A scuola a stomaco vuoto

Ruwaida Amer

18 settembre 2023 – Electronic Intifada

Khitam Salim non riesce a preparare il pranzo che i suoi figli dovrebbero portare a scuola.

Da quando il marito è morto di leucemia quattro anni fa è una mamma single con tre bambini che frequentano la scuola elementare a Rafah, la città più meridionale di Gaza. La scuola, gestita dall’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati Palestinesi (UNRWA), non riesce a fornire i pasti ai suoi studenti, che quindi devono portarsi dei panini da casa o comprare da mangiare alla mensa.

Per il pranzo dovrebbero spendere quasi un euro al giorno, una somma che la loro mamma non può permettersi.

Nessuno mi aiuta,” dice Salim, che è disoccupata e dipende dall’assistenza sociale. “Le condizioni in cui ci troviamo sono molto difficili. I bambini vedono i loro compagni comprare da mangiare durante l’intervallo e non farlo ha un effetto psicologicamente negativo su di loro.”

Faris Qishta ha cinque figli, tutti frequentano le scuole dell’UNRWA.

Avrebbe bisogno di soldi per comprare le uniformi e il cibo e dice che non riesce a farlo.

Se non fosse per i pacchi di aiuti alimentari che riceve, dice che “la mia famiglia sarebbe morta di fame”. Tuttavia gli aiuti non comprendono i pasti scolastici.

Qishta, che faceva il taxista, ora è disoccupato.

Sono sempre alla ricerca di lavoro anche per pochi shekel per soddisfare le necessità di base dei miei bambini,” aggiunge. “Ma non riesco a trovare niente. I miei figli sono pieni di sogni e quando me li raccontano mi intristisco. Non so se il loro sarà un futuro migliore o se continuerà come ora.”

A Gaza l’UNRWA gestisce una rete di 288 scuole, con circa 300.000 studenti.

Niente colazione

Migliaia di questi bambini vanno a scuola senza colazione e senza soldi per comprarsi da mangiare durante la giornata. Dato che non hanno una dieta appropriata, molti non riescono a concentrarsi adeguatamente durante le lezioni.

L’UNRWA gestiva un programma di pasti gratis nelle sue scuole, ma per limiti di bilancio, il programma generale per le scuole è stato interrotto nel 2014 e ora li offre solo in casi particolari.

Da allora è stata costretta a fare dei tagli di spesa a causa di una grave crisi dei finanziamenti.

Sebbene sia cominciata prima, la crisi si è acutizzata con la presidenza USA di Donald Trump che, per ingraziarsi una lobby filoisraeliana estremista, introdusse tagli drastici agli aiuti all’UNRWA.

Gli USA hanno adottato una posizione più favorevole nei confronti dell’agenzia da quando è arrivato alla Casa Bianca Joe Biden, il suo successore.

Ciononostante i contributi USA sono diminuiti se li si considera su un periodo più lungo: nel 2022 ammontavano a $344 milioni, meno dei $365 che dava annualmente prima dei tagli di Trump nel 2018.

Difficoltà di finanziamento

In tale contesto le difficoltà finanziarie dell’UNRWA restano gravissime.

L’agenzia offre servizi sanitari ed educativi a un totale di circa 6 milioni di rifugiati palestinesi nella Cisgiordania occupata e a Gaza, in Giordania, Siria e Libano.

Facendo affidamento su donatori internazionali l’UNRWA quest’anno avrebbe avuto bisogno di un finanziamento di $1,75 miliardi, di cui ad agosto era stato raccolto solo il 44%.

Philippe Lazzarini, commissario generale dell’UNRWA, all’inizio di questo mese ha dichiarato che l’agenzia ha bisogno di $170-190 milioni “per fornire i servizi essenziali fino alla fine dell’anno.” Altri $75 milioni sono necessari “per continuare a fornire gli aiuti alimentari salvavita a oltre metà della popolazione di Gaza.”

Secondo gli ultimi dati disponibili, Gaza, sottoposta dal 2007 a un blocco israeliano totale ha un tasso di disoccupazione del 46%.

Said Khalid, 10 anni, frequenta la quinta elementare in una scuola dell’UNRWA nel campo profughi Beach a Gaza City.

La sua famiglia non è riuscita a comprargli l’uniforme nuova e il materiale necessario per la scuola alla riapertura dopo le vacanze estive, e inoltre non ha i soldi perché si compri da mangiare alla mensa.

So che mio papà non è avaro,” dice Said. “Se avesse i soldi me ne darebbe un po’ così potrei comprare le cose come fanno i miei compagni di classe, ma lui non ha un lavoro.”

Iyad Zaqout dirige un dipartimento di salute mentale dell’UNRWA.

Ha notato una crescente riluttanza dei bambini a parlare dell’impatto della povertà con i loro counselor. “Alcuni provano un senso di vergogna a rivelare le durissime condizioni in cui vivono le loro famiglie,” dice.

Sarah Jaber, 9 anni, fa la quarta elementare nel campo profughi di Jabalia. Il padre è un falegname, ma è disoccupato da anni.

Chiedo sempre alla maestra se posso stare in classe durante gli intervalli,” dice. “Non voglio vedere gli altri mentre comprano alla mensa, mi fa sentire triste.”

Ruwaida Amer è una giornalista che si trova a Gaza.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Banca Mondiale: le restrizioni israeliane ostacolano l’accesso dei palestinesi all’assistenza sanitaria.

Redazione di The New Arab

18 settembre 2023- The New Arab

La Banca Mondiale ha affermato che le restrizioni israeliane e il peggioramento delle condizioni economiche nei territori palestinesi stanno ostacolando l’accesso dei palestinesi all’assistenza sanitaria.

Le restrizioni israeliane e i crescenti vincoli fiscali nei territori palestinesi stanno incidendo gravemente sulle condizioni economiche dei palestinesi e ostacolano il loro accesso a un’assistenza sanitaria salvavita tempestiva, ha affermato lunedì la Banca Mondiale.

In un rapporto intitolato “Racing Against Time” [corsa contro il tempo], la Banca Mondiale ha affermato che nel complesso l’economia palestinese sta sviluppandosi al di sotto del suo potenziale, con un reddito pro capite destinato a ristagnare.

La povertà nei territori palestinesi è in aumento, con un palestinese su quattro che vive al di sotto della soglia di povertà, ha affermato l’istituto di credito globale con sede a Washington.

Le restrizioni israeliane alla circolazione e al commercio nella Cisgiordania occupata, il blocco imposto alla Striscia di Gaza e la divisione tra i due territori palestinesi sono tra i diversi fattori che hanno messo ad alto rischio l’economia palestinese, afferma il rapporto.

In una dichiarazione rilasciata assieme al rapporto Stefan Emblad, direttore della Banca Mondiale per la Cisgiordania e Gaza, ha affermato: “I vincoli fiscali gravano pesantemente sul sistema sanitario palestinese e in particolare sulla sua capacità di far fronte al crescente peso delle malattie non infettive”.

Le restrizioni, comprese “le lungaggini del regime burocratico dei permessi”, spesso rendono difficile fornire una assistenza sanitaria salvavita tempestiva ai palestinesi, ha affermato.

L’accesso a cure mediche esterne per il trattamento di tumori, malattie cardiache e per le complicazioni della gravidanza e del parto è significativamente compromesso a causa di vincoli fisici e amministrativi, afferma la nota.

Si sostiene: “La situazione è particolarmente critica a Gaza, che soffre di una più limitata capacità del sistema sanitario e dove i pazienti faticano a ottenere tempestivamente i permessi di uscita richiesti per urgenti motivi medici”.

“I dati della ricerca mostrano che il quasi blocco di Gaza ha avuto un impatto sulla mortalità, dato che alcuni pazienti non sopravvivono alla durata del processo di autorizzazione”.

Israele occupa la Cisgiordania – che oggi ospita circa tre milioni di palestinesi – dalla Guerra dei Sei Giorni del 1967, quando conquistò anche la Striscia di Gaza, l’enclave costiera densamente popolata da cui si è poi ritirato.

L’anno scorso, secondo il COGAT, l’organismo del ministero della Difesa israeliano che sovrintende agli affari civili nei territori palestinesi, Israele ha rilasciato permessi di ingresso per oltre 110.000 visite mediche per i residenti in Cisgiordania.

Nello stesso periodo sono stati rilasciati più di 17.000 permessi di questo tipo ai palestinesi di Gaza, dove vivono 2,3 milioni di persone.

Un blocco imposto da Israele da quando il movimento islamista Hamas è salito al potere nel 2007 ha anche ostacolato le forniture mediche all’enclave.

La Banca Mondiale ha esortato Israele e le autorità palestinesi a gestire meglio questi casi medici e ad agevolare il processo di autorizzazione nel tentativo di fornire assistenza sanitaria tempestiva ai pazienti e ai loro accompagnatori.

Nel complesso, l’economia palestinese è rimasta stagnante negli ultimi cinque anni, ha detto Emblad, aggiungendo che non si prevede un miglioramento a meno che non cambino le politiche sul campo.

“Date le tendenze di crescita della popolazione si prevede che il reddito pro capite ristagnerà”, ha affermato la Banca Mondiale.

(traduzione dall’inglese di Giuseppe Ponsetti)




Un fotoreporter ferito dal fuoco israeliano è stato sottoposto a un’operazione chirurgica in Turchia

Redazione di MEMO

19 settembre 2023 – Middle East Monitor

L’agenzia Anadolu riferisce che un fotoreporter palestinese che ha subito una grave ferita alla mano mentre stava coprendo una protesta a Gaza ha subito un intervento chirurgico in Turchia.

Ashraf Amra, un freelance per Anadolu, l’agenzia di notizie ufficiale turca, è arrivato dal Cairo ad Istanbul lunedì su un volo della Turkish Airlines.

Venerdì stava coprendo una dimostrazione di protesta di palestinesi vicino alla barriera [di separazione tra Gaza e Israele, ndt.] nella regione di Khan Yunis a Gaza quando i soldati [israeliani, ndt.] hanno aperto il fuoco per disperdere la folla.

Dodici palestinesi sono stati feriti dall’esercito israeliano con l’uso di pallottole vere, proiettili ricoperti di gomma e candelotti lacrimogeni.

Amra è stato sottoposto ad un intervento chirurgico di due ore presso l’ospedale Basaksehir Cam e Sakura ad Istanbul.

Il dottor Okyar Altas, lo specialista della chirurgia della mano che ha effettuato l’operazione, ha affermato che essa ha avuto successo.

Da parte sua Amra ha ringraziato il presidente turco Recep Tayyip Erdogan e Anadolu per averlo accolto ad Istanbul.

Spero che le mie dita guariranno e che non ci sarà bisogno di amputarle.”

Egli ha aggiunto che i soldati che hanno visto che aveva in mano una macchina fotografica gli hanno deliberatamente sparato contro.

Anche il vicedirettore generale e caporedattore di Anadolu Yusuf Ozhan ha fatto visita ad Amra in ospedale, dove i dottori lo hanno ragguagliato sullo stato di salute del fotoreporter.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Il primo ministro israeliano Netanyahu, la ragazza pompon della tifoseria antisemita

Editoriale di Haaretz

18 settembre 2023 – Haaretz

Nell’anno ebraico 5783, che è appena terminato, il governo Netanyahu ha portato Israele ancora più in basso anche riguardo all’antisemitismo. Mentre l’antico odio ha rialzato la testa in tutto il mondo, è stato il governo israeliano a concedere legittimità a chi lo diffonde.

Uno dei più significativi esempi di ciò è stata la legittimazione pubblica che il ministro degli Esteri Eli Cohen ha fornito alla rumena Alleanza per l’Unità dei Romeni, o AUR, di estrema destra, nonostante la lunga storia di antisemitismo e negazionismo dell’Olocausto dei dirigenti del partito. Si prevede che questa politica continuerà anche il prossimo anno, ora con il coinvolgimento diretto del primo ministro Benjamin Netanyahu. Il suo primo incontro del 5784 sarà con il miliardario Elon Musk, che l’anno scorso ha comprato la piattaforma di social media Twitter e ne ha cambiato il nome in X.

Negli Stati Uniti importanti organizzazioni ebraiche sostengono che dall’acquisizione della piattaforma da parte di Musk c’è stato un significativo incremento sia del volume dei contenuti antisemiti che vi vengono pubblicati sia delle dimensioni dell’esposizione ad essi. Questa tendenza ha portato l’Anti-Defamation League, la più importante organizzazione ebraica che lotta contro l’antisemitismo, a criticare duramente Musk. In risposta egli ha accusato l’ADL di danneggiare deliberatamente le sue attività economiche ed ha manifestato sostegno ai post di persone di estrema destra che chiedono di bandire le attività dell’organizzazione. Musk ha circa 160 milioni di seguaci su X.

Si suppone che Netanyahu, che sta volando verso la Costa occidentale [degli USA, ndt.] con l’esplicito intento di incontrare Musk prima di tornare a New York alla fine della settimana per l’Assemblea Generale delle Nazioni unite, parteciperà a questa accesa discussione lunedì. Non ci sono dubbi che Musk utilizzerà l’incontro con il primo ministro israeliano per respingere le affermazioni secondo cui appoggia l’antisemitismo.

Da parte sua Netanyahu userà l’incontro per smorzare le critiche riguardo al danno provocato lo scorso anno dal suo governo all’industria israeliana dell’alta tecnologia. L’incontro fornirà ad entrambi una migliore immagine, ma la lotta contro l’antisemitismo ne risentirà e la politica di far finta di niente in merito alla diffusione di contenuti antisemiti sulle reti sociali riceverà un certificato israeliano di conformità.

Il Consiglio dei Rapporti della Comunità Ebraica della Zona della Baia, un’organizzazione che unisce le comunità ebraiche della regione di San Francisco, prima di Rosh Hashanah [capodanno civile ebraico, ndt.] ha mandato una lettera a Netanyahu in cui gli chiedeva di incontrare i rappresentanti della comunità ed ascoltare le loro preoccupazioni riguardo a Musk. È molto incerto che Netanyahu accetti questa richiesta. Per anni ha condotto una politica di disprezzo verso l’ebraismo statunitense a favore della comunità cristiana evangelica, che è legata al partito Repubblicano, rispetto a quella ebraica, che tende a sostenere il partito Democratico.

Come in Europa, negli Stati Uniti Netanyahu non ha alcun problema a unire le forze con quanti rappresentano una minaccia alla sicurezza degli ebrei, finché ciò è utile ai suoi interessi politici.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Gaza: nel 2023 Israele ha negato cure salvavita a “due minori palestinesi al giorno”.

Maha Hussaini

 

13 settembre 2023 – Middle East Eye

Secondo Save the Children in sei mesi quasi 400 minori malati di Gaza sono stati privati della possibilità di lasciare l’enclave assediata alla volta della Cisgiordania.

Gaza city, Palestina occupata.

Secondo un nuovo rapporto di Save the Children le autorità israeliane hanno impedito trattamenti salvavita a quasi 400 minori palestinesi a Gaza nel corso della prima metà del 2023.

Ogni mese una sconcertante media di 60 giovani pazienti non ha avuto il permesso di recarsi nella Cisgiordania occupata per ricevere cure mediche urgenti, il che significa oltre due minori al giorno.

Questi dinieghi hanno lasciato i minori privi di accesso ad interventi chirurgici cruciali e a farmaci d’urgenza che non sono disponibili nell’enclave assediata.

Alcuni sono minori gravemente malati, che non hanno altra scelta se non lasciare Gaza per sopravvivere”, ha affermato in una dichiarazione Jason Lee, direttore di Save the Children nel territorio palestinese occupato.

Negare ai minori l’assistenza sanitaria è disumano e una violazione dei loro diritti.”

L’organizzazione con sede a Londra ha detto che solo in maggio le autorità israeliane hanno respinto o inevaso le richieste di 100 minori per ottenere permessi di uscita attraverso il valico di Beit Hanoun (Erez), sotto il controllo di Israele, nel nord della Striscia di Gaza.

Nello stesso mese almeno sette minori comparivano fra i 33 palestinesi uccisi nell’attacco israeliano contro Gaza tra il 9 e il 13 maggio 2023.

Lasciati a morire

A causa della grave carenza di attrezzature e personale medico, una considerevole quota di pazienti a Gaza, in particolare quelli affetti da patologie come il cancro e le malattie croniche, devono ottenere impegnative mediche finanziate dall’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) per poter farsi curare nella Cisgiordania occupata o in Israele.

Dopo aver ottenuto le prescrizioni e le coperture finanziarie per le cure mediche, i pazienti devono poi fare domanda per il permesso di uscita israeliano per poter lasciare la Striscia attraverso il valico di Beit Hanoun, l’unico passaggio via terra per i palestinesi che vogliono muoversi tra Gaza e il resto dei territori palestinesi occupati.

Uno su 10 pazienti che richiedono permessi di uscita muoiono entro sei mesi dalla prima domanda.

Inoltre affrontano un periodo di attesa di quasi cinque settimane perché ogni domanda passi le procedure delle autorità israeliane.

Nel 2022 tre minori palestinesi sono morti dopo mesi di attesa dei permessi di uscita israeliani che avrebbero loro permesso di attraversare il confine ed accedere alle cure mediche salvavita nella Cisgiordania occupata. Tra loro vi erano il sedicenne paziente di leucemia Salim al-Nawati e Fatima al-Masri di 19 mesi.

Masri, che soffriva di un difetto del setto cardiaco atriale (un foro nel cuore), era nata dopo otto anni di matrimonio ed è morta dopo che le autorità israeliane hanno lasciato inevase cinque richieste inoltrate dai suoi genitori per farle rilasciare un permesso di uscita.

Ho inoltrato la prima domanda alla fine del 2021 ed ho avuto un appuntamento il 26 dicembre, ma poco prima di quella data ho ricevuto un messaggio che diceva che la domanda era oggetto di riesame” ha detto a MEE tempo fa il padre di Masri, Jalal.

Sono passato nuovamente attraverso la stessa lunga procedura per inoltrare un’altra domanda ed ho avuto un nuovo appuntamento per il 13 febbraio. Tre giorni prima ho ricevuto di nuovo lo stesso messaggio. Allora ho inoltrato una terza domanda per avere un altro appuntamento il 6 marzo, che è stato rinviato fino al 27 marzo e poi al 5 aprile. Fatima è morta 11 giorni prima di quella data.”

Complesse restrizioni alle cure mediche

Devastato da 16 anni di assedio israeliano e da ripetuti attacchi militari, il sistema sanitario di Gaza affronta enormi sfide, con le severe restrizioni da parte di Israele all’ingresso di forniture mediche, attrezzature e farmaci vitali.

Secondo il Ministero della Sanità palestinese a Gaza, a maggio circa 224 articoli farmaceutici (il 43% dell’elenco di farmaci essenziali) e 213 prodotti medici monouso (il 25% dell’elenco essenziale) erano a scorta zero.

Mentre a decine di migliaia di pazienti sono concesse ogni anno prescrizioni mediche fuori da Gaza dall’ANP, a quasi un terzo dei gazawi vengono negati da Israele i permessi di uscita .

Nel 2022 circa il 33% delle 20.295 richieste di permesso di pazienti inoltrate alle autorità israeliane è stato respinto o rinviato. Ciò comprende come minimo il 29% di richieste inoltrate a nome di pazienti minori, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS).

Tuttavia i dinieghi di permesso non sono la sola sfida che i pazienti di Gaza affrontano attraverso la lunga procedura per ottenere adeguate cure mediche fuori dalla Striscia.

Nella maggior parte dei casi, circa il 62% delle volte, le autorità israeliane hanno respinto o rinviato le domande di permesso per i familiari assistenti e gli accompagnatori che dovrebbero accompagnare i pazienti nei viaggi per motivi medici.

Inoltre 225 pazienti sono stati sottoposti ad interrogatori di sicurezza da parte di Israele e solo a 24 di essi sono stati concessi permessi di uscita.

L’enclave costiera, che ospita più di 2 milioni di abitanti, ha 36 ospedali che dispongono di una media di 1.26 letti ospedalieri ogni 1000 persone, in base ai dati del Ministero della Sanità palestinese.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




L’autoritarismo dell’ANP affonda le sue radici negli accordi di Oslo

Yara Hawari

13 settembre 2023 – Al Jazeera

L’Autorità Nazionale Palestinese non è mai stata concepita per costituire un governo democratico e difendere gli interessi del popolo palestinese.

Il 13 settembre 1993 il leader palestinese Yasser Arafat e il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin si strinsero la mano sul prato della Casa Bianca affiancati dal presidente americano Bill Clinton molto compiaciuto. Avevano appena firmato un accordo che sarebbe stato salutato come uno storico accordo di pace che avrebbe posto fine al “conflitto” decennale tra palestinesi e israeliani.

In tutto il mondo la gente festeggiò l’accordo che divenne noto come Accordi di Oslo. Fu ritenuto un grande successo diplomatico. Un anno dopo Arafat e Rabin ricevettero il Premio Nobel per la pace.

Molti palestinesi speravano anche di ottenere finalmente uno Stato sovrano, anche se avrebbe occupato meno del 22% della loro patria originaria. In effetti questa era la promessa degli Accordi di Oslo – un processo graduale verso uno Stato palestinese.

Trent’anni dopo i palestinesi sono più lontani che mai da un proprio Stato. Hanno perso ancora più terra a causa degli insediamenti israeliani illegali e sono costretti a vivere in bantustan sempre più piccoli in tutta la Palestina colonizzata. Ormai è chiaro che Oslo aveva il solo scopo di aiutare Israele a consolidare la sua occupazione e colonizzazione della Palestina.

Peggio ancora, ciò che i palestinesi ottennero dagli accordi di Oslo fu una forma piuttosto perniciosa di autoritarismo palestinese nei territori occupati nel 1967.

Uno dei termini dell’accordo era che alla leadership in esilio dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) sarebbe stato permesso di ritornare solo nei territori occupati da Israele nel 1967 – Cisgiordania e Gaza – e le sarebbe stato permesso di creare un governo ad interim noto come come Autorità Nazionale Palestinese (ANP) per un periodo di cinque anni.

L’Autorità Nazionale Palestinese, composta da membri del partito di Arafat, Fatah, si assunse la responsabilità degli affari del popolo palestinese mentre l’occupazione militare israeliana rimaneva in vigore. Con il sostegno della comunità internazionale e del regime israeliano Arafat perseguì un governo basato sul clientelismo e sulla corruzione, con scarsa tolleranza per il dissenso interno.

Il successore di Arafat, il presidente Mahmoud Abbas, ha continuato sulla stessa strada. Oggi, all’età di 87 anni, non solo è uno dei leader più anziani del mondo, ma ha anche superato da più di 14 anni il suo mandato legale, nonostante il decrescente sostegno al suo governo da parte dei palestinesi.

Da quando è salito al potere Abbas ha più volte indetto in malafede delle elezioni, l’ultima delle quali nel gennaio 2021. Quell’anno le votazioni sono state infine cancellate dopo che l’Autorità Nazionale Palestinese ha accusato il regime israeliano di rifiutarsi di consentire la partecipazione dei palestinesi di Gerusalemme Est occupata.

Questo succedersi di false promesse di elezioni soddisfa temporaneamente il desiderio della comunità internazionale per quella che chiama “democratizzazione” delle istituzioni dell’Autorità Nazionale Palestinese. Ma la realtà è che il sistema è così profondamente corrotto – in gran parte grazie agli Accordi di Oslo – che le elezioni porterebbero inevitabilmente alla continuazione delle strutture di potere esistenti o all’arrivo al potere di un nuovo leader autoritario.

Oltre ad avere un’avversione per le elezioni, Abbas ha anche lavorato sodo per erodere ogni spazio democratico in Cisgiordania. Ha unito tutti e tre i rami del governo – legislativo, esecutivo e giudiziario – in modo che non ci siano controlli sul suo potere. Avendo il controllo assoluto sugli affari palestinesi, governa per decreto. Negli ultimi anni ciò ha portato a processi decisionali sempre più assurdi.

L’anno scorso, ad esempio, ha sciolto il Sindacato dei Medici dopo che il personale medico aveva scioperato. Ha poi creato il Consiglio Supremo degli Organi e dei Poteri Giudiziari e se ne è nominato capo, consolidando così il suo potere sui tribunali e sul Ministero della Giustizia.

Più recentemente, il 10 agosto, ha costretto 12 governatori al pensionamento senza informarli. Molti dei licenziati hanno appreso delle loro dimissioni forzate dai media locali.

Per mantenere il potere Abbas dispone anche di un vasto apparato di sicurezza. Il settore della sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese, finanziato e formato a livello internazionale, impiega il 50% dei dipendenti pubblici e assorbe il 30% del budget totale dell’Autorità Palestinese – più dell’istruzione, della sanità e dell’agricoltura messe insieme.

Questo apparato è responsabile di un’enorme quantità di violazioni dei diritti umani, tra cui l’arresto di attivisti, le minacce nei confronti dei giornalisti e la tortura dei detenuti politici.

In molti casi, la repressione da parte dell’apparato di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese è complementare a quella israeliana. Ad esempio, nel 2021, durante quella che divenne nota come Intifada dell’Unità [le mobilitazioni che nel maggio del 2021 coinvolsero anche i palestinesi cittadini israeliani, ndt.], molti attivisti furono arrestati e brutalmente interrogati dalle forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese. Quest’anno, dopo l’invasione del campo profughi di Jenin da parte delle forze del regime israeliano, l’Autorità Nazionale Palestinese ha arrestato molti dei presenti sul campo che erano stati precedentemente incarcerati dagli israeliani in una pratica nota come “porta girevole”.

In effetti una delle clausole degli Accordi di Oslo era che l’Autorità Nazionale Palestinese dovesse cooperare pienamente con il regime israeliano nelle questioni di “sicurezza”. Per soddisfare questa disposizione l’apparato di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese ha lavorato sodo per sopprimere qualsiasi attività ritenuta una minaccia dal regime israeliano.

L’ANP consegna costantemente informazioni sulla sorveglianza dei palestinesi all’esercito israeliano e non fa nulla per contrastarne gli attacchi mortali contro villaggi, città e campi palestinesi che si ripetono a cadenze regolari. In effetti le forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese lavorano fianco a fianco con il regime israeliano per reprimere la resistenza palestinese.

Infatti, date le disposizioni degli accordi di Oslo, l’Autorità Nazionale Palestinese non avrebbe potuto essere diversa. Un organo di governo responsabile nei confronti dei donatori internazionali che lo finanziano e del regime israeliano che mantiene il controllo finale non avrebbe mai potuto essere al servizio del popolo palestinese.

Sorprendentemente l’idea che gli accordi di Oslo siano stati un processo di pace ben intenzionato, ma fallito, ha ancora una forte presa in alcuni ambienti occidentali. La verità è che gli artefici di Oslo non erano interessati alla creazione di uno Stato palestinese o alla liberazione, ma volevano piuttosto trovare un modo per convincere la leadership palestinese ad accettare tranquillamente la capitolazione e a sopprimere ogni ulteriore resistenza della base.

Questi accordi hanno incoraggiato e sostenuto l’autoritarismo dell’ANP perché è funzionale a quegli obiettivi. In sostanza Oslo non ha portato la pace ai palestinesi, ma un altro grosso ostacolo alla loro liberazione.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Al Jazeera.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




L’esercito israeliano ammette di aver sparato per errore a palestinesi innocenti

Redazione di MEMO

12 settembre 2023 – Middle East Monitor

Ieri l’esercito israeliano ha riconosciuto che il mese scorso i soldati dell’occupazione hanno aggredito e imprigionato per errore tre palestinesi innocenti, lasciandoli con.lesioni permanenti.

Secondo il Times of Israel l’esercito israeliano ha dichiarato che i soldati dell’occupazione hanno sparato a molti palestinesi che si supponeva avessero tirato degli ordigni esplosivi artigianali da un veicolo in movimento verso una vicina postazione militare vicino alla città di Jenin, nella Cisgiordania occupata.

Tre dei palestinesi feriti sono stati arrestati dai soldati, mentre una quarta vittima è stata portata in un ospedale di Jenin da medici palestinesi in seguito alle gravi ferite che ha subito.

La rete israeliana Kan ha riferito che Wasim Herzallah, di 30 anni, ha riportato una ferita da arma da fuoco a una gamba ed è stato dimesso da un ospedale israeliano dopo essere stato curato. La seconda vittima, Ali Assan di 19 anni, è al momento paralizzato dalla vita in giù e ha subito ferite a una spalla. Egli è sottoposto a riabilitazione nell’ospedale di Tel Hashomer.

Secondo quanto riferito dalla rete Kan, lo zio di Hassan, Saleh ‘Atara, ha affermato:

Un soldato che ci ha accompagnati all’ospedale nei primi giorni si è scusato per la sparatoria”.

La rete Kan ha citato il fatto che il terzo sospetto ferito, Hassan Qassem Suleiman, rimane sotto sedazione e intubato in seguito a una grave ferita alla testa da un colpo sparato dai soldati israeliani.

Mentre l’unità del portavoce dell’esercito israeliano non ha fornito un commento immediato sull’incidente, una fonte militare ha riconosciuto che i militari hanno sparato per errore al veicolo sbagliato e che l’incidente è stato esaminato “dai ranghi più alti.”

La fonte ha affermato che “terroristi in un veicolo hanno tirato una bomba ai soldati che si trovavano nella postazione militare e un altro reparto che stava operando vicino alla postazione ha aperto il fuoco contro il veicolo. Dopo un‘indagine iniziale, si è capito che il veicolo che aveva effettivamente tirato la bomba si era rapidamente allontanato dalla strada. Uno dei militari che ha aperto il fuoco ha per sbaglio identificato un altro veicolo che è risultato non coinvolto.”

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




In attacchi separati alcuni coloni hanno aggredito attivisti palestinesi e israeliani di sinistra in Cisgiordania

Hagar Shezaf

11 settembre 2023 – Haaretz

Nel primo incidente i coloni hanno colpito un pastore palestinese con una mazza, rompendogli una mano. Nel secondo i coloni hanno aggredito attivisti di sinistra arrestati dalla polizia. “È stato il peggio incidente in cui sia mai stato coinvolto,” afferma uno degli attivisti.

Sabato in Cisgiordania coloni israeliani hanno aggredito e ferito un palestinese e attivisti di sinistra in due incidenti separati

La prima aggressione è avvenuta nel nord della Valle del Giordano, dove coloni mascherati si sono avvicinati e hanno colpito con una mazza un pastore palestinese, rompendogli una mano.

Il secondo incidente si è svolto sulle Colline Meridionali di Hebron, nei pressi della colonia di Otniel, dove i coloni hanno attaccato militanti di sinistra mentre venivano arrestati dalla polizia. Secondo gli attivisti i coloni hanno colpito anche il poliziotto che si trovava sul luogo.

Due coloni sono stati arrestati in quanto sospettati di essere coinvolti nel secondo incidente, ma sono stati rilasciati dopo essere stati interrogati.

Nella Valle del Giordano, Ahmad e suo figlio sono usciti dalla loro casa nei pressi di Ein al-Sakut nel pomeriggio per portare le loro pecore a pascolare con tre militanti di sinistra che li accompagnavano per proteggerli.

Mentre stavano camminando hanno visto un gruppo di circa 10 uomini mascherati diretto verso di loro dalla colonia di Shadmot Mehola. Ahmad “ha visto un gruppo comparso improvvisamente, come in un film dell’orrore, con magliette bianche, tzitzit (frange rituali ebraiche tradizionalmente portate dagli uomini) e con in mano delle mazze,” dice Gali Hendin, una degli attivisti che facevano da scorta e testimone oculare dell’incidente.

Mentre gli attivisti cercavano di contattare l’esercito e la polizia, “Ahmad è corso avanti, perché stavano cercato di prendere alcune delle sue pecore. È stato colpito con una sbarra di ferro, e poi siamo corsi avanti e li abbiamo fronteggiati.” Ahmad racconta ad Haaretz che uno degli uomini lo ha colpito con una mazza. “In passato ci avevano spaventati, ma non era mai successo niente del genere,” aggiunge Hendin.

Gli attivisti hanno registrato lo scontro con gli uomini mascherati. Nella registrazione uno degli uomini dice: “Questa è casa mia. Andatevene dalla mia casa. Via. Io l’ho comprata.”

Ahmad è stato portato all’ospedale nella città palestinese di Tubas, dove gli è stata diagnosticata una frattura alla mano. Due degli attivisti hanno detto che un’ambulanza israeliana è arrivata sul posto e lo ha portato via, ma, poiché è palestinese e di conseguenza non gli è consentito entrare nella colonia, dichiarata area militare chiusa, l’ambulanza ha dovuto viaggiare su strade sterrate sconnesse per portarlo all’ospedale.

Hanno aggiunto che anche il responsabile della sicurezza della colonia ha assistito all’incidente, ma non ha fatto niente.

C’è una guardia che li lascia andare e venire,” dice Ahmad, commentando altri incidenti. “Ora sono a casa. All’ospedale mi hanno detto che non posso uscire al pascolo per 40 giorni, e i miei figli non possono andare a scuola perché sono io che li accompagno.”

Questo è stato il peggior incidente da sempre in cui siamo stati coinvolti,” afferma Herdin. “Ciò che mi dà più fastidio è come il loro contesto lo accetta. Ci sono persone di Shadmot Mehola che dicono che forse era successo qualcosa prima. È arrivata una soldatessa e ha detto lo stesso. Quella che è inquietante è la normalizzazione della situazione.”

La polizia ha affermato che “appena ricevuta l’informazione sull’incidente agenti e forze militari sono arrivati sul posto ed è stata aperta un’inchiesta, che è ancora in corso.”

Nel secondo incidente, nelle Colline Meridionali di Hebron, un militante che ha chiesto di rimanere anonimo ha affermato di essere arrivato sul posto, nei pressi di Otniel, insieme ad altri attivisti e a palestinesi dopo aver ricevuto l’informazione che coloni avevano piazzato tende su terra palestinese proprietà di un privato.

Poi si sono presentati dei soldati che hanno mostrato agli attivisti un ordine in cui si dichiarava la terra zona militare chiusa, e hanno sparato granate stordenti e lacrimogeni, che hanno appiccato un incendio. Ma secondo gli attivisti i soldati non hanno cacciato i coloni che si trovavano sul posto. Hanno invece arrestato due militanti e li hanno consegnati a un poliziotto arrivato dopo.

L’agente “ci ha detto di andare con lui alla sua macchina per portarci alla stazione di polizia,” afferma l’attivista. “Lungo il percorso, mentre stavamo camminando con lui, sono arrivati quattro o cinque coloni e chissà perché hanno iniziato a martellarci di colpi micidiali. Tutto ciò è avvenuto dopo che eravamo stati arrestati, ci trovavamo sotto la protezione della polizia e l’agente era a circa mezzo metro da noi.” E continua: “Il poliziotto ha afferrato il giovane che guidava l’aggressione,” aggiungendo che il colono ha colpito anche l’agente. L’attivista ha subito una ferita alla testa.

Successivamente i militanti arrestati sono stati portati alla stazione di polizia e interrogati in quanto sospettati di aver violato l’ordine che dichiarava il luogo zona militare chiusa. Uno è stato rilasciato a condizione che si tenga lontano dalla zona, mentre il ferito è stato rilasciato senza condizioni e portato allo Shaare Zedek Medical Center di Gerusalemme, dove è stato visitato e poi dimesso.

La polizia afferma che durante l’incidente quattro israeliani, due coloni e due militanti di sinistra, sono stati arrestati. Secondo il comunicato tutti e quattro sono stati rilasciati dopo essere stati interrogati.

Il portavoce dell’Israeli Defence Forces [Forze di Difesa Israeliane, l’esercito israeliano, ndt.] afferma che “vari israeliani e palestinesi si sono scontrati con alcuni abitanti dell’insediamento di Otniel, sottoposto alla giurisdizione della brigata della Giudea. I militari delle IDF che sono arrivati sul posto hanno chiesto ai presenti di andarsene, e quando questi non hanno acconsentito è stato usato equipaggiamento per il controllo dell’ordine pubblico. A causa di ciò sul luogo è scoppiato un incendio, ma è stato spento subito dopo.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La trappola di Oslo: come l’OLP firmò la propria condanna a morte

Raef Zreik

11 settembre 2023 – +972 Magazine

Dalle concessioni asimmetriche alla rinuncia alla lotta armata, il destino dei palestinesi era segnato prima ancora che Arafat e Rabin si stringessero la mano.

Gli Accordi di Oslo furono stipulati quando ero un giovane avvocato allinizio della carriera, dopo aver vissuto per anni come studente a Gerusalemme nel corso della Prima Intifada. Avevo lasciato la città nel 1990, profondamente logorato a causa della stessa Gerusalemme, della tensione costante e dellintensa attività politica contro loccupazione. Non c’è quindi da meravigliarsi che, nonostante la mia contrarietà nei confronti di Oslo, quei giorni mi abbiano comunque dato un piccolo barlume di speranza: forse, dopo tutto, stava nascendo qualcosa di nuovo. Ma per quanto volessi che laccordo funzionasse nel profondo della mia mente sapevo che non sarebbe stato così.

Allepoca lopinione pubblica palestinese comprendeva tutte le categorie di oppositori ad Oslo. Alcuni palestinesi non credettero fin dall’inizio alla soluzione dei due Stati e la consideravano una sconfitta per la causa palestinese. Io non ero uno di loro: piuttosto, la mia opposizione ad Oslo nasceva da una convinzione interiore che gli Accordi stessi non potessero effettivamente portare a una soluzione del genere. Non ero influenzato da ciò che veniva detto in televisione o nei dibattiti pubblici; preferii mettermi a sedere e leggere gli accordi attraverso gli occhi di un giovane avvocato. Dopotutto, un accordo politico deve contenere una propria logica contrattuale: stabilire una tempistica precisa, con delle regole in caso di violazione del contratto e così via. Ebbi l’impressione che i negoziatori palestinesi avrebbero potuto avvalersi di un minimo di consulenza legale.

Come si può ricavare dallo scambio di lettere tra il Primo Ministro israeliano Yitzhak Rabin e il leader dellOrganizzazione per la Liberazione della Palestina Yasser Arafat che precedette la firma degli accordi sul prato della Casa Bianca il 13 settembre del 1993, nella formulazione degli accordi di Oslo sussistono tre problemi centrali.

Il primo è uno squilibrio nel riconoscimento, da parte delle due parti, della reciproca legittimità. LOLP riconosceva Israele e il suo diritto ad esistere, e riconosceva la Risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza (che chiedeva il ritiro dei soldati israeliani dai territori occupati e il riconoscimento della rivendicazione di sovranità, integrità territoriale e indipendenza politica di ciascuno Stato della regione dopo la guerra del 1967) e 338 (che chiedeva un cessate il fuoco dopo la guerra del 1973). Ma, in cambio, Israele non riconosceva il diritto del popolo palestinese ad uno Stato o il suo diritto allautodeterminazione. Semplicemente riconosceva lOLP come unica rappresentante del popolo palestinese.

Questa mancanza di equivalenza rese lOLP poco più che un vaso vuoto; dopo tutto, c’è una differenza tra riconoscere lesistenza dellOLP e riconoscere la legittimità delle sue richieste politiche. Inoltre, allepoca Israele aveva un interesse strategico nel riconoscere lOLP come unica rappresentante del popolo palestinese. Se Israele lo fece è perché il riconoscimento da parte dellOLP del diritto di Israele ad esistere avrebbe rappresentato la voce dellintera nazione palestinese. Il riconoscimento di Israele da parte dellOLP non avrebbe avuto senso se non fosse arrivato da un autentico rappresentante.

In quest’ottica, la natura strumentale dellOLP come organismo rappresentativo è chiara. Un rappresentante può agire nell’interesse o a scapito di chi rappresenta. Il rappresentante può avanzare richieste alla controparte, ma può anche fare concessioni a nome del popolo che rappresenta. Quando lOLP presentò delle chiare rivendicazioni e richieste Israele le respinse, ma quando riconobbe Israele e fece concessioni a nome dei palestinesi Israele non ebbe problemi nel trattare lOLP come portavoce dei palestinesi.

Di fatto lOLP ha sfruttato il capitale simbolico costituito dall’essere il rappresentante del popolo palestinese per emergere sulla scena mondiale e dichiarare lassenza del popolo cancellandone la narrazione. In effetti, questo fu lultimo atto significativo dellOLP nellarena politica. Israele voleva che il riconoscimento dellOLP fungesse da dichiarazione de facto del suo suicidio. Da allora lOLP ha cessato di essere un attore politico importante, e tutto ciò che ne rimane sul piano funzionale è lAutorità Nazionale Palestinese, che funge da subappaltatore di Israele per le violente repressioni in Cisgiordania.

Due anni dopo la firma degli Accordi lOLP si impegnò ad annullare le sezioni della Carta Nazionale Palestinese che non riconoscevano Israele. All’epoca mi sembrò una mossa sconsiderata; pubblicai un articolo su Haaretz dal titolo Non c’è compromesso senza riconoscimento”. Lannullamento delle dichiarazioni della Carta avvenne senza alcuna azione in cambio da parte di Israele, che continuò a rifiutare di impegnarsi a riconoscere uno Stato palestinese nei territori occupati o il diritto allautodeterminazione del popolo palestinese e altri diritti nazionali nella sua patria.

Questi fattori storici hanno contribuito a creare la situazione attuale, in cui Israele è un dato di fattoinamovibile e lambito di territorio sul tavolo delle trattative è stato ristretto dall’intera regione costituita da Israele e Palestina alla sola Cisgiordania, ora lunico territorio rimasto a malapena materia di discussione. Se la disputa riguardasse la Palestina nel suo insieme allora la divisione dellintero territorio dal fiume al mare in due entità sarebbe la soluzione ottimale. Ma se lintero problema si riduce ai territori occupati nel 1967 allora una soluzione ragionevole porterebbe alla divisione del territorio conteso tra coloni e palestinesi.

Questo restringimento del territorio oggetto del dibattito altera drasticamente il campo di gioco: se i palestinesi insisteranno nel volere il controllo della totalità dei territori occupati saranno percepiti come radicali ostinati che rivendicano tutto per sè stessi. Il fatto che i palestinesi abbiano già rinunciato al diritto su più di due terzi della loro patria prima ancora di sedersi al tavolo delle trattative non viene mai preso in considerazione. Questa è stata una trappola tesa ai palestinesi e fino ad oggi non sono riusciti a liberarsene. Sfortunatamente non è lunica trappola di questo tipo.

Autoproclamati terroristi”

Recentemente un crescente coro di voci critiche ha chiesto che lOLP ritiri il riconoscimento di Israele, dal momento che Israele non ha rispettato le condizioni degli Accordi di Oslo. Ma questa è unaffermazione pericolosa. Il riconoscimento, per sua stessa natura, è una tantum e non può essere revocato. Inoltre, il riconoscimento non è un bene tangibile e materiale: la sua importanza risiede nel suo simbolismo e, in assenza di tale simbolismo, è privo di significato.

Se i palestinesi volessero ritirare il loro riconoscimento non potrebbero mai più barattarlo con il ritiro di Israele dai territori sotto suo controllo poiché gli israeliani non crederanno mai che quel riconoscimento non verrebbe nuovamente revocato.

Lo scambio di lettere tra Arafat e Rabin conteneva anche una clausola in cui l’OLP si impegnava non solo a condannare il terrorismo ma anche a rinunciarvi. Per cui la stessa OLP accettò di chiamare la sua lotta fino a quel momento terrorismo”. Ciò ha posto diversi problemi, ma voglio soffermarmi su uno in particolare. Non ho intenzione di avviare un dibattito sulla definizione di terrorismo. Piuttosto il problema è riferito al futuro: cosa accadrà se Israele non accetterà il ritiro dai territori occupati o una soluzione a due Stati? Quali mezzi saranno a disposizione dei palestinesi nella loro lotta contro loccupazione?

La difficoltà di poter dare una risposta a queste domande divenne dolorosamente evidente alla fine degli anni 90. Israele bloccò il processo di Oslo e continuò ad espandere il progetto di colonizzazione. Non era affatto chiaro dove avrebbe portato il processo di Oslo e quale sarebbe stata in definitiva la soluzione permanente. Israele controllava la terra, laria, i confini, lacqua e tutte le risorse, e si limitò a cedere allAutorità Nazionale Palestinese la gestione di parti della popolazione sotto occupazione; in altre parole, Israele ha mantenuto il controllo effettivo, ma ha scaricato tutta la responsabilità sulle spalle dellAutorità Nazionale Palestinese. Inoltre, laccordo non conteneva una clausola esplicita che vietasse la continuazione della costruzione di insediamenti coloniali nei territori occupati.

In questa situazione i palestinesi non potevano né progredire verso [la costituzione di] uno Stato indipendente né ritornare alla logica della rivoluzione e della lotta armata. Non solo non hanno più il potere e lorganizzazione per farlo, ma sono anche formalmente intrappolati dagli Accordi di Oslo. Il mondo, soprattutto Israele, l’Unione Europea e gli Stati Uniti, ha riconosciuto lOLP sulla base della rinuncia al terrorismo e dellaccettazione di alcune regole del gioco. Pertanto, un ritorno alla lotta armata sarebbe inevitabilmente visto come un ritorno al terrorismo; solo che questa volta, sarebbero proprio i palestinesi ad aver dato un nome alla loro lotta avendola essi stessi chiamata terrorismo. Quindi anche il resto del mondo è abilitato a chiamarla terrorismo.

Il significato pubblico diterrorismosi è trasformato tra la Prima e la Seconda Intifada. La Prima Intifada ebbe inizio nel corso di una generazione dallinizio delloccupazione quindi il mondo vide in essa e nella più ampia lotta palestinese una risposta legittima al dominio militare. La Seconda Intifada, che giunse come risposta alla massiccia violenza israeliana in seguito alla visita del primo ministro israeliano Ariel Sharon allHaram al-Sharif/Monte del Tempio nel settembre 2000, avvenne sullo sfondo dei colloqui di pace di Oslo. Per la maggior parte, gli osservatori internazionali considerarono ogni pietra lanciata durante la Prima Intifada come lanciata contro loccupazione e a favore della liberazione nazionale, ma il lancio di pietre avvenuto dopo Oslo è stato visto come [atto di] terrorismo”.

Il contesto era cambiato, e con esso il significato della resistenza palestinese. Il risultato è stato che i colloqui di pace con Israele non sono riusciti a raggiungere alcun obiettivo, ma anche il ritorno alla lotta armata è problematico. I palestinesi sono in trappola.

Non ho intenzione di proporre un programma per il futuro, ma penso che qualsiasi proposito di tornare indietro, ricostituire lOLP e tornare ai principi su cui lorganizzazione è stata fondata 60 anni fa sarebbe ormai destinato ad un fallimento. Da qui possiamo solo andare avanti.

LOLP ha fatto il suo lavoro; ha impresso la parola Palestinanella coscienza del mondo e ha dimostrato che esiste qualcosa come il popolo palestinese. La generazione di oggi ha un ruolo diverso in una realtà diversa: redigere un nuovo programma con la consapevolezza che tra il mare e il fiume ci sono 7 milioni di ebrei e 7 milioni di palestinesi, e che gli israeliani controllano i palestinesi e mantengono un regime di supremazia ebraica che ogni giorno espelle questi ultimi dalla loro terra. Questo è il nostro punto di partenza.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Meta rimuove il profilo di un presentatore di Al Jazeera dopo una trasmissione critica nei confronti di Israele

Redazione di Al Jazeera

10 settembre 2023 – Al Jazeera

La puntata di Tip of the Iceberg ha analizzato come Facebook prende di mira contenuti palestinesi relativi a Israele.

Il profilo Facebook di Tamer Almisshal, presentatore arabo di Al Jazeera, è stato cancellato da Meta 24 ore dopo che il suo programma Tip of the Iceberg [Punta dell’iceberg] ha trasmesso The Locked Space [Lo Spazio Blindato], un’indagine sulla censura dei contenuti palestinesi attuata da Meta.

L’inchiesta del programma andato in onda venerdì includeva l’ammissione da parte di Eric Barbing, ex capo dei sistemi di cybersicurezza di Israele, che la sua organizzazione tenta di rintracciare i contenuti palestinesi secondo criteri come i “like” sotto una foto di un palestinese ucciso dall’esercito israeliano.

Poi l’agenzia si mette in contatto con Facebook sostenendo che quel contenuto dovrebbe essere rimosso.

Secondo Barbing di solito Facebook accoglie le richieste e gli apparati di sicurezza di Israele danno seguito al caso, anche avviando un’inchiesta giudiziaria.

Alle ammissioni di Barbing l’inchiesta faceva seguire interviste a vari esperti di diritti umani e digitali che concordavano sul fatto che c’è un’evidente disparità nel modo in cui sono limitati i contenuti palestinesi.

Nel programma si intervistava anche Julie Owono, che fa parte dell’organo di vigilanza di Facebook, che ha ammesso che c’è una discrepanza nel modo in cui le regole sono interpretate e applicate ai contenuti palestinesi, aggiungendo che sono state inviate a Facebook delle raccomandazioni per modificare la situazione.

Al Jazeera ha chiesto a Facebook il motivo della chiusura del profilo di Almisshal senza un preavviso o una spiegazione. Al momento della pubblicazione non ha ricevuto alcuna risposta.

Colpire un giornalista’

Almisshal afferma che il profilo rimosso è la sua pagina personale, che ha aperto nel 2006 ed è controllata. Ha almeno 700.000 follower.

Dopo l’enorme successo della puntata ho scoperto che il mio profilo personale Facebook era stato disabilitato senza spiegazioni,” dice ad Al Jazeera. “Sembra proprio una specie di vendetta per il programma. Non abbiamo ancora ricevuto una riposta da Facebook.”

La redazione del programma aveva iniziato un’inchiesta su quanto ampia sia la differenza fra i post palestinesi e quelli israeliani e su come i rispettivi materiali sono trattati da Facebook.

Per farlo si è ideato un esperimento costruendo due pagine differenti, una con un punto di vista filopalestinese e l’altra con uno filoisraeliano, e ha fatto delle prove. Il team ha concluso che in effetti c’era una notevole discrepanza su quanta attenzione veniva dedicata ai post delle due pagine e su come le regole vi erano applicate.

Non è chiaro perché Facebook abbia scelto di rimuovere la pagina di un singolo individuo in risposta a un programma.

Non ci sono state spiegazioni o avvertimento,” dice Almisshal. “Non ci sono mai stati problemi prima con nessuno dei contenuti della mia pagina. Nessun messaggio che dicesse che avevo infranto una regola.”

Almisshal difende il suo programma.

Lo scorso marzo Facebook aveva imposto delle limitazioni al mio account, ed era successo altre volte, ma normalmente la situazione veniva risolta,” conclude. “Questo era un progetto giornalisticamente valido e l’abbiamo comunicato a Meta per dar loro l’opportunità di parlare durante l’inchiesta.

Ma invece prendere di mira un singolo giornalista… non me lo sarei mai aspettato.”

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)