Dikla Taylor-Sheinman
1 luglio 2025 – +972 Magazine
La militarizzazione delle antichità è connessa all’eredità coloniale di Israele, afferma Rafi Greenberg, i cui colleghi sono rimasti in gran parte in silenzio sulla distruzione di Gaza.
Il 2 aprile l’Israel Exploration Society ha improvvisamente annullato quello che sarebbe stato il più grande e prestigioso raduno annuale di archeologi del Paese. Il Congresso Archeologico, un appuntamento fisso da quasi 50 anni, è stato annullato dagli organizzatori in seguito alle pressioni del Ministro del Patrimonio di estrema destra Amichai Eliyahu perché venisse escluso il docente dell’Università di Tel Aviv Raphael (Rafi) Greenberg. “Non permetterò che le erbacce del mondo accademico che si adoperano per promuovere il boicottaggio dei loro colleghi archeologi sputino nel pozzo del patrimonio da cui il popolo di Israele beve”, ha scritto il ministro su X.
Agli occhi di Eliyahu e delle ONG di destra che si sono battuti per l’esclusione di Greenberg l’ultimo affronto da parte del professore era stata una lettera aperta scritta un mese prima. In essa esortava i colleghi israeliani e internazionali a boicottare la “Prima Conferenza Internazionale di Archeologia e Conservazione dei Siti di Giudea e Samaria” presso il lussuoso Dan Jerusalem Hotel, nella parte orientale della città, la prima del suo genere ospitata in un territorio occupato riconosciuto come tale a livello internazionale.
Sebbene il Congresso Archeologico si sia svolto online la scorsa settimana con la partecipazione di Greenberg, le controversie che circondano entrambe le conferenze sollevano interrogativi morali e politici più profondi sul ruolo della comunità archeologica israeliana mentre Israele intensifica il suo attacco al patrimonio culturale e ai siti religiosi palestinesi a Gaza, in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, e il governo si muove verso l’annessione della Cisgiordania, in parte attraverso la militarizzazione dell’archeologia stessa.
A maggio il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali israeliano ha ufficialmente avviato gli scavi di Sebastia, a nord di Nablus, in Cisgiordania, con l’obiettivo di trasformare il sito nel “parco nazionale di Samaria“, separando l’acropoli e l’antico villaggio dalla città palestinese a cui è collegato.
Ma lo sviluppo più significativo è iniziato nel luglio 2024, quando il parlamentare Amit Halevi del Likud di Netanyahu ha proposto un emendamento legislativo rivolto ad applicare alla Cisgiordania le leggi israeliane sulle antichità. Nello specifico, la proposta di legge estenderebbe la giurisdizione dell’Autorità per le Antichità Israeliane (IAA) da Israele propriamente detto all’Area C [in base agli accordi di Oslo la parte dei territori palestinesi occupati sotto totale ma temporanea giurisdizione israeliana, ndt.] della Cisgiordania, che copre circa il 60% del territorio palestinese occupato da Israele.
Il disegno di legge rappresenta il culmine di una campagna quinquennale condotta dai consigli regionali dei coloni e dai gruppi di estrema destra rivolta a dipingere i palestinesi come una minaccia esistenziale per i cosiddetti siti del patrimonio “nazionale” (cioè ebraico) in Cisgiordania. La ONG israeliana di sinistra Emek Shaveh ha definito la legge un “tentativo di ottenere l’annessione attraverso le antichità“.
La resistenza dell’IAA alla volontà di estendere la sua competenza alla Cisgiordania potrebbe aver rallentato lo slancio, ma non ha cancellato l’obiettivo più ampio. In quella che sembra essere una svolta strategica, durante le recenti riunioni di commissione i parlamentari hanno proposto di istituire un nuovo organismo sotto il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali per gestire le attività in tutta la Cisgiordania, non solo nell’Area C. Questa mossa aggira la controversia pur mirando allo stesso risultato: imporre la legge civile israeliana sulle antichità della Cisgiordania.
In effetti la soluzione alternativa ha incontrato reazioni molto meno negative da parte dell’establishment archeologico. Ad eccezione di Emek Shaveh, co-fondato da Greenberg, la resistenza all’interno della comunità archeologica alla proposta di legge si è concentrata principalmente sulle sue implicazioni per l’archeologia israeliana e la reputazione internazionale di Israele.
+972 Magazine ha intervistato Greenberg per discutere sul significato di questa nuova legge per i palestinesi in Cisgiordania — una questione che gran parte dell’opposizione pubblica ha completamente ignorato — i quali già subiscono livelli senza precedenti di violenza da parte dei coloni sostenuti dallo Stato. Tra i vari temi affrontati abbiamo esplorato il rapporto problematico tra gli archeologi israeliani e i palestinesi, la “politicizzazione” dell’archeologia israeliana, gli appelli progressisti alla libertà accademica e il motivo per cui l’archeologia israeliana abbia così poco da dire sulla distruzione di Gaza.
L’intervista ha subito dei tagli per ragioni di brevità e chiarezza.
Per iniziare, lei considera il rinvio del Congresso Archeologico di aprile, dopo che il Ministro dei Beni Culturali si è dato da fare per bloccare la sua partecipazione, uno sviluppo positivo o negativo?
Ho avuto un rapporto complicato con la comunità archeologica per decenni perché sono stato molto critico nei confronti di quella che chiamo l’eredità coloniale dell’archeologia israeliana. Ma questa conferenza è stata organizzata da un gruppo di archeologi più giovani. In realtà, è stata l’occasione per parlare – almeno per qualche minuto – di alcune questioni delicate in un contesto prettamente archeologico.
Avrei voluto parlare di quella che [l’archeologo greco e professore della Brown University] Yanis Hamilakis e io chiamiamo la “archeologizzazione” di Grecia e Israele. Si tratta di due Paesi che l’Occidente ha apprezzato fin dal XVIII e XIX secolo quasi esclusivamente per il loro passato. E storicamente, questo ha portato l’Occidente, e in seguito il movimento sionista, a sottovalutare chiunque vivesse nel Paese, presupponendo che fosse privo di una reale conoscenza del passato.
La mia denuncia nell’intervento che avrei letto alla conferenza era che l’archeologia ha avuto un ruolo in questa [disumanizzazione dei palestinesi] e che tutto è iniziato non con l’archeologia israeliana, ma con la vera e propria archeologia coloniale del XIX secolo: archeologia britannica, tedesca, francese. Gli israeliani hanno poi ereditato quel patrimonio e, in quanto colonia di insediamento, è stato conveniente continuare a sostenere questo punto di vista.
Questo tipo di approccio originario all’archeologia è quello che anima i gruppi di coloni e persone come il Ministro del Patrimonio israeliano. [Secondo loro], solo le persone che si legano a specifiche antichità di determinate epoche e culture hanno diritto al Paese, mentre gli altri non hanno alcun diritto alla terra, alle sue antichità, a nulla.
Quindi da un lato sono stato piacevolmente sorpreso che il mio articolo sia stato accettato; questa è stata l’occasione per presentarlo alla comunità archeologica, che in generale non vuole parlare di questo problema. E allo stesso tempo, ha innescato questo scontro tra gli organizzatori della conferenza e gli agitatori di destra, che mi avevano da tempo inserito nella loro lista nera.
Ma il contesto dello scontro tra il Ministro dei Beni e gli organizzatori della conferenza era tale da riecheggiare una lotta più ampia in Israele tra le cosiddette forze filo-democratiche e le cosiddette forze autoritarie o etnocratiche. E una pluralità molto significativa di archeologi appartiene al campo liberaldemocratico, quindi per loro la conferenza è diventata una questione di libertà accademica e di espressione.
Per questo motivo è stato facile per la maggior parte dei miei colleghi archeologi [e per gli organizzatori della conferenza] schierarsi dalla mia parte. O, come mi ha scritto uno dei miei ex studenti su WhatsApp, “insistono nel dire di avere il diritto di non ascoltarti, di poter scegliere di ignorarti”. Non avrebbero permesso al Ministro dei Beni e delle Attività Culturali di fare quella scelta al posto loro.
Sebbene la sessione in cui ho presentato il mio ultimo intervento la settimana scorsa sia stata molto partecipata, con oltre 120 presenze, si è trattato di un breve intermezzo di 15 minuti in quella che altrimenti sarebbe stata una bolla isolata. Sono stati letti circa 12 articoli sugli scavi in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, presentati dall’Università di Tel Aviv e da altri ricercatori o da studiosi dell’Università di Ariel [nell’insediamento coloniale di Ariel in Cisgiordania, ndt.], articoli che sarebbero stati esclusi dalla maggior parte delle sedi internazionali. Durante la stessa settimana la Conferenza Archeologica Mondiale ha cancellato l’invito a uno studioso dell’Università di Ariel.
Nelle loro argomentazioni a favore dell’estensione della giurisdizione dell’IAA alla Cisgiordania, le ONG di destra dei coloni sostengono che i palestinesi in Cisgiordania non solo non hanno idea di come prendersi cura delle antichità presenti, ma le stanno attivamente distruggendo, vandalizzando e depredando. Può parlare delle iniziative legislative attualmente in corso alla Knesset per estendere la giurisdizione dell’IAA? Qual è il rapporto con l’annessione?
Il luogo comune che ha menzionato, secondo cui le popolazioni locali non si prendono cura dei reperti o li distruggono, è antico quanto l’archeologia stessa. E qui, in Israele, si aggiunge un ulteriore livello: quello del presunto diritto divino e storico alla terra, rivendicato dai colonizzatori.
Ma l’atto in sé di estendere la giurisdizione dell’IAA alla Cisgiordania è in gran parte una mossa politica, perché i coloni non hanno un vero interesse per l’archeologia. In effetti in Israele il sionismo è stato piuttosto lento ad adottare l’archeologia come mezzo per [stabilire un legame ebraico con la terra] perché le antichità [ebraiche] qui in Israele non sono tanto maestose o imponenti e presenti solo in piccola quantità.
Non è come con i templi greci che, come dice il mio collega Yanis Hamilakis, sono come scheletri sparsi in tutta la Grecia: ovunque si vedono colonne e marmi bianchi. Invece in Israele la maggior parte delle antichità visibili probabilmente non è ebraica. Se cammini per le campagne e ti imbatti in un edificio in rovina o in un castello, è molto più probabile che sia islamico, cristiano o di altro tipo.
Quindi l’archeologia non offre ai coloni un legame immediato con il paesaggio. Eppure i coloni sostengono che tutta la Cisgiordania, sotto la superficie, sia fondamentale per la storia ebraica — che è lì che è stata scritta la Bibbia.
Quando ero effettivamente impegnato a catalogare tutti i siti archeologici conosciuti, esaminati e sottoposti a scavi in Cisgiordania e successivamente ho cercato di tradurli in una mappa dei punti di interesse storico, solo una piccola minoranza di siti poteva essere effettivamente attribuita con pochi dubbi a uno specifico gruppo etnico o religioso. La maggior parte dei siti è eclettica, presenta reperti che precedono l’ebraismo di migliaia di anni. O altri posteriori all’epoca dell’indipendenza ebraica nell'[antica] Palestina, risalenti a diverse dinastie islamiche e al dominio cristiano.
Se prendiamo un qualsiasi frammento della storia di Israele-Palestina, in qualsiasi momento, non troveremo una cultura univoca e omogenea in tutto il territorio. Non c’è mai stata un’epoca in cui in questo Paese fossero tutti ebrei, musulmani, cristiani o altro. L’archeologia, nella sua essenza, non fornisce quel tipo di certezza e purezza che i ministri etnocratici di destra potrebbero desiderare. Quindi devono inventarsela. E poi dicono che i palestinesi stanno danneggiando quel [patrimonio esclusivamente ebraico] e quindi useremo questo come pretesto per accaparrarci altra terra.
Quindi [i coloni] hanno questa visione molto strumentale di ciò che l’archeologia può offrire loro. Non si tratta assolutamente di antichità, ma di una strumentalizzazione delle antichità come ulteriore modalità di espropriazione di proprietà immobiliari. Noi di Emek Shaveh la chiamiamo la militarizzazione dell’archeologia o “modello Elad”, dopo quanto accaduto nel quartiere di Silwan a Gerusalemme Est. Lì i coloni ebrei non solo si sono impossessati di case [palestinesi], ma anche di ampie aree archeologiche vuote. E collegando le case sottratte alle aree archeologiche hanno ottenuto il controllo di tutta Silwan, o almeno del quartiere di Wadi Hilweh. Il modello Elad è ciò che i coloni stanno cercando di replicare in Cisgiordania.
Sembra che l’archeologia venga strumentalizzata nello stesso modo in cui nei decenni successivi alla guerra del 1967 e all’occupazione israeliana della Cisgiordania sono stati usati contro i palestinesi i poligoni militari, le riserve naturali e le dichiarazioni di proprietà statale.
Esattamente
Emek Sheveh inquadra questi atti legislativi come un ulteriore passo verso l’annessione della Cisgiordania. Per controbattere un po’ a questo, Israele non ha forse già annesso di fatto la Cisgiordania? I siti archeologici in Cisgiordania sono oggi sotto la competenza dell’Amministrazione Civile (un ramo dell’esercito israeliano), quindi esiste già un ente israeliano che si occupa delle antichità in Cisgiordania. E l’IAA, che dovrebbe operare solo in Israele, si è infiltrata in Cisgiordania. Questa spinta legislativa è per lo più simbolica? In che modo rappresenta un cambiamento sostanziale rispetto allo status quo?
Il modo in cui le cose hanno funzionato finora – quindi il fatto che l’Amministrazione Civile israeliana abbia una propria struttura archeologica nell’Area C della Cisgiordania, separata da Israele – è tornato molto comodo per i miei amici accademici israeliani [progressisti]. Tutti i lavori archeologici israeliani nella Cisgiordania occupata vengono svolti nell’ambito di un quadro giuridico per cui ricevono di volta in volta il timbro di approvazione dell’Alta Corte israeliana, sulla base dell’asserzione che l’occupazione israeliana è una situazione temporanea e che l’Amministrazione Civile è incaricata solo di promuovere gli interessi delle persone che vivono in quel territorio fino al raggiungimento di un accordo sullo status definitivo. Quindi studiosi dell’Università Ebraica, dell’Università di Tel Aviv e dell’Università di Haifa possono sostenere che il loro lavoro in Cisgiordania è legale perché conforme ai vincoli imposti dall’Amministrazione Civile israeliana.
Ora, questa iniziativa di consegnare la Cisgiordania all’IAA sta facendo saltare la loro copertura. L’Autorità per le Antichità Israeliane sta sostanzialmente annettendo le antichità della Cisgiordania a Israele, e quindi la legge israeliana si applicherà a quei siti e, di conseguenza, qualsiasi cosa si faccia [in Cisgiordania], si riconoscerà sostanzialmente questa legge annessionista. Questo mette gli accademici e l’IAA in una situazione molto scomoda.
Nir Hasson ha scritto su Haaretz che l’attuale disegno di legge per estendere la giurisdizione dell’IAA “trasforma ufficialmente l’archeologia israeliana in un piccone con cui scavare per promuovere l’apartheid”. Lei ha scritto estesamente sull’archeologia israeliana in Cisgiordania dal 1967. Qual era il rapporto dell’archeologia israeliana con questo territorio occupato prima degli ultimi decenni?
Penso che questa [visione dell’archeologia israeliana] appartenga in realtà alle fondamenta coloniali del sionismo e di Israele stesso. Una delle cose date per scontate in questa visione coloniale del mondo è [l’idea che] “se amiamo le antichità e tutto ciò che vogliamo fare è scoprire gli ultimi 3.000 o 10.000 anni, allora perché non dovremmo poterlo fare? Rappresentiamo la scienza, la cultura, il progresso”.
Insisto nel dire questo perché [durante il XVIII e il XIX secolo] gli studiosi o gli addetti ai lavori di scavo che arrivavano erano sprezzanti nei confronti sia degli abitanti musulmani che cristiani o ebrei che qui incontravano, rappresentanti di un passato che doveva essere superato dalla scienza. [Per loro], la cosa giusta da fare [era semplicemente] portare alla luce le antichità, ovunque.
Voglio sottolineare che [l’espropriazione dei palestinesi per mano dell’archeologia israeliana] viene troppo spesso presentata come se gli archeologi israeliani stessero portando alla luce reperti ebraici per sostenere l’appropriazione ebraica di terre. Ma la questione è più complessa: qualsiasi lavoro da noi eseguito, che si tratti di un sito dell’età del bronzo o del neolitico, è considerato valido perché lo stiamo facendo per il bene della scienza.
La recente legge è imbarazzante per coloro che condividono questa visione perché ora improvvisamente l’archeologia viene “politicizzata”, come se fino ad ora non lo fosse stata. Ho cercato sempre più di dimostrare ai miei colleghi, e in generale, che questa posizione presuntuosa, apparentemente apolitica, è politica. Non è che ci si svegli pensando: come posso strumentalizzare l’archeologia per impossessarmi di questa collina o di questa valle? È più simile a questo: se il confine con la Siria viene aperto e c’è un meraviglioso sito dell’antica età del bronzo dove scavare, allora l’archeologo attraverserà il confine nel fine settimana per vedere le antichità vicino a Quneitra. Parlo ipoteticamente, ma non mi sorprenderei se fosse già successo.
In ebraico si dice po’al yotseh: “fa parte del territorio”. È quello che succede: quando Israele occupa un posto, gli archeologi lo seguono subito, a volte nel giro di pochi giorni.
Quindi sembra che quello a cui stiamo assistendo ora sia una strategia dei coloni molto sfrontata per impossessarsi di altri territori in Cisgiordania.
Sì, se prendiamo in considerazione la Valle del Giordano, ad esempio, troveremo il coinvolgimento dell’archeologia. Anche in questo caso quegli archeologi sono lì solo per fare ricerca. È semplicemente comodo che la ricerca agisca proprio accanto a un avamposto di coloni. Quindi diventa parte della recinzione [della terra palestinese], del circondare questi pastori e piccoli villaggi palestinesi con strutture che rappresentano le autorità israeliane.
Ci sono alcuni siti archeologici sorvegliati nella Valle del Giordano, e sono sicuro che se chiedete a chi esegue gli scavi, vi dirà: “Oh, questo sito è stato esplorato 20 anni fa e hanno trovato delle ceramiche dell’età del ferro. È proprio questo che mi interessa. E faccio parte dell’Università di Ariel [situata nella Cisgiordania occupata], ma non siamo politici, stiamo solo studiando le antichità“.
A un certo punto posso capire che il mio collega dell’Università di Tel Aviv che studia il periodo romano e non si occupa di teoria sociale o politica possa non comprendere il ruolo del suo specifico interesse per l’archeologia romana nel colonialismo, ma può una persona che insegna all’Università di Ariel e che effettua scavi in Cisgiordania fraintendere il suo ruolo? Credo che si dovrebbe essere volontariamente ignoranti.
Dato che l’elemento coloniale dell’archeologia israeliana è antecedente all’occupazione della Cisgiordania, di Gerusalemme Est e di Gaza, può parlarci un po’ dell’archeologia all’interno di Israele propriamente detto e di come gli archeologi israeliani si siano confrontati con la storia palestinese negli ultimi secoli?
L’Università Ebraica di Gerusalemme ha avuto il monopolio dell’archeologia fino al 1967. A quel tempo esisteva un protocollo consolidato che divideva l’archeologia in preistorica, biblica e classica. Tutti gli archeologi israeliani erano d’accordo di operare all’interno di tale cornice teorica, e quando negli anni ’70 furono istituite le nuove università di ricerca, adottarono lo stesso programma di base, che arrivava più o meno fino all’epoca bizantina. Ogni studente poteva scegliere due specializzazioni, una delle quali doveva essere il periodo biblico.
Ciò significava che l’archeologia biblica era la ragion d’essere dell’archeologia israeliana. Non esisteva un’archeologia islamica; all’Università Ebraica c’era [solo] un piccolo laboratorio artigianale di arte islamica.
Questa attenzione verso l’archeologia biblica, i racconti biblici con i siti menzionati nella Bibbia e la geografia biblica rende irrilevanti il presente e le ultime centinaia di anni. Fino a 30-40 anni fa questo significava che quando si effettuavano scavi in siti antichi si procedeva rapidamente attraverso gli strati più superficiali, o talvolta li si rimuoveva completamente senza documentarli. Questa non è più considerata una buona pratica.
Ho sempre interpretato questo [l’omissione della storia recente dalla documentazione archeologica] sul piano teorico, ma grazie a due progetti a cui ho partecipato di recente sono giunto a una comprensione molto più concreta del suo significato. Il primo era un progetto a cui ho collaborato con lo storico dell’arte e archeologo dell’Università Ebraica Tawfiq Da’adli a Beit Yerach, o Asinabra [vicino al Mar di Galilea]. Il sito era stato oggetto di scavi e ripetutamente identificato erroneamente come romano o ebraico, ma Tawfiq e io siamo riusciti a reidentificarlo come un palazzo omayyade del VII-VIII secolo d.C. Solo le fondamenta del palazzo erano state conservate, quindi esistevano ostacoli oggettivi alla comprensione del sito.
Abbiamo effettuato due brevi campagne di scavo. Tutti i lavoratori retribuiti erano palestinesi di lingua araba provenienti dalla Galilea, quindi l’arabo era la lingua di lavoro sul sito, e il mio arabo è molto elementare. Ma insieme a Tawfiq e a un altro archeologo di Chicago, Donald Whitcomb, ho approfondito il periodo omayyade e come potrebbe apparire una moschea di quel periodo. Quello è stato il mio primo tentativo di uscire dal mio guscio di sicurezza.
Il tentativo più recente è il lavoro che sto svolgendo a Qadas, un villaggio palestinese spopolato nel 1948, quando fu occupato a intermittenza dall’esercito israeliano e dalle truppe dell’Esercito Arabo di Liberazione. Gli abitanti fuggirono e diventarono rifugiati in Libano. Per capire cosa stessi facendo lì a Qadas ho dovuto interagire con un gran numero di persone con cui non avevo mai parlato prima: studiosi del Medio Oriente, abitanti sciiti di quella zona della Galilea e persone che potevano raccontarmi delle battaglie del 1948 e dell’Esercito Arabo di Liberazione. Abbiamo aperto gli archivi [israeliani], il che ha consentito uno studio molto approfondito dell’intero contesto di questo scavo.
Questa è stata una spiegazione molto prolissa del perché, quando non si ha un curriculum accademico o basi teoriche per procedere allo scavo esso non ha senso. Solo quando lo trasformo in un oggetto di studio acquista un significato archeologico.
Inoltre le leggi israeliane sull’antichità si applicano solo a siti o oggetti risalenti a prima del 1700. Qualsiasi rinvenimento risalente a periodi più recenti, anche se frutto di scavi rispettosi dell’etica, non è mai stato oggetto di studi o interventi conservativi rilevanti.
Tornando al presente, come interpreta la dissonanza tra l’opposizione alla legge che estende l’autorità dell’IAA alla Cisgiordania e la partecipazione alla conferenza al Dan Jerusalem Hotel, nella parte occupata della città?
Quando qualcuno della mia università interviene a quella conferenza magari sta promuovendo un dottorando che ha partecipato a degli scavi lì, oppure vuole farsi strada e pubblicare [la propria ricerca]. Oppure ha ricevuto finanziamenti dal governo e vuole dimostrare di non essere in contrasto con esso — così da continuare a ottenere supporto.
L’archeologia è un’attività costosa. Ha bisogno di sostegno esterno e le persone sono riluttanti ad andare contro il governo. Basti pensare a ciò che sta accadendo in Nord America. Noi della sinistra israeliana siamo sbalorditi dalla rapidità del crollo del fronte progressista nelle università dell’Ivy League [rete che comprende i più famosi atenei internazionali, a partire dalle otto università americane più prestigiose, ndt.] che sono tra le ventitré migliori università del mondo; dalla rapidità con cui le persone abbandonano tutte le loro convinzioni e cercano di ingraziarsi il governo [degli Stati Uniti]. È in realtà lo stesso meccanismo [in Israele]. È lì che sta il potere.
E le persone trovano compromessi dicendo: “Ok, il mio nome comparirà nella conferenza, ma non sarò io a tenere l’intervento. Non parteciperò fisicamente, ma darò comunque un’approvazione tacita facendo parte dell’evento. È per il bene della scienza.” Credo che solo una piccola minoranza direbbe apertamente: sì, siamo a favore dell’annessione e degli insediamenti ebraici illegali.
Non credo che la conferenza nella Gerusalemme Est occupata sia così importante. Sono rimasto più scioccato dalla partecipazione di persone dell’Accademia Austriaca delle Scienze e del Manitoba che da quella degli israeliani.
Come ha reagito la comunità archeologica israeliana alla distruzione di Gaza nell’ultimo anno e mezzo? E ora che, almeno tra i progressisti israeliani, la narrazione si è spostata da un sostegno incondizionato a quella di una guerra voluta — una guerra per la sopravvivenza politica di Netanyahu — l’atteggiamento è cambiato?
Non ha reagito affatto. Non c’è stata alcuna risposta ufficiale da parte di nessuna organizzazione, a parte Emek Shaveh. All’inizio della guerra abbiamo istituito un gruppo di risposta, che includeva alcuni aderenti a Emek Shaveh, Dotan Halevy e Tawfiq Da’adli, e abbiamo cercato di documentare la distruzione del patrimonio culturale. Poi, il mio co-direttore di Emek Shaveh, Alon Arad, e io abbiamo pubblicato un editoriale sull’intero fenomeno della distruzione e su come noi, in quanto archeologi, vediamo il perseguimento dal 1948 della totale e ubiquitaria distruzione del patrimonio culturale palestinese.
Alcuni archeologi hanno partecipato pubblicamente al recupero forense di resti umani nei kibbutz, nei luoghi attaccati il 7 ottobre. Si trattava di una sorta di sforzo della società civile in assenza di qualsiasi tipo di risposta governativa. Quindi gli archeologi hanno usato la loro competenza per dare un contributo positivo, ma questo è stato anche strumentalizzato da alcuni membri della comunità per sostenere la posizione israeliana e la propaganda di guerra anti-Hamas.
Persone con cui avevo lavorato — che avevano partecipato a discussioni accademiche sul libro mio e di Yanis Hamilakis — si sono tirate indietro e sono entrate a far parte di quel gruppo di accademici israeliani profondamente turbati dalla reazione della sinistra globale e del movimento pro-palestinese dopo il 7 ottobre. Questi archeologi si collocavano un po’ nell’area che potremmo definire “alla Eva Illouz” [sociologa franco israeliana, ndt.], se posso usarla come esempio-tipo: dicevano cose come “Pensavamo di essere di sinistra, ma dopo aver visto cosa rappresenta oggi la sinistra, non lo siamo più.” Erano piuttosto irritati dal mio prendere posizione in modo aperto, ma non me lo hanno mai detto chiaramente — il che, purtroppo, è abbastanza normale.
Lo scorso novembre, poche settimane dopo l’inizio del semestre autunnale all’Università di Tel Aviv, ho dato inizio a uno sciopero giornaliero in cui io e altre persone ci piazzavamo sul prato dell’università con cartelli contro la guerra. In seguito altri si sono uniti, ma non siamo mai stati più di 20 o 30. Questo era contrario ai regolamenti universitari. Sono stato avvicinato dalla sicurezza e da contro-manifestanti. Questo ha creato una piccola ma rumorosa resistenza.
Un paio di dottorandi mi ha detto che quello che stavo facendo era terribile: che alcuni dei miei studenti prestavano servizio nell’esercito, nella riserva, e che li stavo accusando di crimini di guerra. Spesso chiedevo: chi rappresenti? Perché sei così sicuro di rappresentare tutti gli ufficiali della riserva?
Ma la situazione è cambiata con la recente ripresa dei bombardamenti [a metà marzo]. Credo che sia stato questo il punto di svolta: il fatto che Israele non abbia portato a termine l’accordo di cessate il fuoco. E credo che da quel momento in poi la reazione accademica sia cresciuta esponenzialmente. Le persone sono disposte a dichiararsi contrarie alla guerra. Quindi, fino al cessate il fuoco, nel campus non si poteva chiedere pubblicamente la fine della guerra. Era considerata una violazione dei regolamenti universitari.
Poi il tono è cambiato, ma l’opposizione alla guerra è effettivamente incentrata sui palestinesi e sulla distruzione di Gaza? E tra i suoi colleghi archeologi, qual è l’opinione sulla completa distruzione di tutte le moschee e di molte chiese a Gaza?
È una domanda che pongo ai miei colleghi: siete sconvolti per lo smantellamento di un antico muro in Cisgiordania, eppure non avete detto nulla delle centinaia di siti distrutti a Gaza.
Di recente ho ricevuto un libro da un collega tedesco, un archeologo biblico più o meno della mia età. Non credo che abbia rilasciato dichiarazioni pubbliche sulla guerra a Gaza, ma ha scritto una monografia di 850 pagine che raccoglie tutto ciò che si sa sulle antichità di Gaza. Non contiene alcuna dichiarazione all’inizio, se non che non sappiamo cosa sia successo a tutti questi siti, ed esprime una generica speranza per il benessere di tutti i soggetti coinvolti. E questo in Germania [dove la repressione anti-palestinese si è intensificata].
Questo tipo di risposta umanistica è una cosa grandiosa da fare. È una risorsa, un servizio alla comunità. Illustra l’importanza di quel tratto di terra, la sua storia, la sua profondità, tutto ciò che gli israeliani vogliono ignorare. Ma l’ha fatto un tedesco, non un israeliano.
Dikla Taylor-Sheinman è una borsista per la giustizia sociale presso il NIF/Shatil [il New Israel Fund è una fondazione israeliana indipendente per il sostegno dei diritti umani e l’uguaglianza sociale; Shatil significa piantina, ndt.] e collabora con +972 Magazine. Attualmente residente ad Haifa, ha trascorso l’anno scorso ad Amman e i sei anni precedenti a Chicago.
(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)