L’ennesima elezione in Israele: perché ai palestinesi non interessa?

Mohamad Kadan

30 ottobre 2022-Aljazeera

Molti palestinesi con cittadinanza israeliana non voteranno il 1° novembre, sentendosi delusi dai loro politici.

Quando il 1° novembre Israele terrà la sua quinta elezione in meno di quattro anni, la maggior parte del mondo lo vedrà come un altro segno di divisione nella politica israeliana. La lotta dell’ex primo ministro Benjamin Netanyahu per mantenere il potere e sfuggire all’accusa di corruzione ha incoraggiato la frammentazione politica e ha prodotto una serie di governi instabili.

Ma mentre in superficie la politica israeliana può sembrare afflitta da instabilità, c’è un notevole consenso politico su questioni chiave in materia di sicurezza, politica economica ed estera. Invece una reale divisione ha regnato nella comunità palestinese in Israele.

In effetti prima del voto l’umore tra noi, palestinesi con cittadinanza israeliana, è piuttosto pessimista. Secondo un recente sondaggio non più del 39% dei palestinesi che hanno diritto di voto in Israele si presenterà alle urne. Ciò potrebbe avere un grave effetto sui risultati, portando potenzialmente i voti dei partiti palestinesi al di sotto della soglia necessaria per entrare alla Knesset.

Allora perché noi palestinesi siamo così riluttanti ad andare alle urne in Israele? Molto ha a che fare con le strategie dei nostri partiti che non sono riuscite a produrre alcun cambiamento significativo nella situazione precaria in cui ci troviamo.

Un cambio di direzione

I palestinesi con cittadinanza israeliana hanno avuto il diritto di votare alle elezioni israeliane sin dalla fondazione dello Stato nel 1948.

I partiti palestinesi, anche quando si sono frammentati, sono rimasti ideologicamente vicini l’uno all’altro e fedeli al loro ruolo di portavoce della comunità palestinese, per richiamare l’attenzione sulle ingiustizie che ha dovuto affrontare e opporsi ai governi israeliani di qualsiasi orientamento politico e alle loro politiche sioniste.

È stato così fino al 2015, quando è stata formata da una coalizione di partiti palestinesi la Joint List [Lista Unita]. Ayman Odeh, il leader della nuova formazione, immaginava che la presenza palestinese alla Knesset avrebbe potuto giocare un ruolo nella costruzione di una grande base liberaldemocratica in Israele. Quell’anno ha vinto 13 seggi alla Knesset ed è riuscita a mobilitare circa il 63% degli elettori palestinesi aventi diritto, 10 punti percentuali in più rispetto alle elezioni precedenti.

Nelle elezioni del settembre 2019, la Joint List ha vinto nuovamente 13 seggi, diventando la terza forza dell’organo legislativo. Il successo dell’alleanza è arrivato mentre Netanyahu ha condotto una campagna tossica e anti-palestinese, sperando di mantenere il potere.

Odeh si sentiva fiducioso dopo questi risultati e ha deciso di schierarsi contro Netanyahu e con il suo avversario, l’ex capo di stato maggiore Benny Gantz. Di conseguenza, dopo le elezioni ha annunciato che la Joint List avrebbe sostenuto Gantz per la carica di primo ministro – [sarebbe stata] la prima volta che un partito palestinese avrebbe fatto parte della maggioranza di un premier sionista.

Gantz non solo non è riuscito a formare un governo, ma ha respinto con arroganza il sostegno della Joint List. Dopo le elezioni del marzo 2020, in cui la Joint List ha ottenuto 15 seggi, la Knesset è stata nuovamente bloccata e ancora una volta la coalizione dei partiti palestinesi ha appoggiato l’ex capo di stato maggiore contro Netanyahu. Questa volta il “tradimento” di Gantz è stato ancora più eclatante: ha deciso di formare un governo di unità nazionale con il suo avversario [cioè Netanyahu, ndt.].

Un anno dopo, Mansour Abbas, capo del partito Ra’am, ha deciso di fare un passo avanti nella strategia di Odeh. Il suo partito è uscito dalla coalizione Joint List prima delle elezioni del marzo 2021 e ha iniziato a dialogare ancora di più con i partiti israeliani.

Non voglio far parte di nessun blocco, di destra o di sinistra. Rappresento qui un altro blocco che mi ha eletto per servire il mio popolo e mi ha incaricato di presentare le richieste dell’opinione pubblica araba”, ha detto dopo le elezioni in cui il suo partito ha ottenuto quattro seggi.

L’argomento avanzato da Abbas era che i palestinesi devono uscire dal loro autoisolamento politico ed essere più coinvolti nella formazione del governo israeliano, indipendentemente dalla sua ideologia. Ciò avrebbe consentito loro una maggiore influenza politica e l’opportunità di difendere i propri interessi a livello di governo.

Tuttavia nella sua collaborazione con i partiti politici israeliani Abbas ha rilasciato una serie di dichiarazioni problematiche. Ha affermato che “Israele è uno Stato ebraico e tale rimarrà” e ha rifiutato di descrivere i coloni israeliani come “violenti”. Inoltre ha sostenuto di non accettare di chiamare Israele uno “Stato di apartheid”.

Strategia fallita

Il cambio di strategia è stato disastroso per la Joint List. Ha profondamente deluso molti elettori palestinesi che hanno toccato con mano che i partiti palestinesi non dovrebbero sostenere un primo ministro sionista, tanto meno uno accusato di crimini di guerra contro i palestinesi. Ciò si è riflesso nelle elezioni israeliane del 2021, quando [la Joint List] ha ottenuto solo sei seggi.

In apparenza la strategia di Abbas poteva sembrare aver più successo, ma in realtà non è stato così. La frammentazione della Knesset e la sua volontà di impegnarsi con i partiti israeliani lo [Abbas] hanno reso l’ago della bilancia nel complicato processo di formazione del governo nel 2021. Ha raggiunto un accordo con la coalizione israeliana, che ha formato il governo, per garantire maggiori finanziamenti per le comunità palestinesi in Israele, una sospensione delle demolizione delle case palestinesi e il riconoscimento delle città beduine palestinesi.

Tre villaggi sono stati effettivamente “legalizzati”, ma ciò è avvenuto in cambio dell’accordo di Abbas e del suo partito alla creazione di nuovi insediamenti israeliani nel deserto del Naqab [Negev in ebraico, ndt]. Le case palestinesi continuano a essere demolite dagli israeliani e non si è visto nessun cambiamento significativo nei settori dell’istruzione, della salute, delle infrastrutture e altro nelle comunità palestinesi

Secondo molti palestinesi Abbas ha rinunciato a troppo per troppo poco. In cambio di un miglioramento temporaneo invece che di soluzioni strutturali ai grandi problemi che la comunità deve affrontare, ha rinnegato le posizioni palestinesi di lunga data contro l’occupazione israeliana e l’apartheid.

Le sue posizioni controverse hanno anche minato la posizione palestinese nella politica israeliana, legando la legittimità delle richieste dei palestinesi alla loro accettazione del sionismo piuttosto che ai loro diritti come comunità che vive su questa terra da secoli.

Sia le strategie di Abbas che quelle di Odeh sono state criticate, anche da ex colleghi della loro coalizione. Sami Abou Shehadeh, dell’Assemblea Nazionale Democratica (Al-Tajammu’), ha suggerito che i partiti palestinesi dovrebbero tornare alla loro posizione di opposizione.

Ma quella strategia è stata inefficace anche perché funziona all’interno dei limiti dello spazio politico israeliano, che è appunto quello dell’apartheid. Per più di sette decenni votare e avere membri palestinesi alla Knesset non ha fermato l’espropriazione israeliana dei palestinesi, la violenza contro i palestinesi o l’approvazione di leggi anti-palestinesi.

Le comunità palestinesi in Israele sono estremamente povere, prive di risorse, sottosviluppate e trascurate. Le infrastrutture si stanno sgretolando, i tassi di criminalità sono alti, la disoccupazione è schiacciante e la povertà è molto diffusa.

Noi palestinesi sappiamo che non c’è speranza di cambiamento con ciò che i nostri politici offrono in questo momento. Mentre si avvicina il voto del primo novembre, io, come molti palestinesi, mi chiedo: perché votare e agire come se avessimo diritti o pari cittadinanza?

Sarò uno dei tanti palestinesi che non voteranno. La mia speranza è che la bassa affluenza alle urne sia un campanello d’allarme per la classe politica palestinese e inneschi un importante dibattito aperto all’interno della comunità sulla strada da seguire.

Se per noi negli ultimi 70 anni nulla è cambiato e la situazione sta solo peggiorando, è evidente che abbiamo bisogno di una revisione radicale della politica palestinese in Israele.

Le opinioni espresse in questo articolo sono proprie dell’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Al Jazeera.

(traduzione dall’inglese di Giuseppe Ponsetti)