L’economia sociale del dopo-Oslo: un’analisi

Omar Zahzah

12 agosto 2022 – The Palestine Chronicle

Se ci pensate, è un classico Fanon”, ha osservato nel 2018 in occasione del 25° anniversario degli Accordi di Oslo la scrittrice palestinese Yara Hawari, analista esperta di Al-Shabaka: The Palestine Policy Network [organizzazione indipendente e transnazionale impegnata nel dibattito pubblico su diritti umani e autodeterminazione palestinesi, ndt.].

“Significa: creiamo questa classe di persone deputata a preservare la sicurezza degli oppressi e dei nativi, in modo da non doverlo fare noi”.

La “classe” a cui Hawari fa qui riferimento è l’Autorità Nazionale Palestinese, quell’apparato repressivo di informatori autoctoni le cui incarcerazioni e sevizie nei confronti del suo stesso popolo e la cui totale obbedienza allo Stato coloniale sionista sono state istituzionalizzate attraverso l’approvazione degli Accordi di Oslo del 1993. Hawari mette in relazione la formazione dell’ANP con la classe media nazionale sottosviluppata descritta da Fanon in The Pitfalls of National Consciousness [Le trappole della coscienza nazionale, capitolo del suo classico libro “I dannati della terra”, Einaudi, 2007], una classe che perpetua la propria integrità e i propri interessi materiali preservando le relazioni e la collaborazione neo-coloniali con il potere coloniale.

L’attivista palestinese Jamal Juma spiega che attraverso gli Accordi l’ANP ha fatto in modo che i mezzi di sussistenza palestinesi finissero sotto il controllo di organizzazioni come la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale, e che la divisione della Cisgiordania nelle aree A, B e C fosse guidata in ultima analisi da una più ampia strategia di annessione totale.

Un’ampia disanima di tale argomento, Palestina, Srl di Toufic Haddad, dimostra come gli Stati donatori e le istituzioni finanziarie occidentali abbiano utilizzato gli accordi di Oslo come banco di prova nell’esplorazione di forme di intesa nazionali e governative che potessero essere più gradite alle iniziative capitaliste neoliberiste — un’intuizione che suggerisce come la Palestina funga da “laboratorio” in maniera diversa rispetto alla visione più diffusa dello Stato sionista che sperimenta sulla società e sui territori palestinesi lo sviluppo di tattiche di armamento, di controllo della folla e di sorveglianza che alla fine esporterà ad altre nazioni e società.

Tuttavia, per quanto queste considerazioni siano fondamentali, esse si riferiscono agli aspetti materiali delle conseguenze devastanti degli Accordi di Oslo.

Credo sia importante discutere anche di altre componenti più astratte degli effetti distruttivi degli Accordi, componenti non limitate alla sola Palestina. Uno sforzo del genere è importante, poiché ogni tentativo di diagnosticare il vero carattere coloniale della nostra condizione ci permette di fare un passo in più verso una consapevolezza potenzialmente liberata e liberatoria.

Replica emotiva e mentale

Il carattere materiale dei progetti coloniali può replicarsi emotivamente e mentalmente, sia all’interno del morale collettivo dei colonizzati che nelle menti e nei cuori degli individui che compongono le popolazioni sottoposte a tale condizione. Quindi non ci vuole un grande sforzo di immaginazione per considerare che la frammentazione fisica e politica operata dagli Accordi di Oslo, l’arrogante e arbitraria dichiarazione che un futuro Stato palestinese riguarderebbe solo quei palestinesi che si trovano attualmente all’interno del loro territorio colonizzato e occupato militarmente, l’abbandono della lotta di liberazione, la creazione di un’élite borghese palestinese corrotta che trarrebbe un chiaro profitto dall’oppressione e dallo sfruttamento del proprio popolo, si siano incise profondamente anche nella psiche individuale dei palestinesi.

È anche logico pensare che tale ricollocazione abbia effetti profondi non solo sul morale individuale dei palestinesi, ma anche sull’attivismo (e qui utilizzo questo termine intenzionalmente) che fece seguito agli Accordi di Oslo.

L’oggetto della mia analisi è un particolare tipo di attivismo (di nuovo, qui utilizzato per descrivere una mentalità e varie forme di definizione delle priorità) che considera la reputazione, l’ego, il “marchio”, la politica individuale, al di sopra della più ampia lotta di liberazione – anche escludendola completamente – così come della necessità di una lotta comune e collettiva del nostro popolo. Una persona o un’organizzazione diventa il rappresentante designato della causa palestinese, e invece di coinvolgere gli altri nella stessa lotta come compagni, tutti diventano concorrenti in una inutile lotta per un “marchio di esclusività“.

La collettività si trasforma da forza ad ostacolo, poiché la pluralità di voci e approcci, parte integrante della salute di qualsiasi vero movimento di liberazione, viene offuscata dall’esigenza culturale di essere la voce palestinese designata, l’attivista palestinese, l’intellettuale palestinese, e così via, anziché uno tra i tanti.

Il momento critico dell’anti-colonialismo viene reindirizzato verso un’analisi della politica liberale e della cosiddetta “leadership del pensiero” che dà per scontata la persistenza di strutture e sistemi che devono essere distrutti piuttosto che sostenuti, e addirittura ne trae beneficio. Ma anche un atteggiamento più critico non implica necessariamente il superamento di questo status quo, poiché il mostrarsi come il soggetto più radicale può essere di per sé mercificato come personale cinica dimostrazione di competizione.

Non è più la lotta palestinese ad essere intrapresa, nella sua integrità e contradditorietà, ma una sua versione asettica che viene rimpacchettata e venduta a un pubblico di riferimento. In questa competizione viene riproposta la frammentazione imposta alla nostra lotta dai nostri colonizzatori e dalla cosiddetta leadership della nostra gente, che collabora volontariamente con loro per il proprio tornaconto personale, e la stessa frammentazione invece di essere combattuta viene incentivata.

Tutte le forze oppositive, dai nostri colonizzatori ai loro alleati imperialisti, non vorrebbero altro per noi che il mantenimento della nostra dispersione, frammentazione, quindi è naturale che ci troviamo in sistemi e situazioni in cui, anche se indirettamente, siamo incoraggiati ad attaccarci a vicenda in modo da sentirci più interessanti.

Cosa si intende per economia sociale

Una economiaimplica tipicamente un sistema di relazioni e di scambio. Quindi riferirsi al fenomeno in questione come ad una economia socialepotrebbe sembrare una strana scelta di parole. Ma attraverso questa formulazione stiamo considerando i modi in cui le relazioni sociali stesse sono condizionate dai processi economici: il modo in cui, ad esempio, le relazioni personali e professionali vengono distorte dalle nozioni capitalistiche di profitto, produttività e bisogni artificiali, o come il sistema di credo neoliberisti incoraggi un approccio alle questioni riguardanti l’oppressione nello stile del “buffet”, secondo cui mantenere un’identità emarginata comporti di per sé intenti liberatori (Mahmoud Abbas dovrebbe essere una confutazione sufficiente di questa attitudine politica regressiva).

Nel nostro esempio l’impegno politico viene impercettibilmente scavalcato da incentivi lucrativi di competizione, falsi bisogni, esclusione, e una causa che è essenzialmente una lotta collettiva per la liberazione anticoloniale diventa semplicemente un mezzo di promozione e avanzamento personali. Nella misura in cui il ruolo dilagante delle ONG sia in Palestina che a livello internazionale devia gli sforzi incentrati sulla liberazione verso obiettivi riformisti, fortemente condizionati da finanziamenti vincolanti, e riversa l’intelligenza e la creatività degli organizzatori su esigenze burocratiche come la raccolta di fondi e la costruzione di relazioni con i donatori, non possiamo ignorare l’interazione tra istituzioni compromesse, assoggettamento all’economia predatoria e volubilità politica.

Buona fede e inconscio

Tuttavia, per quanto tale coinvolgimento possa a volte essere contraddistinto da una deliberata noncuranza, la nostra esperienza suggerisce che è più probabile che un tale stato di cose venga rinforzato inconsciamente. Così, anche nei momenti più intensi di apparente confronto e disaccordo, si deve sempre presumere che ci sia della buona fede.

Una pratica imperfetta ma comunque migliorativa, dato questo stato di cose, è quella di insistere su distinzioni intenzionali e coscienziose tra la società civile e la sfera del no-profit. A dire il vero esiste una sovrapposizione, ma identificare intenzionalmente le organizzazioni senza scopo di lucro con la società civile finirebbe per annacquare l’impegno sociale con le esigenze, i limiti e le restrizioni della burocrazia del no profit.

Nell’attesa del completo disfacimento del sistema no profit, un approccio importante è quello di percorrerne gli spazi con la consapevolezza di queste distinzioni materiali e chiedere sempre a se stessi (e alla propria organizzazione) come utilizzare al meglio le risorse e reti del contesto no profit per ampliarne quanto possibile senza restrizioni la base.

Sarebbe un compito molto più semplice se gli accordi di Oslo avessero portato una generazione di militanti e organizzazioni egocentriche a trarre profitto attraverso la competizione dei loro “marchi” palestinesi, nel bene e nel male, ma ciò non è quanto discuto. La realtà è più oscura e più difficile da definire, ma in sostanza quello che sto suggerendo è che vari fattori, tra cui l’eccessiva enfasi sull’individuo propria dell’etica coloniale/capitalista statunitense, così come la miriade di forme di frammentazione inflittaci attraverso gli Accordi di Oslo, sono essi stessi interiorizzati e riproposti all’interno del modello dei militanti statunitensi, ma spesso al livello generico di imitazione istintiva e di sensazione.

Diverse norme sociali e simboliche fanno sì che determinate azioni e atteggiamenti siano semplicemente percepiti come più naturali di altri. Questo è il caso del capitalismo in generale, che propone nei termini delle cosiddette “realtà“, “natura”, “società” e così via una completa distorsione delle relazioni e dei legami sociali. La nostra condizione coloniale, seppur per certi versi più particolare, opera tuttavia con effetti simili: l’orizzonte delle possibilità è sempre più impoverito dalla contrazione dei confini e dall’abdicazione dalla responsabilità e dalla dedizione alla lotta.

La strada (le strade) da seguire

Non esiste una “soluzione” predefinita per un tale stato di cose, ma poiché l’individualismo e la competitività sono i flagelli, dovrebbero ovviamente avere la priorità gli approcci incentrati sulla collaborazione e la crescita comune. In tale prospettiva ci si dovrebbe accordare su un impegno continuo (che conti sulla) buona fede di tutti, sempre che non vengano superate le linee rosse del sionismo e della normalizzazione. Ma anche avendo a che fare con queste linee rosse è fondamentale essere in grado di stabilire definizioni esaustive di sionismo e normalizzazione, così come stabilire e coltivare un sano impegno politico.

A questo punto dovrebbe essere tutt’altro che politicamente controverso dire che l’entità sionista non ha il diritto di esistere, non dovrebbe mai essere esistita e non dovrebbe esistere di fatto nemmeno adesso; che i palestinesi hanno diritto a tutte le forme di resistenza fino al ritorno e alla liberazione totale, e che tutta l’entità sionista è, nei fatti, la Palestina occupata, una costruzione aliena su terre e vite rubate che deve essere demolita per arrivare ad una completa liberazione e a un risarcimento della Palestina.

Parlare in modo esplicito delle competizioni e guerre per il territorio come risultato piuttosto che come causa degli Accordi di Oslo può a volte aiutare a reindirizzare gli sforzi verso una lotta più ampia e un miglioramento collettivo, sebbene ciò non sia sempre una certezza.

Alla radice del problema c’è la necessità di operare con la coscienza di movimento piuttosto che per individualismo o attivismo, e di partire sempre da una posizione di aiuto alla causa collettiva anziché di priorità a guadagni individuali. La lotta è danneggiata dalla nostra frammentazione, sebbene sia importante resistere alla cinica cooptazione di questo principio per incoraggiare la tolleranza di tutte le linee politiche all’interno dei nostri spazi e reti più ampie (come la normalizzazione dell’entità sionista, inclusa l’accettazione del Coordinamento per la sicurezza dell’Autorità” Nazionale Palestinese).

Lo scopo è riaccendere e preservare un senso di identità e resistenza collettiva che operi all’interno di una cornice genuinamente anti-coloniale, piuttosto che accettare la nostra colonizzazione come inevitabile, o addirittura come un fatto concluso.

Omar Zahzah è il coordinatore del settore Istruzione e Difesa per Eyewitness [rete associativa internazionale per una soluzione non violenta del conflitto israelo-palestinese, ndt.] nonché membro del Movimento giovanile palestinese (PYM) e della Campagna Statunitense per il Boicottaggio Accademico e Culturale di Israele (USACBI). Omar è anche uno studioso, scrittore e poeta indipendente e ha conseguito un dottorato di ricerca in letteratura comparata presso l’Università della California, Los Angeles (UCLA). Ha pubblicato questo articolo su The Palestine Chronicle.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)