Il paradigma umanitario della Palestina serve solo gli interessi israeliani

Ramona Wadi

10 ottobre 2022 Middle East Monitor

Antonio Guterres, Segretario Generale dell’ONU, ha ancora una volta sottolineato che l’UN Relief and Works Agency for Palestine Refugees (UNRWA) [Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e il Lavoro per i rifugiati palestinesi, N.d.T.] e gli stessi rifugiati palestinesi sono sottoposti a un ciclo di sfruttamento violento che più che altro soddisfa il paradigma umanitario dell’organizzazione internazionale. Guterres, durante un incontro a latere della 77esima Assemblea Generale dell’ONU, ha invocato ulteriori donazioni per l’agenzia, dicendo che c’è stata una continua discrepanza fra il supporto retorico all’UNRWA e i finanziamenti.

Descrivendo l’agenzia come “una rete di protezione per i più vulnerabili,” Guterres ha aggiunto: “Continuiamo tuttavia a tenere l’UNRWA intrappolata in un limbo finanziario. È ora di abbinare l’enorme sostegno per il mandato con finanziamenti alle sue attività più solidi e prevedibili. Cerchiamo di aiutare l’UNRWA ad aiutare i rifugiati palestinesi. Cerchiamo di investire in pace, stabilità e speranza.”

Anche se l’UNRWA ha certamente fornito servizi essenziali ai rifugiati palestinesi dal 1949, la sua totale dipendenza già agli inizi da fondi esterni non può essere separata dall’abbandono del problema dei rifugiati palestinesi da parte dell’ONU. Il mandato dell’UNRWA doveva essere temporaneo fino a quando non si fosse trovata una soluzione per i rifugiati palestinesi. Eppure, anche prima della sua fondazione, la complicità dell’ONU nel fornire a Israele il quadro complessivo per le espulsioni forzate dei rifugiati palestinesi grazie al Piano di Partizione 1947 ha contribuito alla crisi attuale. Non solo i rifugiati palestinesi dipendono dall’UNRWA, ma l’agenzia stessa dipende quasi totalmente da finanziamenti esterni grazie a donazioni volontarie di Stati membri dell’ONU.

I rifugiati palestinesi sono anche stati isolati dalle politiche del diritto al ritorno che è ora il più usato per giustificare l’esistenza dell’UNRWA. Non è mai stato permesso di esercitare questo legittimo diritto a causa del rifiuto di Israele di accettarlo, anche se l’adesione all’ONU dello Stato occupante dipendeva dal ritorno dei rifugiati. Perciò l’UNRWA è diventata, più o meno, una presenza fissa. Per la comunità internazionale l’esistenza dell’UNRWA, dipendente com’è dalle condizioni di neutralità che generano impunità per il trasferimento forzato dei palestinesi attuato da Israele, è certamente un’opzione migliore che accordarsi collettivamente su un processo di decolonizzazione che permetterebbe il ritorno dei palestinesi alle loro terre. La Risoluzione 194 dell’ONU stipula le condizioni per il diritto al ritorno dei palestinesi, avalla tacitamente il colonialismo e assolve Israele da tutte le responsabilità per aver creato i rifugiati palestinesi fin dall’inizio per fondare un’entità coloniale in Palestina.

Il mese scorso organizzazioni ebraiche e sioniste in Australia hanno citato la solita litania di ragioni e accuse per giustificare il motivo per cui il governo australiano non dovrebbe raddoppiare la sua donazione finanziaria all’UNWRA portandola da 10 a 20 milioni di dollari. “L’UNRWA contribuisce a perpetuare il conflitto,” ha affermato Jeremy Leibler, presidente della Federazione sionista d’Australia. Tuttavia l’unico conflitto è il diretto risultato del colonialismo di Israele e finanziare l’UNRWA è il modo più sicuro per la comunità internazionale di evitare di fare i conti direttamente non solo con Israele, ma anche con la propria complicità.

Forse Guterres potrebbe fare un appello diverso. Per esempio potrebbe invocare un processo di decolonizzazione in parallelo al finanziamento dell’UNRWA che permetterebbe all’agenzia di condurre la propria missione umanitaria con in mente l’obiettivo finale, in contrasto con il pantano in cui l’agenzia e i rifugiati palestinesi sono stati bloccati per decenni. Il paradigma umanitario ha sempre solo servito gli interessi israeliani, e continua a farlo. Guterres non dovrebbe far finta del contrario.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)