.

Yuval Abraham è un giornalista che lavora a Gerusalemme.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Perché un parlamentare israeliano dell’estrema destra ha fatto irruzione nella moschea Al-Aqsa?

Nabil Al-Sahli

5 aprile 2022 – Middle East Monitor 

Giovedì scorso un parlamentare israeliano dell’estrema destra ha fatto irruzione nei cortili della moschea Al-Aqsa. Durante l’azione l’estremista Itamar Ben-Gvir è stato protetto da una massiccia presenza della polizia. La sua incursione rientra nel contesto dell’obiettivo israeliano politico-strategico a lungo termine di ebraizzare la Gerusalemme occupata e i suoi monumenti religiosi, il più importante dei quali è il Nobile Santuario di Al-Aqsa.

È evidente che con le sue mosse aggressive il governo di occupazione cerchi l’escalation a Gerusalemme in generale e nella moschea Al-Aqsa in particolare. Già sostiene la divisione temporale e spaziale fra i nativi gerosolimitani palestinesi e i coloni ebrei con lo scopo ultimo di imporre l’ebraizzazione come fatto compiuto.

Il ritmo delle irruzioni nella moschea Al-Aqsa da parte di figure politiche e religiose sioniste è aumentato, come sono cresciute anche le richieste di dividere la moschea fra musulmani ed ebrei, e a ciò è stato dedicato molto tempo nel dibattito fra vari partiti israeliani.

L’intenzione delle ripetute incursioni nella moschea da parte dello Stato israeliano d’apartheid è di permettere agli ebrei di svolgervi le preghiere talmudiche cosa che “giustificherebbe” l’abietta richiesta di dividere Al-Aqsa, così come in passato la falsa giustificazione fu usata per dividere la moschea di Abramo [tomba dei Patriarchi per gli ebrei, ndtr.] a Hebron. Vale la pena di far notare che Israele non si fermerà a questo obiettivo di breve termine. È ben noto che i leader israeliani e i coloni ebrei estremisti vogliono distruggere tutti i luoghi di preghiera musulmani nel Nobile Santuario e costruire al loro posto un tempio.

Richieste di dividere e occupare la moschea di Al-Aqsa per costruire un tempio non sono nulla di nuovo, sono state fatte con veemenza dal 1967, quando Israele occupò e successivamente annesse la parte orientale di Gerusalemme, un’annessione che rimane illegale ai sensi del diritto internazionale. Fra chi ha avanzato queste richieste ci sono leader politici, militari, religiosi ed esponenti dei diritti umani dello Stato di occupazione. Sono spesso molto visibili durante le campagne elettorali israeliane, quando i candidati rivaleggiano fra loro per attrarre il crescente voto dei coloni.

Una delle irruzioni più gravi fu quella dell’11 luglio 1971 da parte di un gruppo di dodici giovani del movimento Betar [del sionismo revisionista di destra, ndt.]. Cercarono di pregare nella moschea Al-Aqsa quando agli ebrei era proibito dalle stesse autorità religiose [ebraiche] di entrare nel complesso. Undici giorni dopo un altro gruppo di ebrei dello stesso movimento riuscì a pregare nella moschea.

L’irruzione più pericolosa nel Nobile Santuario Al-Aqsa avvenne il 28 settembre 2000 da parte dell’allora leader del partito di destra Likud Ariel Sharon, protetto da decine di soldati e coloni. Quella “visita provocatoria” scatenò l’Intifada (Insurrezione) di Aqsa, durante la quale furono uccisi e feriti migliaia di palestinesi.

Nel 2009 ci fu il record di irruzioni israeliane nella moschea Al-Aqsa. Nel settembre di quell’anno membri di un’unità della polizia di occupazione conosciuta come gli “esperti di esplosivi” si aggirarono nel santuario e nella moschea. Nello stesso mese gli scontri fra fedeli musulmani, polizia israeliana e gruppi di ebrei dentro la moschea Al-Aqsa e ai suoi ingressi si conclusero con 16 palestinesi feriti e numerosi arresti.

Negli ultimi anni le incursioni contro Al-Aqsa e i suoi cortili sono aumentate. L’anno scorso in maggio durante il mese del Ramadan coloni estremisti protetti dalla polizia e dall’esercito di occupazione sono entrati nel santuario, una mossa che ha causato una sollevazione che ha coinvolto palestinesi nei territori occupati, inclusi quelli occupati nel 1948 [cioè in Israele, ndt.] come anche più in generale nella diaspora. L’unità nazionale è stata stabilita in modo chiaro ed evidente.

L’irruzione dentro Al-Aqsa da parte di Itamar Ben-Gvir non è la prima e non sarà l’ultima da parte di un israeliano, politico, giudice o membro dei vari servizi di sicurezza. Gruppi di coloni ebrei estremisti protetti da polizia ed esercito di occupazione israeliani entrano frequentemente dentro Al-Aqsa.

Quello che è certo in tutto ciò è che Israele ha cominciato ad accelerare i suoi piani di ebraizzare Gerusalemme e passare alla fase in cui riusciranno a costruire un tempio a spese della moschea benedetta di Al-Aqsa.

Alcuni analisti credono che l’incursione di Ben-Gvir suggerisca che Israele intende avvantaggiarsi dell’intrinseca tendenziosità filoisraeliana riguardo all’occupazione dell’amministrazione Biden e di altri alleati occidentali. Facendo ciò spera anche di avvantaggiarsi della scandalosa e continua divisione politica palestinese per rafforzare la sua morsa su Gerusalemme ed ebraizzarne tutti gli aspetti della vita.

Incursioni nel Nobile Santuario di Al-Aqsa e la sua profanazione da parte di coloni ebrei illegali e altri colonizzatori sionisti, indipendentemente dalla loro affiliazione politica, riflette le decisioni prese dai vari governi israeliani che si sono succeduti per controllare la moschea e imporvi un’assoluta sovranità israeliana ebraica. L’idea della divisione temporale e spaziale della moschea non è più solo uno slogan, sta già accadendo come preludio all’ebraizzazione della città occupata di Gerusalemme, il cui primo obiettivo è la benedetta moschea di Al-Aqsa, il terzo luogo di culto più sacro dell’Islam.

Ciò richiede una risposta da parte del mondo arabo e islamico per far pressione sulla comunità internazionale per una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, vincolante per tutti gli Stati membri, incluso Israele, al fine di prevenire la divisione della moschea Al-Aqsa e che condanni tutte le misure israeliane volte a cambiare il carattere della città di Gerusalemme in generale e della moschea in particolare. Ciò darà anche maggiore rilievo alla dimensione araba e islamica del problema di Gerusalemme e al rischio a cui è esposta Al-Aqsa. La richiesta che l’Onu metta in pratica le sue risoluzioni emesse dal 1967 e relative alla città di Gerusalemme, alla moschea di Al-Aqsa e a tutte le altre zone sacre può quindi essere posta con maggiore serietà. Tali risoluzioni richiedono la cessazione dell’espansione delle colonie, il loro smantellamento e l’annullamento dei cambiamenti forzati imposti dall’occupante Stato di Israele.

Essendo cominciato da pochi giorni il mese del Ramadan del 2022, resta la domanda se vedremo o no un’altra sollevazione palestinese contro le continue politiche israeliane di ebraizzazione come le incursioni di coloni nel Nobile Santuario della moschea di Al-Aqsa.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




La polizia israeliana ferisce e arresta decine di palestinesi a Gerusalemme dopo la settimana di attentati letali in Israele e Cisgiordania

Yumna Patel

4 aprile 2022 – Mondoweiss

Lo scorso anno la violenza della polizia israeliana contro i palestinesi a Gerusalemme durante il Ramadan è stata il principale innesco delle proteste palestinesi che sono sfociate nella rivolta di maggio 2021.

Durante il weekend le forze israeliane hanno ferito e arrestato decine di palestinesi nella Gerusalemme est occupata, quando i musulmani davano inizio al mese sacro del Ramadan.

Secondo fonti di informazione palestinesi, domenica le forze israeliane hanno arrestato almeno 13 palestinesi e ne hanno ferito una ventina fuori dalla Porta di Damasco della Città Vecchia a Gerusalemme est. 

La polizia israeliana ha disperso con la forza assembramenti di palestinesi nell’area, colpendo parecchie persone con bastoni e facendo uso di proiettili d’acciaio ricoperti di gomma e granate assordanti contro i manifestanti.


La Mezzaluna Rossa palestinese ha riferito che sono stati feriti 19 palestinesi, quattro dei quali sono stati ricoverati in ospedale.

Sui social media sono circolati dei video di poliziotti israeliani, sia in uniforme che in borghese, che picchiano violentemente ed arrestano giovani palestinesi. Pare che un video mostrasse la polizia che aggrediva un vecchio palestinese mentre si opponeva all’arresto del figlio.

Alcune ore prima che scoppiassero i disordini il Ministro degli Esteri israeliano Yair Lapid ha fatto il giro della Città Vecchia accompagnato da una nutrita scorta di poliziotti, cosa che le fazioni palestinesi hanno denunciato come una “visita provocatoria”.

Middle East Eye ha riferito che sabato le forze israeliane hanno arrestato almeno altri quattro palestinesi con l’accusa di “sommossa e aggressione a poliziotti.”

E’ probabile che le tensioni dentro e attorno alla Città Vecchia continuino a salire nelle prossime settimane, mentre ci si aspetta che gruppi di coloni israeliani conducano visite con la scorta della polizia alla spianata della Moschea di Al-Aqsa in occasione delle imminenti festività ebraiche.

La Porta di Damasco è l’ingresso principale al quartiere musulmano della Città Vecchia ed è un luogo consueto di raduno per i palestinesi della città, soprattutto durante il mese del Ramadan. La zona è spesso teatro di violenze della polizia israeliana contro i palestinesi, in quanto le forze israeliane hanno una postazione di sicurezza permanente vicino alla Porta.

L’anno scorso le violenze della polizia contro i palestinesi alla Porta di Damasco durante il Ramadan e i successivi attacchi alla spianata di Al-Aqsa hanno costituito il principale innesco delle proteste palestinesi che sono sfociate nei disordini del maggio 2021.

L’offensiva del weekend giunge al culmine di una settimana di violente tensioni in Israele e nella Cisgiordania occupata.

Sabato prima dell’alba le forze israeliane hanno sparato, uccidendoli, a tre palestinesi nel corso di quella che gli abitanti del luogo hanno definito un’ “imboscata” nella città di Jenin, nel nord della Cisgiordania. Alcuni giorni prima, giovedì, le forze israeliane hanno sparato ed ucciso due palestinesi, compreso un adolescente, e ne hanno ferito altri 14 durante un’incursione nel campo profughi di Jenin.

I recenti raid letali hanno fatto seguito a diversi attacchi in Israele, nel corso dei quali sono rimasti uccisi 11 israeliani e quattro palestinesi.

Il 29 marzo un giovane palestinese della Cisgiordania è stato ucciso dopo aver aperto il fuoco nella città israeliana di Bnei Brak, uccidendo cinque israeliani. Nello stesso giorno un altro palestinese è stato ucciso su un autobus in Cisgiordania, dopo aver presumibilmente accoltellato e ferito un colono israeliano, secondo il quotidiano Haaretz.

Il 27 marzo due palestinesi sono stati uccisi dopo aver aperto il fuoco ed ucciso due poliziotti israeliani nella città israeliana di Hadera. Un altro palestinese è stato colpito a morte il 22 marzo dopo aver ferito a coltellate quattro persone nella città di Beer al-Sabe (Be’er Sheba) nella regione del Naqab (Negev) nel sud di Israele.

(Traduzione dall’inglese di CristianaCavagna)




Per i palestinesi in Cisgiordania, [gli attacchi armati]sono eventi eccezionali, non un'”ondata di terrorismo”

Amira Hass

2 aprile 2022 Haaretz

Sebbene l’opinione pubblica palestinese comprenda le motivazioni degli aggressori, la stragrande maggioranza non sceglie questa strada, che non favorisce la loro causa, e ha delle riserve sul prendere di mira i civili. Ma condannare? Che prima gli israeliani condannino la violenza che esercitano contro i palestinesi

I tre atti di omicidio-suicidio perpetrati da quattro palestinesi – da entrambi i lati della Linea Verde – in meno di due settimane evidenziano solo l’assenza di un organo politico dirigente palestinese riconosciuto, con un’unica strategia chiara e unificante. Gli attacchi riflettono divisioni interne e la dolorosa consapevolezza della debolezza e dell’incapacità palestinese di agire di fronte alla potenza di Israele. D’altra parte, il fatto che così pochi scelgano questa strada, nonostante sia disponibile, indica una più ampia comprensione politica del fatto che tali attacchi non promuovono la causa palestinese.

La stragrande maggioranza sta “votando con i piedi sa che gli attacchi dei lupi solitari spinti dalla disperazione o dalla vendetta non hanno, né costituiscono in sé, un obiettivo e non porteranno a nulla. Non cambieranno l’equilibrio di potere. Il popolo palestinese in Cisgiordania lo capisce senza bisogno di direttive dall’alto, senza un discorso pubblico aperto sull’argomento e mentre le sue organizzazioni politiche, principalmente quelle dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina e dell’Autorità Palestinese, sono al loro punto più basso in termini di potere e di fiducia della gente – e sono più che mai in conflitto e in competizione tra loro.

Ogni palestinese, su entrambi i lati della linea verde, ha molte ragioni per desiderare che gli israeliani provino dolore, perché sono loro e non solo il loro governo ad essere responsabili della difficile situazione dei palestinesi. È probabile che questo fosse il desiderio dei quattro assassini suicidi, indipendentemente dal loro background, dalle circostanze familiari o dal carattere di ciascuno di loro. Gli israeliani sanno subito, poiché esiste un intero apparato che diffonde tali informazioni, quali sono gli aggressori arrestati in precedenza, dopo quale attacco sono stati distribuiti dolci [per celebrare l’attacco, ndt] e accanto alla casa di quale assalitore i giovani hanno festeggiato (con totale mancanza di rispetto per il dolore della famiglia). Ma gli israeliani, nel complesso, non sono interessati alla misura in cui Israele, e loro stessi, in quanto suoi cittadini, hanno costantemente e per molti decenni causato sofferenza ai palestinesi, come individui e come popolo.

Questo enorme divario tra conoscenza specifica [dei palestinesi, ndt] e ostinata mancanza di conoscenza [degli israeliani, ndt] è sufficiente a spiegare perché l’opinione pubblica palestinese in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza sia indifferente ai recenti attacchi da parte di individui, siano essi commessi da cittadini israeliani o da abitanti della Cisgiordania, e non obbedisca alle richieste israeliane di condannare gli omicidi. Ciò che è degno di nota non è che gli aggressori siano sfuggiti all’attenzione dello Shin Bet, ma che, nonostante la loro comprensione delle motivazioni degli assalitori, la stragrande maggioranza dei palestinesi non scelga di intraprendere questa strada.

Migliaia di palestinesi senza permesso di lavoro entrano apertamente in Israele ogni giorno attraverso molteplici varchi nel muro di separazione. Questo va avanti da anni, con la piena conoscenza dell’esercito e della polizia. Come tutti sanno, c’è una notevole quantità di armi e munizioni tra i palestinesi in Israele e in Cisgiordania. Questi due fatti avrebbero potuto portare molti altri attacchi per vendetta da parte di individui che non potevano essere scoperti in anticipo, sia cittadini palestinesi di Israele che residenti in Cisgiordania. Anche se nelle prossime settimane si verificheranno alcune imitazioni, come l’attacco con il cacciavite di giovedì, per i palestinesi il numero di questi attacchi impallidisce rispetto all’entità e alla natura sistematica dell’ingiustizia inflitta loro da Israele.

Ogni palestinese ha buone ragioni per desiderare di infrangere la falsa normalità di cui godono i cittadini ebrei, che in generale ignorano il fatto che il loro Stato agisce instancabilmente, giorno e notte, per espropriare un maggior numero di palestinesi delle loro terre e dei loro diritti storici e collettivi come popolo e società. Per raggiungere questo obiettivo, Israele mantiene un regime continuo di oppressione. Ciò include: la violenza burocratica come i divieti di costruzione, sviluppo e movimento che discriminano i palestinesi a favore degli ebrei, nel Negev, in Galilea e in Cisgiordania, la violenza disciplinare attraverso la sorveglianza, le incursioni notturne e gli arresti e violenze fisiche come torture durante gli interrogatori e la detenzione, attacchi regolari da parte dei coloni e lesioni e morte per mano principalmente di soldati e poliziotti, ma anche per mano di civili israeliani. Il fatto che gli autori siano lo Stato, le sue istituzioni e i cittadini, non rende questa violenza accettabile, legittima o giustificata agli occhi dei palestinesi, che costituiscono metà della popolazione che vive tra il fiume Giordano e il Mediterraneo.

Al contrario. La natura meticolosamente pianificata di questa violenza e il numero infinito di israeliani che vi prendono parte danno ai palestinesi un diverso senso delle proporzioni quando un’azione violenta è intrapresa dai loro compatrioti. Quella che è considerata un'”ondata di terrorismo” dagli ebrei israeliani è vista dai palestinesi come un’eccezione, composta da pochi giovani che si sono stufati dell’impotenza di tutti, compresi se stessi, scegliendo invece di uccidere e farsi uccidere. Molti più giovani diventano dipendenti da antidolorifici e altri farmaci per le stesse ragioni, oppure seguono i propri sogni ed emigrano.

In conversazioni private i palestinesi in Cisgiordania e a Gaza esprimono dolore per la morte di civili. Sembra che gli attacchi con il coltello e l’omicidio di donne e anziani, come accaduto a Be’er Sheva, siano più scioccanti degli spari contro i passanti, che includono poliziotti e soldati in uniforme. Alcune persone sottolineano il fatto che gli assalitori ad Hadera hanno sparato solo contro gli agenti della polizia di frontiera e, secondo testimoni israeliani, hanno deliberatamente evitato di sparare contro donne e bambini. In un rapporto in arabo questa distinzione tra persone in uniforme e civili è attribuita – per errore o apposta, chi può dirlo – all’aggressore [che ha agito] a Bnei Brak, anche se ha sparato indiscriminatamente contro i civili.

Per vari motivi, il dolore e le riserve personali non si traducono in condanna pubblica (tranne che da parte di Mahmoud Abbas, che è così impopolare che la sua opinione non conta). Innanzitutto perché gli attacchi di un “lupo solitario” non rappresentano la collettività in generale, che non ne è responsabile, ma anche perché l’uso delle armi ha un’aura di santità e legittimità storica difficile da scrollarsi di dosso. In secondo luogo, nasce dalla compassione istintiva per un palestinese che ha scelto di essere ucciso. Terzo, non vi è alcuna condanna pubblica da parte di Israele dopo ogni atto di violenza da parte dello stato o da parte di elementi ufficiali o privati ​​contro i palestinesi. Una condanna palestinese appare quasi collaborazionista perché non tiene conto di un equilibrio di potere così sbilanciato.

La facciata di normalità israeliana potrebbe essersi incrinata per alcuni giorni, con l’isteria e la paura alimentate dai media israeliani e da Hamas, dalla Jihad islamica e da Hezbollah, che lodano questi attacchi per il loro tornaconto politico. Anche le persone consapevoli dell’inutilità e dell’inefficacia di tali atti di disperazione e vendetta non lo affermano pubblicamente per non offendere le famiglie degli aggressori uccisi. In ogni caso l’attenzione dei palestinesi si è concentrata sugli attacchi dei coloni e dell’esercito e l’istigazione di destra contro tutti gli arabi scatenata subito dopo gli attacchi dei lupi solitari.

Nonostante il tradizionale sostegno emotivo alla resistenza armata, la stragrande maggioranza sa che per ora, anche se questo tipo lotta dovesse riprendere (e non solo da parte di singoli), e anche se dovesse essere meglio pianificata rispetto al precedente della seconda Intifada, non potrebbe  sconfiggere Israele o migliorare la sorte dei palestinesi. Proprio come la diplomazia, il movimento BDS e le sanguinose dimostrazioni a Beita e Kafr Qaddum non sono riusciti e non stanno riuscendo a bloccare la costante e quotidiana acquisizione di spazio da parte degli ebrei israeliani e l’espulsione dei palestinesi verso enclave sovraffollate che possono essere chiuse in un attimo da un pugno di soldati.

(traduzione dell’Inglese di Giuseppe Ponsetti)