Il crollo del sionismo

Ilan Pappè
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Ilan Pappé

21 giugno 2024-The New Left Review

L’assalto di Hamas del 7 ottobre può essere paragonato a un terremoto che colpisce un vecchio edificio. Le crepe cominciavano già a farsi vedere, ma ora sono visibili fin dalle fondamenta. A più di 120 anni dalla sua nascita il progetto sionista in Palestina – l’idea di imporre uno Stato ebraico a un paese arabo, musulmano e mediorientale – potrebbe essere di fronte alla prospettiva del collasso? Storicamente una pluralità di fattori può causare il capovolgimento di uno stato. Può derivare da continui attacchi da parte dei paesi vicini o da una guerra civile cronica. Può derivare dal crollo delle istituzioni pubbliche che diventano incapaci di fornire servizi ai cittadini. Spesso inizia come un lento processo di disintegrazione che acquista slancio e poi, in un breve periodo di tempo, fa crollare strutture che una volta apparivano solide e stabili.

La difficoltà sta nell’individuare i primi indicatori. Qui sosterrò che questi sono più chiari che mai nel caso di Israele. Stiamo assistendo a un processo storico – o, più precisamente, all’inizio di uno – che probabilmente culminerà nella caduta del sionismo. E, se la mia diagnosi è corretta, allora stiamo anche entrando in una congiuntura particolarmente pericolosa. Perché una volta che Israele si renderà conto della portata della crisi, scatenerà una forza feroce e disinibita per cercare di contenerla, come fece il regime di apartheid sudafricano nei suoi ultimi giorni.

1.

Un primo indicatore è la frattura della società ebraica israeliana. Attualmente è composta da due schieramenti rivali che non riescono a trovare un terreno comune. La spaccatura deriva dalle anomalie nel definire l’ebraismo come nazionalismo. Mentre a volte l’identità ebraica in Israele è sembrata poco più che un argomento di dibattito teorico tra fazioni religiose e laiche, ora è diventata una lotta sul carattere della sfera pubblica e dello Stato stesso. Questa lotta viene combattuta non solo nei media ma anche nelle strade.

Un campo può essere definito lo “Stato di Israele”. Comprende ebrei europei più laici, liberali e soprattutto, ma non esclusivamente, appartenenti alla classe media e ai loro discendenti, che furono determinanti nella creazione dello Stato nel 1948 e rimasero egemoni al suo interno fino alla fine del secolo scorso. Non lasciatevi fuorviare, la loro difesa dei “valori democratici liberali” non influisce sulla loro adesione al sistema di apartheid che viene imposto in vari modi a tutti i palestinesi che vivono tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Il loro desiderio fondamentale è che i cittadini ebrei vivano in una società democratica e pluralista dalla quale gli arabi siano esclusi.

L’altro campo è lo “Stato della Giudea”, che si è sviluppato tra i coloni della Cisgiordania occupata. Gode ​​di livelli crescenti di sostegno all’interno del Paese e costituisce la base elettorale che ha assicurato la vittoria di Netanyahu alle elezioni del novembre 2022. La sua influenza ai vertici dell’esercito e dei servizi di sicurezza israeliani sta crescendo in modo esponenziale. Lo Stato della Giudea vuole che Israele diventi una teocrazia che si estenda su tutta la Palestina storica. Per raggiungere questo obiettivo è determinato a ridurre il numero dei palestinesi al minimo indispensabile e sta contemplando la costruzione di un Terzo Tempio al posto di al-Aqsa. I suoi membri credono che ciò consentirà loro di rinnovare l’era d’oro dei Regni Biblici. Per loro se gli ebrei laici rifiutano di unirsi a questo sforzo essi sono eretici quanto i palestinesi.

I due campi avevano cominciato a scontrarsi violentemente prima del 7 ottobre. Nelle prime settimane dopo l’assalto sembravano accantonare le loro divergenze di fronte a un nemico comune. Ma questa era un’illusione. Gli scontri di strada si sono riaccesi ed è difficile vedere cosa potrebbe portare alla riconciliazione. Il risultato più probabile si sta già svolgendo davanti ai nostri occhi. Più di mezzo milione di israeliani, appartenenti alla fazione “Stato di Israele”, hanno lasciato il Paese da ottobre, segno che il Paese viene inghiottito dallo “Stato di Giudea”. Si tratta di un progetto politico che il mondo arabo, e forse anche il mondo in generale, non tollererà a lungo termine.

2.

Il secondo indicatore è la crisi economica di Israele. La classe politica non sembra avere alcun piano per riequilibrare le finanze pubbliche in mezzo a conflitti armati perpetui, oltre a diventare sempre più dipendente dagli aiuti finanziari americani. Nell’ultimo trimestre dello scorso anno, l’economia è crollata di quasi il 20%; da allora la ripresa è stata fragile. È improbabile che l’impegno di Washington di 14 miliardi di dollari possa invertire questa situazione. Al contrario la congiuntura economica non potrà che peggiorare se Israele porterà avanti la sua intenzione di entrare in guerra con Hezbollah e allo stesso tempo intensificherà l’attività militare in Cisgiordania, in un momento in cui alcuni paesi – tra cui Turchia e Colombia – hanno iniziato ad applicare misure economiche sanzionatorie.

La crisi è ulteriormente aggravata dall’incompetenza del ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, che incanala costantemente denaro verso gli insediamenti ebraici in Cisgiordania, ma sembra per il resto incapace di gestire il suo dipartimento. Il conflitto tra lo “Stato di Israele” e lo “Stato di Giudea”, insieme agli eventi del 7 ottobre, sta portando alcune élite economiche e finanziarie a spostare i propri capitali fuori dallo Stato. Coloro che stanno pensando di delocalizzare i propri investimenti costituiscono una parte significativa del 20% degli israeliani che pagano l’80% delle tasse.

3.

Il terzo indicatore è il crescente isolamento internazionale di Israele che sta gradualmente diventando uno stato paria. Questo processo è iniziato prima del 7 ottobre, ma si è intensificato dall’inizio del genocidio. Ciò si riflette nelle posizioni senza precedenti adottate dalla Corte internazionale di giustizia e dalla Corte penale internazionale. In precedenza, il movimento globale di solidarietà con la Palestina era riuscito a galvanizzare le persone a partecipare alle iniziative di boicottaggio, ma non è riuscito a promuovere la prospettiva di sanzioni internazionali. Nella maggior parte dei paesi [occidentali, n.d.t.] il sostegno a Israele è rimasto incrollabile tra l’establishment politico ed economico.

In questo contesto le recenti decisioni della CIG e della CPI – secondo cui: è plausibile che Israele stia commettendo un genocidio; esso deve fermare la sua offensiva a Rafah; i suoi leader potrebbero essere arrestati per crimini di guerra – devono essere viste come un tentativo di tenere conto delle opinioni della società civile mondiale, invece di riflettere semplicemente l’opinione delle élite. I tribunali non hanno attenuato i brutali attacchi contro la popolazione di Gaza e della Cisgiordania. Ma hanno contribuito al crescente coro di critiche rivolte allo Stato israeliano, che provengono sempre più sia dall’alto che dal basso.

4.

Il quarto indicatore, interconnesso, è il cambiamento epocale tra i giovani ebrei di tutto il mondo. In seguito agli eventi degli ultimi nove mesi molti ora sembrano disposti ad abbandonare il loro legame con Israele e con il sionismo e a partecipare attivamente al movimento di solidarietà palestinese. Le comunità ebraiche, in particolare negli Stati Uniti, un tempo fornivano a Israele un’efficace immunità contro le critiche. La perdita, o almeno la perdita parziale, di questo sostegno ha importanti implicazioni per la posizione globale del Paese. L’AIPAC può ancora fare affidamento sui sionisti cristiani per assistere e puntellare i suoi membri, ma non sarà la stessa formidabile organizzazione senza un significativo elettorato ebraico. Il potere della lobby si sta erodendo.

5.

Il quinto indicatore è la debolezza dell’esercito israeliano. Non c’è dubbio che l’IDF rimanga una forza potente con armi all’avanguardia a sua disposizione. Eppure i suoi limiti sono stati messi in luce il 7 ottobre. Molti israeliani ritengono che l’esercito sia stato estremamente fortunato poiché la situazione avrebbe potuto essere molto peggiore se Hezbollah si fosse unito all’ attacco in modo coordinato. Da allora, Israele ha dimostrato di fare disperatamente affidamento su una coalizione regionale, guidata dagli Stati Uniti, per difendersi dall’Iran, il cui attacco di avvertimento in aprile ha visto il dispiegamento di circa 170 droni oltre a missili balistici e guidati. Oggi più che mai il progetto sionista dipende dalla rapida consegna di enormi quantità di rifornimenti da parte degli americani, senza i quali non potrebbe nemmeno combattere un piccolo esercito di guerriglieri nel sud.

C’è ora tra la popolazione ebraica del paese una percezione diffusa dell’impreparazione e dell’incapacità di Israele di difendersi. Ciò ha portato a forti pressioni per rimuovere l’esenzione militare per gli ebrei ultra-ortodossi – in vigore dal 1948 – e iniziare ad arruolarne a migliaia. Ciò difficilmente farà molta differenza sul campo di battaglia, ma riflette la portata del pessimismo nei confronti dell’esercito – che a sua volta ha approfondito le divisioni politiche all’interno di Israele.

6.

L’ultimo indicatore è la rinnovata energia delle giovani generazioni di palestinesi. Queste sono molto più unite, organicamente connesse e chiare riguardo alle loro prospettive rispetto all’élite politica palestinese. Dato che la popolazione di Gaza e della Cisgiordania è tra le più giovani al mondo questa nuova fascia di età avrà un’enorme influenza nel corso della lotta di liberazione. Le discussioni che hanno luogo tra i giovani gruppi palestinesi mostrano che sono preoccupati di creare un’organizzazione genuinamente democratica – o un’OLP rinnovata, o una nuova del tutto – che persegua una visione di emancipazione che è antitetica alla campagna dell’Autorità Palestinese per il riconoscimento come Stato. Sembrano preferire una soluzione a uno Stato rispetto a uno screditato modello a due Stati.

Saranno in grado di organizzare una risposta efficace al declino del sionismo? Questa è una domanda a cui è difficile rispondere. Al crollo di un progetto statale non sempre segue un’alternativa più brillante. Altrove in Medio Oriente – in Siria, Yemen e Libia – abbiamo visto quanto sanguinosi e prolungati possano essere i risultati. In questo caso si tratterebbe di decolonizzazione e il secolo scorso ha dimostrato che le realtà postcoloniali non sempre migliorano la condizione coloniale. Solo l’azione dei palestinesi può portarci nella giusta direzione. Credo che, prima o poi, una fusione esplosiva di questi indicatori porterà alla distruzione del progetto sionista in Palestina. Quando ciò accadrà, dobbiamo sperare che un robusto movimento di liberazione sia lì per riempire il vuoto.

Per più di 56 anni quello che è stato definito il “processo di pace” – un processo che non ha portato da nessuna parte – è stato in realtà una serie di iniziative americano-israeliane alle quali si chiedeva ai palestinesi di rispondere. Oggi la “pace” deve essere sostituita con la decolonizzazione e i palestinesi devono essere in grado di articolare la loro visione per la regione, mentre gli israeliani devono rispondere. Ciò segnerebbe la prima volta, almeno da molti decenni, in cui il movimento palestinese prenderebbe l’iniziativa di presentare le sue proposte per una Palestina postcoloniale e non sionista (o come verrà chiamata la nuova entità). Nel fare ciò, probabilmente guarderà all’Europa (forse ai cantoni svizzeri e al modello belga) o, più appropriatamente, alle vecchie strutture del Mediterraneo orientale, dove i gruppi religiosi secolarizzati si trasformarono gradualmente in gruppi etnoculturali che vivevano fianco a fianco nello stesso territorio.

Che le persone accolgano l’idea o la temano, il collasso di Israele è diventato prevedibile. Questa possibilità dovrebbe orientare il dibattito a lungo termine sul futuro della regione. Sarà inserito all’ordine del giorno man mano che le persone si renderanno conto che il tentativo secolare, guidato dalla Gran Bretagna e poi dagli Stati Uniti, di imporre uno Stato ebraico a un paese arabo sta lentamente giungendo al termine. Ha avuto abbastanza successo da creare una società di milioni di coloni, molti dei quali ora sono di seconda e terza generazione. Ma la loro presenza dipende ancora, come al loro arrivo, dalla capacità di imporre con la violenza la propria volontà a milioni di indigeni, che non hanno mai rinunciato alla lotta per l’autodeterminazione e la libertà nella loro patria. Nei decenni a venire i coloni dovranno abbandonare questo approccio e mostrare la loro volontà di vivere come cittadini con pari diritti in una Palestina liberata e decolonizzata.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)