La vergognosa “Lista nera” delle Nazioni Unite: equivalenza tra colpevole israeliano e vittima palestinese

Ramzy Baroud

18 luglio 2022 – Middle East Monitor

“Ci dispiace di non essere riusciti a proteggerti.”Questa frase fa parte di una dichiarazione rilasciata dagli esperti dei diritti umani delle Nazioni Unite il 14 luglio, in cui si esorta il governo israeliano a rilasciare il prigioniero palestinese Ahmad Manasra. Arrestato e torturato dalle forze israeliane a soli 14 anni, Manasra ora ha 20 anni. Il suo caso è una raffigurazione del trattamento complessivamente disumano che Israele riserva ai minori palestinesi.

La dichiarazione degli esperti è forte e sincera. Accusa Israele di aver privato il giovane Manasra “della sua infanzia, dell’ambiente familiare, della protezione e di tutti i diritti che avrebbero dovuto garantirgli da piccolo”. Definisce il caso come “inquietante”, considerando le “condizioni mentali in via di deterioramento” di Manasra. La dichiarazione va oltre, affermando che questo caso … è una macchia su tutti noi come parte della comunità internazionale per i diritti umani”.

La condanna di Israele per il maltrattamento dei minorenni palestinesi, che siano quelli sotto assedio nella Gaza colpita dalla guerra o sotto occupazione militare e apartheid nel resto dei territori occupati in Cisgiordania e Gerusalemme est, è usuale.

Eppure, in qualche modo, a Israele è stato comunque risparmiato un posto nell’elenco poco lusinghiero, pubblicato ogni anno dal Segretario generale delle Nazioni Unite, che cita e denuncia pubblicamente governi e gruppi che commettono gravi violazioni contro bambini e minori in qualsiasi parte del mondo.

Stranamente il rapporto riconosce il raccapricciante primato di Israele nella violazione dei diritti dei minorenni in Palestina. Descrive in dettaglio alcune di queste violazioni, che i collaboratori delle Nazioni Unite hanno verificato direttamente. Ciò include “2.934 gravi violazioni contro 1.208 minorenni palestinesi” solo nel 2021. Tuttavia, il rapporto equipara il primato di Israele, uno dei più tristi al mondo, a quello dei palestinesi, cioè al fatto che in tutto il 2021 9 minorenni israeliani sono stati vittime della violenza palestinese.

Sebbene provocare volutamente dei danni nei confronti di anche solo un minore sia deplorevole indipendentemente dalle circostanze o dall’autore, è sbalorditivo che il Segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres abbia ritenuto appropriato equiparare l’evento abituale delle violazioni sistematiche perpetrate dall’esercito israeliano ai danni recati, intenzionalmente o meno, ai 9 minori israeliani da gruppi armati palestinesi.

Occupandosi dell’evidente discrepanza tra le vittime minorenni palestinesi e quelle israeliane, il rapporto delle Nazioni Unite ha raggruppato tutte le categorie per distrarre dall’identità dell’autore, riducendo così l’attenzione sui crimini israeliani. Ad esempio, il rapporto afferma che un totale di 88 bambini sono stati uccisi in tutta la Palestina, di cui 69 a Gaza e 17 in Cisgiordania e Gerusalemme est. Tuttavia, il rapporto analizza questi omicidi in modo tale da mettere assieme i minori palestinesi e israeliani come se si cercasse intenzionalmente di confondere il lettore. Con una lettura attenta si scopre che tutti questi omicidi, tranne due, sono stati perpetrati dalle forze israeliane.

Inoltre il rapporto utilizza la stessa logica per analizzare il numero di minori mutilati nel conflitto, sebbene dei 1.128 mutilati solo 7 fossero israeliani. Dei restanti, 661 sono stati mutilati a Gaza e 464 in Cisgiordania, compresa Gerusalemme est.

Il rapporto prosegue incolpando “gruppi armati palestinesi” per alcune delle vittime palestinesi, che sarebbero rimaste ferite a seguito di “incidenti che hanno coinvolto minorenni che si trovavano nei pressi di esercitazioni militari”. Supponendo che sia così, incidenti di questa natura non possono essere considerati “gravi violazioni” in quanto, secondo la stessa definizione dell’ONU, sono accidentali.

L’analisi confusa di questi dati, tuttavia, non è di per sé casuale, in quanto ha concesso a Guterres la possibilità di dichiarare che “se la situazione si ripetesse nel 2022 senza miglioramenti significativi, Israele dovrebbe essere inserito nell’elenco”.

Peggio ancora, il rapporto di Guterres è andato oltre nel rassicurare gli israeliani che sono sulla strada giusta affermando che “finora quest’anno non abbiamo assistito a un numero simile di violazioni”, come a suggerire che il governo israeliano di destra di Naftali Bennett e Yair Lapid ha volutamente cambiato la politica riguardo a individuare come bersaglio minori palestinesi. Naturalmente non esiste nessuna prova di questo tipo.

Il 27 giugno, Defense for Children International-Palestine (DCIP) [ONG internazionale impegnata nella promozione e difesa dei diritti del fanciullo, ndt.] ha riferito che dall’inizio del 2022 Israele “ha intensificato le sue aggressioni” contro i minori in Cisgiordania e a Gerusalemme est. Il DCIP ha confermato che ben 15 minorenni palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane nei primi sei mesi del 2022, quasi lo stesso numero di morti nelle stesse zone nel corso dell’intero anno precedente. Questa cifra include 5 minori nella sola città occupata di Jenin. Israele ha anche preso di mira i giornalisti che hanno tentato di riferire su queste violazioni, tra cui la giornalista palestinese Shireen Abu Akleh, che è stata uccisa l’11 maggio, e Ali Samoudi, che è stato colpito alla schiena lo stesso giorno.

Si può dire molto di più, ovviamente, sull’assedio di centinaia di migliaia di minorenni nella Striscia di Gaza, nota come la “prigione a cielo aperto più grande del mondo”, e molti altri nella Cisgiordania occupata. La mancanza di diritti umani fondamentali, comprese le medicine salvavita e, nel caso di Gaza, l’acqua potabile, non suggerisce alcun tangibile miglioramento nel bilancio di Israele per quanto riguarda i diritti dei minori palestinesi.

Se pensate che il rapporto delle Nazioni Unite sia un passo nella giusta direzione, ricredetevi. Il 2014 è stato uno degli anni più tragici per i minori palestinesi in cui, secondo un precedente rapporto delle Nazioni Unite, 557 minorenni sono stati uccisi e 4.249 feriti, la stragrande maggioranza dei quali è stata presa di mira durante la guerra israeliana a Gaza. Human Rights Watch [ONG internazionale che si occupa dei diritti umani, ndt.] ha affermato che il numero di palestinesi uccisi “è stato in quell’anno il terzo più alto al mondo”. Tuttavia Israele non è stato inserito nella “Lista della vergogna” delle Nazioni Unite. Il messaggio chiaro qui è che Israele può prendere di mira i bambini palestinesi a suo piacimento, poiché non dovrà scontare alcuna conseguenza legale, politica o morale per le sue azioni.

Questo non è ciò che i palestinesi si aspettano dalle Nazioni Unite, un’organizzazione che presumibilmente esiste per porre fine ai conflitti armati e portare pace e sicurezza per tutti. Per ora, il messaggio inviato dalla più grande istituzione internazionale del mondo a Manasra e al resto dei minori palestinesi rimane invariato: “Siamo spiacenti di non essere riusciti a proteggervi”.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’Inglese di Aldo Lotta)




L’UE si schiera a favore di Israele contro i suoi stessi Stati membri

Ali Abunimah

19 luglio 2022 – The Electronic Intifada

L’Unione Europea è più fedele a Israele che ai propri Stati membri? Sembra proprio di sì.

All’inizio di questo mese nove governi dell’UE hanno finalmente definito una cavolata la designazione di “organizzazioni terroristiche” da parte di Israele di sei organizzazioni palestinesi per i diritti umani molto stimate.

La designazione di ottobre faceva parte della lunga campagna di Israele volta a criminalizzare, definanziare e sabotare chiunque tenti di chiamarlo a rispondere dei suoi crimini contro i palestinesi.

Da Israele non sono pervenute informazioni sostanziali che giustifichino la revisione della nostra politica” nei confronti delle sei organizzazioni, afferma la dichiarazione congiunta del 12 luglio di Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Irlanda, Italia, Paesi Bassi, Spagna e Svezia.

“In assenza di tali prove – aggiungono – continueremo la nostra cooperazione e forte sostegno alla società civile nei territori palestinesi occupati”.

Molte delle associazioni prese di mira da Israele ricevono finanziamenti direttamente da questi governi e dall’apparato burocratico dell’UE a Bruxelles.

Tre di loro – Addameer, Al-Haq e Defence for Children International-Palestine – hanno collaborato strettamente con le indagini della Corte Penale Internazionale sui crimini di guerra in Cisgiordania e a Gaza.

Quindi, appena è stata resa nota la dichiarazione dei nove governi, ho scritto a Peter Stano, portavoce dell’UE per gli affari esteri, per chiedere se Bruxelles l’avesse adottata.

Dopo oltre una settimana – e nonostante due solleciti – il solitamente tempestivo Stano non ha inviato alcuna risposta.

Posso solo interpretare questo silenzio come un segnale che l’irresponsabile apparato burocratico dell’UE non sia d’accordo con i propri Stati membri e stia adottando in modo ancora più deciso il proprio approccio filo-israeliano.

In effetti Bruxelles è schierata a favore di Tel Aviv contro i governi dell’UE che sono arrivati ad essere talmente esasperati dalle diffamazioni e dalle bugie di Israele da dichiararlo pubblicamente.

Anche senza una risposta di Stano le prove di ciò sono abbastanza chiare.

The Electronic Intifada ha rivelato in ottobre che Israele ha comunicato in anticipo all’UE la sua intenzione di designare le organizzazioni palestinesi come “terroriste”, ma Bruxelles non ha respinto [la designazione] e non ha nemmeno inviato tale comunicazione ai propri Stati membri.

In quell’occasione Stano ha ammesso che l’UE aveva bisogno di “maggiori informazioni a proposito di queste designazioni” – un’ammissione del fatto che Israele non aveva fornito alcuna prova effettiva.

Sospensione illegittima”.

Il mese scorso Al-Haq è riuscita a presentare una petizione alla Commissione europea perché revocasse la sospensione dei finanziamenti per uno dei progetti dell’ organizzazione per i diritti umani sponsorizzati dall’UE.

Al-Haq ha affermato che la “sospensione vergognosa” era stata “illegale fin dall’inizio e basata sulla propaganda e sulla disinformazione israeliane”.

Una lettera dell’UE ha confermato che l’unità antifrode del blocco OLAF [Ufficio europeo per la lotta antifrode, istituito per contrastare le frodi, la corruzione e qualsiasi attività illecita lesiva degli interessi finanziari della Comunità europea, ndt.] aveva “concluso che non vi sono sospetti di irregolarità e/o frode ai danni dei fondi dell’UE” forniti ad Al-Haq.

Al-Haq ha accusato della sospensione Olivér Várhelyi, un alto funzionario non eletto dell’UE, affermando che [la sospensione, ndt.] fosse “mirata a dare al governo israeliano un aiuto nei suoi tentativi di danneggiare e diffamare la società civile palestinese e di opprimere le voci delle organizzazioni e difensori palestinesi dei diritti umani”.

Várhelyi è stato anche responsabile della sospensione degli aiuti dell’UE ai palestinesi, compresi i finanziamenti per pagare le cure salvavita per i malati di cancro palestinesi.

Tali aiuti sono stati sbloccati il mese scorso, poco prima che la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen si recasse in Israele e nella Cisgiordania occupata, dove ha trascorso la maggior parte del suo tempo a compiacere Tel Aviv.

L’UE rilancia il forum ad alto livello con Israele

Ma qualunque disaccordo possa esserci tra l’UE e i suoi Stati membri sulle sei organizzazioni, ciò non ha intaccato la loro unanimità quando si tratta di offrire a Israele riconoscimenti incondizionati per i suoi crimini contro il popolo palestinese.

Lunedì i 27 ministri degli esteri del blocco hanno deciso di riprendere le riunioni del Consiglio di associazione UE-Israele.

Questo forum di alto livello non si riuniva da un decennio, con grande disappunto di Israele e della sua lobby.

Secondo un comunicato di Bruxelles i ministri “hanno convenuto di riconvocare gli incontri e di iniziare a lavorare per determinare la posizione dell’Ue”.

“La posizione dell’UE sul processo in Medio Oriente non è cambiata rispetto alle conclusioni del Consiglio del 2016 a sostegno della soluzione dei due Stati”, si legge nella dichiarazione.

Sebbene l’UE abbia mantenuto il sostegno verbale alla moribonda “soluzione dei due Stati”, continua a premiare e incentivare la colonizzazione violenta da parte di Israele dei territori palestinesi occupati, vanificando l’idea di uno Stato palestinese indipendente.

La reazione di Várhelyi alla decisione di lunedì sottolinea che non c’è motivo di aspettarsi alcun cambiamento.

Egli ha salutato la ripresa del forum ad alto livello come un ulteriore segno che l’UE è “fermamente impegnata” nelle sue relazioni con Israele e ha esortato il blocco “a cogliere l’opportunità di normalizzare le relazioni tra Israele e un certo numero di Paesi arabi .”

Dimiter Tzantchev, l’ambasciatore dell’UE a Tel Aviv, ha affermato che il Consiglio di associazione UE-Israele “dovrebbe permettere di impegnarci con i nostri partner israeliani e di riflettere sul processo di pace in Medio Oriente e sul ruolo dell’UE in esso”.

La generica formulazione di Tzantchev è stata senza dubbio elaborata con cura per dare l’impressione che questo sfacciato riconoscimento ad Israele farebbe in qualche modo progredire il “processo di pace” morto da tempo, pur non offrendo assolutamente alcun sostegno concreto da parte di Bruxelles per promuovere i diritti dei palestinesi.

Secondo il giornalista israeliano Barak Ravid la decisione dell’UE di ripristinare il dialogo ad alto livello è un “risultato importante” per il primo ministro israeliano Yair Lapid.

Ravid osserva che questo era uno degli obiettivi chiave di Lapid quando ha assunto la carica di ministro degli Esteri israeliano poco più di un anno fa.

Rinvio compiacente

Citando un anonimo “alto funzionario europeo”, il Times of Israel [giornale israeliano online in lingua inglese, ndt.] ha riferito lunedì che Josep Borrell, capo della politica estera dell’UE, ha rinviato la ripresa delle riunioni del consiglio UE-Israele “a causa dell’uccisione della giornalista di Al Jazeera Shireen Abu Akleh” a maggio.

Lo stesso mese Israele ha anche annunciato una massiccia espansione delle sue colonie in Cisgiordania, provocando un’insolita condanna da parte di Borrell.

Secondo The Times of Israel l’anonimo funzionario europeo ha detto: ”Ci sono state due cose inaccettabili sul piano diplomatico: l’uccisione della giornalista e l’annuncio di 4.000 nuovi insediamenti coloniali“.

“Borrell ci ha detto:Come potete immaginare che metta all’ordine del giorno un incontro di cooperazione con le immagini in TV… suvvia!’“, ha aggiunto il funzionario.

Ma questa non è stata una posizione di principio.

Il codardo Borrell era semplicemente preoccupato di salvare le apparenze e pensava che fosse prudente aspettare che l’omicidio della corrispondente di Al Jazeera non fosse più sulle prime pagine dei giornali prima di offrire ulteriori ricompense a Israele.

The Times of Israel riferisce che Borrell ha annunciato che avrebbe portato avanti la questione solo durante i sei mesi di presidenza ceca, iniziata il 1° luglio.

Ed è esattamente quello che è successo – nonostante l’ininterrotta espulsione da parte di Israele degli abitanti dei villaggi palestinesi da Masafer Yatta nella Cisgiordania occupata – tra gli altri crimini di guerra che l’UE pretende di contrastare.

“Il fatto che 27 ministri degli Esteri dell’UE abbiano votato all’unanimità a favore del rafforzamento dei legami economici e diplomatici con Israele è una prova della forza diplomatica di Israele e della capacità di questo governo di creare nuove opportunità con la comunità internazionale”, si è vantato il primo ministro israeliano Lapid dopo la decisione dell’UE di lunedì.

È anche la prova dell’assoluta codardia e della volontaria complicità dell’Unione Europea e di ogni suo membro.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Israele porta avanti una campagna di arresti nella Cisgiordania occupata

Redazione di MEMO

Lunedì 18 luglio 2022 – Middle East Monitor Le forze di occupazione israeliane hanno lanciato una massiccia campagna di arresti in un certo numero di città e villaggi in tutta la Cisgiordania occupata. Le forze sono state affrontate dagli abitanti, che hanno tentato di impedire le incursioni.

All’alba di lunedì le forze israeliane hanno effettuato incursioni in quartieri di Ramallah, Betlemme, Nablus ed Hebron e anche nel campo profughi di Jalazone. Almeno dieci palestinesi sono stati arrestati durante le ultime retate.

Domenica sera nei quartieri di Marhaba e Tira [a Ramallah] ci sono stati scontri armati tra i combattenti della resistenza e le forze di occupazione. Queste ultime effettuano frequentemente incursioni nel quartiere per proteggere i coloni illegali che li attaccano con il pretesto che ci sono siti archeologici e tombe ebree nel settore ovest di Tira.

I tre giovani abitanti del campo profughi di Jalazone che sono stati arrestati si chiamano Muhammad Abdullah Nakhleh, Musa Issa Sharakah e Salam Shehadeh Al-Tarawih. Dopo che le loro case sono state perquisite, sono stati condotti dalle forze israeliane in un luogo sconosciuto.

Sul campo si sono scontrati decine di giovani e le forze di occupazione: sono stati sparati lacrimogeni e pallottole di metallo ricoperti di gomma. Non sono stati riportati feriti.

La scorsa notte gli israeliani hanno arrestato tre palestinesi di Betlemme. Fonti locali hanno riportato che un’unità militare israeliana ha fermato un veicolo vicino al villaggio di Wadi Fukin ad ovest della citta ed ha trattenuto i suoi passeggeri prima che fossero arrestati. I loro nomi sono quelli di un ex- detenuto e dell’ex-sindaco del Comune di Aldowa, Raafat Nafeth Jawabrae Alaa Ali Al-Satagi, e Basel Abdelfattah Al-Jabri.

Nel distretto di Hebron, le forze di occupazione hanno arrestato Diaa Amro e Hamza Amro, abitanti di Dura e Omar Burqan residente in città. E’ stato arrestato anche Hamed Jasser, di Beita, a sud di Nablus.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Israele-Palestina: come la cucina è diventata un obiettivo della conquista coloniale

Joseph Massad

14 luglio 2022 – Middle East Eye

Molti arabi si indignano giustamente per la trasformazione, nei Paesi occidentali, dei piatti tipici palestinesi in cucina “israeliana”

Qualche anno fa mi scandalizzai nel constatare che un elegante bar-ristorante che frequentavo nel quartiere del Greenwich Village a Manhattan proponeva come piatto del giorno un “couscous israeliano”.

Sconcertato, pretesi che cambiassero immediatamente il nome del piatto. Spiegai al gestore che ciò che definivano couscous “israeliano” era in realtà maftoul palestinese, tradizionalmente preparato a mano.

Mi ricordo che nella mia infanzia una vicina e amica di famiglia, Marie Jou’aneh, che ci ha lasciati, stava seduta per ore a fare il tiftil, cioè arrotondare la semola per farne delle palline a forma di perla.

Anche se riferimenti storici indicano che i palestinesi scoprirono il couscous nordafricano nel XVII secolo, forse prima, grazie ai nordafricani arrivati in Palestina con le armate musulmane venute a combattere i crociati e che in seguito si stabilirono a Gerusalemme, la versione moderna del piatto potrebbe essere stata reintrodotta in Palestina e nella Grande Siria [Regione storica del Vicino Oriente, confinante con il mar Mediterraneo a ovest, con il deserto siriano (o arabico) a est, con l’Egitto a sud e con l’Anatolia a nord, ndt.] nella seconda metà del XIX secolo e all’inizio del XX.

Fu a quell’epoca che degli esuli algerini, marocchini, tunisini e libici che fuggivano dal colonialismo francese e italiano vi si stabilirono ed introdussero il couscous nordafricano, i cui grani sono molto più piccoli e che i palestinesi e altri siriani hanno modificato per ottenere il maftoul, dai grani più grandi e a forma di perle.

La grande e ricca famiglia culinaria siriana

Tuttavia in modo arrogante il gestore del ristorante newyorkese affermò di non conoscere l’origine di questo piatto e che esso era noto a New York col nome di couscous “israeliano”. Gli spiegai che questo prodotto veniva venduto a New York anche col nome più “neutro” di “couscous perlato”, cosa che lui avrebbe potuto scegliere come alternativa per non contrariare i clienti.

In modo spiccio il gestore rispose con quella che riteneva essere la risposta più intelligente possibile: il ristorante denominava anche le patatine fritte “fritte francesi”, anche se sono originarie del Belgio.

Andandomene dal locale, replicai che non erano stati i francesi a rubare le patate fritte “belghe”, perché in Francia si chiamano semplicemente “patatine fritte”.

Sono stati invece gli americani a chiamarle a torto patatine “francesi” (la storia reale, o apocrifa, vorrebbe che i soldati americani abbiano scoperto le patate fritte durante la prima guerra mondiale nelle regioni francofone del Belgio, prima di chiamarle a torto “francesi” al loro ritorno in patria.)

Nel caso del maftoul, gli israeliani hanno rubato il piatto palestinese e lo hanno venduto come proprio, esattamente come hanno fatto con la patria palestinese e con altri piatti palestinesi. Inutile precisare che non ho mai più messo piede in quel ristorante.

La cucina palestinese fa parte della grande e ricca famiglia culinaria siriana, che comprende due branche principali: la cucina di Damasco e quella di Aleppo.

La maggior parte dei piatti cucinati nella regione che comprende la Siria, il Libano, la Giordania e la Palestina moderni proviene da queste due tradizioni culinarie, con alcune innovazioni che inseriscono coltivazioni locali di ortaggi, cereali ed erbe.

Mentre il falafel, l’hummus, il taboulé, il maftoul, il mix di spezie zaatar a base di issopo palestinese, l’insalata contadina (fallahi, chiamata negli Stati Uniti insalata “israeliana”), il knafeh nabulsi ed altre specialità sono state riprese, o più esattamente rubate, dai coloni ebrei di Israele per decenni, nella stampa occidentale è nata tutta una gamma di giustificazioni.

Più di recente la shakshuka, una frittata, e il labneh, yoghurt colato, il cui nome è una forma al femminile del termine arabo laban, che significa yoghurt in arabo siriano, sono stati aggiunti al bottino dei piatti rivendicati da Israele.

Un legame con la terra e gli antenati”

Alcuni potrebbero sostenere con disinvoltura che gli ebrei israeliani fanno ormai parte della regione e che quindi hanno il diritto di mettere mano nella sua cucina, anche se la linea ufficiale israeliana evidenzia che il Paese vive “in un contesto difficile” – sostanzialmente il Medio Oriente, senza tuttavia farne parte.

Mentre il famoso storico israeliano Benny Morris sostiene che Israele è “Roma” e che gli arabi sono i “barbari” che la minacciano, l’ex Primo Ministro israeliano Ehud Barak una volta descrisse Israele come una “villa nella giungla”.

L’ex ambasciatore di Israele in Svezia e in Egitto, Zvi Mazel, da parte sua ha affermato: “Israele è un Paese occidentale che, nonostante il comportamento a volte perfido delle società della sua famiglia occidentale, sul piano culturale, concettuale ed economico si colloca ancora in quel contesto.”

L’autrice ebrea britannica di libri di cucina Claudia Roden, nata Douek (la cui famiglia ebrea egiziana è di origine siriana), sottolinea che molti ebrei europei emigrati in Palestina “volevano dimenticare la loro tradizionale cucina perché gli ricordava le persecuzioni.”

Secondo un articolo del New York Times, “tramite la cucina dei loro vicini palestinesi (gli ebrei israeliani) hanno ritrovato un legame con la terra e i loro antenati.”

Il problema è che i palestinesi non sono i vicini degli ebrei israeliani, bensì il popolo che i coloni israeliani hanno conquistato e di cui hanno rubato le terre e la cucina.

Lo chef e autore di libri di cucina israeliano Yotam Ottolenghi ed il suo coautore palestinese, Sami Tamimi, vogliono liberarsi della questione imbarazzante della “proprietà” culinaria e del furto coloniale.

Affermano esplicitamente: “L’hummus, per esempio, argomento altamente esplosivo, è innegabilmente un alimento fondamentale della popolazione palestinese locale, ma era anche una costante sulla tavola da pranzo degli ebrei di Aleppo che hanno vissuto in Siria per millenni e sono poi arrivati a Gerusalemme negli anni 1950-60. Chi merita maggiormente di appropriarsi dell’hummus? Nessuno. Nessuno ‘possiede’ un piatto, perché è molto probabile che qualcun altro lo abbia preparato prima e qualcun altro prima ancora.”

Il problema di questa spiegazione sta nel fatto che gli ebrei di Aleppo non erano i soli a mangiare l’hummus: la maggior parte della popolazione musulmana e cristiana di Aleppo, come anche altri siriani, ne faceva parimenti un alimento di base.

Il problema non è che gli ebrei di Aleppo non ne mangiassero, ma che oggi esso venga identificato come alimento “ebraico” o “israeliano”, attraverso questa argomentazione surrettizia.

Yotam Ottolenghi e Sami Tamimi affermano che i tentativi di rivendicare la cucina e i piatti “sono futili perché ciò non ha veramente importanza.”

Ma per chi questo non ha importanza? Per gli israeliani che vendono una cucina palestinese rubata come se fosse la loro, o per i palestinesi che sono privati della possibilità di rivendicare i propri piatti in un contesto occidentale favorevole a Israele?

Intimidazioni

Il furto della cucina palestinese e siriana da parte degli israeliani è diventato un fenomeno talmente normale, tenendo conto della sua proliferazione nei libri di cucina mediorientale e nei ristoranti “israeliani” in Europa e in Nordamerica, che i palestinesi subiscono intimidazioni se aprono dei ristoranti che identificano la loro cucina come palestinese.

Un grande ristorante palestinese di Brooklyn si è recentemente lamentato delle molestie online da parte di persone che non erano mai venute al ristorante, ma erano spinte da ostilità anti-palestinese.

Il proprietario ha dichiarato in un’intervista che il semplice fatto di qualificare il suo ristorante come “palestinese” lo esponeva a potenziali intimidazioni.

E poi c’è l’affermazione secondo cui gli ebrei originari dei Paesi arabi costituiscono la metà della popolazione di Israele e dunque hanno lo stesso diritto dei palestinesi di rivendicare la cucina regionale.

Ma ciò si basa sulla presunzione razzista secondo cui tutta la regione araba, dal Marocco all’Iraq, passando per lo Yemen, ha un’unica identica cucina. Di fatto la gran maggioranza degli ebrei arabi di Israele sono originari del Marocco, dello Yemen e dell’Iraq, regioni del mondo arabo che hanno una propria cucina regionale.

Esiste un numero esiguo di ebrei siriani e libanesi che vivono in Israele, costituendo “uno dei più piccoli gruppi etnici” del Paese. E anche se la maggioranza degli ebrei israeliani provenisse dalla Grande Siria, come potrebbe questo permettere loro di definire la cucina siriana o palestinese come “ebrea” e tanto meno “israeliana”, senza ricorrere ad un furto coloniale?

Yotam Ottolenghi ringrazia Claudia Roden per aver aperto la strada a chef come lui. Secondo un recente articolo del New York Times dedicato a quest’ultima, lei “descrive la cucina degli ebrei siriani come sofisticata, abbondante, varia – e volutamente complessa e lunga da preparare”, come se gli ebrei siriani avessero una cucina diversa da quella dei cristiani o dei musulmani siriani, cosa non vera.

Se gli ebrei originari della Grande Siria, come i musulmani e i cristiani, hanno assolutamente il diritto di appropriarsi dei piatti siriani a livello della Siria o della regione, non hanno però il diritto di rivendicarli come piatti appartenenti agli ebrei e poi di venderli come tali, mentre questi furti vengono in seguito celebrati dai media europei e americani che parlano di una cucina nazionale “israeliana”.

Israele è diventato parte della regione grazie a una conquista coloniale. La maggior parte degli arabi si indigna giustamente nel vedere le proprie specialità e la propria cucina fare parte integrante degli sforzi di colonizzazione israeliani.

Joseph Massad è docente di storia politica e intellettuale araba moderna alla Columbia University di New York. È autore di diversi libri e articoli, sia accademici che giornalistici. In particolare ha scritto: ‘Colonial effects: the making of national identity in Jordan’, ‘Desiring Arabs’ e, pubblicato in francese, ‘La persistence de la question palestinienne’ (La Fabrique, 2009). Più di recente ha pubblicato ‘Islam in Liberalism’. I suoi libri e articoli sono stati tradotti in una decina di lingue.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono solo all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




La Corte israeliana sentenzia a favore di un’ampia impunità

Maureen Clare Murphy

11 luglio 2022 – The Electrèonic Intifada

La settimana scorsa l’Alta Corte di Israele ha emesso una sentenza in favore di un’ampia immunità per lo Stato per i crimini di guerra perpetrati a Gaza.

Le associazioni palestinesi per i diritti umani affermano che la sentenza sottolinea l’urgente necessità di un’immediata inchiesta della Corte Penale Internazionale.

Adalah, un’associazione palestinese per i diritti umani, ha dichiarato che “la sentenza significa che tutti gli abitanti di Gaza sono esclusi da qualunque risarcimento e ricorso in Israele, a prescindere dalle circostanze, nel corso di ‘azioni di guerra’ o di altro genere”.

La sentenza dell’Alta Corte è una risposta ad una richiesta di risarcimento da parte di Israele per le gravi ferite riportate da Attiya Nabaheen, che aveva appena compiuto 15 anni quando fu colpito dal fuoco delle forze israeliane nel cortile davanti a casa sua mentre rientrava da scuola a Gaza nel novembre 2014.

Nabaheen è rimasto paralizzato in seguito alle ferite.

Adalah e Al Mezan, un’altra associazione per i diritti umani, avevano fatto ricorso presso la Corte per contestare una legge entrata in vigore nel 2012, che prevede che gli abitanti della Striscia di Gaza non possano ricevere risarcimenti da parte di Israele in quanto nel 2007 essa è stata dichiarata ‘territorio nemico.’

Un tribunale di prima istanza ha utilizzato quella legge per respingere il tentativo di Nabaheen di ricevere un risarcimento da Israele per le sue ferite.

L’Alta Corte ha affermato che la legge è conforme al diritto internazionale e che in ogni caso il parlamento israeliano “ha il potere di scavalcare le norme del diritto internazionale.”

Adalah e Al Mezan hanno replicato che la sentenza dell’Alta Corte “giustifica l’avvio immediato di un’inchiesta [della Corte Penale Internazionale], in quanto essa nega alle vittime civili palestinesi di crimini di guerra compiuti da Israele la possibilità di ogni ricorso giuridico.”

Le associazioni aggiungono che “non c’è prova più evidente del fatto che il sistema giuridico israeliano è determinato a legittimare i crimini di guerra e a cooperare con l’esercito nei suoi sforzi di negare alle vittime ogni rimedio legale.”

Un’inchiesta indipendente dell’ONU sull’utilizzo da parte di Israele di forza letale contro i manifestanti della Grande Marcia del Ritorno nel 2018 ha preso in esame il caso di Nabaheen e le sue implicazioni per altri abitanti di Gaza.

La sentenza preclude “la via principale per far valere il loro diritto ad ‘un efficace risarcimento legale’ da parte di Israele, che è loro garantito dalla legislazione internazionale”, hanno dichiarato gli inquirenti dell’ONU.  “E’ quindi difficile sopravvalutare il peso di questa sentenza.”

Nel tentativo di giustificare l’uso della forza letale contro manifestanti disarmati, Israele ha inventato un nuovo infondato paradigma del diritto internazionale, che etichettava la Grande Marcia del Ritorno come parte del suo conflitto armato con Hamas, l’organizzazione politica e di resistenza palestinese che controlla gli affari interni di Gaza.

Le direttive dell’esercito israeliano stabiliscono che deve essere avviata un’inchiesta penale immediatamente dopo la morte di un palestinese al di fuori di attività di combattimento.

Classificando la Grande Marcia del Ritorno come parte del conflitto armato con Hamas, anche se i manifestanti erano disarmati, Israele ha creato un quadro giuridico separato per gestire le denunce relative alle proteste.

Una scappatoia legale

Questa importante scappatoia legale viene anche impiegata riguardo ai palestinesi uccisi dalle forze di occupazione israeliana in Cisgiordania.

Il procuratore generale dell’esercito israeliano ha dichiarato che l’uccisione della corrispondente di Al Jazeera Shireen Abu Akleh mentre documentava un’incursione dell’esercito a Jenin in maggio era “un evento bellico” e pertanto nessun soldato dovrebbe subire denunce penali.

Israele ha praticamente ammesso che uno dei suoi soldati ha ucciso Abu Akleh e la scorsa settimana il Dipartimento di Stato USA ha comunicato che la giornalista è stata “probabilmente” uccisa da un’arma da fuoco delle truppe israeliane.

Sia Israele che gli USA sembrano trattare l’uccisione di Abu Akleh come un errore operativo piuttosto che come una sospetta esecuzione extragiudiziale.

Diverse indagini indipendenti condotte da associazioni per i diritti umani e da organi di informazione internazionali hanno altresì concluso che Abu Akleh molto probabilmente è stata uccisa da fuoco israeliano.

L’indagine forense della CNN, citando l’esperto di armi esplosive Chris Cobb-Smith, nota che “Abu Akleh è stata uccisa da diversi spari”.

Cobb-Smith ha affermato che “il numero di tracce dei colpi sull’albero dove si trovava Abu Akleh prova che non si è trattato di uno sparo casuale, lei è stata presa di mira.”

Venerdì scorso la famiglia di Abu Akleh ha inviato una lettera al Presidente USA Joe Biden, di cui è prevista una visita in Israele e Cisgiordania la prossima settimana, ed ha accusato la sua amministrazione di “muoversi verso la cancellazione di qualunque misfatto delle forze israeliane.”

Gli USA non sembrano far pressione su Israele per un’inchiesta penale: il portavoce del Dipartimento di Stato Ned Price ha detto durante una conferenza stampa martedì scorso che “non stiamo cercando di essere prescrittivi riguardo a ciò.”

Sembra che per l’amministrazione Biden responsabilizzazione significhi incoraggiare “passi verso la protezione dei civili e dei non combattenti in una zona di conflitto.”

Price ha aggiunto che l’esercito israeliano “è nella condizione di prendere in considerazione dei passi perché non possa più accadere niente di simile.”

Venerdì la famiglia di Abu Akleh ha detto che “non possiamo credere che una tale aspettativa sia il massimo della risposta della vostra amministrazione.”

La famiglia ha sottolineato l’aiuto militare incondizionato degli USA a Israele e “il quasi assoluto appoggio diplomatico per evitare ai dirigenti israeliani di assumersi le responsabilità.”

I famigliari di Abu Akleh hanno fatto richiesta a Biden di incontrarli durante la sua imminente visita e di fornire loro le informazioni raccolte dalla sua amministrazione riguardo all’uccisione della giornalista.

La famiglia ha parlato al presidente del proprio “dolore, sdegno e sensazione di tradimento” di fronte ai suoi determinati tentativi di assicurare “la cancellazione di ogni misfatto compiuto dalle forze israeliane.”

“Ci aspettiamo che l’amministrazione Biden sostenga i nostri sforzi per ottenere responsabilizzazione e giustizia…dovunque ciò possa condurci”, ha affermato la famiglia.

Corte Penale Internazionale

Una di tali sedi processuali è la Corte Penale Internazionale, che è stata adita relativamente all’uccisione di Abu Akleh sia dall’Autorità Nazionale Palestinese che da Al Jazeera. Gli USA si sono affiancati a Israele nel cercare di boicottare l’inchiesta dell’Aja in Palestina.

La CPI privilegia le indagini interne ad un Paese, dove esse sussistano.

La recente sentenza della corte israeliana che ha rifiutato il risarcimento per Attiya Nabaheen e la copertura della responsabilità per l’uccisione di Shireen Abu Akleh dovrebbero dissolvere ogni restante dubbio su ciò a cui si prevede che serva il sistema giuridico di Israele.

Ma resta in dubbio se la CPI funzionerà come un tribunale di ultima istanza per i palestinesi con qualche carattere di urgenza.

Mentre raccoglie risorse per una tempestiva inchiesta in Ukraina, con il rischio per la presunta indipendenza della Corte proveniente dalle contribuzioni volontarie all’indagine, l’inchiesta sulla Palestina sembra essere lasciata morire sul nascere.

Il silenzio sulla Palestina e su altre inchieste che non hanno l’appoggio di potenti Stati “può aver indebolito l’effetto di deterrenza della Corte ed ha lasciato un vuoto che è stato riempito da attacchi politici all’operato della Corte, e anche da attacchi nei confronti di difensori dei diritti umani”, ha recentemente dichiarato Amnesty International.

Senza una risposta ugualmente forte alle crisi in Palestina e in Afghanistan, come in altri luoghi, l’ufficio del procuratore della CPI potrebbe essere considerato “semplicemente il braccio legale della NATO”, come ha detto recentemente l’avvocato per i diritti umani Reed Brody.

Mureen Clare Murphy è caporedattrice di The Electronic Intifada

(traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




“L’impunità a livello internazionale è la colonna portante dell’occupazione israeliana,” afferma un’associazione per i diritti

Anjuman Rahman

10 luglio 2022 – Middle East Monitor

Quando i ragazzi palestinesi, in maggioranza adolescenti, difendono le proprie case e la propria terra, l’esercito israeliano risponde picchiandoli e lanciando contro di loro granate assordanti e lacrimogeni. Si tratta niente meno che di un’aggressione su vasta scala.

“La maggioranza dei minori palestinesi presi di mira dalle forze di occupazione israeliane sono giovani maschi,” afferma Ayed Abu Eqtaish, direttore del programma per la responsabilizzazione di Defence for Children International-Palestine [Difesa Internazionale dei Minori – Palestina] (DCIP).

Secondo un rapporto di DCIP dall’inizio dell’anno 15 minori palestinesi sono stati uccisi dalle forze di occupazione. Tra le vittime ci sono stati Muhammad Akram Ali Abu Salah, Sanad Muhammad Khalil Abu Attia, Muhammad Hussein Muhammad Qassem e Amjad Walid Hussein Fayed, tutti sedicenni, e Shawkat Kamal Shawkat Abed, di 17 anni.

DCIP aggiunge che il 13 febbraio un cecchino israeliano ha ucciso colpendolo a un occhio il sedicenne Muhammad Abu Salah, abitante del villaggio di Al-Yamoun, a Jenin.

“Le violazioni dei diritti umani dei minori palestinesi sono causate dalla presenza delle forze di occupazione israeliane nei territori palestinesi occupati,” afferma Ayed.

“Nonostante i numerosi strumenti giuridici e i criteri che la comunità internazionale ha cercato di istituire per proteggere i diritti dei minori, nel corso degli anni la quantità delle violazioni nei confronti dei minorenni continua a peggiorare.”

“Per esempio lo scorso anno abbiamo documentato l’uccisione di 78 minori palestinesi per mano dell’esercito israeliano, 61 dei quali nella Striscia di Gaza e 17 in Cisgiordania.”

“Sessanta dei 61 morti nella Striscia di Gaza sono stati uccisi durante l’attacco militare contro Gaza nel maggio 2021. Ma, cosa più importante, dalla nostra documentazione vediamo che non era necessario sparare per uccidere i minori palestinesi, perché essi non rappresentavano alcuna minaccia alla vita dei soldati israeliani.”

I bombardamenti aerei e da terra durante l’aggressione di 11 giorni hanno ucciso 253 palestinesi e ferito più di 1.900 persone.

DCIP documenta l’arresto, il ferimento, la morte e l’incarcerazione di ragazzi e giovani palestinesi e offre difesa legale a quanti sono processati nei tribunali militari israeliani.

“Durante gli ultimi 10 anni per l’uccisione di un minore palestinese è stato rinviato a giudizio solo un soldato israeliano, e la condanna che ha subito è stata meno grave di quella a cui viene condannato un minore palestinese per aver lanciato una pietra contro un veicolo israeliano.”

Secondo Ayed questo è un doloroso ma perfetto microcosmo della politica israeliana di totale impunità, del suo sistema giudiziario corrotto e delle amare frustrazioni della lotta dei palestinesi per vivere nelle proprie case sulla propria terra.

Il problema principale, spiega, è incentrato sul livello di responsabilizzazione e impunità di cui godono i soldati agli occhi della comunità internazionale. “L’impunità a livello internazionale è la colonna portante dell’occupazione israeliana,” afferma.

I soldati che prestano servizio nei territori occupati sanno benissimo che quasi tutto quello che fanno verrà giustificato. Non saranno mai puniti né da Israele né dalle sue autorità né da chiunque altro. Le uccisioni, le incursioni notturne, gli arresti e le detenzioni senza processo, le punizioni collettive, le demolizioni di case, le confische di terre, l’espansione delle colonie e lo sfruttamento delle risorse naturali da parte delle forze di occupazione sono sistematicamente tollerate.

I dati raccolti dall’associazione israeliana per i diritti umani Yesh Din mostrano che solo il 2% delle denunce contro soldati israeliani presentate da palestinesi porta a incriminazioni. Nel contempo oltre l’80% dei casi vengono chiusi senza che venga svolta neppure un’inchiesta penale.

“Nonostante le molte violazioni delle leggi internazionali sui diritti umani, Israele non è stato chiamato a rispondere di nessuna delle sue prassi brutali e pensa di avere il permesso di continuare con le sue uccisioni e violazioni dei diritti dei civili palestinesi, compresi i minorenni.”

Oltre a questo disinteresse, Ayes accusa la comunità internazionale di applicare in modo palese un doppio standard nella risposta all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Non c’è differenza tra l’invasione di Kyiv da parte di Mosca e l’illegale occupazione delle terre palestinesi da parte di Israele, spiega.

“Non c’è la volontà politica da parte della comunità internazionale di rispettare i propri obblighi giuridici, cioè punire e sanzionare Israele per le sue pratiche illegali. Tutto quello che sta facendo è sacrificare le proprie responsabilità riguardo ai diritti umani per mantenere buoni rapporti politici e diplomatici con Israele.”

Egli denuncia anche l’ONU per non aver punito adeguatamente Israele, in particolare per essersi rifiutata di includere Israele nella lista di chi viola i diritti dei minori e nel rapporto su Minori e Conflitti Armati, dopo una delle più letali guerre israeliane contro Gaza nel 2014.

“Il numero di minori palestinesi uccisi quell’anno è stato il più alto a livello internazionale e, nonostante la nostra insistenza presso l’ONU perché aggiungesse Israele alla lista degli eserciti e gruppi armati che violano i diritti dei minori, essa si è ripetutamente rifiutata.”

Ogni anno DCIP raccoglie centinaia di testimonianze di minori palestinesi arrestati e sottoposti a lunghi interrogatori senza la presenza di un familiare, un tutore o un avvocato.

Spesso i minori sono obbligati a firmare false confessioni in documenti scritti in ebraico, una lingua che la maggioranza dei minori palestinesi non conosce. Oltretutto, mentre le leggi militari e civili israeliane fissano a 12 anni l’età minima per la responsabilità penale, DCIP afferma che le forze israeliane arrestano regolarmente minori palestinesi con un’età inferiore.

“Le dichiarazioni che raccogliamo rendono l’idea di come il sistema stia funzionando e delle tipologie di maltrattamenti e torture a cui sono sottoposti i minori, che poi noi utilizziamo per costruire le nostre campagne di sensibilizzazione,” afferma Ayed.

“Quello che riscontriamo è che fin dal momento dell’arresto i minori palestinesi subiscono maltrattamenti e torture per mano delle forze israeliane. Tre su quattro durante l’arresto o l’interrogatorio sperimentano violenze fisiche, che comprendono schiaffi, calci, pugni, e i minori vengono obbligati a stare seduti in posizioni dolorose.”

Nel contempo minori detenuti da Israele soffrono anche di pesanti violenze psicologiche consistenti in detenzione in isolamento, minacce contro le loro famiglie, intimidazioni e incarcerazione senza processo in base alla detenzione amministrativa.

Inoltre nelle prigioni non ci sono consulenti psicologici e, nonostante la loro età, spesso vengono tenuti insieme a delinquenti israeliani. Il loro arresto avviene spesso di notte e comprende metodi inumani di contenzione e trasporto intesi a distruggerne l’animo. Tutto il processo ha un profondo effetto psicologico, fisico e sociale su di loro.

“Metodi di tortura psicologica sono utilizzati per esercitare il massimo di pressione possibile sulla persona sotto interrogatorio per spezzarne la resistenza,” spiega Ayed.

“Crediamo che ogni minore che passa attraverso questo sistema ne rimarrà psicologicamente colpito, perché tutto il sistema israeliano è inteso ad attaccare non solo il fisico, ma anche la mente e il benessere psicologico di questi minori. Vogliono spezzarli dentro.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Un documento secretato rivela che le “zone di tiro” dell’IDF sono costruite per dare terra ai coloni

In una riunione top secret tenutasi nel 1979, qui per la prima volta svelata, l’allora Ministro dell’Agricoltura Ariel Sharon spiegò che le zone di tiro avevano lo scopo di creare “riserve di terra” per gli insediamenti coloniali, nel contesto del suo più ampio piano di stabilire “confini etnici” tra ebrei e palestinesi.

Yuval Abraham

11 luglio 2022 –  +972 Magazine

Un documento inedito rivela che Israele ha creato “zone di tiro militari” nella Cisgiordania occupata come meccanismo per trasferire terreni agli insediamenti coloniali. Quelle zone di tiro, istituite apparentemente ai fini di addestramento militare, sono state realizzate nell’ambito di una strategia più ampia rivolta a creare un “confine etnico” tra ebrei e palestinesi.

Secondo il verbale di una riunione “top secret” del 1979 della Settlement Division della World Zionist Organization [la Divisione per le colonie, è un ente privato che agisce nell’ambito dell’Organizzazione Sionista Mondiale ma è interamente finanziato da fondi pubblici israeliani. Agisce come agente governativo nell’assegnazione di terre ai coloni ebrei in Cisgiordania, ndt.] che lavora in tandem con il governo israeliano, l’allora ministro dell’Agricoltura Ariel Sharon spiegò come la realizzazione di zone di tiro in tutta la Cisgiordania avesse come unico obiettivo finale quello di fornire la terra ai coloni israeliani.

“Essendo la persona che ha fatto nascere nel 1967 le zone di tiro militari, ho voluto destinarle tutte a uno scopo: fornire un’opportunità per l’insediamento coloniale ebraico nell’area”, disse Sharon durante la riunione. “Non appena la Guerra dei Sei Giorni finì, ero ancora di stanza nel Sinai con la mia divisione. Quando ho disegnato queste zone mi trovavo nel Sinai. Le zone di tiro sono state create per uno scopo: costituire delle riserve di terra per le colonie”.

40 anni dopo, le osservazioni di Sharon hanno avuto conseguenze di vasta portata, poiché migliaia di palestinesi a Masafer Yatta, nelle grandi colline a sud di Hebron e nella Valle del Giordano sono attualmente sotto diretta minaccia di espulsione dopo che la loro terra è stata dichiarata zona di tiro militare.

La Divisione delle Colonie si era riunita per discutere la creazione di insediamenti coloniali nelle aree della valle del Giordano dichiarate zone di tiro, e quindi chiuse ai palestinesi. Sharon rese noto di aver delineato i confini delle zone di tiro sin dall’inizio e ordinato il trasferimento delle basi militari in Cisgiordania in modo che la terra fosse sequestrata a fini di insediamento coloniale.

Sharon sarebbe diventato ancora più esplicito riguardo ai suoi piani per le zone di tiro. Solo due anni dopo, durante un altro incontro della Divisione per le Colonie, il ministro affermò che era stata decisa [la realizzazione, ndt.] della zona di tiro 918 al di sopra di Masafer Yatta [insieme di 19 frazioni palestinesi nelle colline meridionali di Hebron nella Cisgiordania meridionale, ndt.] per fermare la “diffusione degli abitanti dei villaggi arabi sul fianco della montagna verso il deserto”. A maggio l’Alta Corte israeliana ha dato il via libera all’espulsione di oltre 1.000 palestinesi da otto villaggi di Masafer Yatta per consentire all’esercito di addestrarsi nell’area.

All’udienza dell’Alta Corte lo Stato ha affermato che la distruzione di queste comunità – che gli abitanti affermano essere lì almeno dalla fine del 19° secolo – è necessaria per l’addestramento. La scorsa settimana l’esercito ha iniziato a inviare carri armati, impiegare armi da fuoco e posizionare mine vicino alle case del villaggio.

Protezione delle periferie ebraiche

Due ulteriori documenti portati alla luce da +972 fanno chiarezza sulla motivazione politica alla base della creazione di colonie e zone di tiro nelle colline meridionali di Hebron. In base a quanto dichiarato da Sharon, egli ha cercato di creare una “zona cuscinetto” tra i cittadini beduini di Israele nel Negev/Naqab e gli abitanti palestinesi della Cisgiordania meridionale, dove si trova Masafer Yatta.

“Esiste un fenomeno, in corso da diversi anni, di contiguità fisica tra la popolazione araba del Negev e gli arabi delle colline di Hebron. Si è creata una situazione in cui il confine [della terra di proprietà araba] si è spinto più profondamente nel nostro territorio”, disse Sharon al comitato nel gennaio 1981. “Dobbiamo creare rapidamente una zona cuscinetto di insediamenti coloniali che si insinui tra le colline di Hebron e la comunità ebraica del Negev. Sharon è arrivato persino a etichettare questa zona cuscinetto come un “confine etnico” che avrebbe impedito ai palestinesi della Cisgiordania di raggiungere la “periferia di Be’er Sheva [città del sud di Israele, la più grande del deserto del Negev, ndt.]”.

I verbali di un incontro del 1980 rivelano come Sharon ritorni sulla stessa questione: “A Hura [una cittadina beduina nel Negev/Naqab] c’è una comunità araba in crescita di migliaia di persone. Questa comunità ha contatti con la popolazione araba delle colline meridionali di Hebron. Pertanto il confine passerà praticamente nelle vicinanze di Be’er Sheva, vicino a Omer [una ricca città del Negev-Naqab]. Supponiamo che io aggiunga altre decine di migliaia di ebrei a Dimona o Arad [due città operaie nel sud di Israele], e che li voglia lì. Come colmerò questo divario? Come farò a creare un cuneo tra i beduini del Negev e gli arabi delle colline meridionali di Hebron?

Sharon avrebbe presto avuto una risposta alla sua domanda. Quell’anno Israele dichiarò 30.000 dunam [3.000ettari] di terra nella punta meridionale della Cisgiordania delle zone di tiro militari. Come Sharon aveva ben chiaro, queste zone furono realizzate come confini etnici: a sud delle zone militari c’erano dozzine di villaggi beduini non riconosciuti all’interno di Israele, mentre a nord e ad ovest c’erano le città palestinesi e le cittadine delle colline a sud di Hebron. All’interno della zona militare rimasero le migliaia di palestinesi che ora devono affrontare un trasferimento di popolazione.

Durante queste discussioni Sharon stabilì persino la creazione di nuovi insediamenti coloniali ebraici nel Negev-Naqab, come Meitar, così come nelle colline occupate a sud di Hebron, come Maon e Susiya, che avrebbero fatto parte della stessa zona cuscinetto.

Per Sharon, come per molti altri leader israeliani, la nozione stessa di territorio arabo contiguo era una minaccia diretta alle ambizioni dello Stato di controllare quanta più terra possibile su entrambi i lati della Linea Verde [la linea di demarcazione stabilita negli accordi d’armistizio arabo-israeliani del 1949 fra Israele e alcuni fra i Paesi arabi confinanti alla fine della guerra arabo-israeliana del 1948-1949, ndt.]. Ancora oggi, le colonie ebraiche in Cisgiordania e nel Negev/Naqab rimangono una parte cruciale della strategia di controllo di Israele.

Un segreto di Pulcinella

Secondo un rapporto di Kerem Navot, un’organizzazione [israeliana, ndr.] che tiene traccia degli insediamenti coloniali nella Cisgiordania occupata, nel 2015 circa il 17% della Cisgiordania è stata designata come sede di varie zone di tiro militari, in particolare nella Valle del Giordano, nelle colline a sud di Hebron e lungo il confine orientale con la Giordania. La maggior parte di queste assegnazioni furono fatte immediatamente dopo l’occupazione della Cisgiordania nel 1967 e all’inizio degli anni ’70. Secondo il rapporto l’esercito utilizza solo il 20% circa di queste zone per l’addestramento.

Alcuni esempi recenti mostrano che Israele si sta spingendo ancora più in là dei cuscinetti etnici di Sharon tra ebrei e palestinesi. Oggi i palestinesi in tutta la Cisgiordania vengono espulsi dalle zone di tiro, mentre i coloni stanno lentamente prendendo il loro posto.

Nell’ultimo decennio, ad esempio, i coloni hanno stabilito 66 cosiddetti avamposti agricoli, che occupano enormi appezzamenti di terra in Cisgiordania, nonostante abbiano pochi residenti. Circa un terzo di quel territorio, 83.000 dunam [8.300 ettari], che i coloni hanno conquistato attraverso il pascolo, si trovano all’interno di zone di tiro militari. Queste aree – almeno sulla carta – dovrebbero essere chiuse sia agli ebrei che ai palestinesi. I soldati israeliani nella Valle del Giordano hanno persino ammesso apertamente che consentono ai coloni di utilizzare le zone di tiro, mentre vietano ai palestinesi di fare lo stesso.

Dror Etkes, a capo di Kerem Navot, ha detto a +972 che negli ultimi anni c’è stato un aumento significativo del subentro di coloni nelle zone di tiro. “Questa è la logica conseguenza di quanto fece Ariel Sharon 55 anni fa. Le fattorie avamposto coloniale sono state progettate in modo tale da consentire l’occupazione di vaste aree di pascolo, che nell’agosto del 1967 erano state dichiarate zone di tiro militari”, afferma Etkes.

Questo meccanismo si sta ripetendo nelle colline meridionali di Hebron. L’anno scorso la Divisione per le Colonie ha assegnato un terreno nella zona di tiro 918 a uno dei coloni che vivono nelle vicinanze. Le foto aeree mostrano che nella zona di tiro sono state costruite nuove strutture appartenenti a tre avamposti coloniali – Mitzpe Yair, Avigayil e Havat Ma’on – stabiliti nell’area nel 2000. L’anno scorso, i coloni hanno persino cercato di realizzare un nuovissimo avamposto coloniale direttamente all’interno della zona di tiro.

Che le zone di tiro siano utilizzate per rafforzare il progetto di colonizzazione e l’espropriazione della popolazione nativa dei territori occupati è ormai un segreto di Pulcinella e tutti vi sono coinvolti, tranne i palestinesi.

Yuval Abraham è un giornalista e attivista che risiede a Gerusalemme.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Un tribunale tedesco sentenzia che la Deutsche Welle ha licenziato illegalmente una giornalista palestinese

Ali Abunimah

8 luglio 2022 – Electronic Intifada

In Germania un tribunale ha dichiarato che la Deutsche Welle [emittente informativa pubblica tedesca, ndtr.] ha illegalmente licenziato una giornalista palestinese in base a false accuse di antisemitismo.

Maram Salem ha fatto parte di un gruppo di giornalisti arabi licenziati dalla rete pubblica in seguito a una campagna ufficiale di calunnie che li accusava di fanatismo antiebraico per le loro affermazioni o critiche riguardo ad Israele.

Mercoledì il tribunale del lavoro di Bonn ha sentenziato che il licenziamento di Salem non è valido.

Secondo una dichiarazione del suo avvocato, Ahmed Abed, “durante l’udienza il tribunale ha stabilito che i post su Facebook di cui era accusata non erano antisemiti e la rescissione del contratto è stata illegittima.”

La dichiarazione aggiunge che Salem “ha spiegato di essere da molto tempo una sostenitrice dei diritti delle donne, dei diritti dell’uomo, degli animali e LGBTQ e che le accuse l’hanno profondamente ferita. Ha chiesto alla DW di assumersi le proprie responsabilità, scusarsi pubblicamente e ritirare le accuse.”

Il comunicato afferma che il tribunale ha rigettato le accuse di antisemitismo degli investigatori Ahmad Mansour, Sabine Leutheusser-Schnarrenberger e Beatrice Mansour.

Ahmad Mansour, uno psicologo tedesco palestinese in stretto rapporto con la lobby israeliana, e Sabine Leutheusser-Schnarrenberger, ex-ministra della giustizia tedesca, erano stati incaricati da Deutsche Welle di indagare in merito al presunto antisemitismo all’interno dell’emittente.

Le opinioni anti-musulmane, anti-arabe e filoisraeliane di Mansour ne hanno fatto uno dei beniamini dei media tedeschi e di istituzioni finanziate dallo Stato.

A febbraio Deutsche Welle ha licenziato Salem insieme a vari altri giornalisti sulla base del loro rapporto. Secondo la dichiarazione del suo avvocato, la Deutsche Welle, che si maschera da campione della libertà di parola e di stampa, ha cercato di dipingere come antisemita la citazione di Salem riguardo all’“illegale occupazione israeliana”.

“Il verdetto dimostra che le campagne di diffamazione contro donne palestinesi come me o Nemi El-Hassan non hanno più successo,” afferma Salem. “Fin dall’inizio era chiaro che sono innocente.” El-Hassan è una giornalista tedesca di origini palestinesi a cui è stato annullato un programma scientifico da un’altra emittente, la Westdeutscher Rundfunk.

La presunta infrazione di El-Hassan è stata “linkare” post Instagram sull’account di Jewish Voice for Peace, ben nota associazione con sede negli USA che si impegna per i diritti dei palestinesi e si oppone al sionismo, l’ideologia dello Stato di Israele.

“Il tribunale del lavoro di Bonn ha messo in chiaro che le gravi accuse di antisemitismo contro Maram sono assolutamente prive di fondamento,” afferma l’avvocato Abed. “Ora la Deutsche Welle dovrebbe proteggere Maram invece di piegarsi alle provocazioni.”

L’ European Legal Support Center [Centro Europeo per il Sostegno Legale], un’associazione che lotta contro la repressione nei confronti dei palestinesi attraverso il ricorso ai tribunali, ha salutato la vittoria di Salem come il “primo successo nella causa della Deutsche Welle.”

Anche Farah Maraqa, giornalista palestinese giordana licenziata nel corso della caccia alle streghe contro gli arabi, ha denunciato la Deutsche Welle. La sua causa è ancora in corso.

L’appoggio incondizionato nei confronti di Israele è visto dalla dirigenza tedesca come una forma di riparazione per l’uccisione di milioni di ebrei europei da parte del governo tedesco durante la Seconda Guerra Mondiale.

Di conseguenza le istituzioni tedesche reprimono i palestinesi e i sostenitori dei loro diritti facendo ricorso a intimidazioni giudiziarie, calunnie, censura e violenze.

L’impegno tedesco nel sostegno ai crimini di Israele contro i palestinesi è talmente inflessibile da consentire a Israele di uccidere nella totale impunità cittadini tedeschi, compresi minorenni.

Ma, in un segnale di speranza che democrazia e diritti umani possano essere possibili in Germania, i tribunali hanno reagito contro la repressione anti-palestinese.

Con un’altra recente sconfitta della censura ufficiale, la città di Stoccarda ha riconosciuto di aver illegittimamente cancellato dal proprio sito web un’informazione relativa a un’associazione locale di sostegno ai palestinesi.

L’amministrazione cittadina ha ottemperato a una sentenza del tribunale e ripubblicato l’ informazione.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Politica USA su Israele-Palestina: cosa (non) è cambiato con Biden

In occasione del viaggio di Joe Biden in Israele e Palestina Al Jazeera ha paragonato le sue politiche alle strategie di Donald Trump.

Ali Harb

12 luglio 2022 – Al Jazeera

Il presidente Joe Biden, che si definisce sionista, è spesso citato dai suoi più importanti consiglieri per aver detto che se non ci fosse Israele gli Stati Uniti dovrebbero inventarne uno.

Così, quando è salito alla Casa Bianca, i difensori dei diritti umani palestinesi e gli elettori arabo-americani che l’avevano sostenuto, non nutrivano grandi aspettative di cambiamento sotto la sua guida circa la posizione USA verso Israele.

Comunque, fra le promesse durante la campagna di Biden e quelle degli inizi della sua presidenza di portare avanti una politica estera incentrata sui diritti umani, molti avevano sperato che il presidente avrebbe almeno ribaltato alcune delle decisioni del suo predecessore Donald Trump che avevano ulteriormente allineato gli USA con Israele.

Ma i difensori dei diritti umani sostengono che fino ad ora il presidente democratico non sia riuscito ad adempiere neppure alle sue modeste promesse ai palestinesi e che al momento la posizione USA sia più simile a quella che aveva con Trump che con Barack Obama.

Mentre Biden viaggia verso Israele per la prima volta da quando è presidente, Al Jazeera esamina quali delle politiche di Trump sono state cambiate da Biden e quali sono rimaste immutate.

Ambasciata USA a Gerusalemme

Di tutti i cambiamenti a favore di Israele delle politiche di Trump, trasferire l’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme è stata forse la più gravida di conseguenze. La decisione del 2018 ha dato un appoggio concreto degli USA alle rivendicazioni di Israele sull’intera città santa come sua capitale.

Israele ha annesso illegalmente Gerusalemme Est nel 1980 dopo averla conquistata nel 1967.

Mentre i palestinesi esprimevano la propria indignazione contro la decisione e le Nazioni Unite la dichiaravano a grandissima maggioranza “nulla e senza effetto legale”, a Washington venne approvata da politici di entrambi i partiti.

In vista dello spostamento dell’ambasciata e in presenza di una debole reazione araba Trump dichiarò Gerusalemme “fuori discussione”.

Biden non ha mai preso seriamente in considerazione l’idea di riportare l’ambasciata a Tel Aviv. Gli USA sotto la sua amministrazione hanno trattato Gerusalemme come se fosse la capitale di Israele, usando allo stesso tempo un linguaggio ambiguo per descrivere la propria visione di Gerusalemme Est.

Per esempio, il rapporto annuale sui diritti umani redatta dal Dipartimento di Stato USA include Gerusalemme Est nella sezione riguardante Israele. Ma aggiunge in una postilla: “Con il linguaggio usato in questo rapporto non si vuole prendere posizione su nessuno dei temi relativi all’assetto finale oggetto del negoziato fra le parti del conflitto, incluso quello dei confini specifici della sovranità israeliana a Gerusalemme o dei confini tra Israele e qualsiasi futuro Stato palestinese.”

Il consolato per i palestinesi di Gerusalemme

Nel 2019 Trump ha chiuso il consolato per gli affari palestinesi a Gerusalemme e trasferito le sue funzioni all’ambasciata israeliana nella Città Santa.

La decisione recide i legami con i palestinesi ed esplicita la bocciatura USA delle loro rivendicazioni su Gerusalemme.

Da candidato Biden aveva promesso di riaprire il consolato, ma, a oltre un anno e mezzo dall’inizio della sua amministrazione, lo spostamento non si è materializzato.

Mentre i funzionari USA dicono di essere ancora interessati a ristabilire la sede diplomatica, Biden e i suoi più importanti collaboratori sono riluttanti a scontrarsi pubblicamente con Israele, che si oppone alla riapertura del consolato.

“Da presidente Biden farà immediatamente dei passi per ripristinare l’assistenza economica e umanitaria al popolo palestinese, in conformità con la legislazione USA, inclusa l’assistenza ai rifugiati, operando per affrontare l’attuale crisi umanitaria a Gaza e per riaprire il consolato USA a Gerusalemme Est, e lavorerà per riaprire la missione diplomatica palestinese a Washington,” disse Biden durante la sua campagna davanti a una tribuna di elettori arabo americani nel 2020.

La missione dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina a Washington, chiusa da Trump nel 2018, non è stata riaperta neppure da Biden a causa di pressioni interne bipartisan contro la decisione.

Colonie

Da candidato Biden aveva promesso di opporsi all’annessione ed espansione delle colonie. E in contrasto con Trump, che non si era mai pubblicamente opposto alle azioni israeliani, l’amministrazione Biden ha occasionalmente criticato a voce l’approvazione di nuove colonie nella Cisgiordania occupata.

Ma tali smorzate critiche spesso sono contenute in vaghe dichiarazioni che stabiliscono paralleli fra le azioni israeliane e quelle palestinesi affermando che gli USA disapprovano un’escalation da entrambe le parti.

Lo scorso ottobre Ned Price, portavoce del Dipartimento di Stat USA, in una rara occasione era stato esplicito nella critica di Israele dopo il suo annuncio di un piano su grande scala di espansione delle colonie.

“Noi ci opponiamo fermamente all’espansione delle colonie che è totalmente in contrasto con i tentativi di diminuire le tensioni e garantire la calma,” aveva detto Price in quell’occasione.

Ma quel linguaggio diretto è rapidamente svanito.

La scorsa settimana è stato chiesto a Price se gli USA avessero fatto pressione su Israele per porre fine al progetto di una colonia che avrebbe separato le comunità palestinesi in Cisgiordania da quelle a Gerusalemme Est e ha detto: “Noi abbiamo dialogato regolarmente con entrambe le parti per incoraggiarle a non compiere passi che avrebbero esacerbato le tensioni a questo proposito, in caso in cui qualcosa del genere allontani ulteriormente la soluzione dei due Stati.”

La scorsa settimana Maya Berry, direttrice esecutiva dell’Arab American Institute (AAI), un think-tank con sede a Washington, ha detto ad Al Jazeera che l’amministrazione continua a trovare eccezioni per giustificare le violenze israeliane contro i palestinesi.

“È la continuazione di un approccio politicizzato,” ha detto delle politiche di Biden sul conflitto.

“Che si tratti dell’amministrazione Biden o di specifici membri del Congresso, essi stanno facendo di Israele un’eccezione. Non si permetterebbe a nessun altro Paese di fare quello che fa Israele senza che debba affrontare conseguenze politiche sulla scena internazionale. E il protettore principale a questo riguardo sono gli Stati Uniti.”

Aiuti a Israele

Nonostante le crescenti richieste di porre condizioni o restrizioni agli aiuti USA a Israele, Biden in realtà ha  incrementato l’assistenza di Washington al suo principale alleato nella regione rispetto ai tempi di Obama e Trump.

Israele riceve annualmente 3,8 miliardi di dollari in assistenza e quest’anno ha ottenuto un miliardo di dollari extra per “ripristinare Iron Dome [“Cupola di Ferro”], il sistema antimissilistico di difesa, dopo la guerra a Gaza nel maggio 2021.

In un editoriale del Washington Post uscito la scorsa settimana Biden si è dichiarato orgoglioso di aver approvato “il più massiccio pacchetto di aiuti per Israele” della storia.

Aiuti ai palestinesi

Mentre Trump aveva praticamente posto fine a tutti gli aiuti USA ai palestinesi, tagliando completamente i fondi all’United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees [Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente] (UNRWA), Biden ha rinnovato parte di quegli aiuti.

Biden ha detto che, dall’insediamento nel 2021, la sua amministrazione ha ripristinato 500 milioni di dollari di aiuti ai palestinesi, inclusi dei fondi per l’UNRWA che nell’era Obama aveva ricevuto annualmente circa 350 milioni di dollari.

Normalizzazione

L’amministrazione Biden è totalmente impegnata nello sforzo di normalizzazione fra Israele e i Paesi arabi iniziato con Trump e noto come gli Accordi di Abramo.

Il Dipartimento di Stato dice che la normalizzazione arabo-israeliana non soddisfa la necessità di pace fra Israele e i palestinesi. Ma gli analisti dicono che Biden ha difeso quella stessa normalizzazione dell’era Trump che ha ignorato i palestinesi.

Infatti, prima del suo viaggio in Medio Oriente, Biden ha ripetutamente citato la normalizzazione come motivo della sua visita.

“Parte dello scopo del viaggio in Medio Oriente è approfondire l’integrazione di Israele nella regione, cosa che io penso saremo in grado di fare e che è un bene per la pace e per la sicurezza di Israele. Ecco anche spiegato il motivo per cui i leader di Israele hanno fortemente approvato la mia visita in Arabia  Saudita,” ha detto Biden lo scorso mese.

Le alture di Golan

Quando Trump aveva riconosciuto la sovranità israeliana sulle alture di Golan siriane occupate, molti esperti di diritto internazionale segnalarono che la decisione avrebbe minato il divieto di acquisire territori con la forza.

Sebbene Biden stia caldeggiando il concetto di integrità territoriale in Ucraina, la sua amministrazione ha confermato l’appartenenza ad Israele delle alture di Golan.

Anche se il Segretario di Stato americano Antony Blinken ha in precedenza usato un linguaggio ambiguo per descrivere il territorio siriano, dall’insediamento di Biden nessun cambiamento delle politiche USA sul tema è mai stato annunciato.

“Le politiche statunitensi riguardo al Golan non sono cambiate e affermazioni contrarie sono false,” ha detto l’anno scorso su Twitter l’Ufficio per gli affari del Medio Oriente del Dipartimento di Stato.

Legami con i palestinesi

Se Trump ha quasi totalmente ignorato i palestinesi nelle sue politiche per la regione, l’amministrazione Biden ha cercato di riallacciare le relazioni americane con i leader palestinesi.

Ci sono state parecchie telefonate fra alti funzionari USA e palestinesi, incluse quelle tra Biden e il presidente palestinese Mahmoud Abbas.

Lo scorso mese l’amministrazione USA ha annunciato che la sezione per gli affari palestinesi dell’ambasciata americana a Gerusalemme inizierà a rapportarsi direttamente su “questioni rilevanti” con il Bureau per gli Affari del Vicino Oriente all’interno del Dipartimento di Stato.

In seguito al cambiamento diplomatico si è ribattezzata Office of Palestinian Affairs (OPA) quella che era la Palestinian Affairs Unit (PAU).

Ma gli esperti l’hanno liquidata come una mossa prevalentemente di facciata, sottolineando come non sia un’adeguata sostituzione all’impegno per un vero consolato per i palestinesi a Gerusalemme.

“Nelle presenti circostanze mi sento molto sicuro nell’affermare che questo è semplicemente un tentativo propagandistico per cercare di placare la frustrazione dei palestinesi, soprattutto alla luce dell’imminente visita del presidente nella regione,” ha detto ad Al Jazeera Khalil Jahshan, direttore esecutivo dell’Arab Center, Washington DC.

Ciononostante l’amministrazione si è attribuita quella che descrive come un ristabilimento delle relazioni con l’Autorità Palestinese.

“Abbiamo collaborato con Israele, Egitto, Qatar e Giordania per mantenere la pace impedendo ai terroristi di riarmarsi. Abbiamo anche ricostruito i legami USA con i palestinesi,” ha scritto Biden sul Washington Post.

Organizzazioni internazionali

Biden è rientrato in contatto con molte organizzazioni ONU e internazionali, tra cui il Consiglio per i Diritti Umani che Trump aveva abbandonato a causa delle loro critiche a Israele.

Ma i funzionari USA hanno sempre sottolineato che stanno tornando in questi forum per proteggere Israele dall’interno e non per difendere gli sforzi di appoggiare i diritti umani dei palestinesi.

Lo scorso mese il Dipartimento di Stato ha rimproverato una commissione di inchiesta del Consiglio per i Diritti Umani che aveva pubblicato un rapporto in cui accusava Israele di cercare di acquisire un controllo permanente sui palestinesi  “senza intenzioni di porre fine all’occupazione”.

Il 7 giugno Price ha dichiarato che la commissione di inchiesta “rappresenta un approccio unilaterale e fazioso che non fa nulla per contribuire all’avanzamento delle prospettive di pace”.

Allo stesso modo l’amministrazione Biden ha revocato le sanzioni che Trump aveva imposto sui funzionari della Corte Penale internazionale (ICC), mantenendo nel contempo la sua opposizione alle indagini della ICC sulle violazioni israeliane.

Nelle ultime settimane il Dipartimento di Stato ha detto ripetutamente che la ICC non è la “sede appropriata” per indagare sull’assassinio di Shireen Abu Akleh, la giornalista di Al Jazeera ammazzata a maggio dall’esercito israeliano nella Cisgiordania occupata.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Va tutto bene, tutti sono a favore dell’apartheid.

Hagai El-Ad

12 luglio 2022 – Haaretz

Non so perché il primo ministro Naftali Bennett abbia deciso di dare le dimissioni. Una cosa può e dev’essere subito chiara: la ragione che ha citato – l’impossibilità di far approvare il rinnovo delle disposizioni d’emergenza che estendono le leggi israeliane ai cittadini in Cisgiordania – è una narrazione di convenienza, ma non è nient’altro che questo. Non sono le disposizioni riguardanti Giudea e Samaria [definizione biblica della Cisgiordania, ndt.] che hanno fatto cadere il governo, non è riguardo ad esse che andremo a votare, e quello che è stato svelato è l’esatto contrario di quanto sostenuto: non è un dissidio che ha fatto sciogliere la Knesset [il parlamento israeliano, ndt.], ma un consenso generalizzato.

Secondo la narrazione che prende a pretesto le disposizioni il 1 luglio 2022 avrebbe dovuto essere il giorno d’inizio del collasso dell’ordine pubblico nell’“area di Giudea e Samaria” e la demolizione dei legami tra Israele e quelle terre. Il primo giorno della “giungla”, del “caos” e dell’“anarchia” – tutte citazioni dal ministro della Giustizia Gideon Sa’ar alla Knesset. Il procuratore generale Gali Baharav Miara, che, per dirla in modo cortese, fa frequenti dichiarazioni pubbliche, non ha lesinato sforzi per descrivere l’abisso che si avvicinava nel conto alla rovescia da giugno a luglio. Un abisso con da una parte il beato ordine pubblico e dall’altra il minaccioso caos.

Dobbiamo finire nell’abisso o saremo salvati all’ultimo momento? Mai prima d’ora così tanti hanno atteso con il fiato così sospeso la decisione riguardo alle disposizioni, di cui la maggioranza non aveva mai sentito parlare. In ogni caso, possiamo stare tutti tranquilli. Prima di mezzanotte la Knesset si è sciolta e le disposizioni sono state automaticamente prorogate. Ma eravamo davvero sull’orlo del disastro?

Innanzitutto, disposizioni o meno, non sarebbe cambiato niente. Migliaia di prigionieri palestinesi non sarebbero usciti marciando da un lato all’altro della Linea Verde [il confine tra Israele e i territori occupati, ndt.]. I coloni non sarebbero stati improvvisamente giudicati da tribunali militari e nessuna strenua muraglia dell’ordine pubblico si sarebbe sgretolata.

C’è un recente esempio di un’altra norma temporanea (certo, temporanea) che non si è riusciti a rinnovare: la legge razzista che vieta ai palestinesi di sposarsi a ovest della Linea Verde [cioè in Israele, ndt.] se uno di loro è residente a est di essa. La legge è scaduta nel luglio 2021. E poi cosa è successo?

Improvvisamente migliaia di coppie palestinesi hanno ottenuto uno status legale in Israele? Legge o non legge, la ministra degli Interni Ayelet Shaked ha continuato con la politica precedente. Dopo sei mesi l’Alta Corte di Giustizia ha detto qualcosa al riguardo, e due mesi dopo la legge è stata di nuovo approvata. Legge o non legge, i palestinesi non potrebbero, non possono e non potranno ottenere uno status legale qui. Disposizioni o non disposizioni, lo status degli ebrei nei territori non verrà declassato. In fin dei conti siamo i padroni della terra. Di tutta la terra.

Secondo, si noti la confusione concettuale che cerca di definire lo status quo (con le disposizioni) come “ordine” e opposto al disastro previsto (senza disposizioni) come “caos”. Com’è esattamente lo status quo, in cui milioni di sudditi vivono senza diritti da 55 anni: “ordine”? Perché un futuro non basato su disposizioni di apartheid è “caos”?

Una delle precondizioni fondamentali dello stato di diritto è l’uguaglianza davanti alla legge. Le disposizioni riguardanti Giudea e Samaria, come molti altri aspetti del regime di apartheid, sono l’esatto contrario dell’uguaglianza davanti alla legge. Pertanto sono una parte essenziale del caos, dell’anarchia morale, del disordine insito in un regime che privilegia un gruppo etnico-nazionale rispetto a un altro.

Terzo, tutto il teatrino riguardante le disposizioni su Giudea e Samaria non rivela alcun dissidio. Al contrario svela il consenso generalizzato tra l’opinione pubblica e il parlamento (eletto dalla parte dell’opinione pubblica titolare di diritti politici) riguardo al regime di supremazia ebraica sui palestinesi. Il consenso è così vasto e così solido che tutti sanno molto bene che non cambierà nulla. Questa è l’unica ragione per cui hanno voluto “giocare con il fuoco” con le disposizioni, in quanto il fuoco è ovviamente spento. Se fosse stata in gioco una questione fondamentale, non ci saremmo mai arrivati vicino.

Disposizioni o meno, quello che l’attuale vicenda (proprio come la legge sulla cittadinanza dell’anno scorso) rivela è che il regime è più potente di qualunque legge. E dato che ciò che conta sono i fatti fondamentali del regime, e non passeggere mosse politiche, non c’è niente di cui essere entusiasti.

Va tutto bene, tutti sono a favore dell’apartheid, tutti ne fanno parte (e grazie al governo del cambiamento per aver messo in chiaro questo punto). Se necessario gli aspetti formali prima o poi verranno risolti e i palestinesi continueranno a vivere secondo le leggi della giungla morale che abbiamo imposto loro. Quello che chiamiamo lo stato di diritto.

L’autore è il direttore generale di B’Tselem [principale ong israeliana per i diritti umani, ndt.]

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi]