Dopo anni di inerzia diplomatica, cosa può offrire l’ICJ[ Corte Internazionale di Giustizia ndt] ai palestinesi?

Hugh Lovatt

1 gennaio 2023 – +972 Magazine

Il voto delle Nazioni Unite favorevole alla richiesta di una sentenza sull’occupazione è un atto d’accusa sull’incapacità di portare Israele di fronte alla giustizia e comporta sia rischi che opportunità.

Questo è stato un anno difficile e sanguinoso per i palestinesi, che hanno sopportato i dodici mesi più letali in Cisgiordania dal 2005 insieme ad una continua emarginazione sulla scena internazionale. L’Assemblea generale delle Nazioni Unite, tuttavia, ha offerto loro una vittoria dell’ultimo minuto, avviando la richiesta di una sentenza ad alto rischio da parte della Corte Internazionale di Giustizia (ICJ) sulla legalità della prolungata occupazione israeliana dei territori palestinesi. Il voto del 30 dicembre da parte degli Stati membri ha anche chiesto alla Corte di delineare le responsabilità dei Paesi nel porre fine all’occupazione che Israele ha rafforzato profondamente dal 1967. La risposta della Corte potrebbe arrivare già nell’estate del 2023.

Funzionari palestinesi ed esperti di diritto internazionale stavano contemplando un simile passo da diversi anni. Ma la decisione di procedere sembra in gran parte dettata dalla crescente frustrazione del presidente Mahmoud Abbas per l’attuale inerzia diplomatica, il disimpegno degli Stati Uniti e l’elezione di un governo di estrema destra in Israele. Sebbene il parere consultivo non vincolante rischi di non essere all’altezza delle aspettative palestinesi, potrebbe comunque rappresentare un’importante pietra miliare negli sforzi per chiedere conto a Israele ai sensi del diritto internazionale della sua pluridecennale violazione dei diritti dei palestinesi.

L’ICJ è il principale organo giudiziario delle Nazioni Unite, con sede a L’Aja. Istituito nel 1945, è composto da 15 giudici eletti dall’Assemblea Generale e dal Consiglio di Sicurezza. Il tribunale decide sulle controversie tra Stati e può anche fornire pareri consultivi su questioni di diritto internazionale.

Ciò a differenza della Corte Penale Internazionale (ICC), anch’essa con sede a L’Aja, che processa individui per crimini internazionali come genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità ai sensi dello Statuto di Roma. Dal marzo 2021 l’ICC ha portato avanti le proprie lunghe indagini su possibili crimini di guerra commessi nei territori occupati e si avvarrà senza dubbio delle deliberazioni dell’ICJ.

Questa non è la prima volta che l’ICJ approfondisce il conflitto israelo-palestinese. In un parere storico del 2004 la Corte ha ritenuto che la costruzione del muro di separazione israeliano in Cisgiordania e il relativo quadro giuridico avessero de facto annesso il territorio occupato ostacolando il diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione. Di conseguenza, i giudici dell’ICJ hanno chiesto a Israele di smantellare la sua barriera e di fornire un risarcimento ai palestinesi come stabilito dal Registro dei danni delle Nazioni Unite (UNRoD). Israele ha rifiutato di conformarsi alla sentenza e ha persino attaccato l’ultimo richiamo come “arma di distruzione di massa palestinese nella loro guerra santa di demonizzazione di Israele”.

L’ipocrisia dell’Occidente

Gli Stati Uniti e Paesi europei come il Regno Unito e la Germania, che hanno votato contro la decisione, sostengono che sarebbe inappropriato per l’ICJ inserirsi in una disputa bilaterale su una questione così controversa senza il consenso di Israele. Questo è diventato un argomento standard che è stato utilizzato anche nel caso del parere espresso nel 2004, e di nuovo nel 2019 in un caso diverso, quando l’Assemblea Generale ha chiesto un parere della Corte Internazionale di Giustizia sulle conseguenze legali del controllo continuato del Regno Unito sulle isole Chagos nell’Oceano Indiano (che il Regno Unito ha separato dalle Mauritius prima di concedere a queste ultime l’indipendenza nel 1968). I giudici della Corte hanno regolarmente e fermamente respinto tali argomentazioni politiche e ci si può aspettare che lo facciano ancora.

Gli oppositori affermano inoltre che i deferimenti all’ICJ (e all’ICC) danneggiano la prospettiva di rilanciare i negoziati israelo-palestinesi e raggiungere una soluzione a due Stati. Tuttavia, la prima sentenza dell’ICJ nel 2004 non ha impedito i successivi colloqui, anche in vista della conferenza di Annapolis del 2007, durante la quale sono stati compiuti progressi sulle questioni relative allo status finale. Da allora, le prospettive di un significativo processo di pace sono svanite a causa dell’erosione della soluzione dei due Stati, in gran parte a causa dell’incontrollata attività di colonizzazione ed espropriazione dei palestinesi da parte di Israele. Sotto il nuovo governo israeliano queste dinamiche negative sono destinate ad accelerare.

Sullo sfondo della guerra della Russia contro l’Ucraina l’opposizione occidentale al ricorso palestinese al diritto internazionale suona ancora più in malafede. L’Europa in particolare ha fatto riferimento con entusiasmo alle norme internazionali nel respingere l’invasione e l’annessione del territorio ucraino da parte della Russia. Ciò include sanzioni di vasta portata insieme a una proposta dell’UE riguardo l’istituzione di un tribunale speciale per perseguire i crimini russi in Ucraina. Gli Stati occidentali hanno inoltre sostenuto i procedimenti dell’Ucraina contro la Russia.

Come voterà questa volta l’ICJ?

Ovviamente non c’è modo di sapere con certezza cosa deciderà l’ICJ. Ma la sua passata giurisprudenza in casi simili allude sia a rischi che a opportunità per i palestinesi.

Prendiamo, ad esempio, l’attuale elenco dei giudici dell’ICJ, due dei quali si sono opposti in passato ad interventi giudiziari. Durante l’udienza relativa alle Chagos la giudice statunitense Joan Donoghue ha sostenuto che l’ICJ avrebbe dovuto astenersi perché il Regno Unito non aveva acconsentito a una “soluzione giudiziaria” della sua controversia bilaterale con le Mauritius. Sebbene la sua all’epoca fosse una visione isolata, nel frattempo Denoghue è diventata la presidente della Corte.

Allo stesso modo, nel 2004 il giudice francese Ronny Abraham, nella sua precedente veste di rappresentante legale della Francia, ha esortato l’ICJ ad astenersi dall’udienza sul muro perché non sarebbe stata “propizia” alla ripresa del dialogo. Anche se queste opinioni potrebbero non influenzare la maggioranza dei giudici, Israele si avvarrà senza dubbio di qualsiasi dissenso di questo tipo per sfidare l’autorevolezza di un futuro giudizio.

Passando alla sostanza, la corte potrebbe estendere la sua precedente conclusione riguardo un’annessione de facto per comprendere, come minimo, tutta l’Area C [sotto esclusivo controllo israeliano, ndt.] (quasi il 60% della Cisgiordania) data la significativa estensione delle infrastrutture coloniali e l’esistenza di una legislazione nazionale israeliana sull’area dal 2004. Tuttavia, è meno chiaro se la Corte si spingerebbe fino a descrivere ciò come un’annessione de jure in assenza di una proclamazione ufficiale della sovranità israeliana, o una fine formale dell’amministrazione militare israeliana del territorio.

Un’incognita ancora più grande è se l’ICJ sceglie di ribadire le conclusioni, in numero crescente, da parte delle principali organizzazioni per i diritti umani e degli esperti di diritto internazionale, incluso il relatore speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati, secondo cui Israele ha imposto un sistema di apartheid contro i palestinesi. La scelta di non farlo darebbe senza dubbio energia alla campagna di Israele per diffamare, come antisemiti, coloro che usano tale terminologia.

Eppure il tribunale potrebbe ancora togliere il terreno da sotto i piedi dell’occupazione da parte di Israele, stabilendo che il suo persistente controllo non è né temporaneo né giustificato da necessità militari, ed è quindi diventato illegale e richiedendogli di porre immediatamente fine all’occupazione. Ciò si allineerebbe a giudizi espressi in altri casi, come le sue conclusioni del 1971 secondo cui la presenza del Sudafrica in Namibia, dove aveva replicato un sistema di apartheid, era illegale e doveva cessare immediatamente. Allo stesso modo nel 2019, quando invitò il Regno Unito a porre fine alla sua “amministrazione illegale” delle Chagos e restituire il territorio alle Mauritius.

Richiamare Israele a rispondere delle sue responsabilità

Tuttavia è soprattutto sulla questione delle responsabilità dello Stato che i palestinesi potrebbero rimanere delusi. La Corte ha storicamente evitato di approfondire troppo la questione, preferendo lasciarla all’Assemblea Generale e al Consiglio di Sicurezza. È quindi altamente improbabile che aderisca alla richiesta di Abbas di un “regolamento delle Nazioni Unite per la protezione internazionale del popolo palestinese”.

Invece, come ha fatto nel 2004, la Corte potrebbe limitarsi a un appello generale agli Stati membri affinché collaborino con le Nazioni Unite per porre fine alla situazione illegale creata da Israele. In tale prospettiva ci si può anche aspettare che riaffermi il dovere degli Stati terzi di non riconoscere o sostenere tali violazioni del diritto internazionale. Questo principio giuridico è sancito dalla risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ed è una pietra miliare di lunga data della politica dell’UE di differenziazione tra Israele e i suoi insediamenti.

L’ICJ non può costringere Israele a porre fine alla sua occupazione attraverso il suo parere consultivo. L’applicazione della legge internazionale in ultima analisi spetta ai membri delle Nazioni Unite, in particolare quelli con un seggio nel Consiglio di Sicurezza. Ma invece di dare ascolto alla prima sentenza della Corte gli Stati Uniti e gli Stati europei hanno cercato di proteggere il progetto di colonizzazione da parte di Israele da qualsiasi meccanismo di responsabilità internazionale – non solo l’ICC e l’ICJ, ma anche il database delle imprese con legami con gli insediamenti coloniali del Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite. Il ritorno della Palestina all’ICJ, il tribunale di ultima istanza, circa 20 anni dopo, è di per sé un atto d’accusa contro il continuo fallimento dell’Occidente nel chiedere conto a Israele del suo comportamento illegale.

Sebbene oggi la volontà internazionale sia gravemente carente, i precedenti storici possono offrire un po’ di conforto ai palestinesi riguardo gli sviluppi futuri. La sentenza dell’ICJ del 1971 ha inferto un duro colpo alle rivendicazioni illegali del Sud Africa sulla Namibia e, sebbene ci siano voluti quasi altri due decenni, alla fine ha segnato la fine del regime di apartheid attraverso il quale [il Sud Africa] ha soggiogato il territorio e la sua gente. E anche con l’equilibrio del potere internazionale saldamente a suo favore il rifiuto da parte del Regno Unito della sentenza della Corte del 2019 si è rivelato sempre più insostenibile. Londra alla fine, anche se a malincuore, è stata costretta ad aprire delle trattative con le Mauritius per la consegna delle Isole Chagos. Con il tempo il peso crescente della riprovazione giuridica internazionale potrebbe rivelarsi altrettanto inevitabile per Israele.

Hugh Lovatt è un consulente politico del programma Medio Oriente e Nord Africa presso il Consiglio europeo per le relazioni estere (ECFR).

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




La famiglia di un bambino ucciso dai coloni teme nuove aggressioni

Jaclynn Ashly 

30 dicembre 2022 – The Electronic Intifada

Ahmad Dawabsheh non ama guardare al passato.

Ha delle buone ragioni. Il dodicenne è sopravvissuto a una delle peggiori aggressioni dei coloni degli ultimi anni, quando nel 2015 alla casa della sua famiglia nel villaggio di Duma nel distretto di Nablus della Cisgiordania occupata venne dato fuoco con bombe incendiarie da coloni israeliani.

Alì, fratellino di 18 mesi di Ahmad, morì in seguito alle ustioni, suo padre Saad una settimana dopo per le ferite e Riham, madre di Ahmed, un mese dopo.

All’epoca Ahmad aveva 4 anni. Riportò gravissime ustioni su tutto il corpo.

L’attacco getta ancora un’ombra oscura sulla vita del villaggio.

Secondo Nasser Dawabsheh, 48 anni, lo zio che ora si occupa di Ahmad, i rapporti tra gli abitanti del villaggio di Duma e i coloni che li circondano non hanno fatto che peggiorare, e dal 2015 il villaggio è stato attaccato almeno una decina di volte.

Quanto ad Ahmad, sta cercando di lasciarsi tutto alle spalle.

L’aggressione non mi ferisce più perché mi vieto di pensarci,” dice a The Electronic Intifada Ahmad, seduto in poltrona nella casa dello zio. Cerca di far roteare un pallone tra le dita prendendolo al volo prima che cada a terra.

Ahmad ha ancora cicatrici da ustioni sulla parte destra del volto e sul corpo. Ha subito anni di chirurgia ricostruttiva e trapianti di pelle e la sua terapia è tutt’altro che terminata.

Ogni sei mesi deve subire cure per la pelle con il laser a causa delle ustioni, trapianti di capelli e di cute. Alla famiglia vengono concessi permessi militari speciali per avere accesso alle cure in un ospedale israeliano.

Non siamo contenti di andarci (in Israele),” afferma Nasser. “Ma sono solo gli ospedali israeliani che hanno le apparecchiature mediche, quindi non abbiamo alternative.”

Dato che le tensioni crescono in tutta la Cisgiordania occupata – secondo le Nazioni Unite il 2022 è stato l’“anno più letale” per i palestinesi in Cisgiordania da quando ha iniziato a contare le vittime nel 2005 – la famiglia Dawabsheh è stata abbandonata a sé stessa.

Siamo terrorizzati all’idea che qualcosa del genere possa succedere di nuovo,” dice Nasser a The Electronic Intifada. “Qui non c’è nessuna autorità che ci protegga da loro. Abbiamo solo dio.”

Testimonianza di violenza”

La casa della famiglia Dawabsheh è rimasta tale e quale, coperta di cenere e costellata di coperte e oggetti dei genitori di Ahmad nella stanza dove hanno subito le ustioni che li hanno uccisi. Su uno dei muri qualcuno ha scritto: “Non perdoneremo mai.”

Abbiamo deciso di lasciare la casa in queste condizioni come prova e testimonianza della violenza che questi coloni ci hanno inflitto,” sostiene Nasser.

Il responsabile dell’attacco fu l’allora ventunenne Amiram Ben-Uliel, che all’epoca viveva in un autobus ad Adei Ad, un avamposto dei coloni che domina Duma.

Avrebbe fatto parte della “hilltop youth,” [gioventù della cima delle colline], un gruppo estremista e religioso-nazionalista di coloni israeliani che rivendica una teocrazia ebraica da cui i gentili, i non ebrei, siano espulsi.

Mentre in base alle leggi internazionali tutte le colonie israeliane in territorio palestinese sono considerate illegali, il governo israeliano considera illegali solo gli avamposti. Tuttavia fornisce loro protezione finanziata dallo Stato e collegamenti alla rete idrica e a quella elettrica.

Spesso li ha anche legalizzati retroattivamente e la nuova coalizione di governo israeliana si sarebbe impegnata a conferire status legale a tutti gli avamposti rimanenti entro i suoi primi 60 giorni al potere.

L’“hilltop youth” è accanitamente anti-palestinese. È accusato di essere autore dei cosiddetti attacchi ‘price tag’ [prezzo da pagare], in cui i coloni prendono di mira i palestinesi e le loro proprietà come ritorsione per la demolizione di avamposti da parte dell’esercito israeliano.

Ben-Uliel è stato difeso dall’avvocato Itamar Ben-Gvir, ora leader del partito di ultradestra Otzma Yehudit (Potere Ebraico) e destinato a diventare nell’ultima e più estremista coalizione di governo di Benjamin Netanyahu ministro della Sicurezza Nazionale, una carica creata ex novo.

Secondo i pubblici ministeri quella notte Ben-Uliel partì da Yishuv Hadaat, un vicino avamposto coloniale.

Si appostò fuori da alcune case a Duma per attaccarle, lanciando prima una bottiglia molotov in una casa vuota, poi si diresse verso la casa della famiglia Dawabsheh.

Una molotov venne lanciata attraverso la finestra della camera da letto dei Dawabsheh mentre la famiglia stava dormendo. Prima dell’attacco Ben-Uliel scrisse anche fuori dalla casa con la vernice spray “Vendetta” e “Viva il re Messiah”.

Il capo d’accusa afferma che Ben-Uliel agì da solo e un sospetto non identificato che all’epoca era minorenne patteggiò una pena e così venne condannato solo come complice. Tuttavia testimoni oculari affermano di aver visto quella notte due uomini mascherati scappare dalla scena del delitto.

Nel 2020 un tribunale israeliano condannò a tre ergastoli Ben-Uliel, imputato per triplice omicidio e due tentati omicidi. All’epoca lo Shin Bet, una agenzia di spionaggio israeliana, affermò che la sentenza era “un’importante pietra miliare nella lotta contro il terrorismo ebraico.”

Aggrediscono ancora

Ma la inusuale condanna di un colono ebreo per reati commessi contro palestinesi non ha consolato molto la famiglia Dawabsheh.

Non è stato sufficiente,” dice Nasser, davanti ai resti carbonizzati della casa di famiglia. “Non ci riporterà mai i defunti e non è stata l’azione di una singola persona. Se non fosse stato per il sostegno del governo e dell’esercito quei coloni non sarebbero mai arrivati al punto di bruciare viva la nostra famiglia.

Sono il governo israeliano e l’occupazione in sé, non solo un colono, che dovrebbero essere processati,” afferma Nasser.

Il tribunale ha condannato Ben-Uliel anche al pagamento di 75.000 dollari [circa lo stesso importo in euro, ndt.], che avrebbe dovuto essere versato come indennizzo ad Ahmad. Nasser afferma che la famiglia non ha ancora ricevuto neppure un soldo.

Quei coloni continuano ad aggredirci,” dice Nasser a The Electronic Intifada. “E continuano a prendersi la nostra terra. Non è cambiato niente.”

Solo una settimana dopo che la famiglia di Ahmad era stata presa di mira in un attacco incendiario, anche la casa di un’altra famiglia palestinese nei pressi di Duma venne attaccata con bottiglie molotov. Non si ebbe notizia di feriti in quell’aggressione.

Negli scorsi mesi Nablus in particolare ha visto un netto incremento di attacchi armati coordinati da parte di coloni sotto la protezione dell’esercito. Ciò in parte è dovuto a operazioni della resistenza armata palestinese contro soldati e coloni israeliani a Nablus e in altre città della Cisgiordania, così come all’avvio dell’annuale stagione della raccolta delle olive, in cui a molti palestinesi viene dato il permesso di accedere alla propria terra nei pressi di colonie e avamposti israeliani e spesso è accompagnata da un picco di aggressioni dei coloni.

Secondo l’ONU finora quest’anno [il 2022, ndt.] ci sono stati quasi 800 attacchi dei coloni contro i palestinesi e le loro proprietà. Nel 2022 almeno 175 palestinesi sono stati uccisi dall’esercito israeliano in Cisgiordania e a Gaza.

Duma ha subito la sua parte di questo incremento della violenza dei coloni. Il 16 giugno nei pressi di Duma un’auto è stata attaccata da coloni armati di sbarre di ferro. Hanno rotto il parabrezza e i finestrini della macchina e spruzzato liquido urticante contro i due uomini che erano a bordo.

Lo stesso giorno anche una coppia con una figlia di 3 anni e un neonato di un mese è stata attaccata da coloni che si trovavano vicino a una jeep dell’esercito israeliano. I coloni hanno colpito l’auto, rotto uno dei finestrini e un fanale anteriore con un bastone e spruzzato un liquido urticante contro la coppia e il loro bimbo.

Diritto alla terra

Indipendentemente dal recente incremento, gli attacchi dei coloni sono normali nei villaggi attorno a Nablus, plasmando la vita di tutti. Ma non è sempre stato così.

Satira, la sessantunenne nonna di Ahmad, è nata e cresciuta a Duma.

Quando ero più giovane c’erano libertà e sicurezza,” dice a The Electronic Intifada. “Potevamo lasciare le porte di casa aperte e andarcene sulle colline senza paura.”

Tuttavia ora la maggior parte delle case ha spesse sbarre di metallo alle finestre, mentre qualcuno le ha completamente coperte con lamiere nel timore di futuri attacchi incendiari.

L’aggressione del 2015 ci ha dimostrato fino che punto questi coloni fossero intenzionati ad arrivare per cancellarci da questa terra,” afferma Satira. “Vogliono ucciderci e persino bruciarci vivi.”

Ma il giovane Ahmad non ha permesso che questa tragedia lo condizionasse. Dice a The Electronic Intifada di avere il grande sogno di diventare un calciatore professionista.

E se non ci dovesse riuscire allora “diventerò un medico,” dice.

Nel corso dell’intervista ogni tanto Ahmad si alza e si mette a palleggiare e a prendere a calci un pallone.

È un tifoso sfegatato del Real Madrid, la ex-squadra di Cristiano Ronaldo, considerato uno dei più grandi calciatori di sempre. Ahmad ha incontrato Ronaldo in Spagna nel 2016, parecchi mesi dopo la devastante aggressione.

Quando arriva un ospite Ahmad gli chiede immediatamente per quale squadra di calcio tifa. “Barcellona,” risponde l’ospite. Ahmad alza gli occhi al cielo.

Poi, quando l’adhan, cioè l’invito musulmano alla preghiera, risuona dagli altoparlanti della moschea del villaggio, l’ospite chiede ad Ahmad di portargli un tappeto da preghiera.

Ahmad subito risponde, provocando le risate di Nasser e Satira: “Non ho un tappeto da preghiera per i tifosi del Barcellona,”

Secondo suo zio il ragazzino è ancora traumatizzato. Nasser dice a The Electronic Intifada che Ahmad è ancora nervoso e ansioso quando la tensione con i coloni aumenta.

Dopotutto è ancora un bambino,” afferma Nasser.

Ma Ahmad lo interrompe prontamente.

Non sono un bambino!” sostiene. “E non ho paura di loro (i coloni). Hanno le armi ma siamo noi ad avere diritto su questa terra. Quindi di cosa c’è da aver paura?”

Jaclynn Ashly è una giornalista freelance

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)