Israele deve porre fine all’occupazione della Palestina per smettere di alimentare l’apartheid e le violazioni sistematiche dei diritti umani

18 febbraio 2024 – Amnesty International

In occasione dell’inizio delle udienze pubbliche presso la Corte Internazionale di Giustizia (CIG) per l’esame delle conseguenze sul piano legale delloccupazione prolungata da parte di Israele Amnesty International ha dichiarato che Israele deve porre fine alla brutale occupazione di Gaza e della Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, iniziata nel 1967.

Le udienze pubbliche sono in programma all’Aia dal 19 al 26 febbraio in seguito alla risoluzione con cui nel dicembre 2022 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha richiesto un parere consultivo alla CGI sulla legalità delle politiche e delle prassi di Israele nei Territori Palestinesi Occupati (TPO) e sulle conseguenze per gli altri Stati e per l’ONU della condotta di Israele. Parteciperanno ai lavori più di 50 Stati, l’Unione Africana, la Lega Araba e l’Organizzazione per la Cooperazione Islamica.

Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty International, ha affermato: Loccupazione israeliana della Palestina è la più lunga e una delle più letali occupazioni militari al mondo, caratterizzata da decenni di diffuse e sistematiche violazioni dei diritti umani contro i palestinesi. Loccupazione militare ha anche consentito e rafforzato il sistema israeliano di apartheid imposto a tutti i palestinesi e nel corso degli anni si è trasformata in unoccupazione perpetua in flagrante violazione del diritto internazionale”.

Lattuale conflitto che infuria nella Striscia di Gaza occupata, dove la CIG ha stabilito che esiste un rischio reale e imminente di genocidio, ha messo in luce le conseguenze catastrofiche del permettere che i crimini internazionali di Israele nei territori occupati continuino impunemente per così tanto tempo.” – continua Callamard –Il mondo deve riconoscere che porre fine alloccupazione illegale di Israele è un prerequisito per fermare le ricorrenti violazioni dei diritti umani in Israele e nei TPO”.

Occupazione ‘perpetua’

Secondo il diritto internazionale umanitario loccupazione di un territorio durante un conflitto è intesa come temporanea. La potenza occupante è tenuta ad amministrare il territorio nell’interesse della popolazione sotto occupazione e a preservare quanto più possibile la situazione che esisteva all’inizio dell’occupazione, anche rispettando le leggi esistenti e astenendosi dall’introdurre cambiamenti demografici e dall’alterare l’integrità territoriale.

Loccupazione israeliana non è stata in grado di allinearsi con questi principi fondamentali del diritto umanitario internazionale. La durata delloccupazione israeliana – più di mezzo secolo – insieme allannessione ufficiale autoritaria e illegale di Gerusalemme Est occupata e allannessione di fatto di ampie aree della Cisgiordania attraverso la confisca delle terre e lespansione delle colonie, forniscono una chiara prova che lintenzione di Israele è rendere loccupazione permanente e a beneficio della potenza occupante e dei suoi cittadini.

La Striscia di Gaza è rimasta occupata anche dopo il ritiro delle forze israeliane e lallontanamento dei coloni nel 2005, poiché Israele ha mantenuto il dominio effettivo sul territorio e sulla sua popolazione, anche attraverso il controllo dei suoi confini, delle acque territoriali, dello spazio aereo e dell’anagrafe. Per 16 anni loccupazione è stata vissuta a Gaza attraverso il blocco illegale da parte di Israele che ha gravemente limitato la circolazione di persone e merci e ha devastato leconomia della Striscia, e dopo ripetuti episodi di ostilità che hanno ucciso e ferito migliaia di civili e distrutto gran parte delle infrastrutture e abitazioni di Gaza.

Tutti gli Stati devono rivedere le loro relazioni con Israele per garantire che non stiano contribuendo a sostenere loccupazione o il sistema di apartheid”, afferma Callamard. Mentre i ministri degli Esteri europei si riuniscono oggi a Bruxelles la necessità di lanciare un appello chiaro e unito per la fine delloccupazione israeliana non è mai stata così urgente”.

La vita sotto l’occupazione

I palestinesi che vivono sotto loccupazione israeliana sono soggetti a una miriade di violazioni dei diritti umani, mantenute da un regime istituzionalizzato di dominazione e oppressione sistematiche. Le leggi discriminatorie e repressive, ufficialmente adottate come parte delloccupazione ma di fatto al servizio degli obiettivi del sistema israeliano di apartheid israeliano, hanno frammentato e segregato i palestinesi nei territori occupati, sfruttando illegalmente le loro risorse, limitando arbitrariamente i loro diritti e le loro libertà e controllando quasi ogni aspetto della loro vita.

Anche prima delle ultime ostilità i palestinesi di Gaza sono stati sottoposti a numerose offensive militari israeliane – almeno sei tra il 2008 e il 2023 – oltre a un persistente blocco terrestre, aereo e marittimo che ha contribuito a mantenere un controllo effettivo e loccupazione di Gaza da parte di Israele. Durante quelle offensive, Amnesty International ha documentato una schema ricorrente di attacchi illegali, che costituiscono crimini di guerra e persino crimini contro lumanità, mentre il perdurare del blocco costituisce una punizione collettiva, anchessa un crimine di guerra.

In Cisgiordania, inclusa Gerusalemme Est occupata, i palestinesi affrontano regolarmente un uso eccessivo della forza, uccisioni illegali, arresti arbitrari, detenzione amministrativa, sfollamenti forzati, demolizioni di case, confisca di terre e risorse naturali e negazione dei diritti e delle libertà fondamentali. Il sistema di chiusura a più livelli di Israele, rafforzato da una sorveglianza di massa, barriere fisiche e restrizioni giuridiche, tra cui muri e recinzioni illegali, centinaia di checkpoint e posti di blocco e un regime arbitrario, ha limitato la libertà di movimento dei palestinesi e perpetuato la loro privazione dei diritti civili.

Tra gli esempi più emblematici del totale disprezzo di Israele per il diritto internazionale si evidenzia la creazione e lincessante diffusione di colonie israeliane in tutti i TPO e lannessione illegale di Gerusalemme Est occupata subito dopo la guerra del 1967, sancita costituzionalmente nel 1980. Attualmente in Cisgiordania, inclusa Gerusalemme est occupata, ci sono almeno 300 insediamenti e avamposti coloniali israeliani illegali con una popolazione di oltre 700.000 coloni.

Per 56 anni i palestinesi nei TPO hanno vissuto intrappolati e oppressi sotto la brutale occupazione israeliana, soggetti a una discriminazione sistematica. Ogni aspetto della loro vita quotidiana è sconvolto e controllato dalle autorità israeliane, che pongono restrizioni ai loro diritti di spostarsi, guadagnarsi da vivere, perseguire aspirazioni educative e professionali e godere di una qualità di vita dignitosa, oltre a privarli dellaccesso alla loro terra e alle loro risorse naturali”, afferma Agnès Callamard.

Inoltre Israele ha continuato le sue feroci politiche di furto di terre espandendo incessantemente le colonie illegali in violazione del diritto internazionale con conseguenze devastanti per i diritti umani e la sicurezza dei palestinesi. Da decenni i violenti coloni israeliani attaccano i palestinesi nella pressoché totale impunità.

Un sistema di controllo draconiano

Il draconiano sistema di controllo di Israele sui TPO comprende una vasta rete di posti di blocco militari, muri e recinzioni, basi e pattuglie militari, nonché una serie di imposizioni militari repressive.

Il controllo da parte di Israele dei confini dei TPO, dei registri anagrafici, della fornitura di acqua, elettricità, servizi di telecomunicazione, dell’assistenza umanitaria e allo sviluppo, e l’imposizione della sua valuta hanno avuto effetti devastanti sullo sviluppo economico e sociale del popolo palestinese nei TPO.

Questo controllo ha raggiunto livelli di crudeltà senza precedenti nella Striscia di Gaza, dove Israele mantiene da 16 anni un blocco illegale ulteriormente rafforzato dal 9 ottobre 2023. Il blocco, insieme alle ricorrenti operazioni militari israeliane, hanno gettato la Striscia di Gaza in una delle più gravi crisi umanitarie e dei diritti umani dei tempi moderni.

In quanto potenza occupante Israele ha lobbligo di garantire la protezione e il benessere di tutti coloro che risiedono nel territorio che controlla. Invece, ha perpetrato impunemente gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani. Israele menziona come motivo delle sue politiche crudeli la necessità di mantenere la sicurezza. Ma la sicurezza non può mai giustificare lapartheid, le annessioni e gli insediamenti coloniali illegali, o i crimini di guerra contro la popolazione protetta. Lunico modo per garantire la sicurezza a israeliani e palestinesi è sostenere i diritti umani per tutti”, afferma Callamard.

Porre fine alloccupazione significherebbe ripristinare i diritti dei palestinesi revocando il brutale blocco su Gaza, smantellando le colonie israeliane in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, e annullando la loro annessione illegale. Permetterebbe ai palestinesi di muoversi liberamente nelle aree in cui vivono e consentirebbe il ricongiungimento alle famiglie separate da condizioni diverse di riconoscimento giuridico – come la residenza a Gerusalemme e in Cisgiordania o nella Striscia di Gaza. Allevierebbe le sofferenze di massa e porrebbe fine alle violazioni su vasta scala dei diritti umani.

Contribuirebbe inoltre ad affrontare una delle cause profonde della violenza e dei crimini di guerra ricorrenti contro gli israeliani, contribuendo così a migliorare la tutela dei diritti umani e a garantire giustizia e riparazione per le vittime di tutte le parti.

Antefatti

Il 30 dicembre 2022 lAssemblea Generale dell’ONU ha adottato la risoluzione A/RES/77/247, con la quale ha richiesto alla Corte Internazionale di Giustizia un parere consultivo su questioni chiave riguardanti: le conseguenze legali derivanti dalla occupazione prolungata e dalla colonizzazione e annessione del territorio palestinese occupato dal 1967; la modalità in cui le politiche e le pratiche di Israele influenzano lo status giuridico delloccupazione; l’entità delle conseguenze legali scaturite da questo status per tutti gli Stati e per lONU.

Si prevede che la Corte emetta il suo parere consultivo entro la fine dell’anno.

Per sessantanni Amnesty International ha documentato come le forze israeliane abbiano commesso impunemente gravi violazioni dei diritti umani negli OPT. Nel 2022, lorganizzazione ha pubblicato il rapporto sullapartheid israeliano contro i palestinesi: “Un sistema crudele di dominazione e di crimini contro lumanità”. Questo rapporto evidenzia il ruolo radicato che lesercito israeliano e la sua occupazione hanno avuto nel perpetuare il sistema di apartheid. Molti dei risultati e delle raccomandazioni del rapporto sottolineano lurgente necessità di porre fine alloccupazione israeliana per rimuovere le circostanze che consentono i crimini contro lumanità e di guerra.

Contatta:  media@aiusa.org

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




La distruzione dei tesori delle molte culture di Gaza

Ibtisam Mahdi 

17 febbraio 2024 +972 Magazine

La guerra di Israele ha ridotto in rovine il ricco patrimonio di migliaia di anni a Gaza, e gli esperti palestinesi denunciano la distruzione come genocidio culturale

Dall’inizio dei bombardamenti israeliani sulla Striscia di Gaza gli innumerevoli tesori del patrimonio culturale palestinese sono stati danneggiati o distrutti. Come gran parte del resto dell’enclave assediata, questi inestimabili e amati monumenti della storia del nostro popolo – siti archeologici, strutture religiose millenarie e musei con antiche collezioni – ora giacciono in rovina.

Il patrimonio culturale è una componente essenziale dell’identità di una nazione e ha un enorme significato simbolico, riconosciuto e protetto da innumerevoli convenzioni, trattati e organismi internazionali. Eppure il martellamento di Gaza da parte di Israele, giunto ormai al quinto mese, mostra uno spietato disprezzo per queste testimonianze della millenaria storia culturale di Gaza – a tal punto che potrebbe consistere in un genocidio culturale.

I ricercatori stanno cercando disperatamente di catalogare questi siti e di accertare il loro stato attuale, ma non riescono a tenere il passo con il ritmo della carneficina. E mentre la perdita di vite umane è la più grande tragedia di qualsiasi guerra, la distruzione da parte di Israele del patrimonio culturale materiale di Gaza raggiunge più o meno lo stesso obiettivo: la cancellazione del popolo palestinese. In effetti, molti degli intervistati in questo articolo ritengono che sia proprio questo il motivo per cui questi siti vengono presi di mira.

Tesori nazionali

Hamdan Taha è un rinomato studioso, archeologo ed ex direttore generale del Dipartimento palestinese delle Antichità di Gaza. Dopo essere riuscito a lasciare la Striscia, in un’intervista a +972 Magazine ha sottolineato il profondo ruolo storico e di civiltà svolto dalla Palestina in generale, e da Gaza in particolare, nonostante le piccole dimensioni geografiche.

Gaza è stata testimone di mescolanze culturali in cui le civiltà si sono intrecciate, dando origine a un patrimonio culturale ricco e diversificato”, ha spiegato. Taha ha sottolineato in particolare il porto di Gaza, che per secoli è stato un importante snodo commerciale attraverso il Mediterraneo e fulcro del suo multiculturalismo.

Il patrimonio culturale riflette la nostra identità nazionale”, ha continuato. “È la testimonianza delle epoche storiche e delle civiltà che hanno attraversato la nostra Patria. È tesoro nazionale”.

Secondo Taha, l’importanza nazionale di questi siti e il loro potenziale nel portare turismo e rilanciare l’economia di Gaza “ha portato Israele a distruggere intenzionalmente edifici storici e archeologici, con l’obiettivo di cancellare il legame tra il popolo di Gaza, la sua terra e la sua storia.” Israele, ha aggiunto Taha, “vuole scollegare il popolo di Gaza dalla storia del territorio, cercando allo stesso tempo di creare una propria narrativa di legame con il luogo”.

Durante la guerra su Gaza del 2014, Taha e altri archeologi formarono un comitato per valutare ufficialmente i danni causati dagli attacchi israeliani. Hanno lavorato per restaurare e catalogare tutte le antichità di Gaza, in parte per prepararsi a futuri bombardamenti. Eppure la portata della guerra attuale ha sopraffatto i loro sforzi.

Dato il continuo bombardamento della Striscia dal 7 ottobre è stato incredibilmente difficile per Taha e altri esperti valutare l’entità del danno, nonostante i migliori sforzi degli studiosi palestinesi e stranieri che stanno monitorando la situazione da remoto.

“La maggior parte delle informazioni che otteniamo provengono da giornalisti e persone che catturano immagini casualmente e fugacemente, ha spiegato. “E facciamo affidamento sulle informazioni fornite dai residenti che vivono nelle vicinanze delle aree prese di mira e sulle notizie dell’ultima ora”. Da questi resoconti sembra che i bombardamenti israeliani abbiano lasciato poco dietro di sé.

Per gli esperti è difficile documentare mentre vengono presi di mira”

Uno dei fotoreporter che documentano questo disastro è Ismail al-Ghoul, che attualmente risiede a Gaza City e lavora per Al Jazeera. Ha fotografato le rovine della chiesa bizantina antica di 1.600 anni nel distretto di Jabalia e l’hammam al-Sammara, un “bagno turco” secolare nel quartiere di Zeitoun.

L’ultimo hammam storico rimasto nella Striscia di Gaza, con una storia che dura da quasi mille anni, ora giace in totale rovina”, ha lamentato. “La maggior parte delle persone a Gaza frequentavano questo hammam e vi vivevano un’esperienza bellissima e indimenticabile. Anche i visitatori di Gaza cercavano di sperimentare le sue famose proprietà curative e terapeutiche”.

Al-Ghoul ha anche fotografato le rovine del Qasr al-Basha (Palazzo del Pascià) del XIII secolo, che si distingueva per la notevole conservazione dei dettagli architettonici. Più del 90% del palazzo è stato distrutto dai bombardamenti israeliani e dalle successive demolizioni, lasciandone in piedi solo una piccola parte. 

Nonostante la dedizione di fotoreporter come al-Ghoul, la guerra ha reso impossibile documentare l’intera portata dei danni. “È difficile per gli esperti tenere il conto mentre si trovano essi stessi in una condizione di sfollamento, presi di mira e costretti a spostarsi continuamente da un luogo all’altro”, ha spiegato Taha. “Abbiamo perso più di 10 esperti di antichità, tra cui quattro archeologi”.

Tra gli altri siti del patrimonio che si conferma abbiano subito gravi danni c’è la Grande Moschea Omari, la più grande e antica del nord di Gaza, con una storia che, secondo alcuni resoconti, risale a 2.500 anni fa. L’intera struttura è stata distrutta, tranne il solo minareto. La moschea incarnava la ricca e diversificata storia della Striscia: originariamente un antico tempio pagano, fu successivamente trasformato in chiesa bizantina e infine convertita in moschea durante le conquiste islamiche.

Anche la moschea Sayyed Hashim di Gaza City è stata gravemente danneggiata. Situata nella città vecchia, la moschea ospitava la tomba di Hashim ibn Abd Manaf, il nonno del profeta Maometto, così strettamente identificato con la città che nella letteratura palestinese viene spesso definita “la Gaza di Hashim”. Anche la Chiesa di San Porfirio, localmente chiamata “Chiesa greco-ortodossa” – che, costruita nel 425 d.C., era una delle chiese più antiche del mondo – è stata danneggiata e uno degli edifici nel comprensorio della chiesa è stato completamente distrutto. 

Taha ha sottolineato che i danni non sono limitati esclusivamente al nord della Striscia. Il Museo di Rafah, nel sud di Gaza, l’unico museo della zona, è stato completamente distrutto. Il Museo Al Qarara vicino a Khan Younis, che aveva una collezione di circa 3.000 manufatti risalenti ai Cananei, la civiltà dell’età del bronzo che visse a Gaza e in gran parte del Levante nel II secolo a.C., è stato gravemente danneggiato. Anche il santuario di Al-Khader nella città della zona centrale Deir al-Balah, che riveste un significato speciale in quanto primo e più antico monastero cristiano costruito in Palestina, è stato danneggiato nel bombardamento di un’area vicina.

In tutta la Striscia, Israele ha danneggiato e distrutto siti storici secolari come sono quelli affiliati all’Islam e al Cristianesimo. Tutto è un obiettivo.

Tutta la storia di Gaza è sull’orlo del collasso”

Haneen Al-Amassi, ricercatrice archeologica e direttrice esecutiva della fondazione Eyes on Heritage varata lo scorso anno, vede la distruzione dei siti archeologici come parte di una più ampia campagna contro l’esistenza dei palestinesi.

I siti archeologici sono prove fisiche e tangibili che attestano il diritto dei palestinesi alla terra di Palestina e la loro esistenza storica su di essa, dall’età della pietra ai giorni nostri”, ha detto a +972. “La distruzione di questi siti nella Striscia di Gaza in modo così brutale e sistematico è un tentativo disperato da parte dell’esercito di occupazione di cancellare le prove del diritto del popolo palestinese alla propria terra”.

Al-Amassi ha elencato numerose perdite significative. L’antico porto di Gaza, noto anche come porto di Anthedon o Al-Balakhiya, che risale all’800 a.C., è stato distrutto. Anche Dar al-Saqqa (casa Al-Saqqa) nel quartiere Shuja’iya, nella parte orientale di Gaza City, costruita nel 1661 e considerata il primo forum economico in Palestina, è stata gravemente danneggiata.

La distruzione di questi monumenti e siti archeologici, ha sottolineato Al-Amassi, rappresenta una perdita significativa per il popolo palestinese, che sarà difficile, se non impossibile, compensare. “È impossibile restaurare questi monumenti di fronte ai continui bombardamenti”, ha detto. “E con il vergognoso silenzio degli attori internazionali, ci saranno solo altri bombardamenti sui siti archeologici di Gaza. Tutta la sua storia e sacralità sono sull’orlo del collasso”.

Anche quando non sono l’obiettivo principale dei bombardamenti israeliani, i siti archeologici vengono comunque gravemente danneggiati. Al-Amassi piange il Museo Khoudary, noto anche come Mat’haf al-Funduq (Museum Hotel) nel nord di Gaza, che ospitava migliaia di pezzi archeologici unici, alcuni risalenti ai periodi cananeo e greco; il museo è stato notevolmente danneggiato dal bombardamento dell’adiacente moschea Khalid ibn al-Walid.

Allo stesso modo, il Khan di Amir Younis al-Nawruzi, un forte storico costruito nel 1387 nel centro della città meridionale di Khan Younis, è stato danneggiato quando è stato bombardato il vicino edificio del comune. Anche il Monastero di Sant’Ilarione a Tell Umm el-Amr vicino a Deir al-Balah, che risale a più di 1600 anni fa, e la Casa Al-Ghussein di Gaza City, un edificio storico risalente al tardo periodo ottomano, sono stati entrambi danneggiati quando sono state bombardate delle zone nelle vicinanze.

L’Euro-Med Human Rights Monitor, con sede a Ginevra, ha accusato Israele di “prendere di mira chiaramente e intenzionalmente tutte le strutture storiche della Striscia di Gaza”. Il Ministero del Turismo e delle Antichità di Gaza ha affermato lo stesso in un comunicato stampa di fine dicembre: “L’occupazione sta deliberatamente commettendo un massacro contro i siti storici e archeologici della città vecchia di Gaza, assassinando la storia e le tracce delle civiltà che sono passate attraverso la Striscia di Gaza per migliaia di anni.”

Tale distruzione, mirata o meno, costituisce una violazione della Convenzione dell’Aja del 1954, che mira a proteggere il patrimonio culturale sia in tempo di pace che in guerra. Al-Amassi spera che l’Autorità Palestinese includa queste violazioni nella sua petizione alla Corte Penale Internazionale.

Una decisa accelerazione di pratiche consolidate

Come hanno sottolineato numerosi ricercatori, la distruzione in corso a Gaza è in linea con la lunga storia delle pratiche di cancellazione e appropriazione israeliane. Eyad Salim, storico e ricercatore archeologo di Gerusalemme, ha elencato diversi siti del patrimonio che sono stati distrutti dalle forze israeliane dopo la Nakba del 1948.

Nei villaggi palestinesi distrutti nel 1948, le moschee, i santuari islamici e i siti del patrimonio culturale furono chiusi, distrutti o convertiti in sinagoghe”, ha detto. “Si tratta di una lunga e ampia questione .”

Altri esempi includono la distruzione dei quartieri Sharaf e Mughrabi insieme a molte tombe di musulmani giusti nella Città Vecchia di Gerusalemme all’indomani della guerra del 1967 al fine di creare una piazza di fronte al Muro del Pianto. Salim sottolinea che vari enti statali israeliani – l’esercito, l’Autorità per le Antichità e l’Amministrazione Civile – hanno tutti avuto un ruolo in questa distruzione e appropriazione.

Per attuare il piano di costruire il suo ‘Stato ebraico’, Israele deve confrontarsi con sfide identitarie, geografiche e demografiche”, ha continuato. “Quindi attribuisce a sé le città, i villaggi, i punti di riferimento urbani, la moda, il cibo, l’artigianato e le industrie tradizionali [palestinesi] promuovendoli nei forum internazionali e utilizzandoli come parte del suo progetto giudaizzante”.

Gran parte di questa obliterazione avviene in modo subdolo, semplicemente rendendo difficile la sopravvivenza delle istituzioni del patrimonio culturale palestinese. Ciò è particolarmente evidente a Gerusalemme, ha spiegato Salim, dove il Comune applica tasse irragionevolmente elevate, sorveglia le istituzioni culturali, richiede arbitrariamente informazioni, blocca i finanziamenti, minaccia chiusure e vieta qualsiasi segnale di sostegno ufficiale del governo palestinese ad istituzioni in Gerusalemme.

Ciò a cui stiamo assistendo attualmente a Gaza, tuttavia, è una forte accelerazione nella cancellazione del patrimonio palestinese da parte di Israele. E la rapida distruzione di così tanti siti preziosi durante le prime settimane di guerra ha innestato rapidamente una grande preoccupazione per gli archeologi e i ricercatori di tutto il mondo arabo.

L’11 e il 12 novembre l’Egitto ha ospitato la XXVI Conferenza Internazionale della Lega degli Archeologi Arabi, incentrata sulla solidarietà con il popolo di Gaza.

A rappresentare la Palestina c’era Husam Abu Nasr, uno storico di Gaza che stava accompagnando sua madre in Egitto per cure mediche quando è scoppiata la guerra. Abu Nasr ha presentato un rapporto sui musei della Striscia che fino a quel momento erano stati danneggiati dalla guerra, e la Lega ha istituito un fondo per sostenere la ricostruzione e il restauro di tutti i siti e le istituzioni del patrimonio, così come di tutte le istituzioni educative che sono state distrutte a Gaza. Ha anche promesso di fornire consulenza sugli sforzi di ripristino quando la guerra finirà.

Prendendo di mira edifici e siti storici, archeologi, accademici e i ricercatori, Israele cerca di cancellare l’identità palestinese e in particolare l’identità di Gaza, per renderla priva di storia e civiltà”, ha detto Abu Nasr a +972. “Israele vuole cancellare la nostra memoria nazionale, promuovere la distorsione dei fatti e combattere la narrativa palestinese”. Ciò, ha sottolineato, costituisce una violazione del diritto internazionale e umanitario.

Dando una prospettiva alla distruzione del patrimonio di Gaza da parte di Israele, Taha ha sottolineato che “le vite umane sono la cosa più importante, e nulla viene prima di esse. Ma allo stesso tempo preservare e proteggere il patrimonio e la cultura è parte integrante della protezione delle persone e della loro anima.

Non solo i palestinesi di Gaza, ma l’umanità intera subirà una grande perdita se Israele continuerà a distruggere il patrimonio culturale della Striscia di Gaza senza affrontarne le conseguenze”.

In una dichiarazione a +972, il portavoce dell’IDF ha affermato: “L’IDF evita il più possibile i danni alle antichità e ai siti storici. Come documentato e presentato dall’IDF durante la guerra, l’assimilazione e l’utilizzo di Hamas dell’ambiente civile avviene su vasta scala ed è senza precedenti.

“Hamas utilizza sistematicamente edifici pubblici che servono a scopi civili, compresi edifici governativi, istituzioni educative, istituzioni mediche, edifici religiosi e siti del patrimonio”, continua la dichiarazione. “Nell’ambito della distruzione delle capacità militari di Hamas, esiste, tra le altre cose, la necessità operativa di distruggere o attaccare le strutture in cui l’organizzazione terroristica colloca un’infrastruttura di combattimento. Ciò include le strutture che Hamas ha regolarmente riconvertito per combattere. L’IDF è impegnata nel rispetto del diritto internazionale e agisce in base ad esso e ai valori dell’IDF”.

Ibtisam Mahdi è una giornalista freelance di Gaza specializzata in reportage su questioni sociali, in particolare riguardanti donne e bambini. Lavora anche con organizzazioni femministe a Gaza per reportage e comunicazioni.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Ex funzionario del Mossad: a Gaza i bambini di età superiore ai 4 anni meritano di morire di fame

Jonathan Ofir

15 Febbraio 2024Mondoweiss

In un’intervista alla televisione israeliana, l’ex funzionario del Mossad Rami Igra ha affermato che tutti i palestinesi di Gaza di età superiore ai 4 anni sono “coinvolti” e meritano di affrontare la politica di punizione collettiva di Israele che consiste nel negare cibo e aiuti umanitari.

La depravazione morale genocida di Israele continua a sprofondare in nuovi abissi.

Martedì, l’emittente pubblica israeliana Kan ha trasmesso un programma di notizie sul “130° giorno di guerra” condotto dalla veterana Ayala Hasson. Durante il programma ha intervistato l’ex funzionario del Mossad Rami Igra, che era stato a capo dell’agenzia di spionaggio e assassinio “Divisione Captive & Missing”.

Igra ha fatto eco all’affermazione del presidente Isaac Herzog secondo cui “non ci sono [civili] non coinvolti a Gaza”. Igra sottolinea il punto dicendo “Non esiste una cosa del genere”, mentre Hasson lo interrompe affermando “Hai ragione, hai ragione”.

Ingra poi prosegue specificando questo assioma genocida in modo bizzarro, esentando i bambini di età inferiore ai quattro anni:

A Gaza tutti sono coinvolti. Tutti hanno votato Hamas. Chiunque abbia più di quattro anni è un sostenitore di Hamas. E il nostro obiettivo in questo momento, e questo è conseguente a quello che hai detto, è trasformarli da sostenitori di Hamas in avversari di Hamas”.

Questo messaggio folle e delirante è accompagnato da un approccio apparentemente “umanitario”:

E il modo è fornire noi gli aiuti umanitari”.

Quindi, questo colonialista illuminato sta dicendo che se Israele, piuttosto che l’UNRWA (che Israele sta attaccando, infangando e facendo pressioni per definanziare), sarà il fornitore, allora i palestinesi impareranno cos’è Israele!

All’interno della macchina del genocidio israeliano tutti sanno che la frase “tutti sono coinvolti” significa che tutti possono essere uccisi. Tutti lo sanno. Quindi Hasson ritiene necessario moderare un po’ il messaggio, ma prima sottolinea il suo totale accordo con il messaggio:

OK, guarda, per quanto riguarda i non coinvolti, ogni casa a Gaza è un quartier generale di Hamas, armi, Al Aqsa, tutto, ci sono tutti i segnali”.

Hasson in effetti glielo concede . Tutto ciò non è in discussione. “Ogni casa a Gaza”.

Ma ora, un po’ di tolleranza:

Eppure, come hai detto, bambini da zero a quattro anni? Non sono coinvolti – forse quando cresceranno lo saranno. Nel frattempo non si può farli morire di fame, sono bambini, non c’è niente da fare”.

Proviamo a ricapitolare questa logica sbalorditiva. Hasson capisce che Igra sta parlando di una punizione collettiva genocida – usando la fame come arma di guerra – ma sostiene che i bambini sotto i quattro anni non dovrebbero essere fatti morire di fame perché “sono bambini”. Ergo, un bambino che raggiunge i quattro anni, non è più un bambino e, quindi, a quel punto può morire di fame

“Sono d’accordo con te”, afferma Igra

Questo è nell’interesse di tutti noi”, aggiunge Hasson.

Ma anche contro il nostro interesse”, conferma Igra.

Sì, esattamente”, concorda Hasson.

Ci si potrebbe quasi commuovere dall’emozione per lo straordinario consenso a cui arrivano questi due liberali. Sono partiti dalla visione tradizionale secondo cui tutti gli abitanti di Gaza sono un bersaglio legittimo per il genocidio, ma poi sono riusciti a trovare un terreno comune su una visione più sfumata secondo cui i bambini di età inferiore ai quattro anni dovrebbero essere considerati bambini.

Gli israeliani non hanno idea della profondità dell’abisso morale in cui sono sprofondati. È ormai una cultura genocida così impoverita di senso morale da essere senza speranza, e ritiene ancora di avere tutto sotto controllo. Hanno certamente ancora il controllo sui palestinesi, ma hanno completamente perso il controllo. E lo stesso vale per chi continua a sostenere questo abominio in nome della democrazia e dei valori condivisi.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




L’insegnante palestinese sfollata non si è lasciata scoraggiare dalla guerra di Israele contro Gaza

Hala Alsafadi

14 febbraio 2024 – Middle East Eye

Finché vivo insegnerò ai bambini”, afferma Asma Mustafa, vincitrice di un premio per il suo lavoro di docente

Nel 2020, la palestinese Asma Mustafa, che insegna inglese di Gaza, ha vinto il Global Teacher Award, un premio cui partecipano migliaia di insegnanti da 110 Paesi. 

Nonostante viva in un’enclave sotto assedio con un limitato accesso al mondo esterno, Mustafa ha presentato idee creative per insegnare l’inglese con giochi e viaggi immaginari intorno al mondo. 

Quattro anni dopo Mustafa è stata costretta a sfollare nella zona di Al-Mawasi a Rafah, eppure resiste mentre la guerra di Israele continua ad avere un impatto su tutti gli aspetti della vita dei palestinesi.

Fino ad ora Mustafa ha dovuto scappare tre volte, la prima lasciando la sua casa nel nord di Gaza per rifugiarsi in una scuola al sud.

Dopo esserci spostati in una scuola, io e la mia famiglia ci siamo sistemati nella biblioteca. C’erano un sacco di libri. Prima ho cominciato a leggerli ai miei bambini e a quelli dei miei parenti,” dice Mustafa a Middle East Eye.

Non le ci è voluto molto per decidere di usare le sue conoscenze ed esperienze per aiutare anche gli altri bambini sfollati nella stessa scuola. 

Ho detto ai genitori che si trovavano in quella scuola che avrei usato una classe tutti i giorni dalle tre del pomeriggio per insegnare ai bambini e aiutarli ad affrontare la guerra intorno a loro e cercare di dare loro una sensazione di normalità,” afferma.

Ho preso in prestito i libri dalla biblioteca e letto delle storie, poi si discuteva insieme. Ho anche cercato di insegnare qualche parola in inglese, dato che l’ho insegnato per 16 anni.”

Al-Mawasi si trova vicino al confine con l’Egitto. Durante la guerra quest’area è stata definita come zona sicura da Israele, ma ora è a rischio di attacchi poiché l’invasione di Rafah sembra imminente. 

Centinaia di migliaia di persone sono arrivate qui ad al-Mawasi dal nord di Gaza, e al momento vivono in tende di fortuna. 

La consegna di aiuti umanitari resta molto limitata in questa zona sovraffollata. Un muro alto coperto di filo spinato che si vede facilmente separa l’area dalla Rafah egiziana. 

Dopo due mesi di lezioni quotidiane, i bombardamenti israeliani nella zona si sono intensificati. Ancora una volta Asma ha dovuto lasciare il posto che era diventato la sua casa e la classe che aveva dato a lei e ai bambini un po’ di stabilità. 

Questa volta non sapeva dove andare. Così con la sua famiglia sono sfollati all’estremo sud di Rafah, ad Al-Mawasi, e sono finiti a vivere in una tenda che si allaga ogni volta che piove.  

Appena mi sono sistemata in questa tenda e sono riuscita a capire cosa ci fosse successo, ho deciso di continuare quello che avevo cominciato a scuola, perché queste tende sono di nuovo piene di bambini che non vanno a scuola da ottobre,” aggiunge. 

Mustafa e più di due milioni di gazawi lottano non solo per trovare sicurezza e riparo dalle pallottole e dai bombardamenti israeliani, ma anche per servizi essenziali come elettricità, cibo, acqua, medicine e prodotti per l’igiene. 

Guardo ai bambini intorno a me come se fossero un tesoro,” spiega, descrivendo il motivo per cui è diventata un’insegnante volontaria durante la guerra.

Non dovrebbero mai smettere di studiare. Credo che se questi bambini perdono il loro elementare diritto all’istruzione, allora anche il futuro della Palestina andrà perso. 

Il mio dovere in qualità di insegnante è di prendermi cura delle menti degli studenti e di incoraggiarli a lottare per i propri diritti e la propria istruzione indipendentemente dalle circostanze.”

‘Mi mancano i miei libri di scuola’

Mustafa crede che i bambini di Gaza abbiano un disperato bisogno di riparo, cibo e acqua, ma che “bisogna anche prendersi cura dei loro cuori e menti” specialmente con il disagio psichico causato dalla guerra. 

Mentre i bambini in tutto il mondo non vedono l’ora che arrivino le vacanze e i fine-settimana per prendersi una pausa dai loro impegni scolastici, ironicamente i bambini di Gaza non aspettano altro che ritornare a scuola,” commenta.

Voglio bene alla maestra Asma Mustafa, lei è così divertente. Ci aiuta tantissimo mentre siamo qui nelle tende. Ci legge delle storie e poi ne discutiamo con lei, ma comunque vorrei che potessimo tornare nelle nostre classi e studiare normalmente,” dice Lama Kishko, una dei bambini che frequentano le lezioni di Mustafa, anche lei costretta a sfollare varie volte.

Mi mancano i miei libri di scuola e mi manca persino fare i compiti. Questa guerra ha colpito tutte le nostre menti. Sono stanca e voglio solo che finisca, così posso tornare alla mia vita normale,” confessa a MEE.

Anche Nahida Dalloul, un’altra ragazzina che abita in una tenda vicina, ha scelto di frequentare le lezioni quotidiane di Mustafa.

Voglio frequentarle perché non ho imparato niente per quattro mesi. Voglio studiare. Vorrei scrivere nei miei quaderni, vedere i miei compagni e insegnanti, scrivere alla lavagna e disegnare. Vorrei poter fare di nuovo tutto questo,” dice. 

Le lezioni di Mustafa hanno attirato l’ammirazione dei genitori che dicono che è riuscita a creare un’atmosfera che ha distolto l’attenzione dei bambini dalla guerra. Il suo insegnamento li ha aiutati a conoscersi fra di loro e fare amicizie. 

Un papà, la cui bambina frequenta le lezioni di Mustafa, crede che l’insegnante vincitrice di un premio importante abbia tolto un gran peso dalle spalle dei genitori.

Dice: “La maestra Asma ha contribuito a creare una vita nuova per questi bambini, che invece di parlare in continuazione della guerra e della ricerca dell’acqua adesso tornano in tenda con delle storie nuove da condividere con noi. I bambini restano insieme a giocare anche dopo la fine delle lezioni.”

Con l’escalation dell’operazione israeliana nel sud e le minacce di espansione via terra a Rafah, Mustafa e i suoi alunni sono costantemente nell’angoscia di dover lasciare ancora una volta tutto quello che hanno creato in quella zona.

Sono preoccupati perché forse saranno costretti a spostarsi da qualche altra parte perdendo quel senso di comunità che avevano trovato. 

Comunque Mustafa non si lascia scoraggiare da queste paure.

Finché vivo, insegnerò ovunque questa guerra mi costringerà ad andare,” conclude.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Alcune fonti rivelano che Israele sta monitorando i dati statunitensi sugli attacchi dei coloni per contrastare le sanzioni

Yuval Abraham

14 febbraio 2024 – +972

Fonti di intelligence affermano che Israele cerca di contrastare le informazioni inviate privatamente agli Stati Uniti dall’Autorità Palestinese poiché teme provvedimenti contro i coloni violenti in Cisgiordania.

+972 Magazine e Local Call hanno appreso che negli ultimi mesi Israele ha monitorato le informazioni fornite agli Stati Uniti dall’Autorità Palestinese riguardo alla violenza dei coloni nella Cisgiordania occupata.

Fonti dell’intelligence israeliana hanno detto ad entrambe le testate di aver monitorato le informazioni passate attraverso canali privati dall’Autorità Palestinese all’Ufficio del Coordinatore della Sicurezza degli Stati Uniti per Israele e l’Autorità Palestinese (USSC) di Gerusalemme al fine di “capire cosa sanno gli Stati Uniti della violenza dei coloni”. L’intenzione, hanno spiegato, non è quella di agire contro gli autori dei reati ma di evitare che le informazioni raccolte “si trasformino in sanzioni”.

I funzionari statunitensi, che hanno confermato che funzionari dell’Autorità Palestinese hanno inviato una grande quantità di informazioni all’USSC sugli episodi di violenza dei coloni, hanno detto a +972 e Local Call che queste informazioni hanno contribuito in parte alla decisione del presidente Joe Biden all’inizio di questo mese di imporre sanzioni contro quattro coloni noti per aver attaccato palestinesi e attivisti israeliani di sinistra. I funzionari hanno aggiunto che le informazioni hanno portato negli ultimi mesi all’inclusione di decine di altri coloni in una “lista nera” che vieta loro l’ingresso negli Stati Uniti.

L’USSC è stato istituito nel 2005 ed è responsabile delle relazioni tra gli Stati Uniti e le forze di sicurezza dell’Autorità Palestinese, nonché del coordinamento della sicurezza tra Israele e l’Autorità Palestinese. Dal novembre 2021 l’ufficio è diretto dal tenente generale Michael R. Fenzel che, secondo le fonti, sta lavorando attivamente per prevenire la violenza dei coloni, con la consapevolezza che essa mina la stabilità regionale e indebolisce lo status dell’Autorità Palestinese agli occhi dell’opinione pubblica palestinese.

Vogliamo sapere cosa sanno gli americani”, ha detto una fonte israeliana a +972 e Local Call. “L’obiettivo è sapere cosa ci può succedere quando Fenzel arriverà e chiederà ragione di questi casi. Non si tratterebbe di inseguire i coloni e arrestarli: ecco perché molte persone qui si sono sentite a disagio. La preoccupazione per ciò che sanno gli americani deriva dal [comprendere] che intendono fare qualcosa con queste informazioni”, ha continuato la fonte. “Qui tutti conoscono il nome di Fenzel. Gli americani chiedono conto a Israele e gli israeliani si sentono in imbarazzo. Il fatto che ci venga chiesto di cercare informazioni indica che Israele non ha buone risposte”.

Secondo un’altra fonte israeliana che ha parlato con +972 e Local Call, i ranghi politico-diplomatici in Israele vedono la crescente preoccupazione internazionale per la violenza dei coloni come “pressione politica”, e stanno quindi cercando di dimostrare che la portata del fenomeno non è così ampia come sostengono gli americani. Ecco perché, ha detto la fonte, “stiamo lavorando per contribuire a confutare queste accuse o evitare che si trasformino in sanzioni. Il ceto politico è preoccupato che vengano adottate tutte le tipologie di azioni internazionali che costringeranno Israele ad affrontare questo problema”.

Probabili ulteriori sanzioni

+972 e Local Call hanno ottenuto copie dei materiali che i funzionari dell’Autorità Palestinese avevano raccolto e inviato all’USSC. Questi materiali, che non sono disponibili al pubblico e sono stati trasmessi attraverso canali privati, includono rapporti con una breve descrizione di centinaia di incidenti violenti avvenuti in Cisgiordania dopo il 7 ottobre.

Queste informazioni sono utili agli Stati Uniti perché fanno luce sulla portata del fenomeno della violenza dei coloni. A differenza delle informazioni raccolte dall’ONU, ad esempio, che si concentrano principalmente sui casi in cui le persone vengono uccise o ferite o in cui si verificano danni alle proprietà, l’Autorità Palestinese documenta sistematicamente anche casi di minacce ed espulsioni dai pascoli.

In totale i funzionari dell’AP hanno fornito all’USSC i dettagli di centinaia di episodi di violenza da parte dei coloni a partire dal 7 ottobre. Questi includono espulsioni da piccoli villaggi e frazioni palestinesi, attacchi incendiari, sparatorie che hanno ucciso otto palestinesi, circa 100 casi in cui i coloni hanno aperto il fuoco contro i palestinesi o le loro case e centinaia di attacchi contro pastori palestinesi, comprese minacce e atti vandalici.

La maggior parte degli incidenti si sono verificati nell’Area C che costituisce due terzi della Cisgiordania ed è sotto il pieno controllo militare e civile israeliano, dove almeno 16 comunità palestinesi sono state allontanate dall’inizio della guerra dalla violenza dei coloni.

L’USSC non si basa esclusivamente sulle informazioni trasmesse dall’Autorità Palestinese, ma piuttosto raccoglie testimonianze delle violenze da parte dei coloni da varie fonti, tra cui l’ONU, e poi condivide questi casi con le agenzie di sicurezza israeliane per chiedere loro di adottare misure per fermare la violenza. Secondo i funzionari statunitensi la decisione di Biden di imporre sanzioni è il risultato della mancanza di un’efficace azione israeliana in merito.

Una fonte con conoscenza diretta del processo all’origine delle recenti sanzioni statunitensi ha detto a +972 e Local Call che è probabile un altro annuncio di sanzioni economiche da parte della Casa Bianca, che potrebbe includere anche coloni israeliani di alto livello e alti funzionari pubblici con un passato di violenza contro i palestinesi. Secondo la fonte anche la “lista nera” dei coloni soggetti a divieto di viaggio potrebbe ampliarsi e il numero finale potrebbe raggiungere “centinaia di coloni”.

Secondo un’altra fonte, un alto funzionario statunitense, le sanzioni economiche imposte contro quattro coloni dall’ordine esecutivo di Biden del 1febbraio sono state formulate dopo un’indagine approfondita che includeva la raccolta di informazioni da varie fonti e non si basava esclusivamente sull’USSC. Il fascicolo su ciascuno di questi coloni, ha detto la fonte, contiene prove inequivocabili del coinvolgimento nelle violenze che confermano le accuse contro di loro.

Nel suo ordine esecutivo Biden ha scritto che “la situazione in Cisgiordania, in particolare gli alti livelli di violenza estremista dei coloni, lo sfollamento forzato di persone e villaggi e la distruzione di proprietà ha raggiunto livelli intollerabili e costituisce una seria minaccia alla pace, alla sicurezza e stabilità della Cisgiordania e di Gaza, di Israele e della più ampia regione del Medio Oriente”. La dichiarazione includeva anche dettagli sui reati commessi dai quattro coloni: David Chai Hasdai, Einan Tanjil, Shalom Zicherman e Yinon Levi.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu in risposta a queste sanzioni ha affermato che “Israele agisce ovunque contro i trasgressori, non c’è quindi bisogno di misure eccezionali per questi eventi”. Ma secondo un’indagine condotta dal gruppo israeliano per i diritti umani Yesh Din, il 97% dei 1.664 fascicoli della polizia israeliana aperti tra il 2005 e il 2023 riguardanti la violenza dei coloni sono stati chiusi senza condannare alcun colono. Nell’81% circa dei casi i fascicoli sono stati chiusi perché la polizia non ha identificato prove o colpevoli.

Nel dicembre dello scorso anno il segretario di Stato Antony Blinken dichiarò che gli Stati Uniti avevano iniziato a inserire nella lista nera i “coloni estremisti” a cui sarebbe stato vietato l’ingresso nel paese. Questo annuncio aveva innescato una reazione a catena, con diversi Stati europei che avevano seguito l’esempio e, secondo quanto riferito, l’Unione Europea sta valutando la possibilità di imporre proprie sanzioni per impedire ai “coloni estremisti” di entrare nel territorio dell’UE. All’inizio di questa settimana, il Regno Unito ha annunciato le proprie sanzioni contro quattro coloni (solo uno dei quali tra i quattro presi di mira dall’ordine di Biden), e la Francia ha imposto un divieto di viaggio a 28 coloni di cui non ha dato i nomi.

+972 e Local Call hanno contattato il portavoce dell’ambasciata americana per un commento, il quale ha risposto: “Secondo la nostra politica non commentiamo questioni di intelligence e vi rimandiamo al governo di Israele”. L’ufficio del primo ministro israeliano ha rifiutato di commentare.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Reportage: un ministro israeliano ha bloccato un carico di farina verso Gaza

Redazione di Middle East Monitor

13 febbraio 2024 – Middle East Monitor

L’agenzia Anadolu riferisce che il ministro ultranazionalista delle Finanze Bezalel Smotrich sta bloccando un carico di farina diretto alla Striscia di Gaza, affermando che le forniture finanziate dagli Stati Uniti sono dirette all’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (UNRWA).

Il carico è stato bloccato per settimane nel porto di Ashdod, nella parte meridionale di Israele, dal momento che Smotrich ha ordinato alle autorità doganali di “non lasciar passare la spedizione fin quando l’UNRWA sia il destinatario,” ha riferito martedì il sito americano di notizie Axios.

I più alti livelli dell’amministrazione Biden hanno ventilato la possibilità della spedizione di farina più di un mese fa, si afferma sul sito, citando funzionari statunitensi e israeliani.

Funzionari statunitensi hanno affermato che questa è una violazione dell’impegno che Benjamin Netanyahu ha personalmente preso con il presidente Biden molte settimane fa ed è un’altra ragione per cui il leader statunitense è deluso dal primo ministro israeliano” ha affermato la testata.

I gabinetti di guerra e di sicurezza israeliani hanno approvato la consegna della farina dal porto di Ashdod attraverso il valico di Kerem Shalom, si afferma sul sito web, citando anonimi funzionari israeliani.

Questi hanno aggiunto che Smotrich ha ordinato ai servizi doganali israeliani di “non lasciar proseguire la spedizione fin quando l’UNRWA è il destinatario.”

Smotrich e gli Stati Uniti non hanno emesso alcuna dichiarazione ufficiale sul rapporto.

Molti Stati, inclusi gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Germania, la Svizzera, l’Italia e il Canada, hanno sospeso i finanziamenti per l’UNRWA in seguito ad accuse israeliane.

L’agenzia delle Nazioni Unite ha affermato che sta indagando su queste accuse.

Israele ha ripetutamente equiparato lo staff dell’UNRWA ai membri di Hamas nel tentativo di discreditarli, senza fornire alcuna prova delle dichiarazioni, mentre ha fatto dure azioni di pressione per chiudere l’UNRWA, dato che è l’unica agenzia ONU ad avere lo specifico mandato di occuparsi dei bisogni elementari dei rifugiati palestinesi. Se l’agenzia non esisterà più, sostiene Israele, allora non esisterà più neppure la questione dei rifugiati e il loro legittimo diritto a tornare alla loro terra è ingiustificato. Israele ha negato il diritto al ritorno fin dagli ultimi anni quaranta, anche se la sua adesione all’ONU è stata condizionata al fatto di permettere ai rifugiati palestinesi di tornare alle loro case e alla loro terra.

La guerra di Israele a Gaza ha spinto l’85% della popolazione del territorio ad una deportazione interna a fronte di gravi carenze di cibo, acqua pulita, e medicine, mentre secondo le Nazioni Unite il 60% dell’infrastruttura dell’enclave è stata danneggiata o distrutta.

Israele viene accusata di genocidio presso la Corte Internazionale di Giustizia, che questo gennaio con una sentenza preliminare ha ordinato a Tel Aviv di fermare gli atti di genocidio e di prendere misure per garantire che ai civili a Gaza sia fornita assistenza umanitaria.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Tribunale olandese ordina al governo di interrompere la fornitura di componenti degli F-35 a Israele

David Kattenburg

13 febbraio 2024 – Mondoweiss

Una corte di appello ha ordinato al governo olandese di cessare l’esportazione componenti di F-35 verso Israele, dicendo che “c’è un rischio evidente che i pezzi di ricambio degli F-35 da esportare saranno usati per commettere gravi violazioni del diritto umanitario internazionale.”

La sentenza ribalta una decisione del 15 dicembre della Corte Distrettuale dell’Aia che aveva rigettato la causa intentata da tre organizzazioni per i diritti umani olandesi con cui intendevano interrompere la fornitura di parti di ricambio degli F-35 a Israele. 

Questi pezzi di ricambio sono immagazzinati nella base aerea di Woensdrecht, sull’estuario della Schelda, uno dei tre ‘centri di distribuzione logistici’ europei del letale bombardiere F 35 Lighting II, prodotto dalla Lockheed Martin. Gli utilizzatori di F-35 di tutta l’Europea (e Israele) vanno là per acquistare ricambi in base a una autorizzazione generale che si applica a tutti i membri del “programma internazionale F-35.”

Per le organizzazioni olandesi di diritti umani che hanno avviato la causa riguardo ai ricambi dei F-35, la decisione della Corte di Appello riafferma la supremazia del diritto internazionale sugli accordi internazionali nel loro Paese e del ruolo dei gruppi di cittadini nel promuovere l’applicazione della legge.

[Per] questo governo, in questo momento, le relazioni commerciali e internazionali con gli Stati Uniti e Israele sono più importanti del diritto internazionale,” ha detto a Mondoweiss Gerard Jonkman, direttore del Forum dei Diritti. “E se questo Paese, con questo atteggiamento, deve ora interrompere le forniture di queste parti di ricambio a Israele, penso che ciò sia veramente significativo e sicuramente è un colpo duro per il governo olandese.”

La decisione della Corte

A una lettura attenta la decisione di lunedì della Corte di Appello lunga 18 pagine riguarda molto più che il rifornimento di parti di ricambio per cacciabombardieri con alte prestazioni in una guerra sempre più sanguinosa.

L’aspetto più significativo è l’enunciazione del primato della legge internazionale su commercio e politica estera, illegali e miopi, e il ruolo decisivo dei cittadini nella difesa dello stato di diritto. 

La corte riconosce l’interesse che ha lo Stato nell’assicurare che l’Olanda ottemperi ai suoi obblighi internazionali verso gli USA, un alleato importante,” hanno stabilito tre giudici della Corte di Appello. Ma, “l’ottemperanza con [i suoi] obblighi internazionali … ha un peso maggiore.”

Con uguale forza, la sentenza di ieri ha respinto le argomentazioni del governo secondo cui i cittadini e i gruppi della società civile olandese non hanno “interessi” da difendere per conto della popolazione civile di Gaza, né il diritto di esigere l’osservanza da parte del governo dei suoi impegni con l’UE e il più ampio diritto internazionale.

Le tre organizzazioni olandesi che hanno intentato la causa civile sugli F-35, Oxfam Novib, PAX Netherlands Peace Movement Foundation e The Rights Forum, “sono organizzazioni di pubblico interesse che perseguono, fra le altre cose, lo scopo che non si commettano gravi violazioni del diritto umanitario internazionale con parti di armi fornite dall’Olanda,” ha affermato la sentenza. Inoltre ha dichiarato che gli standard del Netherlands Customs Act [legge olandese sulle dogane] e dell’EU Common Agreement [Accordo Comune dell’Unione Europea] “servono appunto a proteggere gli interessi” delle organizzazioni olandesi della società civile.

È una tesi che potrebbe applicarsi altrove nel mondo, dove i diritti dei cittadini di opporsi all’esportazioni di armamenti o di denunciare funzionari stranieri ai sensi delle proprie legislazioni interne sono stati sbrigativamente respinti — nei Paesi Bassi, negli Stati Uniti e in Canada, per esempio.

La vendita di F-35 a Israele viola gli obblighi olandesi secondo l’Articolo 1 della Quarta Convenzione di Ginevra, che richiede agli Stati di “rispettare e assicurare il rispetto” delle convenzioni in “tutte le circostanze,” ha sostenuto l’avvocata Liesbeth Zegveld davanti alla Bassa Corte il 4 dicembre.

Zegveld ha anche sostenuto che l’esportazione olandese delle componenti degli F-35 a Israele viola il Trattato sul Commercio di Armi del 2014 e la Posizione Comune del Consiglio dell’Unione Europea del 2008. 

Essa stabilisce che alle licenze di esportazione “verrà negata l’approvazione se fosse in contrasto con … gli obblighi internazionali degli Stati membri,” o se “ci fosse un chiaro rischio che la tecnologia o gli equipaggiamenti militari da esportare possano essere usati per la repressione interna,” o per commettere “gravi violazioni del diritto umanitario internazionale,” o che “il destinatario potrebbe usare aggressivamente la tecnologia o gli equipaggiamenti militari … contro un altro Paese o per affermare con la forza una pretesa territoriale,” o con scopi “altri che gli interessi legittimi della sicurezza e difesa nazionale del destinatario.”

Bloccare l’esportazione di componenti degli F-35 non è nulla di nuovo. Secondo il NL Times tra il 2004 e il 2020 il governo olandese ha rifiutato di emettere permessi per l’esportazione di equipaggiamenti militari a Israele in 29 occasioni.  

Eppure il 4 dicembre gli avvocati del governo hanno detto alla Corte Distrettuale che l’esportazione di parti di ricambio per gli F-35 a Israele poteva continuare. La flotta israeliana di Adirs F-351 è centrale per la sua “strategia di sicurezza regionale,” hanno affermato. 

Gli avvocati del governo hanno anche sostenuto che, interrompendo le esportazioni di parti di ricambio per gli F-35, i Paesi Bassi sarebbero venuti meno agli accordi [che li impegnano a] fornire in modo affidabile dal magazzino di Woensdrecht, deludendo “le aspettative di tutti i partner degli F-35” e imponendo costi amministrativi a tutti i membri del programma internazionale F-35.

Gli avvocati del governo hanno detto alla Corte che, anche se si interrompesse l’esportazione, Israele si rivolgerebbe ad altre fonti. “I Paesi Bassi non hanno voce in capitolo.”

Scartando queste argomentazioni burocratiche, la giuria di tre giudici della Corte di Appello olandese ha ingiunto al governo dei Paesi Bassi di cessare tutte le esportazioni e il transito di parti di ricambio per gli F-35 verso Israele entro sette giorni dalla sentenza di ieri e di corrispondere a Oxfam Novib le spese di 7.800 dollari [circa 7.200 €]. 

Citando disposizioni del Trattato sul Commercio di Armi e la Posizione Comune del Consiglio dell’Unione Europea, la Corte di Appello ha deliberato che “c’è un evidente rischio che le parti degli F-35 da esportare siano usate per commettere gravi violazioni del diritto umanitario internazionale,” o per “facilitare” tali violazioni che sono già state commesse:

I fatti dimostrano che è stato causato un alto numero di vittime civili, incluse migliaia di minori, che migliaia di case sono state distrutte, che sono state usate le cosiddette ‘bombe stupide’ [a caduta libera], che ogni zona residenziale è attaccata se c’è anche solo la minima indicazione che vi avvengano attività terroristiche, che i limiti applicati in Precedenza [sic] riguardanti i ‘danni collaterali nell’attuale conflitto sono stati estesi, che la politica di avvisare i civili prima di un attacco è stata abbandonata, che la fornitura di acqua potabile, le panetterie e i mulini per la farina sono stati distrutti… e che molti degli ospedali di Gaza non funzionano più. Non è plausibile che questa distruzione sia stata inflitta esclusivamente su obiettivi militari o che costituisca un legittimo ‘danno collaterale’, non solo alla luce delle sue dimensioni senza precedenti, ma anche delle affermazioni fatte dagli stessi soldati israeliani. Basandosi su quanto sopra la Corte conclude anche che le violazioni del diritto umanitario internazionale per cui c’è un rischio evidente sono ‘serie’.”

La risposta della Corte alle tesi del governo che non è obbligato a rivalutare le esportazioni di armi in conseguenza delle prove schiaccianti di crimini di guerra è tassativa.

Concedere permessi di esportazioni di armi che non necessitino mai di essere rivalutati anche se si commettono serie violazioni del diritto umanitario internazionale nel Paese di destinazione (incluso il rischio di genocidio, come sostengono le organizzazioni dei diritti umani olandesi), minerebbe l’EU Common Agreement, per non dire degli obblighi dei Paesi Bassi ai sensi delle Convenzioni di Ginevra e dei Protocolli Addizionali che obbligano gli Stati “a garantire che ‘in ogni circostanza’ un altro Stato agisca in accordo con il diritto umanitario internazionale,” ha dichiarato la Corte di Appello.

[Il ministro] non ha preso in considerazione … che se tale serio rischio esiste in base al [Common Agreement] ha già l’obbligo di impedire l’esportazione delle parti degli F-35 a Israele, a prescindere da ogni altra considerazione di politica estera, come le buone relazioni con Israele e gli Stati Uniti,” ha dichiarato la Corte.

In risposta alle altre argomentazioni del governo secondo cui Israele si rivolgerà agli USA per i ricambi dei suoi F-35, è in pericolo la sopravvivenza del deposito militare nella base aerea di Woensdrecht, accogliere le richieste di Oxfam avrebbe “conseguenze immediate, irreversibili e immense” “sulla posizione nel mondo,” dei Paesi Bassi che porterebbero a “dubitare” della sua “affidabilità,” con conseguente impatto sulla sicurezza olandese, europea e globale, per non citare il successo del progetto degli F-35 del Pentagono, la Corte si è dichiarata “non convinta.”

La reazione del governo olandese

La vendita delle parti di ricambio degli F-35 a Israele “non è illegale,” ha dichiarato il governo olandese in un comunicato stampa a poche ore dalla sentenza di ieri della Corte di Appello. “Il governo crede che stia allo Stato determinare la propria politica estera.” Il governo olandese pensa di ricorrere in appello, una decisione approvata da Israele.

Sono piuttosto sicuro che anche se facesse appello noi vinceremmo,” ha detto a Mondoweiss Jonkman del Rights Forum. “Ci vorranno molti soldi e molto tempo. Penso che sia inutile che il governo si appelli. È molto chiaro che in questo momento e in questo Stato non si possono mandare armi o parti di aerei o altro in un Paese di cui la Corte Internazionale di Giustizia sta dicendo che sta avvenendo un possibile genocidio.”

Il governo si consulterà presto con partner internazionali del programma F-35 per garantire il ruolo dell’Olanda nel programma,” continua la dichiarazione del governo, “Il governo farà tutto il possibile per convincere alleati e partner che l’Olanda resta un elemento affidabile del progetto e nella cooperazione per la difesa europea e internazionale. Tale cooperazione è importante per la stessa sicurezza nazionale dell’Olanda. Ma è anche essenziale per Israele perché l’aereo F-35 è fondamentale per la sicurezza di Israele, in particolare in relazione alle minacce che provengono dalla regione, per esempio da Iran, Yemen, Siria e Libano.” 

La decisione dello Stato di fare appello … è indipendente dalla situazione a Gaza,” continua il comunicato. “I Paesi Bassi continuano a invocare un cessate il fuoco immediato e temporaneo per permettere a quanti più aiuti umanitari possibili di raggiunge il popolo sofferente di Gaza. La situazione è estremamente grave. È chiaro che il diritto umanitario internazionale si applica in pieno e che anche Israele deve rispettarlo.”

John Dugard guarda alla posizione dell’Olanda con gli occhi del cinico. In risposta a una domanda di Mondoweiss, l’avvocato sudafricano ed ex relatore speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nella Palestina occupata scrive:

I Paesi Bassi hanno ripetutamente e orgogliosamente affermato di essere la capitale del diritto internazionale nel mondo. In queste circostanze è strano che non siano riusciti ad avallare la decisione della CIG nella causa del Sudafrica contro Israele. È ancora più strano che abbia cosi rapidamente deciso di presentare appello contro la decisione sulle componenti degli F-35 che con tutta evidenza mette i Paesi Bassi in conflitto con la decisione della CIG. È un giorno triste per il diritto internazionale in Olanda: si è forse perso per strada?”

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Se l’esercito israeliano invade Rafah, cosa ne sarà dei più di 1,5 milioni di palestinesi che vi si sono rifugiati?

Amira Haas

10 febbraio 2024 – Haaretz

Un’invasione israeliana di Rafah porterà a un esodo di massa di circa un milione di palestinesi in preda al panico. L’IDF pianifica di conciliarlo con l’ordinanza della CIG secondo cui Israele deve prendere ogni misura per evitare atti di genocidio.

Dato che Yahya Sinwar, i suoi stretti collaboratori e i miliziani di Hamas non sono mai stati trovati, prima a Gaza City e poi neppure a Khan Younis, l’esercito israeliano sta prendendo in considerazione di estendere la sua campagna di terra nella città meridionale di Rafah a Gaza. L’esercito sta facendo questo perché ritiene che Sinwar e i suoi aiutanti si nascondano nei tunnel sotto questa zona del sud della Striscia di Gaza, presumibilmente insieme agli ostaggi israeliani che sono ancora in vita. La stragrande maggioranza degli abitanti della Striscia di Gaza, 1,4 milioni di persone, è concentrata a Rafah. Decine di migliaia stanno ancora fuggendo nella cittadina da Khan Younis, dove i combattimenti continuano. Il pensiero che Israele invaderà Rafah e che vi avranno luogo combattimenti in mezzo ai civili terrorizza gli abitanti della città e le persone che vi si trovano come sfollati interni. Il terrore che provano è acuito dalla conclusione che nessuno possa impedire a Israele di mettere in atto le sue intenzioni, neppure la sentenza della CIG che ordina a Israele di prendere ogni misura per evitare azioni di genocidio. I corrispondenti militari israeliani riportano e ipotizzano che l’esercito intenda ordinare agli abitanti di Rafah di spostarsi in una zona sicura. Da quando la guerra è iniziata l’esercito ha sventolato questo ordine di evacuazione come una prova che sta agendo per prevenire danni a “civili non coinvolti”. Tuttavia questa zona sicura, che è stata ed è ancora bombardata da Israele, si sta progressivamente stringendo. In realtà l’unica zona sicura che rimane e che ora l’IDF [l’esercito israeliano, ndt.] sta indicando alla massa di persone a Rafah è Al-Mawasi, un’area costiera del sud di Gaza di circa 16 km2. Non è ancora chiaro con quali formulazioni a parole l’IDF e i suoi esperti giuridici intendano conciliare il fatto di ammassare così tanti civili con le indicazioni impartite dalla CIG. “La zona umanitaria indicata dall’esercito è più o meno delle dimensioni dell’aeroporto internazionale Ben-Gurion (circa 16,3 km2),” hanno concluso i giornalisti di Haaretz Yarden Michaeli e Avi Scharf nel loro articolo all’inizio di questa settimana. Il reportage, intitolato “I gazawi scappano dalle loro case. Non hanno nessun posto a cui tornare,” ha svelato le estese distruzioni nella Striscia di Gaza riprese da immagini satellitari. Il paragone con l’aeroporto internazionale Ben-Gurion ci spinge a ipotizzare una densità al di là dell’immaginabile, ma i commentatori della televisione israeliana non vanno molto più in là dell’approfondita opinione secondo cui l’invasione di terra a Rafah in effetti “non sarà poi così semplice”. Anche se difficile, dobbiamo immaginare ciò che attende i palestinesi a Rafah se il piano dell’esercito verrà messo in pratica. Lo dobbiamo fare non tanto per considerazioni di carattere umanitario o morale, che dopo il 7 ottobre non sono così importanti per la maggioranza dell’opinione pubblica ebrea israeliana, ma a causa delle complicazioni di carattere militare, umanitario e, alla fine, giuridico e politico che sicuramente sono prevedibili se continuiamo su quella strada.

La compressione

Anche se “solo” circa un milione di palestinesi scapperanno per la terza o quarta volta ad Al-Mawasi, un’area che è già piena di gazawi sfollati, la densità sarà all’incirca di 62.500 persone per km2”. Ciò avverrà in una zona aperta senza grandi edifici per ospitare gli sfollati, dove non ci sono acqua corrente, privacy, mezzi di sostentamento, ospedali o ambulatori medici, pannelli solari né la possibilità di caricare i telefonini e tutto il resto, mentre le organizzazioni umanitarie dovranno attraversare o passare nei pressi delle zone di combattimento per distribuire quel poco di cibo che entra nella Striscia di Gaza. Pare che l’unica condizione in cui questa ristretta area potrebbe accogliere tutti quanti sarebbe se stessero in piedi o in ginocchio. Forse sarà necessario formare commissioni speciali che stabiliranno accordi per dormire a turno: qualche migliaio si sdraierà mentre gli altri continueranno a stare svegli in piedi. Sopra il ronzio dei droni e sotto i pianti dei bambini nati durante la guerra e le cui madri non avranno latte o non ne avranno abbastanza, questa sarà la snervante colonna sonora.dell’IDF e le battaglie a Gaza City e Khan Younis, è chiaro che l’operazione di terra a Rafah, se effettivamente ci sarà, durerà molte settimane. Israele crede che la CIG considererà la compressione di centinaia di migliaia o un milione di palestinesi in un piccolo fazzoletto di terra come una “misura” adeguata per evitare un genocidio?

La marcia per fuggire

Prima della guerra nel distretto di Rafah vivevano circa 270.000 palestinesi. Il milione e mezzo che attualmente vi si trova patisce fame e malnutrizione, sete, freddo, malattie ed epidemie, pidocchi nei capelli ed eruzioni cutanee; soffrono di esaurimento fisico e mentale e mancanza cronica di sonno.Si ammassano in scuole, ospedali e moschee, in quartieri di tende che sono spuntati dentro e attorno a Rafah, in alloggi che ospitano decine di famiglie di sfollati. Decine di migliaia di loro sono feriti, alcuni con arti amputati per gli attacchi dell’esercito o le operazioni chirurgiche che ne sono conseguite. Hanno tutti parenti o amici, bambini, neonati e genitori anziani, che sono stati uccisi negli ultimi 4 mesi.

Una delle tante tende di fortuna eretta a Rafah nel sud della Striscia. Foto: Ibraheem Abu Mustafa / Reuters

Le case della maggior parte di loro sono state distrutte o gravemente danneggiate. Tutto ciò che possedevano è andato perso. Il loro denaro è stato speso a causa del prezzo esorbitante del cibo. Molti sono sfuggiti alla morte solo per caso e hanno assistito a scene spaventose di cadaveri. Non hanno ancora pianto i morti perché il trauma continua. Insieme alle dimostrazioni di appoggio e solidarietà ci sono state anche discussioni e scontri. Alcuni hanno perso la memoria e la salute mentale per tutto quello che hanno subito. Come è stato fatto in altre zone della Striscia, per mantenere l’effetto sorpresa, l’IDF diffonderà un avvertimento circa due ore prima di un’invasione di terra a Rafah. Quel giorno ciò lascerà un lasso di tempo di qualche ora per evacuare la città. Immaginate questa carovana di sfollati e il panico di massa delle persone che scappano verso Al-Mawasi a ovest. Pensate agli anziani, ai malati, ai disabili e ai feriti che saranno “fortunati” ad essere trasportati su carri trainati da asini o da carretti improvvisati e in macchine che viaggiano con olio da cucina. Tutti gli altri, malati o sani, dovranno andarsene a piedi. Probabilmente dovranno lasciarsi dietro il poco che sono riusciti a raccogliere e portare con sé nei precedenti spostamenti, come coperte e teli di plastica come riparo, vestiti pesanti, un po’ di cibo e oggetti indispensabili come piccoli fornelli.

Distruzione a Rafah giovedì 8 febbraio 2024 a Rafah. Foto: Ibraheem Abu Mustafa / Reuters

Questa fuga forzata probabilmente attraverserà le rovine di alcuni edifici bombardati da Israele non molto tempo fa, o i crateri creati sulla strada dagli attacchi. Tutto il convoglio allora si fermerà ancora finché non avrà trovato una deviazione.Alcuni inciamperanno, un carretto rimarrà impantanato. E tutti,affamati e assetati, terrorizzati dall’imminente attacco o dal bombardamento incombente dei carrarmati, continuerà ad andare avanti. Bambini piangeranno e verranno persi. Persone si sentiranno male. Squadre mediche lotteranno per raggiungere chiunque abbia bisogno di cure. Solo 4 km separano Rafah da Al-Mawasi, ma ci vorranno ore per arrivarci. Le persone in marcia verranno tagliate fuori da ogni possibilità di comunicare, anche solo a causa della quantità di gente in marcia e del sovraffollamento. Nella zona dovranno lottare per trovare lo spazio dove sistemare una tenda. Dovranno lottare con chi riesce a stare più vicino possibile a un edificio o a un pozzo per l’acqua. Sveniranno per la sete e la fame. Questa immagine si ripeterà svariate volte nei prossimi giorni: una marcia di palestinesi affamati e terrorizzati inizia a scappare nel panico ogni volta che l’IDF annuncia un’altra zona i cui abitanti dovrebbero evacuare, mentre carrarmati e truppe di fanteria avanzano verso di loro. Il bombardamento e le truppe di terra saranno più vicini agli ospedali che stanno ancora funzionando. Carrarmati li accerchieranno e a tutti i pazienti e al personale medico verrà chiesto di andarsene nell’affollata zona di Al-Mawasi.

L’operazione di terra

È difficile sapere quanti di loro decideranno di non andarsene. Come abbiamo imparato da quello che è successo nei distretti settentrionali di Gaza e di Khan Younis, un numero significativo di abitanti preferisce rimanere in una zona che è destinata a un’operazione di terra. Tra loro ci saranno decine di migliaia di sfollati, gazawi malati e gravemente feriti che sono stati ricoverati negli ospedali, donne incinte e altri che decideranno di rimanere nelle proprie case e in quelle di parenti o nelle scuole trasformate in rifugi. Le poche informazioni che avranno dalle zone di concentrazione di Al-Mawasi saranno sufficienti a scoraggiarli dal raggiungerle. Soldati e comandanti dell’IDF, tuttavia, interpretano l’ordine di evacuazione in modo diverso: chiunque rimanga nella zona destinata all’invasione di terranon è considerato un civile innocente, non è considerato “non coinvolto”. Chiunque rimanga nella propria casa ed esca per prendere l’acqua da una struttura della città che stia ancora funzionando o da un pozzo privato, personale medico chiamato per curare un paziente, una donna incinta che cammina verso un ospedale vicino per partorire, tutti, come abbiamo visto durante la guerra e le scorse campagne militari, sono considerati criminali agli occhi dei soldati. Sparare e ucciderli segue le regole di ingaggio dell’IDF. Secondo l’esercito questi attacchi avvengono rispettando le leggi internazionali perché tali individui sono stati avvertiti che dovevano andarsene. Persino quando i soldati fanno irruzione in case durante i combattimenti i gazawi, per lo più uomini, rischiano la morte colpiti da armi da fuoco. Un soldato che spara a qualcuno perché si sente minacciato o segue gli ordini, non importa. È successo a Gaza City e può avvenire a Rafah. Così come le squadre di soccorso non sono autorizzate o non sono in grado di raggiungere il nord della Striscia di Gaza per distribuire cibo, non potranno distribuirlo nelle zone dei combattimenti a Rafah. Il poco cibo che gli abitanti sono riusciti a conservare gradualmente finirà. Chi rimane nella propria casa sarà obbligato a scegliere il minore tra due mali:o esce e rischia di essere colpito dal fuoco israeliano o muore di fame in casa. La maggior parte già soffre per la grave carenza nutrizionale. In molte famiglie gli adulti rinunciano al cibo in modo che i figli possano essere nutriti. C’è il concreto pericolo che molti muoiano di fame mentre sono a casa propria quando fuori i combattimenti infuriano.

I bombardamenti

Da quando è iniziata la guerra l’esercito ha bombardato edifici residenziali, zone aperte e auto di passaggio in ogni luogo che aveva definito come “sicuro” (ai cui abitanti non era stato chiesto di andarsene). Non importa se gli attacchi hanno preso di mira strutture di Hamas, i miliziani dell’organizzazione o altri membri che sono rimasti con le loro famiglie o che erano usciti dai nascondigli per andarli a trovare, i civili sono quasi sempre uccisi.I bombardamenti non sono ancora neppure finiti a Rafah. Giovedì notte due case sono state bombardate nel quartiere occidentale di Rafah, Tel al-Sultan a Rafah. Secondo fonti palestinesi 14 persone, tra cui 5 minori, sono state uccise.

Una scena di dolore per la morte di un bambino ucciso in un bombardamento a Rafah l’8 febbraio. Foto: Ibraheem Abu Mustafa / Reuters

Le fonti hanno anche affermato che il 7 febbraio una madre e la figlia sono state uccise in un attacco israeliano contro una casa nel nord di Rafah e che il giorno prima un giornalista è stato ucciso insieme a madre e sorella nella parte occidentale di Rafah. Sempre il 6 febbraio, secondo le fonti, sei poliziotti palestinesi sono stati uccisi in un attacco israeliano mentre stavano proteggendo un camion di aiuti nell’est di Rafah.Questi attacchi segnalano che i calcoli sui cosiddetti danni collaterali approvati dagli esperti giuridici dell’IDF e dall’ufficio del procuratore generale sono estremamente permissivi. Il numero di palestinesi non coinvolti che è “permesso” uccidere per colpire un bersaglio dell’esercito è più alto che in qualunque altra guerra. La gente di Rafah teme che l’IDF applicherà questi criteri permissivi anche ad Al-Mawasi e attaccherà anche là se nella zona c’è un obiettivo tra le centinaia di migliaia che vi si rifugeranno. È così che un riparo annunciato come sicuro diventerà una trappola mortale per centinaia di migliaia di persone.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Biden più vicino che mai alla rottura con Netanyahu sulla guerra a Gaza

Yasmeen Abutaleb, John Hudson e Tyler Pager

11 febbraio 2024 – The Washington Post

Con l’aumentare delle vittime alcuni assistenti esortano Biden a criticare apertamente il primo ministro israeliano

Secondo diverse persone che sono al corrente delle loro discussioni riservate, il presidente Biden e i suoi principali collaboratori sono più che mai vicini a una rottura con il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu dall’inizio della guerra di Gaza, poiché non lo considerano più un partner costruttivo che possa essere influenzato anche in via confidenziale.

Secondo sei persone che sono al corrente delle conversazioni e che hanno parlato a condizione di restare anonime per trattare di considerazioni riservate, la crescente frustrazione nei confronti di Netanyahu ha spinto alcuni degli assistenti di Biden a esortarlo a essere più critico in modo esplicito nei confronti del primo ministro sull’operazione militare del suo Paese a Gaza.

Secondo queste persone il presidente, un convinto sostenitore di Israele che conosce Netanyahu da più di 40 anni, è stato finora in gran parte riluttante a rendere pubblica la sua personale frustrazione. Ma vi si sta lentamente avvicinando, hanno detto, dato che Netanyahu continua a far infuriare i funzionari di Biden con umiliazioni pubbliche e arroganti rifiuti alle più elementari richieste degli Stati Uniti.

Netanyahu ha irritato i funzionari statunitensi in diverse occasioni negli ultimi giorni. Ha condannato pubblicamente un accordo sugli ostaggi mentre il segretario di Stato Antony Blinken era nella regione nel tentativo di mediare l’accordo. Ha annunciato che l’esercito israeliano si sarebbe spostato nella città di Rafah, nel sud di Gaza, una mossa a cui i funzionari statunitensi si sono pubblicamente opposti perché Rafah è occupata da circa 1,4 milioni di palestinesi che vivono in condizioni disumane e sono fuggiti lì su ordine israeliano.

Netanyahu ha anche affermato che Israele non smetterà di combattere a Gaza finché non otterrà la “vittoria totale”, anche se i funzionari statunitensi credono sempre più che il suo obiettivo dichiarato di distruggere Hamas sia irrealizzabile.

Per ora la Casa Bianca ha respinto le richieste di sospendere gli aiuti militari a Israele o di imporgli condizioni, affermando che ciò non farebbe altro che incoraggiare i nemici di Israele. Ma alcuni degli assistenti di Biden sostengono che criticare apertamente Netanyahu gli permetterebbe di prendere le distanze da un leader impopolare e dalle sue politiche di terra bruciata, ribadendo al contempo il suo sostegno di lunga data a Israele stesso.

La frustrazione personale di Biden nei confronti di Netanyahu – che è andata accumulandosi da mesi – è risultata evidente giovedì, quando ha affermato che la campagna militare di Israele a Gaza è stata “eccessiva”, il suo rimprovero finora più aspro.

Il presidente ha anche parlato in modo molto più dettagliato delle sofferenze dei palestinesi, nonché del tempo e delle energie che ha speso cercando di convincere israeliani ed egiziani a concedere maggiori aiuti ai 40 km. di enclave. “Molte persone innocenti stanno morendo di fame”, ha detto Biden. “Molte persone innocenti sono in difficoltà e stanno morendo. E questo deve finire”.

Un particolare punto critico è il piano di Israele di lanciare una campagna militare a Rafah, la città più meridionale di Gaza che confina con l’Egitto e che si è ingrandita fino a diventare più di quattro volte la sua dimensione originale. “Vivono già in tende e non ricevono abbastanza cibo e acqua e gli dicono di andare da qualche altra parte”, ha detto un consigliere esterno della Casa Bianca. “Dove? E come dovrebbero arrivarci?”

Questo articolo si basa su interviste con 19 alti funzionari dell’amministrazione e consulenti esterni, molti dei quali hanno parlato a condizione di anonimato per discutere di colloqui riservati.

Gli assistenti della Casa Bianca affermano pubblicamente che non c’è stato alcun cambiamento nella strategia o nel messaggio di Biden. Ma molti dei suoi alleati sostengono che anche un brusco cambiamento della retorica avrà scarso effetto, a meno che gli Stati Uniti non inizino a imporre condizioni per il loro sostegno a Israele.

Finché sostieni senza condizioni l’operazione militare di Netanyahu a Gaza, non fa assolutamente alcuna differenza quanto cambi il tenore delle tue dichiarazioni”, ha detto Ben Rhodes, vice consigliere per la Sicurezza Nazionale dell’ex presidente Barack Obama. “Fondamentalmente bisogna decidere di non dare a Bibi un assegno in bianco in aiuti.” (“Bibi” è il soprannome comune di Netanyahu.)

Israele ha lanciato la sua campagna militare punitiva in risposta al brutale attacco di Hamas del 7 ottobre, quando i miliziani hanno fatto irruzione attraverso la recinzione di confine tra Israele e Gaza e hanno ucciso 1.200 persone, molte delle quali civili, e hanno preso circa 253 ostaggi. Da allora, secondo il Ministero della Sanità di Gaza, gli attacchi aerei e i raid israeliani hanno ucciso più di 28.000 palestinesi e provocato lo sfollamento di oltre l’80% dei 2,3 milioni di abitanti di Gaza, mentre l’assedio dell’enclave ha creato una vera catastrofe umanitaria.

La Casa Bianca ha fatto cauti passi negli ultimi giorni per segnalare la sua crescente frustrazione. Biden ha emesso un memorandum sulla sicurezza nazionale volto a garantire che i Paesi che ricevono armi statunitensi rispettino determinate linee guida, tra cui non ostacolare l’assistenza umanitaria.

All’inizio di questo mese Biden ha anche emesso un ordine esecutivo che impone sanzioni a quattro coloni della Cisgiordania per violenza contro i palestinesi, un’azione di cui Netanyahu si è lamentato durante un incontro privato con Blinken la scorsa settimana, hanno detto i funzionari. E giovedì il portavoce del Consiglio di Sicurezza Nazionale John Kirby ha detto che un’operazione israeliana a Rafah “sarebbe un disastro per la popolazione, e noi non la sosterremmo” – la critica più forte con cui la Casa Bianca si è opposta ad un’operazione militare israeliana.

Alcuni degli assistenti del presidente hanno sostenuto che Biden può ancora appoggiare Israele pur denunciando Netanyahu. Ma secondo diverse persone che hanno familiarità con il suo pensiero Biden, che gli assistenti dicono abbia un attaccamento viscerale allo Stato ebraico, ha la tendenza a vedere il primo ministro e lo Stato di Israele come la stessa cosa, e si è opposto all’idea di criticare un primo ministro in carica, soprattutto in tempo di guerra.

Secondo due ex funzionari di Obama, quando era vicepresidente Biden riteneva che Obama e Netanyahu fossero troppo spesso pubblicamente in disaccordo.

Eppure la pazienza di Biden si sta esaurendo, per il modo in cui Israele ha condotto la sua campagna militare, e il presidente sta anche pagando un crescente prezzo politico per il suo sostegno a Israele, mentre Netanyahu sembra desideroso di ottenere un tornaconto politico snobbando pubblicamente Biden. Mentre Biden si avvia verso una faticosa campagna di rielezione, i sondaggi mostrano che i giovani elettori, le persone di colore, i musulmani e gli arabi americani disapprovano fortemente la sua gestione della guerra.

Per mesi i funzionari statunitensi hanno esercitato pressioni sugli israeliani affinché consentissero l’arrivo a Gaza di maggiori aiuti umanitari, tra cui cibo, acqua e medicine, ma hanno dovuto affrontare ripetute resistenze da parte di Netanyahu e del suo governo. I manifestanti israeliani hanno anche bloccato l’ingresso dei camion degli aiuti attraverso il valico di frontiera con Gaza di Kerem Shalom.

Un alto funzionario dell’amministrazione che parla regolarmente con il presidente ha affermato che i commenti insolitamente taglienti di Biden giovedì riflettono ciò che ha detto a lungo in privato.

Non penso che qualcuno possa guardare a ciò che gli israeliani hanno fatto a Gaza e non dire che è esagerato”, ha detto il funzionario. “È tutto frustrante con gli israeliani. Hanno pensato a ciò che avverrà dopo a Gaza? No. Non si sono cimentati con le domande veramente difficili”.

Biden tiene profondamente a portare più aiuti umanitari a Gaza, ha detto il funzionario, aggiungendo che “ci pensa costantemente” ed è frustrato dagli ostacoli che Israele sta frapponendo. “Tutto è una continua lotta”, ha detto il funzionario.

Alla frustrazione dei funzionari statunitensi si aggiunge il loro profondo scetticismo sulla capacità di Israele di raggiungere l’obiettivo dichiarato della vittoria militare totale.

Come riportato per la prima volta dal New York Times, funzionari a conoscenza di un briefing a porte chiuse la scorsa settimana, dei funzionari dell’intelligence statunitense hanno detto ai parlamentari che, sebbene Israele abbia ridotto le capacità militari di Hamas, dopo più di 100 giorni dall’inizio della sua campagna non è vicino all’eliminazione del gruppo.

I leader statunitensi sono scettici nei confronti dell’affermazione di Netanyahu secondo cui avrebbe distrutto due terzi delle squadre combattenti di Hamas, e avvertono che l’alto livello di vittime civili sta garantendo che per decenni a venire accanto a Israele vivrà una popolazione radicalizzata.

Nell’immediato futuro i funzionari statunitensi sono quasi interamente concentrati sulla conclusione di un accordo che vedrebbe il rilascio di molti dei restanti 130 ostaggi israeliani a Gaza in cambio di prigionieri palestinesi e una pausa a lungo termine nei combattimenti.

Funzionari della Casa Bianca hanno affermato che un cessate il fuoco temporaneo consentirebbe loro di far arrivare a Gaza gli aiuti umanitari di cui c’è disperatamente bisogno. Sperano anche che possa fornire lo spazio per iniziare ad affrontare le questioni più difficili del futuro, tra cui chi governerà Gaza, come rendere possibile la nascita di uno Stato palestinese e come riformare l’Autorità Palestinese che governa alcune parti della Cisgiordania.

I funzionari della Casa Bianca sono sempre più vicini alla conclusione che Netanyahu sia concentrato sulla propria sopravvivenza politica a prescindere da qualsiasi altro obiettivo, e che sia ansioso di presentarsi come colui che tiene testa al sostegno di Biden per la soluzione a due Stati. Durante una conferenza stampa il mese scorso, Netanyahu ha rimproverato pubblicamente Biden per il suo sostegno allo Stato palestinese, affermando che un primo ministro israeliano deve essere “capace di dire no ai nostri amici”.

Netanyahu sta giocando la propria politica in patria, e se pensa che denigrare pubblicamente Biden lo possa aiutare, lo farà”, ha detto Frank Lowenstein, ex funzionario del Dipartimento di Stato che ha contribuito a condurre i negoziati israelo-palestinesi del 2014.

Gli assistenti dicono che uno dei motivi principali per cui Biden non ha criticato prima Netanyahu è il suo rapporto decennale con il primo ministro. Biden afferma spesso di dire a Netanyahu: “Ti voglio bene Bibi, anche se non ti sopporto”.

Talvolta Netanyahu ha contribuito a rafforzare la visione di Biden di Israele come un eroico baluardo contro l’antisemitismo globale. Secondo una persona presente allo scambio, che parla a condizione dell’anonimato per descrivere un colloquio privato, durante una visita quando Biden era vicepresidente Netanyahu gli mostrò foto di immagini grossolanamente antisemite provenienti da Hamas e sostenne che quella istigazione era la ragione per cui non si poteva fare la pace con i palestinesi.

Man mano che la frustrazione di Biden cresce, il presidente parla meno di frequente con il leader israeliano. Secondo un alto funzionario dell’amministrazione presente alla conversazione, la loro ultima conversazione, a metà gennaio, era stata in gran parte incentrata sul potenziale accordo sugli ostaggi.

Biden spingeva Netanyahu a “buttare giù un’offerta e mettere alla prova Hamas”, ha detto il funzionario. Il presidente ha poi parlato con il presidente egiziano Abdel Fatah El-Sisi e con l’emiro del Qatar Tamim bin Hamad Al Thani, esortandoli a fare pressione su Hamas affinché le due parti potessero avvicinarsi a un accordo.

In questo contesto, il presidente e i suoi collaboratori si sono arrabbiati quando la scorsa settimana Netanyahu ha pubblicamente rifiutato l’ultima proposta di Hamas sugli ostaggi poche ore dopo che Blinken, che era in Israele per la quinta volta dall’inizio della guerra, aveva dichiarato che era una proposta promettente.

La resa alle ridicole richieste di Hamas – che abbiamo appena sentito – non porterà alla liberazione degli ostaggi, e provocherà solo un altro massacro”, ha detto Netanyahu.

Ore dopo Blinken ha espresso le critiche sinora più acute sull’alto numero di vittime civili a Gaza, sulle restrizioni israeliane agli aiuti e sulla retorica incendiaria di Netanyahu e dei suoi ministri che, secondo lui, causano “profonde preoccupazioni” agli Stati Uniti.

Il pedaggio quotidiano che le sue operazioni militari continuano a infliggere a civili innocenti rimane troppo alto”, ha detto mercoledì Blinken ai giornalisti in una conferenza stampa a Tel Aviv. “Gli israeliani sono stati disumanizzati nel modo più orribile il 7 ottobre. Da allora gli ostaggi sono stati disumanizzati ogni giorno. Ma questa non può essere una licenza per privare altri della loro umanità”.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Come Israele ha fatto di un insegnante un traditore

Oren Ziv

9 febbraio 2024 – +972 Magazine

I post sui social media relativi al 7 ottobre lo hanno fatto licenziare, arrestare e gettare in prigione. Ora, Meir Baruchin deve lottare per tornare in una scuola che vuole che se ne vada.

Immaginate la scena: un giorno un insegnante di scuola superiore di 62 anni entra nel cortile della scuola e viene accolto da una protesta premeditata da parte degli studenti che si rifiutano di frequentare la sua lezione. “Figlio di puttana!” uno studente gli urla contro. “Buffone!” grida un altro. “Puttana!” strilla un terzo, mentre altri studenti sputano per terra davanti a lui.

Questa è stata l’accoglienza che Meir Baruchin ha ricevuto il 19 gennaio, il giorno in cui è stato reintegrato nella scuola superiore Yitzhak Shamir della città di Petah Tivkah, nella zona centrale di Israele, dopo essere stato licenziato, arrestato e incarcerato per quattro giorni in condizioni di isolamento in una prigione di massima sicurezza. Il suo reato? Due post su Facebook l8 ottobre – il giorno dopo che i miliziani guidati da Hamas avevano massacrato oltre 1.100 persone nel sud di Israele e dopo che Israele aveva iniziato il bombardamento della Striscia di Gaza – in cui condivideva una foto di bambini palestinesi uccisi in un attacco aereo israeliano e implorava di fermare questa follia” e metteva in guardia contro il crescente spargimento di sangue in Cisgiordania.

In unudienza tenutasi 10 giorni dopo presso il Comune di Petah Tikvah, che assume tutti gli insegnanti delle scuole pubbliche della città, Baruchin è stato accusato di condannare i soldati delle IDF [l’esercito israeliano, ndt.], stigmatizzare lo Stato di Israele e sostenere atti terroristici” e licenziato dal suo incarico. Alla ricerca di ulteriori punizioni il Comune ha anche presentato alla polizia una denuncia riguardo alla condotta di Baruchin, che è stato arrestato meno di un mese dopo con laccusa di manifesta intenzione di tradire il Paese”.

Alla fine Baruchin è stato rilasciato su cauzione e il 15 gennaio il tribunale regionale del lavoro di Tel Aviv ha stabilito che era stato licenziato ingiustamente. Il Comune ha presentato ricorso contro la sentenza del tribunale e il procedimento legale è ancora in corso nonostante l’avvenuta reintegrazione il mese passato. E anche se per la preside della scuola, Rachel Barel, sarebbe stato necessario un intervento giuridicamente praticabile per impedire il suo ritorno”, nel frattempo la scuola ha concordato che Baruchin riceverà il suo stipendio insegnando a distanza, registrando le lezioni di educazione civica per gli studenti del 12° anno [in Israele l’ultimo anno delle superiori, ndt.] che si preparano per gli esami di maturità.

Mentre dallinizio della guerra i cittadini palestinesi di Israele hanno dovuto affrontare una persecuzione dilagante, il caso di Baruchin dimostra come, anche se in numero molto minore, anche gli ebrei israeliani di sinistra stanno cadendo vittime della repressione di Stato sulla libertà di espressione. In seguito alla rivolta suscitata dal suo breve ritorno a scuola +972 ha incontrato l’insegnante di storia e educazione civica nella sua casa di Gerusalemme per conoscere la sua esperienza degli ultimi mesi. L’intervista è stata modificata per motivi di lunghezza e chiarezza.

E’ rimasto sorpreso nel ritrovarsi in questa situazione, licenziato e persino arrestato per un post sui social media?

Insegno educazione civica e storia, due materie fortemente politiche. Le dimensioni politiche sono inevitabili, quindi non sono rimasto sorpreso da questa repressione. Non sono il primo ad essere arrestato senza motivi fondati – e se fossi stato palestinese sarebbe andata peggio – e sfortunatamente non credo che sarò lultimo.

Conosco centinaia di insegnanti che hanno paura di parlare apertamente, paura di perdere i propri mezzi di sostentamento. Il mio licenziamento è stato chiaramente un messaggio intenzionale. Lobiettivo è mettere a tacere chiunque sollevi delle critiche minacciandone i mezzi di sussistenza, denunciandolo pubblicamente, infamandolo nei principali media e mandandolo in prigione.

Un ministro del governo ha suggerito di sganciare una bomba atomica su Gaza. Un altro ha chiesto che Huwara [città palestinese in Cisgiordania] venga cancellata. Durante lindagine ho chiesto a chi mi interrogava se avessero convocato tutte le persone che avevano cantato o scritto sui muri Morte agli arabi” o che avevano chiesto che i villaggi palestinesi fossero dati alle fiamme. Che dire di Itzik Zarka [un importante attivista del Likud] che si è detto orgoglioso del fatto che 6 milioni di ebrei ashkenaziti siano stati inceneriti [nell’Olocausto]? Lo avete arrestato? Interrogato? È abbastanza evidente che ci troviamo di fronte ad unapplicazione selettiva delle leggi.

Non si tratta semplicemente di costruire una realtà. È anche una manipolazione deliberata delle coscienze. Attraverso il controllo del sistema educativo, dellesercito e dei media si acquisisce un potere enorme e si può manipolare la popolazione nel modo desiderato. Chi non si adegua è un traditore, un anti-israeliano, un nemico che va trattato come si tratta un nemico.

La sensazione è che come società oscilliamo costantemente tra nevrosi e psicosi. Siamo in uno stato di disintegrazione, incapaci di accogliere coloro che sono diversi da noi. Sono visti come nemici, creano un senso di minaccia. E quando si è minacciati si reagisce violentemente.

Alla base dell’indagine ci sono due post su Facebook scritti l’8 ottobre. Cosa ha detto in quei post?

In uno di essi ho condiviso limmagine dei cadaveri di cinque bambini palestinesi, della famiglia Abu Daqqah, avvolti in lenzuoli bianchi. Di solito non invio queste foto, ma ero così scioccato che volevo che gli israeliani vedessero cosa veniva fatto a loro nome. La maggioranza degli israeliani non se ne interessa. Ho visto che questa foto è stata pubblicata anche su siti web di destra con faccine che ridono ed emoji di applausi e commenti del tipo: “Molti altri così“.

Nel secondo post ho scritto che anche in Cisgiordania si stava verificando un massacro. Quel giorno erano stati uccisi circa cinque palestinesi, alcuni dei quali minori.

Unaltro elemento presentato come prova contro di lei è una schermata proveniente dal WhatsApp di un insegnante che mostra un messaggio in cui lei scrive: I soldati israeliani non hanno mai violentato donne palestinesi? Lo fanno dal 1948. Questo non è contenuto nei libri di testo [di storia]”. Mi parli di questa conversazione.

Il 7 ottobre nel gruppo c’è stato uno scambio di opinioni emotivamente intenso, giustamente. La gente era scioccata, e lo ero anchio. Molti insegnanti hanno scritto cose che esprimevano shock e dolore, e si è sviluppata una discussione sugli obiettivi della risposta israeliana. Hanno scritto che Gaza avrebbe dovuto essere rasa al suolo e Hamas sradicato. Quindi ho chiesto: Qual è il fine? Cosa vogliamo?”

Ho scritto che uccidendo un gran numero di donne e bambini stavamo facendo del male a persone innocenti, cosa impossibile da accettare. Allora qualcuno ha risposto che dopo quello che ci hanno fatto [i palestinesi] se lo meritavano e ha affermato che i nostri soldati non hanno mai violentato le donne palestinesi. Quindi ho corretto questa affermazione. Sul mio telefono ho delle schermate dei diari di David Ben Gurion e Yisraeli Galili [il Capo di Stato Maggiore del gruppo paramilitare sionista pre-statale dell’Haganah] che descrivono casi in cui nel 1948 i nostri soldati hanno violentato donne palestinesi. Da quando sono stato rilasciato ho raccolto ulteriori prove di questo.

Mi racconti del suo arresto e interrogatorio a novembre.

Giovedì 9 novembre intorno alle 14.30 ho ricevuto una telefonata dalla polizia che mi informava che ero convocato per un interrogatorio con l’accusa di istigazione. Quando sono arrivato alla stazione di polizia un detective mi si è avvicinato. Ha confiscato il mio telefono e mi ha portato in una stanza dove mi hanno immediatamente legato mani e piedi e mi hanno portato via l’orologio da polso. [L’orologio, il telefono, il computer portatile e le chiavette USB sono stati restituiti a Baruchin solo tre settimane dopo il suo rilascio.]

Hanno iniziato a setacciare il mio telefono e poi mi hanno mostrato un mandato di arresto e uno di perquisizione dicendomi che avrebbero perquisito la mia casa. Cinque investigatori mi hanno portato a casa mia e, in presenza di due testimoni di cui avevo chiesto la presenza, la hanno messa a soqquadro.

Quella sera sono stato riportato alla stazione di polizia per essere interrogato. L’interrogatorio è durato circa quattro ore. L’investigatrice mi ha mostrato una dozzina di post sulla mia pagina Facebook, ma solo uno di questi era successivo al 7 ottobre. C’erano post di quattro anni fa, alcuni di un anno e mezzo fa.

La sua tecnica era molto manipolatoria. Non mi ha fatto vere e proprie domande. Piazzava le risposte all’interno delle domande. Ad esempio, mi chiedeva qualcosa del tipo: Se giustificasse lo stupro delle donne da parte di membri di Hamas, cosa ne penserebbe di…” – come se avesse già deciso che io giustificavo lo stupro.

E poi è stato messo in cella?

Sì, verso le 23:00. Agli altri detenuti è stato detto di non avvicinarsi né di parlare con me [Baruchin era l’unico ebreo israeliano tra i “prigionieri in regime di sicurezza” del Russian Compound – il centro di detenzione di massima sicurezza a Gerusalemme]. Mi hanno dato due coperte che puzzavano di sigarette. Con una mi coprivo e usavo l’altra come cuscino. Non avevo portato niente con me. Ho indossato gli stessi vestiti per quattro giorni. Mi hanno portato via i lacci delle scarpe e la cintura. Non mi hanno nemmeno permesso di tenere un libro da leggere e ovviamente non potevo guardare la televisione.

Nella cella stavo quasi sempre sdraiato sul letto e fissavo le pareti. Per non impazzire facevo esercizio fisico ogni ora e mezza o due, ma non c’era quasi spazio per muovermi. Una volta al giorno mi lasciavano uscire dalla cella per andare nel cortile, che è un quadrato di cemento recintato su tutti i lati. Per i primi due giorni non sono stato in grado di mangiare nulla [a causa dello stress]. Solo il terzo giorno sono riuscito a mangiare un pezzo di pane con formaggio e cetriolo. L’acqua delle docce era fredda.

Sono stato sradicato da tutto ciò che fa parte della mia vita: la famiglia, gli amici, le attività, gli hobby. Avrei dovuto iniziare a insegnare ai bambini evacuati dai kibbutz che circondano Gaza. Il loro preside voleva che insegnassi cinque giorni alla settimana; ovviamente ciò non è accaduto e non ho avuto nemmeno modo di dire loro che non avrei potuto farlo.

Il secondo giorno del mio arresto c’è stata un’udienza [per il prolungamento della detenzione]. Non ero fisicamente presente in aula; mi hanno condotto in manette nella sala videoconferenze del centro di detenzione, dove riuscivo a malapena a sentire quello che dicevano nel video.

Il rappresentante della polizia ha raccontato una serie di bugie, tra cui il fatto che io avessi giustificato tutte le atrocità commesse da Hamas. Non solo non ho mai giustificato una cosa del genere, ma ho scritto un post in cui condannavo esplicitamente le azioni di Hamas e dicevo che ero scioccato e profondamente ferito dalle atrocità commesse da Hamas. Hanno del tutto ignorato quel post.

Nel corso dell’udienza il giudice è andato di fretta per tornare a casa prima dello Shabbat e non mi ha permesso di parlare. Ha prolungato la mia detenzione fino a lunedì a mezzogiorno, e la questione è finita lì.

Dopo di che è stato interrogato di nuovo: cosa è successo allora?

Domenica sera [il quarto giorno di detenzione] sono stato portato per un altro interrogatorio. Anche questo è durato circa quattro ore. L’interrogante mi ha chiesto di Hamas, cosa pensassi di loro e delle organizzazioni terroristiche in generale. Non sono caduto nella sua trappola. Ad un certo punto ha detto che i miei post erano come i Protocolli degli Anziani di Sion [un famigerato falso che descrive una cospirazione ebraica per conquistare il mondo]. Queste sono state le sue parole.

Sono un insegnante di storia. Ho letto i Protocolli degli Anziani di Sion decine di volte. Ho insegnato l’argomento. Le ho chiesto se avesse mai letto i Protocolli degli Anziani di Sion. Lei è rimasta in silenzio.

Dopo alcune ore ha constatato che non riusciva a ottenere da me ciò che voleva, così ha chiamato il suo comandante più anziano, che mi ha posto anche lui una serie di domande usando esattamente la stessa tecnica. Sapevano benissimo di non avere nulla contro di me.

Il mese scorso le è stato finalmente permesso di tornare al suo posto di insegnante, ma presto la situazione è diventata insostenibile. Cos’è successo al suo rientro?

Il mio primo giorno di rientro è stato un venerdì e il venerdì di solito insegno in due classi del 12° anno. Quella mattina la preside mi ha mandato una mail dicendomi che ci sarebbe stata una grande manifestazione e che sarebbe stata presente la polizia. La mattina mi ha accompagnato in classe. Tutti gli studenti si sono rifiutati di restare in classe, tranne uno che non aveva portato con sé il quaderno, per cui è uscito anche lui. Sono rimasto in classe da solo. Due ragazze di un’altra classe sono entrate per curiosità e abbiamo avuto una piacevole conversazione.

Poi sono andato nell’aula professori e durante la pausa decine di studenti hanno bussato alla porta e alle finestre. Gridavano: Figlio di puttana! Tua madre è una puttana! Che ti venga un cancro! Violenteremo tua figlia!” Nessuno ha cercato di fermarli: né la preside, né gli addetti alla sicurezza all’interno della scuola, né la guardia al cancello. Non è stato chiamato alcun agente di polizia. C’erano due genitori fuori dal cancello che hanno solo peggiorato le cose.

Nei giorni successivi sono rimasto sotto assedio nella sala professori. Decine di studenti non frequentavano le lezioni, in realtà con l’autorizzazione. Nell’aula docenti c’erano circa 12-15 insegnanti di cui due o tre mi si sono avvicinati per stringermi la mano esprimendo empatia. Uno di loro mi è rimasto vicino per tutta la giornata.

Poi, alla fine della giornata, decine di studenti si sono presentati alla porta dell’edificio che conduce all’aula professori. Volevo andare a casa e la preside e la guardia di sicurezza mi hanno scortato fino alla porta.

A 30 metri dal cancello della scuola c’erano decine di studenti che imprecavano e mi sputavano contro. Quando ho lasciato il portone della scuola i genitori e gli studenti mi hanno inseguito continuando a imprecare e sputare. La settimana successiva è accaduta la stessa cosa.

Come ha risposto la scuola?

Lunedì sera [22 gennaio], la preside ha inviato un messaggio al gruppo WhatsApp dei genitori dicendo che la scuola, educando alla tolleranza, non accettava alcuna violenza verbale. Ma la realtà si è dimostrata completamente diversa.

Al mio successivo rientro la preside mi aveva suggerito di entrare nella scuola dall’ingresso sul retro, ma ho rifiutato. Sarei entrato solo dall’ingresso principale. Avrebbero potuto imprecare, sputare, picchiarmi: non avrei risposto. Se un quindicenne pensa che sia giusto sputare addosso a un uomo di 62 anni, non ho niente da dire al riguardo.

Dopo aver perso in tribunale volevano rendermi la vita infelice e rendermi insopportabile il tempo trascorso a scuola. Pensavano che ciò mi avrebbe spezzato.

Perché è importante per lei postare sui social media su ciò che sta accadendo a Gaza e in Cisgiordania?

Lopinione pubblica israeliana non sa cosa viene fatto in suo nome, né in Cisgiordania né a Gaza, per come lo Stato manipola la nostra coscienza. Non appare nei media, certamente non nei principali. E a quelli che lo sanno non importa. Nei miei post cerco di portarlo alla loro attenzione. E voglio mostrare nomi e volti: Guardateli! Guardateli! Alcuni di loro sono bambini! Guarda cosa stanno facendo in vostro nome! Potete convivere con questo?” Se i media facessero il loro lavoro, non dovrei farlo io.

Molte volte le persone mi hanno accusato di non scrivere di ciò che ci fanno i palestinesi. E io rispondo sempre che non hanno bisogno che lo faccia io: hanno tutti i media, la tv, la stampa, la radio, internet. Uso la mia pagina Facebook per scrivere di ciò che non sanno, non di ciò che sanno già. E c’è qualcosa che non va in loro se non capiscono che quello che è successo il 7 ottobre mi ha profondamente scioccato e ferito.

Qual è il suo approccio pedagogico, come insegnante di storia e di educazione civica che lavora in una società del genere?

Per me, leducazione ai valori” e linsegnamento vanno di pari passo. Non cerco di instillare i miei valori nei miei studenti: presento una serie di valori e lascio che i miei studenti, che hanno 16 o 17 anni, capiscano da soli quali saranno quelli a cui attenersi. Il punto non è che io sia soddisfatto ma che loro si sentano contenti di se stessi.

Insegno da 35 anni e nessuno studente ha cambiato ciò che pensava a causa di qualcosa che ho detto in classe. Se pensa che io abbia il potere di far cambiare loro idea, non sta rendendo sufficiente merito agli studenti. Non sono marionette e non sono io a tenere i fili. Spesso non sono d’accordo con me e può svilupparsi una conversazione rispettosa. Questa è la filosofia della mia professione e rende le lezioni interessanti. Anni dopo la laurea molti di loro restano in contatto e mi mandano messaggi del tipo: Sa, solo adesso capisco il significato di ciò di cui abbiamo parlato in classe”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)