In che modo Israele progetta di “colonizzare” la parte restante di Gerusalemme

ARAB 48

9 Maggio 2022 – Mondoweiss

Un nuovo catasto israeliano a Gerusalemme est potrebbe portare alla confisca di vaste aree di proprietà palestinesi. Ahmad Amara valuta le terribili implicazioni per il popolo di Gerusalemme e per il futuro della città.

Il progetto israeliano di accatastare i territori di Gerusalemme est, che è stato formalmente stilato attraverso un decreto del governo con il titolo “Decreto 3790 finalizzato alla riduzione delle carenze socioeconomiche e alla promozione dello sviluppo economico a Gerusalemme est” minaccia ciò che resta dei terreni di Gerusalemme, poiché Israele prevede di accatastare l’intera Gerusalemme est occupata attraverso un comitato supervisionato dal Ministero della Giustizia. I lavori del comitato dovrebbero concludersi entro la fine del 2025.

Israele doveva completare il processo di attribuzione/accatastamento del 50% del territorio di Gerusalemme Est durante il quarto trimestre del 2021. Tuttavia, poiché la procedura sembra essere complicata, Israele prevede che il lavoro non andrà avanti facilmente in tutti i quartieri di Gerusalemme Est. Pertanto il comitato incaricato ha deciso di avviare zone pilota in diverse aree. Inoltre il processo è stato rallentato anche dalla diffusione nell’ultimo anno del Covid-19, che tuttavia continua.

Una valutazione della situazione pubblicata dal Madar Research Center [centro di ricerca indipendente palestinese sugli aspetti politici, sociali, economici e culturali delle questioni israeliane, ndtr.] afferma che Israele sostiene che l’accatastamento dei terreni di Gerusalemme est aumenterebbe le entrate della municipalità di Gerusalemme di centinaia di milioni di shekel [uno shekel equivale a 28 centesimi di euro, ndtr.], così come aumenterebbe le entrate dei gerosolimitani che potrebbero beneficiare dell’accatastamento, oltre all’assegnazione di circa 550.000 dunum [55.000 ettari, ndtr.] per zone industriali che impiegherebbero forza lavoro palestinese.

Tuttavia la registrazione delle terre potrebbe essere utilizzata di fatto per far avanzare irreversibilmente la colonizzazione israeliana, il che porterebbe alla confisca di vasti terreni di Gerusalemme est, che poi sarebbero ufficialmente registrati come proprietà demaniale.

Durante l’ultimo mezzo secolo di occupazione e annessione della città Israele ha già confiscato vaste aree di Gerusalemme Est a favore di grossi insediamenti coloniali israeliani. Israele ha soffocato la naturale espansione dei gerosolimitani palestinesi creando nuove situazioni nell’area. Pertanto l’accatastamento dei terreni di Gerusalemme est, in base a quanto avviene oggi rispetto alla situazione precedente all’occupazione del 1967, consoliderebbe i cambiamenti coloniali a Gerusalemme est e faciliterebbe il furto repentino di altre terre con pretesti giuridici.

Arab 48 [emittente online di informazioni in lingua araba, ndtr.] ha intervistato su questo aspetto e sulle sue implicazioni per le terre e le persone di Gerusalemme e il futuro della città il ricercatore, docente e avvocato Dr. Ahmad Amara, specializzato in diritto fondiario e diritto internazionale. Il Dr. Amara è un avvocato specializzato in contenzioso internazionale, docente presso la New York University di Tel Aviv e ricercatore presso lo studio di consulenza legale dell’Università Al-Quds. La sua ricerca si concentra sull’intersezione tra diritto, storia e geografia, con particolare attenzione al diritto fondiario ottomano nella Palestina meridionale e a Gerusalemme. Di recente ha pubblicato Emptied Lands – A Legal Geography of Bedouin Rights in the Negev [Terre svuotate – Una geografia giuridica dei diritti dei beduini nel Negev, ndtr.], con Alexandre Kedar e Oren Yiftachel, e attualmente sta lavorando alla ricerca sul controllo del territorio e sull’ebraizzazione attraverso vari strumenti legali incentrati su Silwan e Sheikh Jarrah [quartieri prevalentemente palestinesi di Gerusalemme Est oggetto negli ultimi anni di ripetuti sfratti violenti da parte delle forze di polizia israeliane, ndtr.].

Arab 48: Le intenzioni di Israele di sfruttare tutti gli strumenti legali, amministrativi e progettuali a favore dei suoi piani di colonizzazione sono chiare, ma per favore mi spiega cos’è l’attribuzione/accatastamento di una proprietà fondiaria e qual è la procedura?

Amara: una semplice attribuzione di una proprietà terriera costituisce praticamente la registrazione dei diritti fondiari, cioè l’affermazione dei diritti del proprietario sulla propria terra con riferimento ad un determinato appezzamento di terreno, ad un’area specifica in centimetri su una mappa e ad un certificato catastale.

L’attribuzione delle proprietà fondiarie fu introdotta in Palestina dagli inglesi e dagli ottomani prima di loro. Il Tapu [catasto] che conosciamo è una procedura ottomana. Nel contesto temporale delle normative e delle riforme amministrative e legali ottomane, la legge sul Tapu è stata introdotta a metà del XIX secolo, in un momento in cui l’Impero Ottomano intraprendeva il suo tentativo di agire come uno Stato moderno centralizzato e cercava di compilare quante più statistiche e dati possibili sulla popolazione e sul territorio. La legge ottomana sul Tapu fu emanata nel 1860, mentre la legge fondiaria ottomana venne promulgata nel 1958. Questa legge ha avuto un ruolo importante nella confisca israeliana delle terre palestinesi nel Negev, in Galilea, in Cisgiordania e a Gerusalemme.

Dopo gli ottomani giunse la Gran Bretagna e stabilì una nuova procedura di attribuzione/accatastamento di una proprietà fondiaria basata su accurate mappe di rilevamento e su una lottizzazione in blocchi e appezzamenti. La procedura faceva anche parte della politica britannica di controllo delle terre demaniali e di trasferimento di alcune di queste terre agli insediamenti coloniali sionisti. Israele ha seguito e applicato la stessa procedura di accatastamento fondiario.

Per quanto riguarda l’iter burocratico relativo all’attribuzione/accatastamento, lo Stato fa una dichiarazione relativa alla registrazione, i richiedenti interessati devono presentare la loro richiesta fondiaria, quindi la procedura è regolata da diverse norme e regolamenti che portano alla pubblicazione di una tabella delle rivendicazioni fondiarie e in seguito di una tabella dei diritti fondiari. Pertanto, chiunque rivendichi un diritto otterrebbe la registrazione e pubblicazione del suo nome per una verifica da parte del responsabile degli insediamenti fondiari.

Arab 48: Riguardo la terra che nessuno rivendica, rimane proprietà dello Stato?

Amara: il responsabile delle attribuzioni fondiarie è obbligato a ricercare, approfondire e stabilire i diritti sulla terra, indipendentemente dal fatto che lo Stato abbia presentato un reclamo per uno specifico terreno. Il pericolo sta in ciò che Israele cerca di registrare a suo favore come terra pubblica o statale — Proprietà degli Assenti [la Legge sulle Proprietà degli Assenti, emanata nel 1950, fu creata ad hoc al fine di acquisire la proprietà su beni e immobili delle migliaia di profughi palestinesi che furono espulsi dalle forze ebraiche verso i Paesi arabi confinanti, ndtr.] e proprietà appartenenti agli ebrei da prima del 1948. Il rischio esiste perché nel processo di attribuzione Israele è la controparte e l’arbitro.

Come è noto, la terra presumibilmente appartenuta agli ebrei prima del 1948 è amministrata dal “Custode generale”, mentre la proprietà degli assenti [palestinesi costretti ad abbandonare la terra] è gestita dal “Custode delle proprietà degli assenti”. Entrambi sono presenti nel Comitato per l’assegnazione del titolo fondiario, che comprende anche rappresentanti del comune di Gerusalemme. Questi comitati attualmente si riuniscono e sono operativi. C’è una società che lavora specificamente al rilevamento e alla mappatura, e hanno già iniziato con blocchi di terreni pilota a Beit Hanina, Jabal al-Mukabbir, Sheikh Jarrah e Beit Safafa, un’operazione supervisionata dal Ministero della Giustizia israeliano.

Arab 48: Lei ha sottolineato che questa attribuzione del titolo fondiario è la continuazione di un processo avviato dal Mandato Britannico prima del 1948, che aveva obiettivi di controllo coloniale LAO [Law and Administration Ordinance, Ordinanza sulla legge e l’amministrazione, con cui lo Stato di Israele riconobbe validità alle leggi del Mandato britannico, ndtr.] della terra.

.Amara: Il processo è più di una semplice confisca. La procedura britannica di attribuzione della proprietà fondiaria, iniziata nel 1928, mirava a suddividere e controllare le “terre statali” e a facilitare la loro destinazione a favore della colonizzazione ebraica, come delineato nella Sezione 6 del Mandato britannico sulla Palestina.

Il secondo obiettivo era rispondere alla richiesta della leadership sionista di registrazione dei terreni per facilitarne l’acquisto e per proteggere meglio i diritti dell’acquirente. In questo contesto, notiamo che anche se gli inglesi fino al 1948 avevano accatastato solo il 20% del territorio della Palestina, la registrazione avveniva principalmente nelle aree in cui erano ubicati insediamenti coloniali ebraici, cioè principalmente in Galilea e sulla costa, mentre non troviamo tali registrazioni, per esempio, in Cisgiordania.

Come è noto, l’accordo tra i leader sionisti prevedeva tre modi per prendere il controllo della terra in Palestina: il primo era con la forza, come facevano tutte le potenze coloniali (conquista), il secondo era attraverso leggi autoritarie e decisioni di confisca delle terre, che non era possibile in assenza di sovranità, mentre il terzo era l’acquisto e l’accatastamento dei terreni, quindi la registrazione era fondamentale per loro.

La prima cosa che fecero gli inglesi quando colonizzarono la Palestina fu chiudere gli uffici Tapu (del catasto), e la successiva fu formare la Commissione Abramson, che suggerì l’emissione di due ordinanze, la Land (Mahlul) Ordinance del 1920 e la Land (Mawat) Ordinance del 1921. Tra il 1928 e il 1948 il mandato britannico è stato in grado di accatastare 5,2 milioni di dunam [520.000 ettari, ndtr.] di terra su un totale di 26 milioni di dunam [2.600.000 ettari, ndtr.] della Palestina e, se osserviamo la mappa di accatastamento, vediamo che esiste una somiglianza significativa tra la mappa di accatastamento e la mappa della partizione della Palestina.

Arab 48: Quindi, l’attribuzione della proprietà fondiaria era al servizio del sionismo anche prima della creazione di Israele. Come sarà sotto la sovranità israeliana, e a Gerusalemme in particolare?

Amara: Il movimento sionista aveva contribuito alla stesura delle leggi fondiarie britanniche. A volte venivano inviati progetti di legge all’Agenzia ebraica [istituita nel 1923 col compito di facilitare l’immigrazione ebraica in Palestina e l’acquisto di terre dai proprietari arabi e di pianificare le politiche generali della leadership sionista, ndtr.] per un commento ed era importante che la terra fosse assegnata e accatastata nelle aree di attrito in cui la terra veniva acquistata, per radicare lì i diritti degli insediamenti coloniali ebraici.

Per quanto riguarda l’attuale attribuzione della proprietà fondiaria a Gerusalemme, le esperienze passate in Galilea e nel Negev suggeriscono che Israele ha cambiato molte delle leggi e regolamenti britannici e ottomani, in particolare per quanto riguarda la definizione di diritti e regole probatorie, incluso il ruolo dei comitati di villaggio locali, il peso di testimonianze orali che confermano che una certa persona possiede la terra e il dato empirico del possesso della terra.

L’esperienza successiva al 1948 fu molto diversa da quella precedente. Sebbene poco più di 2 milioni di dunum [200.000 ettari, ndtr.], meno del 5% della terra, siano stati acquistati dalle istituzioni sioniste prima del 1948, lo Stato di Israele ora controlla il 95% della terra. Ciò è stato ottenuto attraverso una serie di leggi e procedure come la legge sulla proprietà degli assenti, la legge sull’acquisizione di terreni e l’ordinanza sui terreni (acquisizione per finalità pubbliche).

Le prime attribuzioni di proprietà fondiarie dopo il 1948 iniziarono a Gerusalemme ovest nei villaggi e nei quartieri di Ein Karem, Deir Yassin e al-Talibiya, e l’obiettivo era legittimare il controllo israeliano sulle terre di queste aree, sapendo che Gerusalemme era classificata come Corpus Separatum nell’ambito del Piano di spartizione delle Nazioni Unite [l’area di Gerusalemme si sarebbe dovuta trovare sotto un regime internazionale, con uno status speciale per la sua comune importanza religiosa, ndtr.].

Tuttavia, negli anni ’50 e ’60 si avviò il processo di attribuzione in Galilea e fu legato all’imposizione di una sovranità e agevolazione del processo di colonizzazione ebraica di fronte ai timori dell’indipendenza della regione da Israele o alla minaccia della sua annessione a un Stato arabo. Naturalmente ha giocato un ruolo importante nel processo anche la politica di ebraizzazione della Galilea.

Arab 48: Sentiamo spesso parlare della dichiarazione di Ben-Gurion dell’epoca, in cui diceva, dopo un viaggio in Galilea, di essersi sentito come se si trovasse in un Paese arabo.

Amara: L’attribuzione delle proprietà fondiarie in Galilea è connessa con l’ebraizzazione di quest’area, cosa che sta avvenendo oggi anche a Gerusalemme, ma ciò che ci preoccupa di questa esperienza è il modo in cui Israele in quella circostanza ha implementato il processo di attribuzione delle proprietà fondiarie. Le autorità israeliane hanno negato tutte le testimonianze orali su cui si era fatto affidamento durante la registrazione degli insediamenti nel periodo del Mandato britannico e hanno escluso le registrazioni fiscali come prova della proprietà. Confiscando così ingiustamente vaste aree di terra.

I dati specifici riportano che a seguito di questo accordo e della conseguente confisca 8.000 ricorsi vennero presentati ai tribunali israeliani da proprietari terrieri palestinesi, l’85% dei quali fu respinto.

Nel Negev l’attribuzione venne annunciata nel 1974, nelle aree in cui era stata trasferita ed era concentrata la maggior parte dei beduini e, dopo l’annuncio, furono presentate 3.220 richieste sulle terre in assegnazione. Tuttavia, Israele scelse di congelare queste richieste e di negoziare principalmente un risarcimento monetario con i ricorrenti. Tuttavia, nel 2004 era stato evaso solo il 15% circa di queste richieste.

Dopo il 2004 Israele ha iniziato a presentare controrivendicazioni nei confronti delle famiglie arabe del Negev, e ad oggi sono 500-600 le cause giudiziarie, 300-400 delle quali sono state risolte a favore di Israele. Ad oggi la magistratura israeliana non ha riconosciuto alcuna rivendicazione di proprietà da parte di arabi del Negev. Nel nostro libro sul Negev, Emptied Lands, mostriamo come Israele stia svuotando la terra della sua popolazione indigena e della sua storia, sostenendo che queste terre sono terre “mawat”, morte [nel diritto ottomano, terreni non coltivati che venivano per questo incamerati dallo Stato, ndtr.], e quindi “terre statali”, e che i beduini sono intrusi in queste terre.

Arabo 48: Quindi, sta dicendo che le attribuzioni fatte da Israele in diverse aree palestinesi erano preventivamente volte a confiscare e a porre sotto controllo la terra, e questo è ciò che accadrà a Gerusalemme est?

Amara: L’ironia è che subito dopo l’occupazione di Gerusalemme Est Israele ha bloccato l’accordo sulla proprietà fondiaria avviato dalla Giordania, durante il quale era stato accatastato il 30% delle terre della Cisgiordania.

Durante gli ultimi 50 anni di occupazione, Israele ha confiscato 24.000 dunum [2.400 ettari, ndtr.], che costituiscono il 38% della terra di Gerusalemme est, sulla base principalmente di una legge britannica del 1943 che autorizzava la confisca di terre a fini di interesse pubblico.

Quindi riteniamo che l’annuncio dell’attribuzione miri a contrattare con la gente ciò che resta della terra. Sappiamo che le istituzioni che cercano di continuare a controllare le terre palestinesi sono presenti nel comitato, come il “Custode generale” e il “Custode delle proprietà degli assenti” e altri, e sono pronte a sequestrare ulteriori terre palestinesi con vari pretesti e leggi israeliane. In effetti, il solo Keren Kayemet” (Fondo nazionale ebraico) ha annunciato che aprirà per l’accatastamento 17.000 schedari di proprietà terriere presenti nei suoi archivi, inclusi 2.050 schedari di appezzamenti di terreno a Gerusalemme est.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Dopo più di due mesi di sciopero della fame, un prigioniero sottoposto a detenzione amministrativa nello Stato di Israele rifiuta di interromperlo

Agenzia Wafa

Ramallah, lunedì 9 maggio 2022 – WAFA

Il palestinese Khalil Awawdeh di 40 anni, residente nella città di Idna nella Cisgiordania del sud, sottoposto a detenzione amministrativa in Israele e che è stato in sciopero della fame per 68 giorni di seguito, persisterà nel suo sciopero fin quando non otterrà nuovamente la libertà, ha affermato il suo avvocato Ahlam Haddad dopo avergli fatto visita in prigione nella sua cella.

L’avvocato ha affermato che Awawdeh soffre di emicranie, dolori alle giunture, spossatezza, battito cardiaco irregolare, difficoltà respiratorie, vomita sangue e ha subìto una perdita di peso.

Awawdeh era stato precedentemente trasferito in ospedale ma poi, nonostante il deterioramento della sua salute, è stato riportato all’infermeria della prigione di Ramle.

Un altro prigioniero sotto detenzione amministrativa, Raed Rayan di 28 anni, è stato in sciopero della fame per 33 giorni di seguito, anche lui per rivendicare la sua libertà. Pare che anche lui abbia problemi di salute come conseguenza del lungo digiuno.

Awawdeh, padre di quattro figli, è stato incarcerato il 27 dicembre dello scorso anno e sottoposto a detenzione amministrativa senza imputazioni o processo, basandosi su una prova segreta.

Rayan è stato incarcerato il 3 ottobre dello scorso anno e anche tenuto per sei mesi in detenzione amministrativa.

I prigionieri palestinesi sotto detenzione amministrativa nello Stato di Israele, spesso fanno ricorso agli scioperi della fame per porre fine alla loro detenzione che sarebbe altrimenti prolungata.

La commissione per le questioni dei prigionieri palestinesi ha affermato oggi che durante il mese di aprile lo Stato di Israele ha emesso 154 ordini di detenzione amministrativa della durata tra i due e i sei mesi contro palestinesi, di cui 68 nuovi ordini e 86 rinnovi di ordini esistenti.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




A Gaza le restrizioni ai viaggi delle donne causano dissidi in famiglia

Rakan Abed e Khuloud Rabah Sulaiman 

9 maggio 2022 – The Electronic Intifada

Wafa, 28 anni, laureata in amministrazione aziendale, ha recentemente perso un’occasione di lavoro in Turchia perché non può lasciare Gaza.

L’ostacolo? Suo padre, contrario al suo viaggio all’estero da sola.

Il suo ragionamento? Una donna non può e non deve affrontare le sfide della vita senza un uomo che la protegga che sia un marito, un padre o un fratello.

Il contesto?

Nel febbraio 2021 il Consiglio Giudiziario Supremo di Gaza ha adottato una normativa che permette a un tutore maschio di ottenere un’ingiunzione del tribunale che vieta a una donna o a una ragazza di viaggiare se farlo le metterebbe a rischio.

Ciò che costituisce esattamente tale rischio – o “pericolo assoluto” secondo il linguaggio della legge – è, forse intenzionalmente, non ben definito. Il risultato è che se un tutore di una ragazza, padre, nonno, fratello, zio, ottiene un divieto imposto dal tribunale, lei non potrà lasciare Gaza fin da prima che un giudice prenda una decisione.

È quello che è successo a Wafa, che non vuole che il suo nome compaia in questo articolo.

Wafa aveva ottenuto un’offerta di lavoro da un’azienda turca come autrice di contenuti. Ma quando ha detto al padre che stava progettando di andarsene, lui le ha negato il permesso. E anche il fratello è irremovibile.

Ogni volta che cercavo di convincere mio padre o mio fratello ad accettare l’idea del mio viaggio c’era un barlume di speranza, ma poi mi hanno sempre delusa,” dice a The Electronic Intifada.

Subito dopo aver ricevuto la comunicazione da parte del datore di lavoro che avrei perso il posto se non ci fossi andata al più presto, ho cercato per l’ultima volta un accordo con la mia famiglia. Ma niente è cambiato.”

Condanna

Human Rights Watch ha condannato la decisione giudiziaria che secondo l’organizzazione per i diritti umani con sede a New York “viola il diritto delle donne di lasciare il proprio paese senza discriminazioni ai sensi del diritto internazionale per la protezione dei diritti umani.”

L’organizzazione ha citato il caso di Afaf al-Najar, diciannovenne, a cui è stata negata l’opportunità di conseguire la laurea in Turchia lo scorso settembre dopo che il padre ha emesso un ordine di sospensione del viaggio.

Wafa, come al-Najar, è intenzionata a mantenere vivo il suo sogno.

Ammette però che la famiglia ha quasi distrutto le sue ambizioni. Con un picco di disoccupazione oltre il 50%, molti giovani non vedono altra alternativa che abbandonare Gaza per migliorare il livello di studi e la carriera.

Al fratello di Wafa è stato permesso di andare a cercar fortuna lontano da Gaza, cosa che l’ha fatta ancor più arrabbiare quando in seguito ha perso il lavoro in Turchia.

Mi sono isolata nella mia camera da letto per settimane, lontana da famiglia e amici,” dice. “Dopo che hanno distrutto le mie ambizioni di lavorare all’estero mi sembrava che la mia vita non avesse più senso.”

A Gaza con il suo lavoro come autrice di contenuti per l’ottimizzazione dei motori di ricerca guadagna un po’ di più che in molti degli altri lavori disponibili, ma tutti sono preoccupati per la disperata situazione economica dell’enclave. Wafa sogna ancora di andarsene.

Mi sento come una prigioniera ansiosa di rivedere il sole e respirare aria fresca il giorno del mio rilascio,” continua. “La liberazione arriverà quando mio padre mi permetterà di viaggiare e realizzare le mie ambizioni che per ora ho sepolto.”

Violazione del diritto internazionale

Zainab al-Ghanimi, direttrice del Centro per la ricerca e la consulenza legale per le donne, dice a The Electronic Intifada che non è solo la società civile che obietta alla nuova normativa. La restrizione dei diritti di viaggiare delle donne viola la Costituzione palestinese, la Basic Law. [la Legge fondamentale].

La nuova norma contiene frasi generiche e imprecise che potrebbero essere usate contro le donne per limitare la loro libertà di movimento, dice al-Ghanimi, contraddicendo gli articoli 11 e 20 della Basic Law che vietano la limitazione degli spostamenti, come pure l’articolo 12 della Convenzione Internazionale relativa ai Diritti Civili e Politici.

Non vedo perché, sposate o no, dovremmo avere bisogno del permesso di un uomo per viaggiare,” dice.

Al-Ghanimi afferma che il Concilio Giudiziario [una sorta di Consiglio Superiore della Magistratura e di Corte Costituzionale, ndt.] di Gaza ha raggiunto la decisione dopo che si erano verificati alcuni casi in cui delle donne erano andate all’estero senza avvertire i genitori e dopo dissapori in famiglia. Ma ciò, sostiene, non dovrebbe in alcun modo giustificare una legge “irrazionale” che contravviene i trattati internazionali, “svilendo le donne nella cultura di Gaza.”

Questo è assurdo e offensivo per tutte quelle donne che ricoprono posizioni professionali apicali in settori in cui i loro mariti non potrebbero competere,” continua, sottolineando che le donne a Gaza spesso ottengono risultati scolastici migliori degli uomini.

Gaza, secondo Yaseen Abu Odeh della Società per lo sviluppo delle donne lavoratrici palestinesi, è ancora una società patriarcale con tradizioni che limitano i diritti delle donne e vengono trasmessi di generazione in generazione.

Se con il tempo alcune tradizioni, come quelle riguardo ai viaggi, sono cambiate, la libertà delle donne di prendere le proprie decisioni sul viaggiare è rimasta limitata.

Gli atteggiamenti sono influenzati culturalmente dalla sensazione che le donne siano più vulnerabili e perciò più a rischio. Inoltre, aggiunge Abu Odeh, agli uomini viene insegnato di preoccuparsi dell’“onore” di figlie o sorelle, onore che verrebbe infangato da molestie sessuali da parte di estranei.

La società valuta questo “onore” femminile sopra ogni altra cosa, continua Abu Odeh, anche se ciò significa limitare la libertà delle donne di far parte della società. In seguito a ciò, poiché viaggiare forgia la capacità di gestire le sfide della vita e plasma personalità indipendenti, limitare la possibilità di farlo ha creato generazioni di donne psicologicamente dipendenti dai loro parenti maschi.

Seppellire le ambizioni

Amira, 28 anni, è disoccupata da quando l’anno scorso è stata costretta dal padre a ritornare a Gaza dopo aver completato il master in Giordania. Nonostante un’offerta di lavoro da un’organizzazione giordana, il padre le ha proibito di restare.

Stando ad Amira lui le ha detto che “non abbiamo figlie che vivono lontane da noi.”

Non riesco a capire come mio padre possa negarmi il desiderio di lavorare, specialmente dopo che sono stata assunta,” dice Amira a The Electronic Intifada; neppure lei vuole che il suo vero nome appaia in questo articolo. “Ho conseguito un master per cercar lavoro in Giordania.”

Stava pensando di restarci contro la volontà del padre, ma temeva che lui “arrivasse in Giordania dove stavo vivendo e con la forza” mi riportasse a Gaza.

Ho anche avuto paura di essere maltrattata, fisicamente e psicologicamente.”

Amira ne aveva già passate tante. Aveva impiegato due mesi per convincere il padre che la lasciasse andare in Giordania per frequentare il master biennale in chimica, anche se aveva ricevuto una borsa di studio dal governo giordano perché lui era preoccupato per la sua sicurezza mentre era lontana dalla famiglia.

Mi sono sentita in paradiso quando ho saputo che la mamma era finalmente riuscita a persuaderlo,” dice Amira.

Un momento fugace. “Sfortunatamente ho ceduto alle richieste di mio padre e sono tornata a Gaza. Qui ho seppellito le mie ambizioni.”

Israa, 26 anni, è una sviluppatrice web freelance in Giordania, neanche lei vuole rivelare il suo nome in questo articolo. Ha insistito con la richiesta di andarsene da Gaza fino a quando finalmente i genitori hanno ceduto.

Ottenere il permesso della mia famiglia è stata una lotta, nonostante non sia una ragazzina,” dice. “Ma ho continuato a provarci per più di cinque mesi e alla fine ci sono riuscita.”

Israa se ne è andata da Gaza l’anno scorso in parte per sfuggire ai costumi antiquati della Striscia.

La mia sorella maggiore e i miei genitori hanno litigato per almeno sei anni sul suo rifiuto del matrimonio tradizionale. I miei genitori non hanno fatto nessuno sforzo per capire il suo punto di vista,” dice Israa a The Electronic Intifada.

I suoi genitori erano preoccupati che la sorella, ora ventinovenne, sarebbe rimasta zitella dopo i 25 anni. Non si è ancora sposata.

Tradizionalmente ci si aspetta che le donne si sposino fra i 18 e i 25 anni. Un’età maggiore, secondo il modo di pensare tradizionale, potrebbe causare problemi con la maternità o il parto.

Non voglio affrontare la stessa esperienza perché né io né mia sorella abbiamo mai creduto nel matrimonio tradizionale o che l’amore arrivi dopo il matrimonio,” dice.

Israa vuole anche vestirsi senza intromissioni, ma non può perché i genitori sono contrari. Il suo stile è diverso dalle norme tradizionali di Gaza. I vicini e i parenti hanno cominciato a spettegolare, cosa che a sua volta ha provocato uno stress emotivo per la famiglia.

Non ho voluto entrare in conflitto con loro per qualcosa di così insignificante. Ma soffro al pensiero di non poter ottenere quello che voglio e di non essere autosufficiente,” commenta.

In Giordania è diverso. Si sente più libera e a suo agio. Indossa quello che vuole e sta fuori la sera se ne ha voglia.

Sono contenta di non essere vincolata dalle norme superate di Gaza,” conclude.

Rakan Abedvè un reporter freelance e produttore di video che vive nella Striscia di Gaza.

Khuloud Rabah Sulaiman è una giornalista che vive a Gaza.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Israele arresta due palestinesi sospettati di un accoltellamento mortale

Redazione di Al-Jazeera

8 maggio 2022-Al Jazeera

I due sospetti sono stati arrestati in un’area boschiva vicino al luogo dell’attacco nell’insediamento di Elad, dopo una caccia all’uomo durata tre giorni.

Le forze israeliane hanno arrestato due palestinesi sospettati di aver ucciso tre persone in un attacco a coltellate la scorsa settimana nell’insediamento di Elad vicino a Tel Aviv.

I due palestinesi, identificati come Asad Yussef al-Rifai, 19 anni, e Subhi Imad Sbeihat, 20 anni, sono stati arrestati nei pressi di una cava non lontano da Elad a seguito di una vasta caccia all’uomo.

Domenica la polizia, l’esercito e l’agenzia di sicurezza interna in una dichiarazione congiunta hanno affermato “I due terroristi che hanno ucciso tre civili israeliani nell’attacco omicida a Elad sono stati catturati”.

Il primo ministro Naftali Bennett ha dichiarato: “Abbiamo detto che avremmo catturato i terroristi e così abbiamo fatto”.

Testimoni oculari hanno riferito al sito di notizie Maan che in seguito forze israeliane dotate di veicoli militari hanno fatto irruzione nelle loro case nel villaggio di Rummaneh a ovest di Jenin.

Giovane palestinese ucciso

Secondo il Ministero della Salute palestinese domenica sera le forze israeliane hanno ucciso a colpi di arma da fuoco un giovane palestinese vicino al posto di blocco militare di Jabara a sud di Tulkarem nella Cisgiordania occupata.

Il giovane è stato identificato come Mahmoud Sami Khalil, secondo l’agenzia di stampa palestinese Wafa.

Gli accoltellamenti di giovedì sono avvenuti in quello che Israele celebra come il suo Giorno dell’Indipendenza.

Per i palestinesi l’anniversario della dichiarazione di indipendenza di Israele nel 1948 segna la Nakba, o catastrofe, quando almeno 750.000 persone furono espulse violentemente dalle loro case e dai loro villaggi nella Palestina storica.

Elad, una città ebraica ultra-ortodossa, è costruita sui resti del villaggio palestinese al-Muzayriyah, che fu etnicamente ripulito e distrutto nel luglio 1948.

Le forze israeliane affermano che almeno altri quattro sono rimasti feriti nell’attacco con ascia e coltello.

Stefanie Dekker di Al Jazeera, che riporta da Gerusalemme Ovest, ha detto che sono stati trovati in una zona boscosa di Elad.

Non è la prima volta che questo tipo di attacchi viene effettuato in una città israeliana. Ce ne sono stati sei, sette negli ultimi due mesi”, ha detto Dekker.

“La valutazione delle forze di sicurezza interna israeliane è che questo tipo di attacchi sono effettuati a livello individuale, il che li rende molto più difficili da prevenire”, ha affermato.

“Questa è sicuramente una preoccupazione che si trascinerà nel futuro”.

Aumento delle tensioni

L’accoltellamento è stato l’ultimo di una serie di assalti mortali nel cuore del Paese durante ultime settimane. È accaduto quando le tensioni israelo-palestinesi erano già state acuite dalla violenza e dalle ripetute incursioni delle forze israeliane nel complesso della moschea di Al-Aqsa, il terzo luogo più sacro dell’Islam.

In una dichiarazione il Ministro della Pubblica Sicurezza Omer Barlev ha affermato: “Continueremo a dare la caccia con determinazione in ogni momento a quelli che vogliono farci del male e li prenderemo.”

Mentre le forze armate perlustravano l’area alla ricerca degli uomini, la polizia ha invitato la gente a liberare l’area e ha esortato gli israeliani a denunciare veicoli o persone sospette.

La polizia ha detto che gli attaccanti provenivano dalla città di Jenin nella Cisgiordania occupata, la città è riemersa come un punto focale [era stata protagonista della seconda intifada, ndtr.] nell’ultima ondata di violenza, la peggiore che Israele abbia visto da anni. Molti aggressori arrivavano da Jenin.

Quasi 30 palestinesi sono morti nelle violenze succedute da marzo, tra cui una donna disarmata e due passanti. Le organizzazioni per i diritti umani affermano che Israele usa spesso una forza eccessiva con poca o nessuna responsabilità.

Almeno 18 israeliani sono stati uccisi in cinque attacchi, tra cui un altro accoltellamento nel sud di Israele, due sparatorie nell’area di Tel Aviv e colpi di armi da fuoco lo scorso fine settimana in un insediamento israeliano nella Cisgiordania occupata.

Gli insediamenti israeliani sono considerati illegali secondo le leggi internazionali. I successivi governi israeliani hanno costruito e ampliato insediamenti nei territori palestinesi occupati – una mossa che secondo i palestinesi è mirata al cambiamento demografico.

Ci sono tra 600.000 e 750.000 coloni israeliani che vivono in almeno 250 insediamenti nella Cisgiordania occupata ed a Gerusalemme est.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Israele: tre persone uccise durante un attacco in una città ultraortodossa

Redazione di MEE

5 maggio 2022 – Middle East Eye

In corso un’intensa caccia all’uomo per catturare i due sospettati che hanno attaccato gli israeliani mentre il Paese festeggia il Giorno dell’Indipendenza.

Almeno tre persone sono state uccise giovedì in una città ultraortodossa nel centro di Israele nel corso di un attacco mentre il Paese festeggiava il Giorno dell’Indipendenza.

È in corso un’intensa caccia all’uomo per trovare i due sospettati di 19 e 20 anni.

Magen David Adom, la Croce Rossa israeliana, ha detto che l’attentato ha causato 7 vittime: tre morti, due feriti in condizioni critiche, uno grave e uno con ferite lievi.

Secondo i media israeliani uno degli aggressori ha usato un’arma da fuoco e l’altro un’ascia o un grosso coltello. Middle East Eye non è riuscita a verificare in modo indipendente le dichiarazioni.

Video postati sui social mostrano ambulanze che accorrono sulla scena dell’attacco e personale medico che presta soccorso ai feriti.

L’attacco avvenuto a Elad, una città ultraortodossa a circa 30 km a est di Tel Aviv, arriva dopo una serie di aggressioni mortali nelle ultime settimane.

Un totale di 14 israeliani è stato ucciso da marzo in quattro sparatorie e accoltellamenti. Tutti i cinque assalitori, palestinesi provenienti da Cisgiordania e Israele, sono stati in seguito uccisi.

Sono almeno 50 i palestinesi uccisi fino ad ora quest’anno dall’esercito israeliano in Cisgiordania.

L’attacco di giovedì è avvenuto a pochi giorni dal primo anniversario dell’offensiva militare israeliana su larga scala contro l’assediata Striscia di Gaza.

Il picco di violenza si è registrato lo scorso maggio quando Israele aveva tentato di espellere alcune famiglie palestinesi da Sheikh Jarrah, un quartiere nella Gerusalemme Est occupata, per far posto a coloni israeliani.

Questo causò proteste diffuse nella Cisgiordania occupata e nella comunità palestinese in Israele che portò a 11 giorni di bombardamenti israeliani contro Gaza.

Secondo le Nazioni Unite l’operazione militare israeliana uccise 256 palestinesi, inclusi 66 minori. In Israele i razzi lanciati da Gaza uccisero 13 persone.

(traduzione di Mirella Alessio)




Ridisegnando l’UNRWA Washington distrugge le basi di una pace giusta in Palestina

Ramzy Baroud

3 maggio 2022 – Middle East Monitor

I palestinesi hanno tutte le ragioni di essere preoccupati perché il mandato dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati Palestinesi, UNRWA, potrebbe essere sul punto di terminare. La missione dell’UNRWA, in vigore dal 1949, ha fatto qualcosa in più del semplice aiuto e appoggio urgente a milioni di rifugiati. È stata anche una piattaforma politica che ha protetto e preservato i diritti di varie generazioni di palestinesi.

Benché non sia stata creata di per sé come una piattaforma politica o giuridica, il contesto del suo mandato è stato in larga misura politico, dato che i palestinesi si sono trasformati in rifugiati a seguito di avvenimenti militari e politici: la pulizia etnica del popolo palestinese da parte di Israele e il rifiuto di quest’ultimo di rispettare il diritto al ritorno dei palestinesi stabilito dalla risoluzione 194 (III) dell’ONU dell’11 dicembre 1948.

“L’UNRWA ha l’incarico umanitario e per lo sviluppo di fornire assistenza e protezione ai rifugiati palestinesi finché si trovi una soluzione giusta e duratura alla loro situazione,” affermava la Risoluzione 302 (IV) dell’Assemblea Generale dell’ONU dell’8 dicembre 1949.

Disgraziatamente non si è raggiunta né una “soluzione duratura” alla difficile situazione dei rifugiati, né una prospettiva politica. Invece di approfittare di questa constatazione per rivedere il fallimento della comunità internazionale nel dare giustizia alla Palestina e per chiamare in causa Israele e i suoi benefattori statunitensi, sono l’UNRWA, e per estensione i rifugiati, che vengono sanzionati.

Con un severo monito, il 24 aprile il capo della commissione politica del Consiglio Nazionale Palestinese (CNP) Saleh Nasser ha affermato che il mandato dell’UNRWA potrebbe essere arrivato alla fine. Nasser ha fatto riferimento a una recente dichiarazione del Commissario Generale dell’organizzazione dell’ONU, Philippe Lazzarini, riguardo al futuro dell’organismo.

La dichiarazione di Lazzarini, pubblicata il giorno precedente, si prestava a varie interpretazioni, anche se risultava chiaro che stava per cambiare qualcosa di fondamentale nello status, nel mandato e nel lavoro dell’UNRWA. “Possiamo ammettere che la situazione attuale è insostenibile e che inevitabilmente darà come risultato l’erosione della qualità dei servizi dell’UNRWA o, peggio ancora, la sua chiusura,” ha detto Lazzarini.

Commentando la dichiarazione Nasser ha detto che questo “è il preludio al fatto che i donatori smettano di finanziare l’UNRWA.”

Il tema del futuro dell’UNRWA è ora una priorità nel discorso politico palestinese, ma anche arabo. Qualunque tentativo di cancellare o ridefinire la missione dell’UNRWA rappresenta una sfida seria, per non dire senza precedenti, per i palestinesi. L’UNRWA fornisce appoggio educativo, sanitario e di altro genere a 5,6 milioni di palestinesi in Giordania, Libano, Siria, nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania, compresa Gerusalemme est. Con un bilancio annuale di 1.600 milioni di dollari questo appoggio e l’enorme rete che l’organizzazione ha creato non possono essere facilmente sostituiti.

Altrettanto importante è la natura politica dell’organizzazione. L’esistenza stessa dell’UNRWA rappresenta il fatto che c’è una questione politica che deve essere affrontata riguardo alla difficile situazione e al futuro dei rifugiati palestinesi. Di fatto quello che ha provocato l’attuale crisi non è stata una semplice mancanza di convinzione nel finanziamento dell’organizzazione. È qualcosa di più grande e molto più sinistro.

Nel giugno 2018 Jared Kushner, genero e consigliere dell’ex-presidente USA Donald Trump, ha visitato Amman (Giordania), dove, secondo la rivista statunitense Foreign Policy, ha cercato di convincere re Abdullah di Giordania a ritirare lo status di rifugiati a 2 milioni di palestinesi che vivono attualmente nel Paese.

Questo e altri tentativi sono falliti. Nel settembre 2018 Washington, sotto l’amministrazione di Trump, ha deciso di cessare di appoggiare finanziariamente l’UNRWA. In quanto principale finanziatore dell’organizzazione, la decisione statunitense è stata devastante, dato che circa il 30% dei soldi dell’UNRWA proviene dagli Stati Uniti. Tuttavia l’UNRWA ha continuato a tirare avanti a fatica aumentando la propria dipendenza dal settore privato e dalle donazioni individuali.

Benché i dirigenti palestinesi abbiano festeggiato la decisione dell’amministrazione Biden di riprendere i finanziamenti all’UNRWA il 7 aprile 2021, si è mantenuta segreta una piccola clausola della misura di Washington, che ha acconsentito di finanziare l’UNRWA solo dopo che questa avesse accettato di firmare un piano di due anni, noto come “Accordo-quadro di Collaborazione”. In sintesi, il piano ha di fatto trasformato l’UNRWA in una piattaforma per le politiche di Israele e degli Stati Uniti in Palestina, in base al quale l’organismo dell’ONU ha accettato le richieste degli Stati Uniti, e quindi di Israele, di garantire che nessun aiuto arrivi a rifugiati palestinesi che abbiano ricevuto un addestramento militare “come membri del cosiddetto Esercito di Liberazione della Palestina”, di altre organizzazioni o che “abbiano partecipato a qualunque azione terrorista.” Oltretutto L’accordo-quadro prevede che l’UNRWA controlli “il contenuto dei piani di studio [nelle scuole] palestinesi.”

Firmando l’accordo con il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti “l’UNRWA si è trasformata da agenzia umanitaria che fornisce assistenza e aiuto ai rifugiati palestinesi in un’agenzia della sicurezza che promuove il programma politico e della sicurezza degli Stati Uniti e, in ultima istanza, di Israele,” ha sottolineato il Centro di Risorse di BADIL per i Diritti dei Rifugiati Palestinesi.

Tuttavia le proteste dei palestinesi non hanno cambiato la nuova situazione, che ha di fatto modificato tutto il mandato affidato all’UNRWA dalla comunità internazionale quasi 73 anni fa. Ancora peggio, i Paesi europei hanno seguito il suo esempio quando lo scorso mese di settembre il parlamento europeo ha presentato un emendamento che condiziona l’appoggio dell’UE all’UNRWA alla pubblicazione e riscrittura dei libri di testo scolastici palestinesi che [ora] “inciterebbero alla violenza” contro Israele.

Invece di concentrarsi unicamente sulla chiusura immediata dell’UNRWA gli Stati Uniti, Israele e i loro sostenitori stanno lavorando per cambiare la natura della missione dell’organizzazione e riscrivere totalmente il suo mandato originario. L’agenzia, che è stata creata per proteggere i diritti dei rifugiati, ora si prevede che protegga gli interessi israeliani, statunitensi e occidentali in Palestina.

Benché l’UNRWA non sia mai stata un’organizzazione ideale, è però riuscita nel corso degli anni ad aiutare milioni di palestinesi preservando nel contempo la natura politica della loro situazione.

Benché l’Autorità Nazionale Palestinese, varie fazioni politiche, governi arabi e altri abbiano protestato contro i disegni israelo-statunitensi contro l’UNRWA, è poco probabile che queste proteste cambino molto le cose, dato che la stessa UNRWA si sta arrendendo alle pressioni esterne. Mentre i palestinesi, gli arabi e i loro alleati devono continuare a lottare per la missione originaria dell’UNRWA, devono sviluppare urgentemente piani e piattaforme alternative che proteggano i rifugiati palestinesi e il loro diritto al ritorno perché non diventino qualcosa di marginale ed eventualmente dimenticato.

Se si eliminano i rifugiati palestinesi dalla lista delle priorità politiche relative al futuro di una pace giusta in Palestina non sarà possibile raggiungere né la giustizia né la pace.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

Ramzy Baroud è giornalista, scrittore e direttore di The Palestine Chronicle. È autore di sei libri sulla lotta dei palestinesi, tra cui “L’ultima terra: Una storia palestinese” (Pluto Press, Londra). Baroud ha conseguito un dottorato in Studi Palestinesi presso l’università di Exeter ed è docente non residente presso il Centro Orfalea di Studi Globali e Internazionali dell’Università della California a Santa Barbara.

(Traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La Corte annulla la messa fuori legge di associazioni di solidarietà con la Palestina

Ali Abunimah

2 maggio 2022 – The Electronic Intifada

Venerdì la guerra di Emmanuel Macron contro gli attivisti per i diritti dei palestinesi ha subito un’altra battuta d’arresto.

Il Consiglio di Stato, che in Francia svolge la funzione di corte suprema che giudica le azioni del governo, ha sospeso l’ordinanza del presidente che metteva al bando due associazioni di solidarietà con la Palestina.

La corte sostiene il diritto di fare appello al boicottaggio dei prodotti israeliani ed ha ritenuto infondate le accuse governative di “antisemitismo” contro le due associazioni.

A febbraio, su indicazione di Macron, il Ministro dell’Interno Gérald Darmanin aveva ordinato lo scioglimento del ‘Collettivo Palestina Vincerà’ e del ‘Comitato Azione Palestina’.

Il governo ha accusato le due associazioni di incitamento all’odio e alla violenza nei confronti di Israele.

In una sintesi delle sue decisioni il Consiglio di Stato ha comunicato di aver sospeso gli ordini del governo non avendo riscontrato prove del fatto che “le posizioni assunte da queste associazioni, benché molto nette e aspre, configurino un invito alla discriminazione, all’odio o alla violenza o una istigazione a commettere atti di terrorismo.”

Riguardo al ‘Comitato Azione Palestina’ la corte ha sentenziato che l’ordine del governo è stato “una grave e palesemente illegittima violazione della libertà di associazione e di espressione.”

In una conclusione relativa alla campagna BDS – boicottaggio, disinvestimento e sanzioni – a guida palestinese, il Consiglio di Stato ha stabilito che “l’appello al boicottaggio di determinati prodotti israeliani da parte del ‘Collettivo Palestina Vincerà’ non può di per sé giustificare un ordine di scioglimento in assenza di altri elementi di incitamento all’odio e alla violenza.”

Questo è in linea con la decisione unanime del giugno 2020 della Corte Europea per i Diritti Umani secondo cui le illegittime persecuzioni della Francia nei confronti degli attivisti che hanno invitato a questi boicottaggi violano le garanzie fondamentali di libertà di espressione.

L’amministrazione Macron ha cercato di eludere quella sentenza europea per continuare la sua repressione a favore di Israele.

Nessuna prova di antisemitismo

Con un colpo inferto ai tentativi di equiparare le critiche ad Israele e alla sua ideologia di Stato sionista al fanatismo anti-ebraico, il Consiglio di Stato ha ritenuto che il governo non ha fornito prove di “azioni antisemite” da parte delle due associazioni.

La sentenza integrale relativa al ‘Comitato Azione Palestina’ afferma chiaramente che “non è stabilito, contrariamente a quanto pretende il Ministero dell’Interno, che l’associazione abbia diffuso sul suo sito web pubblicazioni antisemite.”

Il governo deve ora corrispondere ad ognuna delle associazioni circa 3.000 dollari. La sentenza sospende con effetto immediato l’ordine di sciogliere le due associazioni in pendenza della sentenza definitiva attesa in un secondo momento.

Le decisioni del Consiglio di Stato non ammettono appello.

Il ‘Collettivo Palestina Vincerà’ ha salutato con favore la sentenza del Consiglio di Stato per “aver riaffermato la legittimità del sostegno al popolo palestinese” ed ha affermato di “festeggiare il fatto che potrà liberamente proseguire la sua lotta”.

L’associazione ha ringraziato gli attivisti che hanno protestato contro la misura del governo e diverse organizzazioni di solidarietà, comprese l’“Associazione di Solidarietà franco-palestinese” e l’“Unione per la Pace franco-ebraica” (UJFP), che hanno inoltrato al Consiglio di Stato comunicati in loro supporto.

UJFP ha salutato la sentenza come una “vittoria contro la criminalizzazione del movimento di solidarietà”.

Quasi 11.000 persone hanno firmato una petizione contro gli ordini di scioglimento.

Il ‘Comitato Azione Palestina’ ha detto che “vorrebbe dedicare questa vittoria al popolo palestinese e alla sua lotta.”

Questo è il secondo importante rifiuto nell’arco di una settimana contro le violazioni di Macron dei diritti fondamentali dei cittadini francesi.

Martedì il Consiglio di Stato ha annullato un decreto governativo che imponeva la chiusura di una moschea a Bordeaux.

Il Ministro dell’Interno di Macron ha emesso l’ordine all’inizio di quest’anno col pretesto che la moschea diffondeva odio contro Francia e Israele ed incitava al terrorismo.

Sentenza storica in Germania

La settimana scorsa in Germania un tribunale ha appoggiato il comitato locale di solidarietà con la Palestina contro le autorità cittadine di Stoccarda.

Il Centro Europeo di Supporto Legale (ELSC), un’organizzazione in difesa della libertà di espressione sulla Palestina, ha acclamato la decisione come “una sentenza storica” che “riafferma il diritto al boicottaggio”.

In seguito ad una campagna di diffamazione sui media israeliani, le autorità di Stoccarda hanno iniziato a negare all’ associazione di solidarietà l’accesso ai locali della città e si sono rifiutate di pubblicizzare le sue iniziative sul sito web della città.

Il Comune ha citato la risoluzione del 2019 approvata dal Bundestag, la camera bassa del parlamento tedesco, che denigrava come “anti-semita” il movimento di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni.

Il tribunale tedesco ha affermato che la risoluzione del Bundestag non è vincolante e che le attività dell’associazione di solidarietà con la Palestina costituiscono una libera espressione tutelata dalla Costituzione.

Il Centro ELSC ha sottolineato che questa recente decisione è “coerente con una crescente tendenza nella giurisprudenza tedesca, che sostiene il diritto degli attivisti di utilizzare le strutture pubbliche per eventi collegati al BDS.”

Ali Abunimah

Co-fondatore di The Electronic Intifada e autore di ‘The battle for justice in Palestine’ (La lotta per la giustizia in Palestina), edito da Haymarket Books.

È anche autore di ‘One country: a bold proposal to end the israeli-palestinian impasse’. (Un unico Paese: una proposta coraggiosa per porre fine allo stallo israelo-palestinese).

Le opinioni sono esclusivamente dell’autore.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Un video mostra che politici israeliani hanno fatto pressioni sulla polizia per chiudere il caso dell’uccisione di Hassouna

Redazione Middle East Eye

1 maggio 2022 – Middel East Eye

Un centro legale fa appello contro il fatto che non si sia intrapreso nessun provvedimento contro i cinque ebrei israeliani sospettati a causa di un’indagine “inadeguata”.

Nel suo appello contro la decisione di archiviare il caso contro cinque sospettati ebrei, il centro legale Adalah ha affermato che sono state esercitate pressioni sulla polizia israeliana che ha svolto una “lacunosa” indagine relativa all’uccisione lo scorso anno di Moussa Hassouna, un cittadino palestinese di Israele.

Adalah, il Centro Legale per i Diritti della Minoranza Araba in Israele, ha presentato ricorso per conto della famiglia Hassouna dopo che un procuratore distrettuale ha archiviato la causa contro cinque ebrei israeliani sospettati per l’omicidio nell’ottobre 2021.

Hassouna, un cittadino palestinese di Israele di 31 anni, è stato ucciso nella città mista di Lod, conosciuta anche come Lydd, durante scontri tra palestinesi e attivisti israeliani di estrema destra, occorsi il 10 maggio dello scorso anno. Le violenze sono scoppiate quando si sono create tensioni in Israele e nei territori palestinesi occupati in seguito ad attacchi israeliani alla Moschea di Al-Aqsa e nel quartiere Sheikh Jarrah a Gerusalemme est.

Nell’appello inoltrato al Procuratore di Stato Amit Isman, Adalah ha sostenuto che, in base a prove investigative, la polizia ha condotto un’indagine “negligente” e “carente” con l’intento di chiudere il caso contro i sospettati di destra.

Il centro legale ha anche reperito nella documentazione dell’inchiesta un filmato che segnalava che sono state esercitate pressioni sull’indagine.

Il video ed altri materiali ritrovati nella documentazione investigativa da Adalah suggeriscono anche che nel corso dell’indagine importanti dirigenti politici hanno fatto pressioni illecite sulla polizia”, ha affermato Adalah in un comunicato stampa pubblicato sabato.

Adalah ha detto di aver anche inviato una lettera al procuratore generale Gali Baharav-Miara in cui si chiede che venga avviata una rapida indagine sulle interferenze da parte di personaggi politici.

L’ultima delle mie priorità’

Nel video del 12 maggio 2021 pubblicato da Adalah un inquirente dice che il capo di un laboratorio di armamenti si è rifiutato di analizzare le armi usate dai sospettati e avrebbe detto: “l Le analisi in questo caso sono l’ultima delle mie priorità”.

Un altro inquirente gli risponde: “Davvero? Che lo dica al ministro che telefona ogni 10 minuti per controllare a che punto sono le indagini.”

In un tweet dello stesso giorno l’allora ministro della Pubblica Sicurezza, Amir Ohana, ha chiesto il rilascio dei sospettati, affermando che erano cittadini rispettosi della legge che avevano agito per autodifesa.

Il legale di Adalah, Nareman Shehadeh-Zoabi, ha detto che “il comportamento delle autorità responsabili di applicare la legge e dei dirigenti politici, in questo caso, dimostra che questi gruppi di vigilanti avevano il loro pieno appoggio e venivano addirittura considerati come ‘forze aggiuntive’ per le autorità.”

Nel suo appello Adalah ha richiesto che il procuratore di Stato riapra l’indagine che, afferma, è stata condotta in modo inadeguato.

Sostiene che la polizia non ha adottato misure investigative indispensabili relativamente all’interrogatorio dei sospettati, all’analisi balistica, alla raccolta e all’esame delle prove, all’analisi della scena del crimine e alla raccolta delle testimonianze.

Nell’ottobre dello scorso anno l’ufficio del procuratore distrettuale centrale di Israele ha detto che stava per archiviare l’indagine sull’uccisione di Hassouna a causa della mancanza di prove e delle affermazioni dei sospettati che sostenevano di aver sparato per “autodifesa”.

Secondo Adalah la polizia si è basata esclusivamente sulle affermazioni di ebrei israeliani per stabilire la sequenza degli eventi e non ha acquisito le deposizioni di nessuno dei testimoni palestinesi.

Questa ingiusta decisione conferisce legittimità ai crimini delle milizie terroriste ebraiche e le incoraggia ad uccidere e far violenza agli arabi sotto la protezione degli apparati dello Stato”, ha affermato un comitato popolare palestinese di Lod in una dichiarazione in seguito alla chiusura dell’indagine.

Khaled Zabarqa, un avvocato membro del comitato, al momento ha detto a Middle East Eye che la decisione di archiviare il caso ha sconvolto la famiglia di Hassouna e l’ha fatta sentire “come se il loro figlio fosse stato ucciso un’altra volta”.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Un giornale studentesco della università di Harvard appoggia il movimento BDS

Redazione di MEMO

1 maggio 2022 – Middle East Monitor

Un quotidiano gestito dagli studenti dell’università di Harvard ha annunciato il supporto e il sostegno per la campagna per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) contro l’occupazione israeliana, facendone uno dei più significativi passi intrapresi da una università americana contro l’occupazione.

Il comitato di redazione dell’Harvard Crimson ha annunciato sul suo giornale di ieri che adesso “orgogliosamente” appoggia il movimento BDS, affermando che “siamo orgogliosi di offrire infine il nostro supporto alla liberazione della Palestina e al BDS – ed esortiamo chiunque a fare altrettanto”.

Il comitato di redazione del giornale ha ammesso che, mentre in precedenza avevano una posizione “scettica”, questa è mutata in un sostegno totale della campagna BDS, insistendo che “in questo periodo il peso – delle violazioni israeliane dei diritti umani e del diritto internazionale e del grido di libertà [riferimento a un film sul Sudafrica dell’apartheid sulla vicenda di Stephen Biko, ndtr.] della Palestina – richiede questo passo.

Questo mutamento di pensiero, vi si afferma, è avvenuto attraverso le campagne educative e il materiale illustrativo presentati dalla Campagna di Solidarietà con la Palestina (Palestine Solidarity Campaign) dell’università.

Il comitato di redazione, oltre ad evidenziare l’occupazione israeliana in corso del territorio palestinese, le violazioni dei diritti umani a danno dei palestinesi e le costanti violazioni del diritto internazionale da parte di Tel Aviv, ha riconosciuto che c’è un “soverchiante squilibrio di potere” nella trattazione e nel dibattito attorno alla questione dello Stato di Israele e della Palestina.

Quello squilibrio, che pende massicciamente a supporto della narrativa israeliana all’interno delle istituzioni e dell’amministrazione americana, permette a 26 Stati nella Nazione di imporre pressioni legali sulle società che decidono di boicottare lo Stato di Israele.

Il comitato di redazione del giornale riconosce, da questo punto di vista, che “siamo pienamente consapevoli del privilegio del fatto di avere una testata istituzionale ed efficacemente anonima. Anche in questa sede universitaria molti dei nostri coraggiosi colleghi che sostengono la liberazione della Palestina possono essere trovati in liste di osservati speciali che tacitamente e vergognosamente li collegano al terrorismo.”

Nato nel 2005, il movimento BDS promuove il boicottaggio dei prodotti israeliani provenienti dai territori palestinesi occupati della Cisgiordania, così come il boicottaggio di e il disinvestimento da società che gestiscono o hanno contratti con l’occupazione in corso.

Lotte a favore e contro il movimento sono state viste in università in tutte le Nazioni occidentali, in particolare negli USA, e hanno portato famose istituzioni come la Columbia University, l’università di Manchester e l’università dell’Illinois a Urbana-Champaign (UIUC) ad approvare risoluzioni e ad adottare misure a supporto del BDS.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Come la copertura mediatica americana travisa la violenza di Stato perpetrata da Israele contro i palestinesi

Laura Albast e Cat Knarr

28 aprile 2022 – Washington Post

Laura Albast, giornalista e traduttrice palestinese americana, è direttrice responsabile della strategia digitale e comunicazioni presso l’Institute for Palestine Studies-USA.

Cat Knarr, scrittrice di origini palestinesi e colombiane, direttrice della comunicazione presso l’U.S. Campaign for Palestinian Rights [Campagna USA per i Diritti dei Palestinesi].

All’alba del 15 aprile la polizia israeliana ha attaccato i fedeli palestinesi nella sacra moschea di Al-Aqsa a Gerusalemme. Hanno usato granate stordenti, lacrimogeni e proiettili di acciaio ricoperti di gomma e ferito oltre 150 persone. Da allora le forze israeliane hanno lanciato nuove incursioni, imprigionando oltre 300 palestinesi presso il complesso di Al-Aqsa e impedendo ai cristiani palestinesi di entrare nella chiesa del Sacro Sepolcro. Questa violenza attentamente calcolata giunge mentre i musulmani palestinesi vivono gli ultimi giorni del Ramadan.

Se si guardano le immagini di ciò che è successo, le dinamiche sono ovvie: militari con equipaggiamenti e armi contro fedeli inginocchiati in preghiera. Tuttavia i media occidentali abitualmente etichettano tali situazioni come “complicate,” ritraendo questa violenza di Stato come “scontri” e “tensioni” fra le due parti. Titoli in testate come Associated Press [agenzia di stampa USA, ndt.], New York Times, Guardian, Wall Street Journal, NBC News e altri usano un linguaggio che non descrive lo squilibrio di potere fra l’apparato militare israeliano e il nativo popolo palestinese.

Questo è uno schema che si ripete regolarmente nella copertura mediatica sulla Palestina. Noi palestinesi non veniamo ammazzati: semplicemente moriamo. Quando le forze israeliane irrompono nei nostri quartieri nel cuore della notte, tirano bombe contro i nostri bambini, demoliscono le nostre case, colonizzano le nostre terre e uccidono la nostra gente noi siamo, per certi versi e allo stesso modo, degli istigatori. Le descrizioni dei media regolarmente implicano che ci sia una falsa simmetria fra occupante e occupato, sostenendo narrazioni anti-palestinesi e islamofobiche che incolpano il popolo palestinese delle aggressioni israeliane.

Questo contrasta con la copertura della guerra in Ucraina, dove i media occidentali dicono chiaramente che la Russia è l’aggressore e che il popolo ucraino sta resistendo come farebbe chiunque se la propria patria fosse invasa. Dall’invocare sanzioni contro Mosca ad approvare l’uso di molotov contro i soldati russi a Kiev, le principali testate occidentali sostengono i tentativi di autodifesa degli ucraini.

Eppure quando si arriva all’occupazione israeliana della Palestina questi stessi organi di stampa spesso non nominano affatto l’aggressore. I civili ucraini che tirano bottiglie molotov contro i carri armati russi sono “coraggiosi,” ma il quattordicenne Qusai Hamamrah è stato rappresentato come uno che rappresentava una minaccia immediata dopo che i soldati israeliani hanno detto che aveva tirato una molotov contro di loro. Questa è una notevole differenza razzista nella copertura che ha ignorato i resoconti di testimoni oculari secondo cui il ragazzo stava correndo per nascondersi dalle pallottole israeliane dirette contro un altro palestinese.

Le redazioni non possono decidere quale violenza approvata dallo Stato sia legittima. Devono sforzarsi di raccontare le azioni dell’esercito israeliano e dei coloni israeliani nello stesso modo in cui quelle stesse violenze sono riportate dall’Ucraina e da altri Paesi. Il governo israeliano è infatti estremamente consapevole del potenziale dei media di denunciare tali violenze. Lo scorso maggio le forze israeliane hanno bombardato gli uffici dei servizi informativi nella Striscia di Gaza e ad Al-Aqsa hanno attaccato giornalisti come Nasreen Salem.

La scorsa estate oltre 500 giornalisti hanno firmato una lettera aperta denunciando le pratiche dannose e scorrette nella copertura mediatica americana sulla Palestina. La protesta non è stata ascoltata e le pratiche scorrette continuano a essere la norma.

Questo mese l’Arab and Middle Eastern Journalists Association ha ricordato ai giornalisti di stare attenti a linguaggio e contesto e ha nuovamente diffuso le linee guida sulla copertura mediatica rilasciate durante l’attacco mortale israeliano contro Gaza dell’anno scorso durante il quale furono uccisi 259 palestinesi, di cui 66 minori. Le raccomandazioni chiedono ai reporter di riconoscere che i palestinesi sono sottoposti a un sistema ingiusto e iniquo che è stato documentato come apartheid da parte di organizzazioni internazionali come Human Rights Watch, Amnesty International e dall’israeliana B’Tselem [ong per i diritti umani, ndt.]. Ha anche chiesto che i giornalisti trattino con accuratezza il contesto religioso e “dicano ai lettori chi è stato ucciso o ferito, dove e da chi, usando espressioni linguistiche attive e non passive.”. In pratica ciò significa chiarire chi è l’aggressore, quali azioni ha compiuto e contro chi.

I giornalisti hanno la responsabilità di riportare i fatti senza parzialità. Il giornalismo tratta di persone: delle loro vicende, della loro storia, della loro realtà. Ciò include anche il popolo palestinese. Il racconto dei fatti deve comprendere la ricerca delle voci dei palestinesi, ponendo in discussione le dichiarazioni delle fonti ufficiali prima di riferirle come verità.

Trascurando di contestualizzare la violenza di Stato perpetrata da Israele, i media hanno dato il via libera al governo israeliano, permettendogli di continuare impunemente la pulizia etnica del popolo palestinese. È ora che le testate affrontino i danni fatti. Dovrebbero tentare di assumere giornalisti palestinesi concentrandosi sulle voci palestinesi invece di cancellarle sistematicamente dal loro racconto. Gli infiniti filmati di violenze documentate contro i palestinesi non dovrebbero restare confinate ai feed dei social media (che devono affrontare una forma diversa di censura).

Invece di trasmettere narrazioni incomplete che lasciano il campo libero all’aggressione israeliana, i media devono cominciare a raccontare il quadro completo della situazione.

(Traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)