Opinione | Il 7 ottobre non è stata la prima volta che il sionismo ha abbandonato l’ostaggio assassinato Shlomo Mantzur

Proteste di israeliani per il rilascio degli ostaggi e per la fine della guerra. Foto: Moti Milrod
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Avi Shlaim

12 febbraio 2025-Haaretz

L’ostaggio di origine irachena è stato sacrificato sull’altare del sionismo due volte: prima in Iraq e poi di nuovo al confine di Gaza.

Shlomo Mantzur, 86 anni, era il più anziano dei 251 ostaggi israeliani presi dai miliziani di Hamas durante il loro attacco omicida del 7 ottobre. Mentre la versione sionista degli eventi afferma che Mantzur è stato vittima due volte del feroce antisemitismo arabo, in realtà il movimento sionista stesso ha avuto un ruolo nelle sue disgrazie: prima mettendolo sulla linea del fuoco in Iraq nel 1951 e poi non proteggendolo nella sua casa nel kibbutz Kissufim negli ultimi anni della sua vita.

Mantzur era nato in Iraq nel 1938, sopravvisse al famigerato pogrom contro gli ebrei, il Farhud, nel 1941, ed emigrò con la sua famiglia in Israele all’età di tredici anni come parte della “Grande Aliyah” [emigrazione degli ebrei originari di Paesi musulmani in Israele, ndt.] nel 1951. Non ho idea di cosa pensasse del trasferimento. Nel 1950 avevo cinque anni quando mi trasferii con la mia famiglia da Baghdad e sicuramente ci sentivamo arruolati nel progetto sionista contro la nostra volontà.

Il Farhud, il massacro degli ebrei iracheni nel giugno 1941, è comunemente citato dagli storici sionisti come prova del perenne antisemitismo arabo e musulmano. Ma il Farhud era l’eccezione piuttosto che la norma.

Era chiaramente una manifestazione di antisemitismo, ma era anche il prodotto di altre forze, in particolare della politica imperiale britannica che trasformò gli ebrei in capri espiatori. Furono uccisi 165 ebrei, donne ebree furono violentate e le case e i negozi degli ebrei furono saccheggiati. Ma dopo il Farhud la vita ebraica in Iraq riprese gradualmente il suo corso normale senza questo violento assalto ai cittadini ebrei di Baghdad si ripetesse.

Il vero punto di svolta nella storia ebraica irachena non fu il 1941, ma il 1948, quasi un decennio dopo, con la fondazione dello Stato di Israele e l’umiliante sconfitta araba nella guerra per la Palestina.

Nel marzo 1950 il governo iracheno approvò una legge che consentiva agli ebrei, per un periodo limitato di un anno, di lasciare il paese legalmente con un visto di sola andata. Senza altri passaporti l’unico Paese in cui potevano andare era Israele, con una valigia e cinquanta dinari. Le organizzazioni sioniste organizzarono per loro il trasporto aereo, prima via Cipro e poi direttamente da Baghdad a Tel Aviv.

Nel 1950, c’erano circa 135.000 ebrei in Iraq; alla fine del 1952, circa 125.000 di loro finirono in Israele nei ma’abarot, o campi di transito. Abbiamo lasciato l’Iraq come ebrei e siamo arrivati ​​in Israele come iracheni. C’erano fiorenti comunità ebraiche in molte parti del mondo arabo, ma la comunità ebraica in Iraq era la più antica, la più prospera e la più fortemente integrata nella società locale.

Abbiamo perso la nostra considerevole ricchezza, il nostro elevato status sociale e il nostro fiducioso senso di orgoglio per la nostra identità di ebrei iracheni. Per noi l’Aliyah in Israele non ha comportato un’ascesa, ma una ripida “yerida”, o discesa, ai margini della società israeliana. Una volta in Israele siamo stati sottoposti a un sistematico processo di de-arabizzazione: siamo stati spruzzati con insetticida DDT e catapultati in un paese alieno, dominato dagli ashkenaziti [ebrei originari dell’Europa centro-orientale, ndt.].

La principale narrazione sionista attribuisce la responsabilità dell’esodo ebraico iracheno all’endemico antisemitismo arabo. Il neonato Stato di Israele venne eroicamente in soccorso offrendo agli ebrei arabi un rifugio sicuro.

La realtà era più complessa. È vero che la causa principale dell’esodo fu l’ostilità diffusa a livello popolare e la persecuzione degli ebrei da parte del governo iracheno a livello ufficiale dopo la prima guerra arabo-israeliana. Nonostante questa persecuzione, solo alcune migliaia di ebrei scelsero di rinunciare alla loro cittadinanza irachena dopo l’approvazione della legge del 1950.

Il vero impulso furono cinque attentati in locali ebrei a Baghdad nel 1950 e nel 1951, che alimentarono incertezza e paura accelerando l’esodo.

Le voci persistenti secondo cui il Mossad avrebbe avuto un ruolo nel piazzare queste bombe alimentarono il risentimento degli immigrati ebrei iracheni contro il loro nuovo Stato. Israele negò categoricamente queste voci e due commissioni d’inchiesta assolsero Israele da qualsiasi coinvolgimento. Questa svolta nella storia ebraica irachena mi ha affascinato fin da quando ero adolescente a Ramat Gan, una città a est di Tel Aviv. Nel 2023 ho pubblicato un’autobiografia dal titolo “Three Worlds: Memoirs of an Arab-Jew” (“Tre mondi: memorie di un ebreo arabo”). I miei tre mondi sono Baghdad, Ramat Gan e Londra.

Nel corso della ricerca per questo libro mi sono imbattuto in due fonti di prove che indicavano chiaramente il coinvolgimento israeliano nelle bombe che contribuirono ad accelerare l’esodo. Una fonte era Yaacov Karkoukli, un anziano amico di mia madre che era stato un membro della rete segreta sionista a Baghdad.

Karkoukli mi raccontò nei dettagli il suo lavoro, insieme ai suoi compagni, nella falsificazione di documenti, nel pagamento di tangenti a funzionari e nell’incoraggiamento all’emigrazione in Israele, prima illegalmente e poi legalmente. Uno dei suoi colleghi, un avvocato e ardente sionista di nome Yusef Ibrahim Basri, nel 1950-1951 fu responsabile di tre dei cinque attentati dinamitardi di locali ebraici nella capitale irachena. Karkoukli mi diede anche una pagina di un rapporto della polizia di Baghdad che indicava Basri come il principale colpevole e forniva dettagli del suo interrogatorio sulle sue attività terroristiche. Basri fu processato e condannato a morte per impiccagione. Le sue ultime parole furono “Lunga vita allo Stato di Israele!”

Lo stesso Karkoukli era un convinto sionista di destra che mirava a consolidare e rafforzare il neonato Stato ebraico a qualsiasi costo. Mi disse con orgoglio che il referente di Basri era un ufficiale dell’intelligence israeliana di nome Max Binnet, di stanza a Teheran. Nel 1954, Binnet fu coinvolto nel famigerato Affare Lavon, in cui reclutò ebrei egiziani in una rete di spie e sabotaggi per creare ostilità tra le potenze occidentali e il regime di Nasser. Piazzarono bombe in luoghi pubblici e negli uffici informazioni degli Stati Uniti. Il piano fallì disastrosamente: tutti i membri della rete furono catturati, processati e condannati, e lo stesso Binnet si suicidò in prigione.

Come le bombe a Baghdad, questa fu un’operazione sotto copertura. Fu un esempio di ciò che Shalom Cohen, il vicedirettore iracheno della rivista Haolam Hazeh, definì “Sionismo crudele”. E, come le bombe a Baghdad, alimentò il sospetto musulmano verso gli ebrei che vivevano in mezzo a loro e contribuì a trasformare gli ebrei da pilastro della società irachena ed egiziana in una potenziale quinta colonna.

Il movimento sionista, nel suo disperato bisogno di Aliyah, dopo che le armi tacquero nel 1949, mise ebrei come Shlomo Mantzur e la mia famiglia in pericolo nella nostra patria araba. Il governo israeliano di estrema destra guidato dal primo ministro Benjamin Netanyahu ha tradito Mantzur una seconda volta verso la fine della sua vita, abbandonandolo alle tenere attenzioni dei miliziani di Hamas il 7 ottobre. Fu rapito dalla sua casa nel kibbutz Kissufim e probabilmente ucciso all’arrivo nella Striscia di Gaza, dove il suo corpo giace ancora oggi.

Questo governo sostiene che Israele è l’unico posto sicuro per gli ebrei in un mondo infestato di antisemitismo. La triste ironia è che Israele è diventato oggi il posto meno sicuro al mondo per gli ebrei a causa della sua dipendenza dall’occupazione e dall’oppressione dei palestinesi. Israele ha avuto un ruolo nell’incitamento all’antisemitismo negli anni ’40 e il governo Netanyahu continua oggi ad alimentare questi terribili episodi in tutto il mondo. Questo governo non si vergogna di accogliere antisemiti come l’ungherese Viktor Orban perché sono filo-israeliani. Come Theodor Herzl aveva previsto, “gli antisemiti saranno tra i nostri più forti sostenitori”.

Avi Shlaim è professore emerito di relazioni internazionali all’Università di Oxford. È autore di “The Iron Wall: Israel and the Arab World” [Il muro di ferro: Israele e il mondo arabo] e di “Three Worlds: Memoirs of an Arab-Jew” [Tre mondi: memorie di un ebreo arabo]. L’edizione in ebraico di questo libro sarà pubblicata da Am Oved nei prossimi mesi.

(traduzione dall’inglese di Giuseppe Ponsetti)