L’economia sociale del dopo-Oslo: un’analisi

Omar Zahzah

12 agosto 2022 – The Palestine Chronicle

Se ci pensate, è un classico Fanon”, ha osservato nel 2018 in occasione del 25° anniversario degli Accordi di Oslo la scrittrice palestinese Yara Hawari, analista esperta di Al-Shabaka: The Palestine Policy Network [organizzazione indipendente e transnazionale impegnata nel dibattito pubblico su diritti umani e autodeterminazione palestinesi, ndt.].

“Significa: creiamo questa classe di persone deputata a preservare la sicurezza degli oppressi e dei nativi, in modo da non doverlo fare noi”.

La “classe” a cui Hawari fa qui riferimento è l’Autorità Nazionale Palestinese, quell’apparato repressivo di informatori autoctoni le cui incarcerazioni e sevizie nei confronti del suo stesso popolo e la cui totale obbedienza allo Stato coloniale sionista sono state istituzionalizzate attraverso l’approvazione degli Accordi di Oslo del 1993. Hawari mette in relazione la formazione dell’ANP con la classe media nazionale sottosviluppata descritta da Fanon in The Pitfalls of National Consciousness [Le trappole della coscienza nazionale, capitolo del suo classico libro “I dannati della terra”, Einaudi, 2007], una classe che perpetua la propria integrità e i propri interessi materiali preservando le relazioni e la collaborazione neo-coloniali con il potere coloniale.

L’attivista palestinese Jamal Juma spiega che attraverso gli Accordi l’ANP ha fatto in modo che i mezzi di sussistenza palestinesi finissero sotto il controllo di organizzazioni come la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale, e che la divisione della Cisgiordania nelle aree A, B e C fosse guidata in ultima analisi da una più ampia strategia di annessione totale.

Un’ampia disanima di tale argomento, Palestina, Srl di Toufic Haddad, dimostra come gli Stati donatori e le istituzioni finanziarie occidentali abbiano utilizzato gli accordi di Oslo come banco di prova nell’esplorazione di forme di intesa nazionali e governative che potessero essere più gradite alle iniziative capitaliste neoliberiste — un’intuizione che suggerisce come la Palestina funga da “laboratorio” in maniera diversa rispetto alla visione più diffusa dello Stato sionista che sperimenta sulla società e sui territori palestinesi lo sviluppo di tattiche di armamento, di controllo della folla e di sorveglianza che alla fine esporterà ad altre nazioni e società.

Tuttavia, per quanto queste considerazioni siano fondamentali, esse si riferiscono agli aspetti materiali delle conseguenze devastanti degli Accordi di Oslo.

Credo sia importante discutere anche di altre componenti più astratte degli effetti distruttivi degli Accordi, componenti non limitate alla sola Palestina. Uno sforzo del genere è importante, poiché ogni tentativo di diagnosticare il vero carattere coloniale della nostra condizione ci permette di fare un passo in più verso una consapevolezza potenzialmente liberata e liberatoria.

Replica emotiva e mentale

Il carattere materiale dei progetti coloniali può replicarsi emotivamente e mentalmente, sia all’interno del morale collettivo dei colonizzati che nelle menti e nei cuori degli individui che compongono le popolazioni sottoposte a tale condizione. Quindi non ci vuole un grande sforzo di immaginazione per considerare che la frammentazione fisica e politica operata dagli Accordi di Oslo, l’arrogante e arbitraria dichiarazione che un futuro Stato palestinese riguarderebbe solo quei palestinesi che si trovano attualmente all’interno del loro territorio colonizzato e occupato militarmente, l’abbandono della lotta di liberazione, la creazione di un’élite borghese palestinese corrotta che trarrebbe un chiaro profitto dall’oppressione e dallo sfruttamento del proprio popolo, si siano incise profondamente anche nella psiche individuale dei palestinesi.

È anche logico pensare che tale ricollocazione abbia effetti profondi non solo sul morale individuale dei palestinesi, ma anche sull’attivismo (e qui utilizzo questo termine intenzionalmente) che fece seguito agli Accordi di Oslo.

L’oggetto della mia analisi è un particolare tipo di attivismo (di nuovo, qui utilizzato per descrivere una mentalità e varie forme di definizione delle priorità) che considera la reputazione, l’ego, il “marchio”, la politica individuale, al di sopra della più ampia lotta di liberazione – anche escludendola completamente – così come della necessità di una lotta comune e collettiva del nostro popolo. Una persona o un’organizzazione diventa il rappresentante designato della causa palestinese, e invece di coinvolgere gli altri nella stessa lotta come compagni, tutti diventano concorrenti in una inutile lotta per un “marchio di esclusività“.

La collettività si trasforma da forza ad ostacolo, poiché la pluralità di voci e approcci, parte integrante della salute di qualsiasi vero movimento di liberazione, viene offuscata dall’esigenza culturale di essere la voce palestinese designata, l’attivista palestinese, l’intellettuale palestinese, e così via, anziché uno tra i tanti.

Il momento critico dell’anti-colonialismo viene reindirizzato verso un’analisi della politica liberale e della cosiddetta “leadership del pensiero” che dà per scontata la persistenza di strutture e sistemi che devono essere distrutti piuttosto che sostenuti, e addirittura ne trae beneficio. Ma anche un atteggiamento più critico non implica necessariamente il superamento di questo status quo, poiché il mostrarsi come il soggetto più radicale può essere di per sé mercificato come personale cinica dimostrazione di competizione.

Non è più la lotta palestinese ad essere intrapresa, nella sua integrità e contradditorietà, ma una sua versione asettica che viene rimpacchettata e venduta a un pubblico di riferimento. In questa competizione viene riproposta la frammentazione imposta alla nostra lotta dai nostri colonizzatori e dalla cosiddetta leadership della nostra gente, che collabora volontariamente con loro per il proprio tornaconto personale, e la stessa frammentazione invece di essere combattuta viene incentivata.

Tutte le forze oppositive, dai nostri colonizzatori ai loro alleati imperialisti, non vorrebbero altro per noi che il mantenimento della nostra dispersione, frammentazione, quindi è naturale che ci troviamo in sistemi e situazioni in cui, anche se indirettamente, siamo incoraggiati ad attaccarci a vicenda in modo da sentirci più interessanti.

Cosa si intende per economia sociale

Una economiaimplica tipicamente un sistema di relazioni e di scambio. Quindi riferirsi al fenomeno in questione come ad una economia socialepotrebbe sembrare una strana scelta di parole. Ma attraverso questa formulazione stiamo considerando i modi in cui le relazioni sociali stesse sono condizionate dai processi economici: il modo in cui, ad esempio, le relazioni personali e professionali vengono distorte dalle nozioni capitalistiche di profitto, produttività e bisogni artificiali, o come il sistema di credo neoliberisti incoraggi un approccio alle questioni riguardanti l’oppressione nello stile del “buffet”, secondo cui mantenere un’identità emarginata comporti di per sé intenti liberatori (Mahmoud Abbas dovrebbe essere una confutazione sufficiente di questa attitudine politica regressiva).

Nel nostro esempio l’impegno politico viene impercettibilmente scavalcato da incentivi lucrativi di competizione, falsi bisogni, esclusione, e una causa che è essenzialmente una lotta collettiva per la liberazione anticoloniale diventa semplicemente un mezzo di promozione e avanzamento personali. Nella misura in cui il ruolo dilagante delle ONG sia in Palestina che a livello internazionale devia gli sforzi incentrati sulla liberazione verso obiettivi riformisti, fortemente condizionati da finanziamenti vincolanti, e riversa l’intelligenza e la creatività degli organizzatori su esigenze burocratiche come la raccolta di fondi e la costruzione di relazioni con i donatori, non possiamo ignorare l’interazione tra istituzioni compromesse, assoggettamento all’economia predatoria e volubilità politica.

Buona fede e inconscio

Tuttavia, per quanto tale coinvolgimento possa a volte essere contraddistinto da una deliberata noncuranza, la nostra esperienza suggerisce che è più probabile che un tale stato di cose venga rinforzato inconsciamente. Così, anche nei momenti più intensi di apparente confronto e disaccordo, si deve sempre presumere che ci sia della buona fede.

Una pratica imperfetta ma comunque migliorativa, dato questo stato di cose, è quella di insistere su distinzioni intenzionali e coscienziose tra la società civile e la sfera del no-profit. A dire il vero esiste una sovrapposizione, ma identificare intenzionalmente le organizzazioni senza scopo di lucro con la società civile finirebbe per annacquare l’impegno sociale con le esigenze, i limiti e le restrizioni della burocrazia del no profit.

Nell’attesa del completo disfacimento del sistema no profit, un approccio importante è quello di percorrerne gli spazi con la consapevolezza di queste distinzioni materiali e chiedere sempre a se stessi (e alla propria organizzazione) come utilizzare al meglio le risorse e reti del contesto no profit per ampliarne quanto possibile senza restrizioni la base.

Sarebbe un compito molto più semplice se gli accordi di Oslo avessero portato una generazione di militanti e organizzazioni egocentriche a trarre profitto attraverso la competizione dei loro “marchi” palestinesi, nel bene e nel male, ma ciò non è quanto discuto. La realtà è più oscura e più difficile da definire, ma in sostanza quello che sto suggerendo è che vari fattori, tra cui l’eccessiva enfasi sull’individuo propria dell’etica coloniale/capitalista statunitense, così come la miriade di forme di frammentazione inflittaci attraverso gli Accordi di Oslo, sono essi stessi interiorizzati e riproposti all’interno del modello dei militanti statunitensi, ma spesso al livello generico di imitazione istintiva e di sensazione.

Diverse norme sociali e simboliche fanno sì che determinate azioni e atteggiamenti siano semplicemente percepiti come più naturali di altri. Questo è il caso del capitalismo in generale, che propone nei termini delle cosiddette “realtà“, “natura”, “società” e così via una completa distorsione delle relazioni e dei legami sociali. La nostra condizione coloniale, seppur per certi versi più particolare, opera tuttavia con effetti simili: l’orizzonte delle possibilità è sempre più impoverito dalla contrazione dei confini e dall’abdicazione dalla responsabilità e dalla dedizione alla lotta.

La strada (le strade) da seguire

Non esiste una “soluzione” predefinita per un tale stato di cose, ma poiché l’individualismo e la competitività sono i flagelli, dovrebbero ovviamente avere la priorità gli approcci incentrati sulla collaborazione e la crescita comune. In tale prospettiva ci si dovrebbe accordare su un impegno continuo (che conti sulla) buona fede di tutti, sempre che non vengano superate le linee rosse del sionismo e della normalizzazione. Ma anche avendo a che fare con queste linee rosse è fondamentale essere in grado di stabilire definizioni esaustive di sionismo e normalizzazione, così come stabilire e coltivare un sano impegno politico.

A questo punto dovrebbe essere tutt’altro che politicamente controverso dire che l’entità sionista non ha il diritto di esistere, non dovrebbe mai essere esistita e non dovrebbe esistere di fatto nemmeno adesso; che i palestinesi hanno diritto a tutte le forme di resistenza fino al ritorno e alla liberazione totale, e che tutta l’entità sionista è, nei fatti, la Palestina occupata, una costruzione aliena su terre e vite rubate che deve essere demolita per arrivare ad una completa liberazione e a un risarcimento della Palestina.

Parlare in modo esplicito delle competizioni e guerre per il territorio come risultato piuttosto che come causa degli Accordi di Oslo può a volte aiutare a reindirizzare gli sforzi verso una lotta più ampia e un miglioramento collettivo, sebbene ciò non sia sempre una certezza.

Alla radice del problema c’è la necessità di operare con la coscienza di movimento piuttosto che per individualismo o attivismo, e di partire sempre da una posizione di aiuto alla causa collettiva anziché di priorità a guadagni individuali. La lotta è danneggiata dalla nostra frammentazione, sebbene sia importante resistere alla cinica cooptazione di questo principio per incoraggiare la tolleranza di tutte le linee politiche all’interno dei nostri spazi e reti più ampie (come la normalizzazione dell’entità sionista, inclusa l’accettazione del Coordinamento per la sicurezza dell’Autorità” Nazionale Palestinese).

Lo scopo è riaccendere e preservare un senso di identità e resistenza collettiva che operi all’interno di una cornice genuinamente anti-coloniale, piuttosto che accettare la nostra colonizzazione come inevitabile, o addirittura come un fatto concluso.

Omar Zahzah è il coordinatore del settore Istruzione e Difesa per Eyewitness [rete associativa internazionale per una soluzione non violenta del conflitto israelo-palestinese, ndt.] nonché membro del Movimento giovanile palestinese (PYM) e della Campagna Statunitense per il Boicottaggio Accademico e Culturale di Israele (USACBI). Omar è anche uno studioso, scrittore e poeta indipendente e ha conseguito un dottorato di ricerca in letteratura comparata presso l’Università della California, Los Angeles (UCLA). Ha pubblicato questo articolo su The Palestine Chronicle.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Lavoratori palestinesi costretti a scendere da un autobus israeliano per far posto a passeggeri ebrei

Redazione di MiddleEastEye

9 agosto 2022, MiddleEastEye

Un uomo che si fingeva funzionario del Ministero dei Trasporti ha fatto pressioni sull’autista perché facesse scendere circa 50 lavoratori palestinesi dall’autobus

Secondo Haaretz tre passeggeri ebrei, uno dei quali fingendosi funzionario del Ministero dei Trasporti, hanno costretto alcuni palestinesi a scendere da un autobus diretto nella Cisgiordania occupata.

L’incidente è avvenuto giovedì scorso; circa 50 lavoratori palestinesi sono scesi dall’autobus nella città di Bnei Brak dopo che i passeggeri ebrei avevano chiesto all’autista di farli scendere.

Tnufa Transportation Solutions, proprietaria dell’autobus, gestisce le tratte tra Tel Aviv e l’insediamento coloniale di Ariel in Cisgiordania, portando i lavoratori palestinesi con permesso di lavoro da Israele alla Cisgiordania occupata.

“Sono passati alcuni autobus e non si sono fermati, perché l’autobus 288 è riservato solo agli ebrei, poi uno che era vuoto e senza ebrei a bordo si è fermato per noi e siamo saliti”, ha detto ad Haaretz uno dei passeggeri palestinesi.

“Tre ebrei sono saliti a Bnei Brak [cittadina israeliana abitata soprattutto da ultraortodossi, ndt.] e hanno chiesto che tutti gli arabi scendessero”.

L’autista ha chiamato i suoi superiori e poi ha chiesto ai palestinesi di scendere.

La legge vieta agli operatori dei trasporti di segregare ebrei e arabi che utilizzano i loro servizi. L’amministratore delegato di Tnufa Transportation Solutions ha negato le accuse.

“Non abbiamo percorsi separati per palestinesi o ebrei… Ci sono linee che vanno ai valichi [tra Israele e la Cisgiordania] e naturalmente i palestinesi le usano di più, ma se un ebreo vuole salire non ci sono restrizioni”, ha detto .

Su richiesta di Haaretz, la compagnia ha condotto un’indagine e ha affermato che l’autista “è stato vittima di una vergognosa manipolazione da parte di un passeggero che si è spacciato per dipendente del Ministero dei Trasporti”, affermando che quelle erano le nuove istruzioni del Ministero per quella particolare tratta.

“L’autista, uno nuovo, ha detto di aver discusso con l’impostore, che però gli ha detto che avrebbe potuto perdere il lavoro o ricevere una grossa multa se non avesse seguito immediatamente le istruzioni”, ha affermato la società in una nota.

“Sembra che a causa delle pressioni esercitate l’autista abbia ceduto alla manipolazione razzista e sia stato costretto a lasciare i passeggeri alla fermata dell’autobus. L’autista non ha denunciato il fatto al suo datore di lavoro”.

La compagnia ha sporto denuncia alla polizia israeliana, ha riaffermato il suo impegno a fornire un servizio uguale a palestinesi ed ebrei e si è scusata con i passeggeri palestinesi per lo ” spiacevole evento”.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Gli israeliani uccidono tre combattenti della resistenza a Nablus e un ragazzo a Hebron

Yumna Patel

9 agosto 2022Mondoweiss

A meno di 48 ore dal cessate il fuoco tra Israele e il movimento per il Jihad Islamico palestinese a Gaza l’esercito israeliano uccide 3 combattenti della resistenza a Nablus innescando proteste in Cisgiordania.

Martedì mattina tre combattenti della resistenza, tra cui un minore, sono stati uccisi dalle forze israeliane durante un raid militare nella città vecchia di Nablus, nella parte settentrionale della Cisgiordania occupata. 

I tre combattenti appartenevano alla Brigata dei Martiri di Al-Aqsa, l’ala militare del movimento Fatah. Sono stati identificati come Ibrahim Nabulsi, 19 anni, comandante della brigata, Islam Subuh, 32 anni, e Hussein Jamal Taha, 16 anni. 

Ci sono informazioni contrastanti dei media sull’età di Nabulsi, ma un funzionario del Ministero della Salute ha confermato a Mondoweiss che aveva 19 anni. 

Confermando le loro morti, Il Ministero della Salute palestinese ha aggiunto che Nabulsi è stato ucciso con una pallottola alla testa, Subuh è stato colpito alla parte superiore del torace e Taha al cuore. Il ministero ha detto che nel raid sono stati feriti almeno altri 40 palestinesi. 

Ibrahim Nabulsi

Nelle prime ore del mattino di martedì le forze israeliane hanno compiuto un raid nella Città Vecchia e circondato una casa dove si pensava Nabulsi abitasse, scatenando uno scontro a fuoco tra i combattenti della zona. L’esercito ha anche usato missili lanciati a spalla contro l’abitazione per costringere Nabulsi a uscire. 

Nabulsi era ricercato dalle forze israeliane per la sua appartenenza alle brigate Al-Aqsa e sarebbe sfuggito a numerosi tentativi di arrestarlo e assassinarlo. A febbraio le forze israeliane avevano ucciso tre palestinesi appartenenti alle brigate mentre erano nella loro auto a Nablus. Allora avevano affermato che Nabulsi era uno dei loro obiettivi. 

Alla fine di luglio in un raid nella Città Vecchia in cui anche Nabulsi era un obiettivo, l’esercito israeliano aveva ucciso Muhammad Azizi, 25 anni, e Abdul Rahman Subuh, 28 anni, entrambi appartenenti alle brigate. Nabulsi che era molto rispettato a Nablus e in Cisgiordania come un combattente coraggioso e intrepido, aveva presenziato al funerale dei suoi compagni il 25 luglio, rafforzando ulteriormente la sua fama di eroe.

Proteggete la patria’

Martedì, in un messaggio vocale ampiamente condiviso sui social palestinesi e registrato probabilmente poco prima di essere ucciso, Nabulsi ha detto: 

Vi amo tanto. Amo mia madre. Se diventerò martire proteggete la nostra patria dopo che me ne sarò andato. Le mie ultime volontà che affido a voi sono che, sul vostro onore, non abbandoniate le armi. Sono circondato e sto andando verso il martirio.”

Martedì il suo messaggio, con foto e video, ha inondato i social, mentre i palestinesi partecipavano al funerale di colui che molti considerano un eroico caduto. 

Sono diventati virali i video della mamma di Nabulsi che dice, rivolgendosi alla folla davanti all’ospedale a Nablus: “Loro hanno ucciso Ibrahim, ma ci sono centinaia di Ibrahim. Voi siete tutti Ibrahim. Siete tutti miei figli,” e, facendo il segno di vittoria, ha aggiunto “Ibrahim era vittorioso.”

A Nablus martedì pomeriggio centinaia di palestinesi hanno partecipato all’imponente corteo funebre per Nabulsi, Subuh e Taha. 

L’intera Cisgiordania si è fermata e i distretti dei territori occupati hanno annunciato uno sciopero generale in segno di lutto per i combattenti uccisi. 

Dopo i funerali sono state segnalate proteste in varie città della Cisgiordania. I media palestinesi hanno riferito che un diciassettenne, Momin Yassin Jaber, è stato ucciso durante gli scontri con soldati israeliani a Hebron, nel sud della Cisgiordania. 

L’assassinio di Nabulsi, Subuh e Taha è avvenuto a meno di 48 ore dal cessate il fuoco fra Israele e il movimento per il Jihad islamico palestinese a Gaza. Venerdì Israele ha lanciato un attacco di tre giorni contro la Striscia che ha causato la morte di 44 palestinesi, tra cui 16 minori. 

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Le ripercussioni del trauma: Gaza, agosto 2022

Agosto 2022 – Wearenotnumbers

Sono praticamente le stesse notizie, gli stessi eventi, le stesse sensazioni di impotenza e di debolezza. Tutto quanto è familiare. Dai bambini uccisi senza pietà alla tristezza per i giovani le cui vite sono state strappate via a causa del trauma, alle donne che lasciano dietro di sé i propri figli. Mi sento svuotata dal continuare a scrivere della situazione a Gaza. Niente è cambiato. L’ultima aggressione contro Gaza è finita proprio ieri, ma la sofferenza è continua. Sono sicura che quelli che sono fisicamente sopravvissuti hanno perso qualcosa dentro di sé, o forse sono morti nell’anima. Cerchiamo di resistere a tutto questo, ai traumi, alle sconvolgenti perdite dei nostri cari. Dopotutto siamo persone. Dobbiamo chiedere che le aggressioni finiscano. Di fatto dobbiamo chiedere a Israele di smettere quello che sta facendo, che pare sia impossibile da ammettere per molti occidentali. Israele non è stato affatto provocato, eppure questa volta ci hanno massacrati senza ritegno.

Pochi giorni fa mi sono svegliata con la notizia che Gaza era sotto attacco. La prima cosa che ho pensato è stata: non c’è nessuno che ci aiuti. Ed è tristemente vero. Sono grata che questa pesante aggressione sia durata solo tre giorni, ma chi riporterà in vita i bambini che sono morti? Chi riporterà in vita Khalil Abu Hamada, figlio unico consegnato ai suoi genitori dopo 15 anni e sei cicli di fecondazione in vitro? Immaginate di avere un bambino dopo 13 anni di matrimonio e molti tentativi di rimanere incinta. Poi immaginate che dopo 19 anni dalla sua nascita lo perdiate! Chi curerà Soad Hassouna, che si era laureata con una media alta ed è stata recentemente registrata mentre parlava della sua aspirazione a diventare dentista, dai traumi che deve subire ora perché la sua casa è stata colpita da un attacco aereo? È stata ritrovata proprio fra le macerie. È stata tirata fuori, ma non si sa se sopravviverà. Ha anche perso suo fratello.

I bambini di Gaza sono abituati agli incidenti di guerra

Le mie piccole figlie ricordano vividamente la precedente aggressione,” dice Deema Aydieh. “Hanno aperto le finestre prima ancora che glielo dicessi io. Sapevano che in questo modo la nostra casa sarebbe stata più sicura, i vetri non si sarebbero rotti e non sarebbero andati in frantumi attorno a noi.

Hanno preparato i loro vestiti per la preghiera e mi hanno chiesto di impacchettare le nostre carte e le nostre cose importanti in modo da non dimenticarle se avessimo dovuto scappare improvvisamente da casa.

Per un momento mi sono sentita come se le mie bambine avessero acquisito troppo rapidamente anni di saggezza, benché i loro sogni e speranze siano molto semplici. Volevano solo essere al sicuro. Tutto ciò che volevano proteggere erano i loro vestiti e giocattoli favoriti e i soldi risparmiati dallo scorso Eid [festa religiosa musulmana, ndt.], che pensavano di utilizzare per comprare materiale scolastico. La loro infanzia è un insieme di innocenza e saggezza, cose che raramente vanno insieme. Ma è Gaza, la terra dei paradossi,” aggiunge.

È assolutamente chiaro che tali aggressioni, in altre parole, diventano traumi dolorosi che i bambini della Striscia di Gaza conoscono molto bene. Io stessa sono una sopravvissuta all’età di cinque anni e posso ricordare il momento in cui ero davanti alla finestra di un’aula scolastica e vidi la carne di esseri umani volare nell’aria durante un attacco aereo dei nostri occupanti israeliani. Ricordo lo shock e il freddo che avvolse il mio corpo. In quel momento tutto divenne bianco nella mia mente, tutto si fermò e c’era solo vuoto. Da allora la vita non è stata realmente importante, perché mi sono resa conto di quanto poco valiamo per il resto del mondo. Avvenne durante la seconda aggressione contro Gaza. Ricordo che ciò successe quando ero in una scuola della United Nations Relief and Works Agency [UNRWA, l’agenzia dell’ONU per i rifugiati palestinesi, ndt.]. Per me è paradossale che esse vengano considerate rifugi sicuri, mentre Israele colpisce bambini, civili, moschee e persino scuole. In un attacco non ci sono posti sicuri a Gaza, e i gazawi lo sanno molto bene.

Le aggressioni israeliane contro i gazawi li lasciano traumatizzati

Una volta, mentre stavo parlando a una terapista, Cheryl Qamar, le chiesi se fosse vero che ogni gazawi soffre di disturbo da stress post-traumatico, o PTSD. Mi ha risposto che ogni essere umano che sperimenta questo tipo di incidenti soffrirà probabilmente di PTSD, quindi c’è una notevole probabilità che tutti i gazawi ne patiscano. Ha aggiunto che potremmo soffrire anche di CPTSD (disturbo da stress post traumatico complesso) in conseguenza del fatto di aver sperimentato traumi prolungati o ripetuti.

Ricordo quando la mia amica Raya ha visitato Gaza e mi ha chiesto cosa avessero ragazze e ragazzi di Gaza, perché tutti abbiamo paura dei gatti. Non ne sono sicura, ma penso che sia a causa del fatto che i traumi si manifestano in noi attraverso paure e fobie. Anch’io l’ho notato, in quanto sono solita aver paura dei gatti e anche di molte altre cose, ma, grazie a Dio, ho superato molte delle mie fobie e sto cercando di superare quelle che mi rimangono.

I giovani di Gaza si interrogano sulla loro situazione e sul loro destino

Mi domando se uccidere civili in tempo di guerra sia permesso, anche se per ragioni di autodifesa, e mi domando come possa essere accettabile uccidere Alaa Qadoum, di cinque anni. Alaa era solo una bambinetta e non era mai stata un pericolo per nessuno. Quest’anno l’avrebbero iscritta all’asilo.

Mi domando come possa essere in qualche modo vantaggiosa per Israele l’uccisione di Daniana Alamour, ventiduenne studentessa all’università Al-Aqsa. Daniana aveva la mia stessa età e viveva nel mio quartiere, studiava dove studio io. Entrambe amavamo l’arte, però lei era più intelligente e talentuosa, e prima di morire aveva fatto una serie di bellissimi ritratti e li aveva appesi nella galleria d’arte del nostro quartiere. Se agli occhi di Israele è lecito ucciderla, allora può essere molto probabile che uccidano anche me nelle future aggressioni.

Mi domando chi dovrebbe essere chiamato terrorista: Ashraf Al Qesi, che non ha esitato a consentire alla Difesa Civile Palestinese di demolire parte della sua casa per salvare i suoi vicini dopo che edifici accanto al suo erano stati distrutti dagli attacchi aerei israeliani, o chi spara contro i civili dal cielo.

La sofferenza che Israele provoca a Gaza non si limita alle aggressioni, ma va oltre. Israele ha imposto dal 2007 un blocco totale contro di noi. Qui alla gente non è consentito viaggiare se non per scopi specifici come salute e studio, e nonostante ciò possa essere la ragione, ho incontrato molti palestinesi che soddisfacevano le condizioni richieste a cui Israele non ha consentito di lasciare Gaza. Alcuni di essi hanno tentato invano molte volte di avere il permesso da Israele.

Mi ha fatto molto male quando il mio amico Hossam Abu Shammala ha detto di volersene andare all’estero perché in quel modo avrebbe vissuto una vita dignitosa. Intendeva dire che vivere a Gaza è una forma di umiliazione, ed è difficile da ammettere, però è vero. Ci vogliono un’incredibile forza, coraggio, spirito e resilienza per riuscire a vivere in un posto simile. Non si sa nemmeno quale sia il nostro destino di giovani. Quando guardiamo al futuro, tutto quello che vediamo è un caos totale. Non è che siamo intrinsecamente confusi o persi, è la situazione qui che ci rende infelici. Eppure cerchiamo di resistere e di trarre il meglio da questa situazione. Cerchiamo di vivere serenamente nella più grande prigione a cielo aperto del mondo, non sapendo quale crimine abbiamo commesso. Cerchiamo ogni giorno di avere speranza e ci riusciamo. A volte è molto duro, ma noi siamo dei sopravvissuti.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Gaza: i nomi e i volti dei 16 bambini palestinesi uccisi nell’assalto israeliano

Redazione di MEE

8 agosto 2022 – Middle East Eye

Almeno 45 palestinesi sono stati uccisi e più di 360 feriti nel corso dei tre giorni di attacchi aerei israeliani sulla Striscia assediata.

Questi sedici bambini palestinesi non vedevano l’ora di trascorrere un’estate piena di gioia. Avevano in programma di giocare a pallone, andare in spiaggia e frequentare un campo estivo.

Ma nel corso di tre giorni orribili le forze israeliane hanno scatenato un’ondata di attacchi aerei sulla Striscia di Gaza assediata, uccidendo 45 persone, tra cui i 16 bambini, e ferendone almeno altre 360.

“Non c’è uno spazio sicuro nella Striscia di Gaza per i bambini palestinesi e le loro famiglie, che sempre di più pagano le conseguenze delle ripetute offensive militari di Israele”, ha dichiarato Ayed Abu Eqtaish, direttore del programma di accertamento di responsabilità presso l’ONG Defense for Children International – Palestina (DCIP) [la DCI è una ONG internazionale impegnata nella promozione e protezione dei diritti del fanciullo, ndt.].

Anche se domenica è entrato in vigore un cessate il fuoco a seguito di un accordo mediato dall’Egitto, i palestinesi hanno denunciato la devastante campagna di bombardamenti ed emergono maggiori dettagli sulle persone uccise.

L’esercito israeliano ha affermato che alcune delle vittime civili sono state uccise da razzi fuori bersaglio, senza fornire prove provenienti da verifiche indipendenti. Il Ministero della Salute palestinese afferma che tutte le persone uccise, compresi i 16 bambini, sono morte a causa degli attacchi aerei israeliani.

Alcune famiglie si sono rese disponibili a condividere le loro storie, mentre altre hanno mantenuto lo stato di lutto e hanno chiesto il rispetto della privacy.

Ecco i nomi e i volti dei bambini morti:

Alaa Abdullah Qaddoum, cinque anni

Alaa Abdullah Qaddoum è stata tra le prime vittime venerdì, dopo la decisione di Israele di lanciare gli attacchi aerei sulla Striscia di Gaza assediata.

È morta il 5 agosto mentre giocava con gli amici fuori casa, nel quartiere di Shujaiya, nel nord della Striscia di Gaza.

Durante l’attacco suo fratello di sette anni e suo padre sono rimasti feriti.

Suo cugino, Abu Diab Qaddoum, ha detto a Middle East Eye: “Alaa era una bambina innocente di cinque anni che giocava per strada con i suoi fratelli e cugini. Cosa ha fatto per essere uccisa?”.

Momen Muhammed Ahmed al-Nairab, cinque anni

Momen Muhammed ِAhmed al-Nairab, cinque anni, è stato ucciso sabato in un presunto attacco aereo israeliano nel campo profughi di Jabalia, nel nord della Striscia di Gaza.

Il campo è uno dei luoghi più densamente popolati della Terra e ospita più di 114.000 persone.

Hazem Muhammed Ali Salem, nove anni

Secondo la documentazione raccolta da Defense for Children International, Hazem Muhammed Ali Salem, nove anni, è tra i quattro bambini vittime dell’esplosione di sabato nel campo profughi di Jabalia.

Israele sostiene di non essere responsabile dell’attacco, ma fonti palestinesi affermano che non avrebbe potuto provenire da nessun’altra parte.

Ahmed Muhammed al-Nairab, 11 anni

Ahmed Muhammed al-Nairab, di 11 anni, è uno dei quattro bambini uccisi sabato quando presunti aerei da guerra israeliani hanno colpito il campo profughi di Jabalia.

Ahmed Walid Ahmed al-Farram, 16 anni

Anche Ahmed Walid Ahmed al-Farram, di 16 anni, è stato ucciso sabato quando presunti aerei da guerra israeliani hanno colpito il campo profughi di Jabalia.

Secondo l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (Unrwa) il campo risente di un’elevata disoccupazione, interruzioni regolari dell’elettricità e inquinamento dell’acqua potabile.

Muhammed Iyad Muhammed Hassouna, 14 anni

Muhammed Iyad Muhammed Hassouna, di 14 anni, è stato ucciso quando un attacco aereo israeliano ha preso di mira la sua casa a Rafah, nel sud della Striscia di Gaza.

Adeeb Ahmad, un testimone oculare dell’attacco, ha detto a MEE che nel corso del raid sono state uccise almeno otto persone.

“La casa è stata colpita senza alcun preavviso”, ha detto Ahmad. “Qui le case sono sovraffollate, ospitano da sette a otto persone ciascuna, e sono molto vicine l’una all’altra, quindi quando una casa viene colpita sono coinvolte diverse abitazioni intorno”.

Fatma Aaed Abdulfattah Ubaid, 15 anni

Fatma Aaed Abdulfattah Ubaid, 15 anni, è una dei nove minorenni uccisi nell’arco di 30 minuti, poco prima dell’annuncio del cessate il fuoco di domenica.

Ubaid è stata uccisa domenica a Beit Hanoun, nel nord della Striscia di Gaza.

Ahmed Yasser Nimr al-Nabahin, nove anni [a sinistra]

Muhammed Yasser Nimr al-Nabahin, 12 anni [al centro]

Dalia Yasser Nimr al-Nabahin, 13 anni [a destra]

Domenica un attacco aereo israeliano contro il campo profughi di Bureij ha ucciso Yasser al-Nabahin e i suoi tre figli, Muhammed Yasser Nimr al-Nabahin, 13 anni (a sinistra); Ahmed Yasser Nimr al-Nabahin, nove (al centro); e la loro sorella, Dalia Yasser Nimr al-Nabahin, 13 (a destra).

Muhammed Salah Nijm, 16 anni

Domenica un presunto attacco aereo israeliano al cimitero di Falluja, nella zona nord di Gaza, ha ucciso cinque ragazzi mentre stavano seduti vicino a una tomba.

Tra le vittime, Muhammed Salah Nijm, di 16 anni.

Hamed Haidar Hamed Nijm, 16 anni

Hamed Haidar Hamed Nijm, di 16 anni, è un’altra delle vittime del raid di domenica al cimitero. Il testimone oculare Mohammad Sami ha detto a MEE che quattro dei ragazzi erano cugini e il quinto era un loro amico.

“Venivano a sedersi qui ogni giorno”, dice Sami. “Questa è una zona sicura.”

Jamil Nijm Jamil Nijm, quattro anni

Jamil Nijm Jamil Nijm è il bambino più piccolo ucciso durante l’offensiva israeliana sulla Striscia di Gaza. Aveva solo quattro anni.

Jamil Ihab Nijm, 13 anni

Jamil Ihab Nijm, 13 anni, è il quarto bambino facente parte della famiglia Nijm ad essere stato ucciso nel presunto attacco aereo di domenica.

Nazmi Fayez Abdulhadi Abukarsh, 16 anni

Anche Nazmi Fayez Abdulhadi Abukarsh, di 16 anni, amico dei ragazzi Nijm, è rimasto ucciso nel sospetto attacco aereo al cimitero.

Hanin Walid Muhammed Abuqaida, 10 anni

Hanin Walid Muhammed Abuqaida, di 10 anni, è stata ferita domenica in un attacco aereo sul campo profughi di Jabalia, ma lunedì è deceduta per le ferite riportate.

Aveva 10 anni.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




La relatrice speciale per l’ONU afferma che gli attacchi israeliani su Gaza sono “illegali”.

Redazione Al Jazeera

7 agosto 2022 – Al Jazeera

Francesca Albanese chiede alle Nazioni Unite di indagare se Israele abbia violato il diritto internazionale e di accertare le responsabilità.

La relatrice speciale delle Nazioni Unite per i territori palestinesi occupati afferma che i raid aerei israeliani sulla Striscia di Gaza assediata “non solo sono illegali, ma irresponsabili”, invocando una soluzione diplomatica all’ultimo scoppio di violenza iniziato venerdì, quando Israele ha lanciato gli attacchi aerei su Gaza City.

La situazione a Gaza è sull’orlo di una crisi umanitaria”, ha detto Francesca Albanese ad Al Jazeera.

Il solo modo per garantire il benessere dei palestinesi ovunque siano è togliere l’assedio e permettere l’ingresso degli aiuti”.

Israele ha definito l’attacco come azione “preventiva” di autodifesa contro il gruppo della Jihad Islamica palestinese e ha detto che l’operazione sarebbe durata una settimana.

Albanese ha esecrato gli Stati Uniti per aver detto di ritenere che Israele aveva il diritto di difendersi. “Israele non può sostenere che si sta difendendo in questo conflitto”, ha detto Albanese.

L’ambasciatore statunitense in Israele, Tom Nides, venerdì ha scritto su twitter: “Gli Stati Uniti credono fermamente che Israele abbia il diritto di proteggersi. Ci stiamo impegnando con le diverse parti e invitiamo tutti alla calma.”

La sua posizione è stata ripresa dalla Ministra degli Esteri britannica Liz Truss, che ha detto che il Regno Unito “sta dalla parte di Israele e del suo diritto a difendersi” e ha condannato i gruppi terroristi che sparano ai civili e la violenza che ha provocato vittime da entrambe le parti.”

A partire da venerdì a Gaza sono stati uccisi almeno 31 palestinesi e 260 sono stati feriti. A sabato non sono stati riferiti feriti gravi dal lato israeliano, in quanto secondo l’esercito il sistema di difesa Iron Dome ha intercettato il 97% dei razzi lanciati dalla striscia assediata.

La protezione è ciò che ho chiesto in Palestina e non solo io. È necessario…proteggere le vite dei civili”, ha detto Albanese. “Non è possibile che Israele si stia difendendo dai civili dal 1967.”

La relatrice speciale, che è un’esperta indipendente responsabile del monitoraggio delle violazioni dei diritti umani nei territori palestinesi occupati e di riferirne all’ONU, ha chiesto all’ente internazionale di accertare se a Gaza sia stato violato il diritto internazionale e di garantire l’attribuzione delle responsabilità.

Ritengo che la mancanza di attribuzione di responsabilità rafforzi Israele”, ha detto Albanese. “Vedo come soluzione la fine dell’occupazione.”

Una commissione di inchiesta indipendente istituita dal Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU dopo la brutale guerra contro Gaza nel maggio 2021 ha affermato che Israele deve fare di più che “porre semplicemente fine all’occupazione” della terra che i dirigenti palestinesi esigono per un futuro Stato.

Di per sé la fine dell’occupazione non sarà sufficiente”, conclude il rapporto pubblicato a giugno. Aggiunge che devono essere prese misure per assicurare un uguale godimento dei diritti umani per i palestinesi.

Tuttavia fornisce prove che Israele “non ha intenzione di porre termine all’occupazione”, ma al contrario persegue il “completo controllo” dei territori occupati nel 1967.

La commissione conclude che il governo israeliano “ha agito in modo da alterare la demografia tramite il mantenimento di un contesto repressivo per i palestinesi e favorevole ai coloni israeliani.”

Gli USA hanno lasciato il Consiglio (per i Diritti Umani) nel 2018 imputando “un cronico pregiudizio” contro Israele e vi sono pienamente rientrati solo quest’anno.

Nel maggio 2021 un’offensiva militare durata 11 giorni contro Gaza ha ucciso oltre 260 palestinesi e ne ha feriti più di 2.000. In Israele sono state uccise 13 persone.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Ben & Jerry’s chiede un decreto ingiuntivo per impedire le vendite in Cisgiordania.

Martedì 9 agosto 2022 – Middle East Monitor

La società di gelati Ben & Jerry’s sta cercando di impedire alla società controllante Unilever Plc di trasferire la proprietà intellettuale e il marchio ad una società israeliana. Il caso è all’esame del tribunale federale del distretto sud di New York.

Un decreto ingiuntivo impedirà le vendite dei prodotti della società in Israele-Cisgiordania occupata, che il produttore di gelati aveva affermato essere contrarie ai suoi principi. Tuttavia il giudice del distretto USA Andrew Carter ha dichiarato ieri durante l’udienza che non era sicuro che Ben & Jerry’s avesse dimostrato di aver dovuto affrontate un danno immediato in seguito alla vendita da parte dell’Unilever della proprietà intellettuale e del marchio al licenziatario locale Avi Zinger.

Il 5 luglio Ben & Jerry’s ha citato Unilever, proprietaria sin dal 2000 della società con sede a Burlington nel Vermont, per cercare di bloccare la vendita della sua attività in Israele a Zinger. Lo scorso anno la società ha affermato di non voler più vendere i propri prodotti nella Cisgiordania occupata perché ciò non è “compatibile” con i propri principi. Questo ha indotto la Unilever a stringere un accordo con Zinger per rendere disponibile il gelato a tutti i consumatori in Israele e nei territori palestinesi occupati.

Sebbene la vertenza cerchi anche di bloccare la vendita, l’udienza di ieri era dedicata al fatto che Ben & Jerry’s possa sostenere una ingiunzione temporanea per impedire a Zinger di vendere prodotti nuovi o rimarchiati usando i suoi marchi registrati in lingua inglese.

Durante l’udienza il legale della società, Shahmeer Halepota, ha affermato che Zinger potrebbe produrre nuovi prodotti “in senso esattamente opposto” causando confusione al consumatore. “Invece di ‘ghiaccioli di pace’ potrebbe produrre ‘ghiaccioli carro armato’”, ha affermato Halepota, e i consumatori vedrebbero entrambi mentre camminano nel reparto di un supermercato.

Inoltre, secondo il Times of Israel, nell’udienza in tribunale i legali di Ben & Jerry’s hanno argomentato che “Ben & Jerry Israel” potrebbe usurpare l’immagine della società con un nuovo gusto e cambiando il suo marchio. I legali hanno sostenuto che per esempio Ben & Jerry’s potrebbe produrre un gusto a supporto dei palestinesi e la sede israeliana potrebbe prendere lo stesso gusto e marchiarlo come a favore delle colonie. La società considera il marchio riguardante la sua l’attivismo sociali come la chiave del successo della propria attività economica.

Il giudice non ha emesso subito la sentenza ma ha detto al legale di Ben & Jerry: “Non ho sentito nulla relativo a qualcosa di imminente. Non sembra … che niente stia per accadere nelle prossime settimane” ha riferito Reuters. Non ha detto quando avrebbe emesso la sentenza.

Unilever possiede più di 400 marchi, ivi inclusi il sapone Dove, la maionese Hellmann’s, la zuppa Knorr e la lozione per la pelle Vaseline.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Israele uccide almeno 10 palestinesi nella nuova campagna di bombardamenti contro Gaza

Ahmed Al-Sammak, Lubna Masarwa, Huthifa Fayyad da Gaza City, Palestina occupata

5 agosto 2022 – Middle East Eye

Un dirigente della Jihad Islamica è stato assassinato in un attacco che ha ucciso anche una bambina di 5 anni e ferito più di 55 civili

Nell’ultimo bombardamento contro la Striscia di Gaza di venerdì l’esercito israeliano ha ucciso almeno 10 palestinesi, tra cui una bambina di 5 anni e un importante leader militare.

Taiseer al-Jabari, capo della divisione nord delle Brigate di al-Quds (Saraya al-Quds), l’ala militare del movimento Jihad Islamica, è stato ucciso durante attacchi aerei che hanno colpito varie località di Gaza. Secondo il ministero della Sanità palestinese almeno 55 persone sono rimaste ferite.

Gli attacchi iniziali hanno colpito tre diverse zone: Khan Younis nel sud della Striscia, Shujaiya a nord e un edificio residenziale nel centro di Gaza.

L’esercito afferma di aver preso di mira la Jihad Islamica con l’operazione denominata “Breaking Dawn” [Sorgere del sole].

Hamas, che governa di fatto Gaza, e la Jihad Islamica, la seconda più importante organizzazione armata della Striscia, hanno promesso una dura risposta all’aggressione israeliana. 

Ziad al-Nakhalah, capo della Jihad Islamica, ha affermato che non ci sono limiti in questa guerra e che Tel Aviv verrà presa di mira.

Non ci sono linee rosse in questa battaglia e Tel Aviv, come tutte le città israeliane, finirà sotto i razzi della resistenza,” ha affermato.

Gaza è stata colpita da attacchi aerei e dal fuoco dell’artiglieria. La Jihad Islamica ha affermato di aver sparato 100 razzi venerdì notte come risposta iniziale.

Fawzi Barhoum, portavoce di Hamas, ha detto che le fazioni della resistenza a Gaza sono unite e pronte a rispondere con “tutta la forza”.

Nel contempo il primo ministro israeliano Yair Lapid ha affermato che il Paese “non consentirà alle organizzazioni terroristiche della Striscia di Gaza di dettare le regole” e che l’esercito israeliano continuerà ad agire contro l’organizzazione Jihad Islamica “per eliminare la minaccia che rappresenta per i cittadini di Israele.”

Un vero e proprio crimine”

Khalil Kanon vive al dodicesimo piano della Palestine Tower, un edificio nel centro di Gaza che è stato colpito venerdì durante il primo attacco aereo israeliano. Dice a MEE che il bombardamento ha ferito sua moglie e sua madre, ha terrorizzato i suoi figli e tutta la famiglia è stata macchiata di sangue.”

Stavo leggendo le notizie. Improvvisamente abbiamo sentito bombardamenti assordanti. Una mano di mia madre e una gamba di mia moglie sono state ferite, e i miei figli erano terrorizzati,” racconta Kanon.

Dopo il bombardamento, un vicino di Kanon è corso ad aiutare e ha portato fuori dall’edificio i suoi figli e sua moglie, mentre Kanon aspettava gli infermieri per aiutarli a portare via sua madre dallo stabile.

Eravamo tutti sporchi di sangue. Guarda, c’è una macchia di sangue sulla mia maglietta.

Non avrei mai pensato che questo edificio potesse essere bombardato. Che razza di vita abbiamo?”

Ahmed al-Bata, un giornalista, quando l’edificio è stato bombardato stava aspettando l’ascensore per salire al quattordicesimo piano della Palestine Tower, dove si trova il suo ufficio.

Improvvisamente ho sentito tre massicci, intensi bombardamenti,” racconta a MEE.

La scena è stata inimmaginabile. Dopo qualche minuto decine di abitanti hanno iniziato a scappare urlando. Quasi tutti erano bambini e donne. Decine di loro erano ferite. La scena era talmente orribile. È un vero e proprio crimine.”

Arresto di un leader della Jihad Islamica

L’attacco è giunto dopo giorni di blocco imposto dalle autorità israeliane agli abitanti che vivono nei pressi di Gaza, e il dispiegamento di truppe nella zona. Le misure hanno incluso la chiusura di strade e il blocco del servizio ferroviario vicino a Gaza.

L’esercito israeliano ha affermato di averle messe in atto a causa del timore di attacchi di rappresaglia da parte della Jihad Islamica a Gaza dopo l’arresto nella città di Jenin, nella Cisgiordania occupata, di un importante dirigente dell’organizzazione, Bassam al_Saadi.

Nell’incursione in città è stato ucciso anche il diciassettenne palestinese Dirar al-Kafrayni, colpito a morte dalle forze israeliane. 

Nell’incursione è stato arrestato anche il genero di Saadi, Ashraf al-Jada. Durante l’arresto la moglie di Saadi è stata ferita e portata in ospedale per essere curata. Immagini di una telecamera di sorveglianza dell’arresto di Saadi mostrano soldati israeliani che trascinano sul pavimento il sessantaduenne. Sarebbe anche stato ferito da un cane dell’esercito israeliano.

Quando si sono diffuse notizie dell’incursione mortale, gruppi di persone si sono riuniti nel campo di rifugiati di Jenin e nella vicina città di Nablus, mentre sostenitori hanno espresso solidarietà a un personaggio molto rispettato. La Jihad Islamica, considerata la seconda milizia più importante della resistenza armata palestinese dopo Hamas, ha affermato di aver messo in allerta ovunque i propri combattenti.

Ameer Makhoul, un importante attivista e scrittore palestinese, dice a MEE: “Nessuno dovrebbe essere sorpreso dall’aggressione israeliana contro Gaza e del fatto che siano stati presi di mira i dirigenti delle brigate di al-Quds e i civili.”

Makhoul ha aggiunto che il massiccio schieramento dell’esercito sul e attorno al confine con Gaza non è stato “un’iniziativa difensiva” o per prevenire la risposta della Jihad Islamica all’arresto di Saadi.

Al contrario, l’arresto è avvenuto come parte della preparazione di una nuova aggressione con obiettivi e strategie, anche se di portata limitata,” ha affermato.

Meron Rapoport, un esperto commentatore israeliano, ha affermato che la tempistica dell’operazione israeliana è stata strana e che Israele ha essenzialmente punito l’organizzazione Jihad Islamica perché non attaccasse come rappresaglia per l’arresto di Saadi, dato che il gruppo armato ha lanciato razzi solo dopo che Israele ha iniziato attacchi aerei contro Gaza.

Israele arresta un importante membro della Jihad Islamica in Cisgiordania, e il gruppo non risponde,” continua Rapoport, in riferimento all’arresto di Bassam al-Saadi all’inizio di questa settimana a Jenin.

Ma poi “Israele ha imposto il coprifuoco a decine di migliaia di abitanti nelle zone adiacenti a Gaza in base al fatto che la Jihad Islamica progettava una risposta, poi uccide importanti membri dell’organizzazione e civili a Gaza, in base al fatto che pianificavano di attaccare Israele. Il risultato, dopo che Israele avrebbe tentato di impedire attacchi della Jihad Islamica, è che ora arrivano razzi, cosa che a quanto pare non sarebbe avvenuta se Israele non avesse attaccato per primo.”

Gli USA difendono Israele, l’ONU sollecita una riduzione della tensione

In risposta al bombardamento di Gaza da parte di Israele gli Stati Uniti hanno detto che il Paese ha il “diritto di difendersi”.

L’attacco giunge poche settimane dopo che il presidente USA Joe Biden ha visitato Israele. Prima del viaggio la sua amministrazione avrebbe chiesto a Israele di rimandare ogni escalation contro i palestinesi “a dopo la visita di Biden” a metà luglio.

La richiesta è stata condannata dagli attivisti palestinesi, che hanno detto a MEE che ciò è “indicativo della vera politica degli Stati Uniti nei confronti di Israele,” in quanto gli USA non si preoccupano di come Israele tratta i palestinesi.

Nel contempo l’ONU ha emanato un comunicato più severo, affermando che non ci sono “giustificazioni” per gli attacchi contro i civili.

Sono profondamente preoccupato dalla continua escalation tra i miliziani palestinesi e Israele, compresa l’odierna uccisione mirata di un dirigente della Jihad Islamica palestinese all’interno di Gaza,” ha affermato venerdì sera in un comunicato Tor Wennesland, il coordinatore speciale dell’ONU per il processo di pace in Medio Oriente.

La continua escalation è molto pericolosa,” ha affermato Wennesland.

Israele impone dal 2007 un durissimo blocco contro la Striscia di Gaza, che secondo le associazioni per i diritti umani rappresenta una punizione collettiva per i due milioni di abitanti dell’enclave. Israele impedisce l’importazione di materiali ed attrezzature a Gaza ed ha imposto rigide restrizioni alle esportazioni, che hanno portato a una condizione di “paralisi” in molti settori dell’economia di Gaza.  

Anche l’Egitto sostiene l’assedio, controllando i movimenti in entrata e in uscita da Gaza sulla propria frontiera.

Secondo il ministero della Sanità di Gaza nel maggio dello scorso anno un attacco militare israeliano contro Gaza ha ucciso più di 260 palestinesi, tra cui 66 minorenni, e sfollato almeno 72.000 persone.

In un rapporto Human Rights Watch [prestigiosa ong per i diritti umani con sede negli USA, ndt.] ha affermato che gli attacchi aerei israeliani del 2021 hanno preso di mira zone nelle cui vicinanze non c’erano prove dell’esistenza di obiettivi militari, il che rappresenta un crimine di guerra.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Le forze israeliane uccidono un minore durante un’incursione nel campo profughi di Jenin

Yumna Patel

Mercoledì 3 agosto 2022 – Mondoweiss

Secondo Defense for Children International – Palestine, un cecchino israeliano dal tetto di un edificio residenziale nel campo profughi ha sparato nella schiena a Dirar al-Kafrayni da una distanza di circa 90 metri. È il diciottesimo minore palestinese ad essere ucciso dall’inizio del 2022.

Lunedì notte le forze israeliane hanno colpito e ucciso un ragazzo palestinese di 17 anni durante una incursione nel campo profughi di Jenin, portando a 18 dall’inizio dell’anno il bilancio dei minori uccisi dal fuoco israeliano.

Secondo Defense for Children International – Palestine (DCIP) Dirar al-Kafrayni di 17 anni è stato colpito alla schiena ed ucciso da un cecchino israeliano alle 22:35 circa di lunedì 1 agosto. Il ministero della sanità palestinese ha informato che Kafrayni aveva 17 anni, mentre secondo il Defense for Children International – Palestine DCIP era un sedicenne.

Secondo il DCIP, un cecchino israeliano dal tetto di un edificio residenziale nel campo profughi ha sparato a al-Kafrayni da una distanza di circa 90 metri. Il proiettile è entrato nella schiena dalla spalla destra e si è dilatato nel suo corpo, causando una “grave emorragia interna” ha affermato il DCIP.

È stato dichiarato morto poco prima delle 23. Il ministero della Sanità ha riferito che un secondo palestinese è stato ferito con proiettili veri e che è in condizioni di gravità moderata.

Al-Kafrayni è stato colpito durante un’incursione militare israeliana su larga scala nel campo profughi di Jenin, durante la quale le forze israeliane hanno arrestato Bassam al-Saadi, un importante dirigente del gruppo palestinese Jihad Islamica. Durante l’operazione è stato arrestato anche il genero di Al-Saadi, Ashraf al-Jada.

I mezzi d’informazione palestinesi hanno riferito che le forze israeliane hanno violentemente arrestato al-Saadi dopo aver circondato la sua casa nel campo profughi. A quanto si dice la moglie di al-Saadi, Nawal, è stata ferita durante l’arresto e trasportata in ospedale per le cure. Video e foto effettuate dopo l’incursione mostrano pozze di sangue sul pavimento della casa della famiglia al-Saadi.

L’incursione israeliana nel campo ha provocato uno scontro a fuoco tra i combattenti della Jihad Islamica e l’esercito israeliano. In una dichiarazione la Jihad Islamica ha affermato che al-Kafrayni faceva parte del gruppo e che in seguito all’arresto di al-Saadi i combattenti del gruppo hanno dichiarato lo stato di allerta.

Al-Saadi è un ex-prigioniero politico ed è il più importante membro del movimento della Jihad Islamica nella Cisgiordania occupata. È stato recentemente rilasciato nel 2020 dopo una sentenza che lo ha costretto a due anni di prigione. Secondo Al Jazeera il suo ultimo arresto nel 2018 è avvenuto dopo una ricerca per localizzarlo di cinque anni da parte dell’esercito israeliano.

Due dei figli di al-Saadi sono stati uccisi dall’esercito israeliano durante l’invasione del campo su larga scala e letale durante la seconda Intifada nel 2002.

Il campo profughi di Jenin è stato l’obiettivo di decine di incursioni su larga scala da parte dell’esercito israeliano dall’inizio dell’anno, nel tentativo di sopprimere il crescente movimento di resistenza armata nel campo, di cui le ali militari dei movimenti Jihad Islamica e Fatah sono le più attive.

L’11 maggio le forze israeliane hanno colpito e ucciso la giornalista palestinese-americana Shireen Abu Akleh, una giornalista esperta di Al Jazeera, mentre stava coprendo una incursione nel campo.

Dall’inizio dell’anno 80 palestinesi sono stati uccisi da o sono morti come risultato della violenza dell’esercito israeliano e dei coloni, secondo la documentazione di Mondoweiss. La grande maggioranza degli uccisi sono stati colpiti durante raid notturni, come quello di lunedì scorso nel campo profughi di Jenin.

Almeno sette dei palestinesi uccisi nel 2022 sono stati colpiti durante incursioni nel campo profughi di Jenin.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




I bulldozer dei coloni abbattono negozi palestinesi nella Città Vecchia di Hebron

Basil Adra e Yuval Abraham 

1 agosto 2022, +972Magazine

Per vent’anni i coloni hanno saccheggiato e bruciato negozi palestinesi chiusi dall’esercito israeliano. Ora li stanno abbattendo per espandere una colonia.

Tareq al-Kiyal aveva una volta un negozio nella Città Vecchia di Hebron. Per più di 20 anni gli è stato impedito di accedervi dopo che l’esercito ne ha ordinato la chiusura e proibito ai palestinesi di entrare nell’area. Ora è in rovina: il mese scorso un colono israeliano ha distrutto il negozio con un bulldozer.

Il negozio di Al-Kiyal non è l’unico; il 6 luglio i coloni hanno distrutto quattro negozi palestinesi che l’esercito israeliano aveva inizialmente chiuso in seguito al massacro della moschea di Ibrahimi nel 1994, quando un colono israeliano uccise a colpi di arma da fuoco 29 fedeli musulmani. Sette anni dopo, al culmine della Seconda Intifada, l’esercito ha emesso un ordine formale di chiusura. Secondo i residenti palestinesi locali, anche altri due negozi sono stati parzialmente distrutti dai coloni.

I negozi si trovavano nell’area nota come mercato di Kiyal (detto anche “mercato dei cammelli”), a pochi metri dal complesso della colonia di Avraham Avinu, nel cuore di Hebron. In passato, i proprietari dei negozi palestinesi vendevano dolci, farina e formaggi. “Era la principale fonte di reddito per la mia estesa famiglia”, ha detto al-Kiyal. Abbiamo circa 20 negozi e magazzini in quest’area”.

Un funzionario dell’Amministrazione Civile – il ramo dell’esercito israeliano responsabile della vita quotidiana dei palestinesi nella Cisgiordania occupata – ha definito le azioni dei coloni “lavori di pulizia”, eseguiti secondo lui “senza autorizzazione e senza previo coordinamento”. Il portavoce dell’Amministrazione Civile ha affermato che, dopo l’intervento dell’esercito, “i lavori sono stati immediatamente sospesi, senza alcun danno alle cose”.

Ma la documentazione dei palestinesi nel giorno delle demolizioni mostra il bulldozer in azione e una visita al sito due settimane fa ha rivelato che gli edifici erano stati notevolmente danneggiati. “Nulla si muove nella Città Vecchia – e certamente nessun bulldozer entra e distrugge gli edifici – senza il via libera dell’esercito”, dice al-Kiyal.

Dalla Seconda Intifada, circa 2.500 negozi palestinesi sono stati chiusi nell’area conosciuta come H2, la parte del centro di Hebron sotto il controllo civile e militare israeliano, abitata da circa 35.000 palestinesi. Alcuni negozi sono stati chiusi su ordine militare, mentre altri sono stati abbandonati dai proprietari a causa delle severe restrizioni imposte dall’esercito alla circolazione dei palestinesi nell’area.

Quello che era il centro commerciale della Cisgiordania meridionale è diventato una città fantasma, comprese diverse strade quasi totalmente interdette ai palestinesi. Circa 800 coloni ebrei vivono nell’area sotto la piena protezione di un analogo numero di soldati e beneficiando dei diritti civili israeliani, mentre i loro vicini palestinesi vivono sotto il regolamento militare.

“In passato c’era lì un vivace mercato commerciale”, rammenta al-Kiyal. “Nel 2001 i negozi della mia famiglia sono stati chiusi su ordine militare. Negli anni successivi, i coloni hanno cercato di rimuovere le porte e trasformare il posto in un parcheggio per le loro auto. Ora hanno semplicemente distrutto i nostri negozi”. I familiari hanno sporto denuncia alla polizia, che ha precisato che “al ricevimento della denuncia è stata aperta un’indagine, ora in fase iniziale, nell’ambito della quale saranno svolte tutte le azioni necessarie per acquisire la verità.”

“L’obiettivo è ripulire la zona dai palestinesi”

Danneggiare gli edifici palestinesi chiusi non è un fenomeno nuovo. Hagit Ofran, direttore del programma Peace Now’s Settlement Watch [Osservatorio sulle colonie di Peace Now, ONG di patrocinio liberale e attivismo, ndt.] che monitora e fa campagne contro l’edilizia israeliana nella Cisgiordania occupata, ha descritto come ci si sente a camminare tra questi negozi in strade riservate solo agli ebrei: “Ci sono negozi dove sbircio dentro e vedo un ristorante con un calendario alla parete dove l’anno è ancora il 2001. Le sedie sono tirate su come si farebbe prima di pulire i pavimenti a fine giornata. Ci sono ancora le ricevute dei clienti sul tavolo.

“Un anziano palestinese, che aveva un negozio dove vendeva olio, mi ha detto che non è ancora in grado di entrarvi per svuotarlo della sua attrezzatura”, continua Ofran. “Ad oggi ha ancora dei costosi macchinari lì dentro.”

I coloni iniziarono a fare irruzione in questi negozi dopo la loro chiusura in seguito al massacro della moschea Ibrahimi, e soprattutto durante la Seconda Intifada. “Hanno fatto dei buchi nei muri e sono andati negozio dopo negozio, attraverso i muri, saccheggiando”, ha spiegato Ofran. “Ancora oggi, di tanto in tanto, irrompono in un altro negozio e prendono ciò che vi è rimasto.

Alcuni negozi sono diventati spazi ricreativi e in altri ci sono persone che oggi ci vivono. Hanno semplicemente preso possesso. Molti dei negozi sono diventati magazzini dei coloni. Vedo all’interno materassi, attrezzi da giardino e tavoli.”

Tawfiq Jahshan è direttore dell’ufficio legale del Comitato per la Costruzione di Hebron, un’organizzazione palestinese che lavora per lo sviluppo economico della Città Vecchia e la documentazione delle violazioni dei diritti umani nell’area. Ha detto a +972 che i palestinesi sul posto hanno chiamato la polizia mentre i coloni stavano distruggendo gli edifici. “Ci è stato detto al telefono che i coloni si muovevano per conto proprio, senza alcun collegamento con l’esercito, e che sarebbero andati ad arrestarli. E dopo infatti le demolizioni si sono interrotte e abbiamo sporto denuncia alla polizia”.

Secondo Jahshan, durante la Seconda Intifada l’esercito ha emesso 512 ordini di chiusura presumibilmente temporanea per i negozi nell’area di proprietà palestinese. Nella maggior parte dei casi, però, i titolari dei negozi abitano nelle vicinanze e aspettano ancora di riaprirli.

“Gli ordini di chiusura sono stati emessi con il pretesto della sicurezza, ma quello che è successo mostra che il vero obiettivo è ripulire l’area dai palestinesi e trasferire i terreni nelle mani dei coloni”, dice Jahshan. “I negozi che sono stati distrutti si trovano a 30-40 metri dalla colonia di Avraham Avinu. Li hanno distrutti in modo da poter espandere ulteriormente [la colonia]”.

“Hanno fatto di questo posto un museo dell’apartheid”

Secondo un rapporto redatto dall’Amministrazione Civile nel 2001 sul tema “Violazioni della legge – Ebrei” nella città di Hebron, i coloni agiscono secondo un metodo “sistematico e pianificato” per forzare gli edifici e i negozi palestinesi chiusi da ordini militari. In una serie di diapositive intitolate “Il Metodo”, vengono descritte tre fasi: i leader dei coloni “identificano un obiettivo” – un edificio o un negozio di proprietà palestinese; i giovani coloni irrompono, saccheggiano o danno fuoco alle attrezzature all’interno ed infine entrano nel “bersaglio” attraverso un foro praticato nel muro interno, attraverso un cortile, o attraverso uno stretto passaggio, con lo scopo di stabilirvisi. La presentazione contiene un lungo elenco di negozi di proprietà palestinese che i coloni hanno bruciato o saccheggiato in questo modo.

Nell’ultima diapositiva, l’Amministrazione Civile esprime preoccupazione per il danno all’immagine di Israele a seguito di queste azioni. “Le attività ebraiche a Hebron qui descritte, sono rappresentate, anche se in modo errato, come se fossero svolte sotto la copertura del governo israeliano”, si legge nella presentazione. “A Hebron lo Stato di Israele si presenta molto male rispetto allo stato di diritto.”

Imad Abu Shamsiyah, la cui casa si trova nella Città Vecchia di Hebron, ha documentato nel 2016 l’esecuzione di un aggressore palestinese disarmato da parte del soldato israeliano Elor Azaria. Da allora, Abu Shamsiyah è stato vittima di continue vessazioni da parte sia dei coloni che delle forze di sicurezza israeliane.

Oggi, Abu Shamsiyah guida un’organizzazione di volontariato chiamata Human Rights Defenders, i cui volontari documentano la dura realtà che li circonda e la postano su Facebook, compreso il video dei coloni che hanno demolito i negozi palestinesi alcune settimane fa. In un altro recente video caricato sulla pagina Facebook, si possono vedere coloni che prendono possesso di una casa palestinese nella Città Vecchia.

Mentre Abu Shamsiyah parlava dei negozi distrutti, i soldati stavano trattenendo un ragazzo palestinese al vicino posto di blocco. Nell’area H2, che rappresenta circa il 20% dell’area totale di Hebron, l’esercito israeliano ha allestito circa 20 posti di blocco, rendendovi i movimenti dei palestinesi difficili al punto da essere quasi impossibili. Alcuni giovani si sono avvicinati ai soldati e Abu Shamsiyah ha gridato loro di stare alla larga.

Spiega che i soldati consentono l’ingresso nell’area solo ai palestinesi di un elenco che si limita ai proprietari di appartamenti. “I miei genitori, per esempio, non possono venire a trovarmi. Non possono entrare nel quartiere passando per il posto di blocco. Sono fuori lista. Anche mio figlio non può venire a trovarmi. È stato arrestato più volte, quindi il suo nome è stato cancellato.

La distruzione dei negozi è una piccola parte di una grande ingiustizia”, continua Abu Shamsiyah. “Una volta, questo era il centro della città. Ricordo come prendevamo i taxi da qui per Jaffa, Yatta e Gaza. Ora è tutto deserto. Hanno trasformato questo posto in un museo dell’apartheid”.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)